(* ) vedi in fondo
Incontriamo J.Donzelot a Roma, in occasione di un suo viaggio italiano che lo ha portato all’Università di Roma Tre per una conferenza sul futuro delle politiche pubbliche contro la marginalità urbana, ed a Bari per un convegno nazionale della Cgil sulle periferie urbane del nostro Mezzogiorno. Riconosciuto come uno dei maggiori studiosi di questione sociale ed urbana, Donzelot ha recentemente pubblicato un saggio nel quale ritorna sulle rivolte del novembre 2005 - Quando la città si disfa (2006) – proponendo un modello di analisi delle trasformazioni urbane al tempo della mondializzazione ed una decostruzione critica chiara e netta di 25 anni di intervento pubblico nelle realtà di banlieue. Un impegno a cavallo fra storia, sociologia ed analisi delle politiche pubbliche che dura da trent’anni, dal suo primo testo - La polizia delle famiglie (1977) – con una postfazione di Gilles Deleuze, ai più recenti Lo Stato animatore. Saggio sulla Politique de la Ville con Philppe Estebe (1994) e Fare società: le politiche urbane in Francia e negli Stati Uniti (2004).
AC In Francia, le sommosse del novembre 2005 nelle banlieues di tutto il paese sono state interpretate sia secondo una lettura più o meno tradizionale che ne riconduceva le ragioni alla perennità della questione sociale, sia come il risultato di una più specifica questione urbana. Possiamo dire che la nuova questione urbana mascheri in qualche modo la resistenza della vecchia questione sociale?
JD Direi che si tratta di entrambi i fenomeni: siamo di fronte sia ad una questione sociale sia ad una questione più specificamente urbana. Occorre essere ciechi per non riconoscere la profonda disuguaglianza che condiziona l’accesso agli studi, all’occupazione e soprattutto ad un lavoro che sia coerente con gli studi compiuti nel caso di una persona che risiede nei cosiddetti quartieri di relegazione. Nelle nostre banlieues si concentra la metà dell’edilizia sociale disponibile in tutto il paese, in situazione che richiamano sia la forma dell’enclave sia quella di un eccessivo decentramento. La discriminazione colpisce con nettezza: a parità di requisiti, le possibilità di essere assunto per un giovane di banlieue rispetto ad un giovane bianco autoctono e proveniente da un quartiere benestante é di 1 a 2. E’innegabile che il colore della pelle di un ragazzo beur disturbi molti datori di lavoro, preoccupati di avere una relazione corretta con la propria clientela. Allo stesso tempo, occorre essere stupidi per non vedere a qual punto e con quale rapidità la città si sia frammentata, seguendo in questo una tendenza della popolazione a puntare tutto sulle affinità elettive più che sulla convivenza con il diverso. Sembra proprio che le classi medie e superiori – colte, competenti, protagoniste dei circuiti della decisione – non vogliano più lavorare con i membri del mondo operaio, in tutte le sue complesse articolazioni, e soprattutto non vogliano convivere con loro nello spazio urbano. Le classi popolari le si accetta a distanza, quella distanza che in fondo permette la delocalizzazione a tutti i livelli: i lavoratori diventano meno costosi, non fanno sciopero, soprattutto non vivono vicino a te e non turbano la scolarizzazione dei tuoi figli. Si ama molto restare fra i proprio simili, quando se ne ha la possibilità. Viceversa, alcuni sociologi come Marco Oberti (autore insieme a Huges Lagrange di una recente ricerca sulle rivolte del novembre 2005, La rivolta delle Periferie, Bruno Mondadori, 2005) sostengono che le classi medie, soprattutto quelle che lavorano nella funzione pubblica, non sarebbero ostili alla mixité sociale. Purtroppo, occorre notare come questi sociologi visitino solo quei comuni dove gli eletti di sinistra compiono sforzi particolari in questo senso; ed anche che sono proprio questi i comuni dove più alta è la frequenza delle scuole private….Si tratta di una logica della separazione molto insidiosa. Nel caso di quelle banlieue coinvolte dalle rivolte del novembre 2005, il suo impatto si vede nello sviluppo di una logica da ghetto caratterizzata da una cultura del sospetto che coinvolge gli abitanti stessi, sempre sospettati di tradire l’altro e di ricorrere a mezzi illegali per la propria sopravvivenza…..Esattamente come in una prigione, dove si ha solidarietà esclusivamente in forma di ostilità contro il mondo esterno, nel sentimento condiviso del sentirsi tutti – egualmente – delle vittime. Allora, in questo caso, si brucia tutto: macchine, negozi, scuole….
AC L’impressione é che in questi quartieri si sperimenti il fallimento di un certo tipo di modernità nella sua forma urbana. La banlieue francese, dominata dai moduli compositivi tipici del movimento moderno, nasceva come potente meccanismo di coesione sociale, di modernizzazione del sociale per mezzo dell’urbano, per usare una tua definizione.
Si, siamo di fronte all’esaurimento – in forma molto acuta - di quell’esperienza. L’idea di modernizzare la società per mezzo dell’urbano rimanda all’ultimo dopoguerra. La Francia era ancora un paese a forte dominante rurale. La città evocava l’affollamento, la mancanza di comodità ed igiene. Per attirare i lavoratori agricoli nelle città al fine di sostenere il processo di industrializzazione fordista dei cosiddetti trenta gloriosi (definizione corrente in Francia per richiamare i trent’anni di ininterrotta crescita economica fra il secondo dopoguerra e la metà degli ani settanta, ndr), l’amministrazione statale decise la messa in opera di un grande progetto di urbanizzazione il cui principio fondamentale era quello di costruire dei quartieri che fossero delle anti-città; dei quartieri che in altre parole non comportassero i rischi delle città, liberi dal problema dell’affollamento e dal rischio della violenza urbana; spazi che permettessero alla classe operaia di vivere una vita familiare corretta in una condizione di igiene e di comfort, senza che i bambini giocassero in strada (come succedeva normalmente nei centri storici…….) o che i capofamiglia spendessero il proprio tempo nei bistros (infatti, niente bistros in banlieue….). Più complessivamente, quella fase della modernizzazione si presenta come un mezzo di integrazione e quindi di miglior utilizzo della classe operaia nella fase di sviluppo fordista di quegli anni. La casa serve al lavoro, questa è la filosofia. Si tratta di un sistema che all’inizio ha funzionato, l’abbandono delle campagne avveniva contestualmente alla trasformazione terziaria dei centri urbani: i francesi avevano di fatto accettato quella nuova forma dell’urbano….
AC Con gli anni settanta, assieme all’’esaurimento di quel ciclo di sviluppo produttivo assistiamo anche alla fine di questa peculiare forma francese di urbanesimo fordista. Lo spazio urbano, nonostante la tanto decantata exception francaise ed il relativo modello sociale, è stato preso in seguito da intensissimi processi di modernizzazione senza modernità in cui sono proprio i quartieri svantaggiati a costituirsi come elementi di verifica locale e localizzata dei processi di globalizzazione.
In un quadro sociale profondamente mutato, gli effetti della promiscuità sociale sono apparsi progressivamente intollerabili agli occhi di quei settori di classe media che risedevano in banlieue. Inizia cosi’ la fase dello sviluppo peri-urbano e del mito della casa individuale nel verde. Tutto questo mentre si dava vita al meccanismo di relegazione, con l’assegnazione degli appartamenti improvvisamente resisi liberi a nuclei familiari d’origine immigrata, prevalentemente provenienti dal Maghreb, che potevano godere delle opportunità anche economiche dei dispositivi di raggruppamento familiare. Questo, in realtà, ha permesso di salvare la vivibilità dei quartieri di banlieue più invivibili, ma al prezzo di un confinamento delle componenti più deboli della popolazione in luoghi svantaggiati e lontani – in senso sia spaziale sia sociale – dal mercato del lavoro. Si tratta di una situazione che rimanda a quel processo più ampio di riorganizzazione dello spazio tipico delle società avanzate che ho definito come città a tre velocità. Assistiamo alla coesistenza di tre fenomeni: il costituirsi di questi spazi di relegazione dove si ha una sorta di stagnazione degli abitanti in luoghi non connessi ai grandi flussi, dove popolazioni di origine immigrata non si sentono appartenere né al proprio paese d’origine né alla società nella quale essi vivono; l’emergere degli spazi di peri-urbanizzazione, quelli dominati da agglomerazioni di case individuali sempre più lontane dall’urbanizzazione storica, dove vivono le classi medie per meglio proteggersi dalla racaille di banlieue (espressione peggiorativa utilizzata dal Ministro Sarkozy durante le sommosse del novembre 2005, ndr) ma anche perché i valori immobiliari nei centri urbani sono saliti troppo perfino per una famiglia di classe media; infine, gli spazi della gentrification: spesso vecchi quartieri popolari di grandi città che acquisiscono valore contestualmente al crescere della presenza di esponenti delle professioni legate alla nuova economia dei servizi, con la loro cultura transnazionale e la loro ricerca di servizi – specie ricreativi e culturali – di prestigio. A Parigi, assistiamo al fenomeno sempre crescente dell’evacuazione delle classi medie costrette a trasferirsi in mondi periferici sempre più lontani, lasciando la città a chi la merita: quelli che sono, per l’appunto, collegati con le altre grandi città del mondo…..
AC Torniamo alla realtà della relegazione. In Francia siamo di fronte al paradosso di un forte volontarismo dell’azione pubblica a fronte a risultati sempre più deludenti. Più di vent’anni di politique de la ville non sono riusciti ad intaccare il meccanismo della relegazione. Si tratta molto spesso di un discorso pubblico dai contorni neo-coloniali nel quale la banlieue ed i suoi abitanti diventano l’eccezione da ricondurre alla norma, un vulnus del patto repubblicano o la sede di una concreta minaccia comunitarista….
Il volontarismo francese in materia di trattamento del problema dei quartieri di relegazione é il frutto di una serie di fallimenti gravi. Esso non esprime l’idea di affrontare meglio il problema ma di farlo semplicemente svanire attraverso la dispersione della popolazione che fa problema. Più si trattano i luoghi con un determinismo urbanistico feroce e senza tener in alcun conto le persone, più si manifesta il desiderio di liberarsi di queste popolazione piuttosto che di aiutarle. La politique de la ville (definizione corrente del complesso sistema di politiche urbane volte al superamento del problema della relegazione urbana in Francia, ndr) è diventata un meccanismo che premia le amministrazioni locali che accettano di demolire la più grande quantità possibile di immobili in cui vivono le minoranze etniche. Questi immobili sono numerosi, almeno quanto gli eletti locali che desiderano farli sparire. Dunque, si tratta di un meccanismo che funziona! L’agenzia nazionale di rinnovo urbano finanzia i progetti in base al numero di demolizioni previste. Non si tratta quindi di una forma di partenariato ma di un meccanismo di ricompensa ed incitamento in stile anglosassone, con in più un autoritarismo alla francese.
AC Nelle tue ricerche tenti di individuare un’alternativa che dia spazio ad un protagonismo delle popolazioni. Non è casuale che il dibattito francese sia dominato dal fantasma del legame sociale: la politique de la ville ha lungamente fatto riferimento – in modo volontaria e normativo – alla necessaria ricerca di un legame sociale che sembra ormai farsi sempre più raro e sempre meno spontaneo. Di fronte al fallimento clamoroso di quanto fatto fino ad ora, tu parli della possibilità concreta di rifare la città, di ricostruire legame urbano…
JD Si, il mio ultimo volume – Quand la ville se défait – è proprio dedicato a questa possibilità. Rifare la città e re-imparare a fare società significa prima di tutto riequilibrare il rapporto fra luoghi e flussi, limitando il tempo di permanenza in questi ultimi, per esempio. Più in generale, attraverso una combinazione di interventi a sostegno della mobilità delle persone e dell’elevazione di quella che io chiamo la capacità di potere del soggetto sul luogo in cui vive, possiamo forse ritrovare lo spirito della città, vale a dire ciò che fa la sua forza originale : la facoltà di slegarsi e legarsi liberamente in uno spazio che offra a ciascuno una dimensione intima e privata che sia però aperta all’esterno ed al movimento, alla possibilità di farsi vedere ed ascoltare. In breve, il contrario dell’essere assegnati a residenza, trasferiti, trattati, manipolati. Per quanto riguarda la realtà dei quartieri di relegazione, è evidente come la tentazione del trattamento fisico – anche attraverso grandi programmi di demolizione – sia molto forte per la classe politica. E’ la strada più spettacolare, la più mediatica, che se non condotta con la partecipazione degli abitanti si traduce in rivolte come negli Usa negli anni 60 ed in Francia, visto che grazie a ricerche recenti sappiamo che i disordini del novembre 2005 hanno avuto luogo specialmente nelle banlieues coinvolte in programmi di demolizione. Sono rivolte che muovono dal sentimento di persone che si sentono ridotte a cose, che si possono spostare senza che abbiano alcun diritto di parola ed espressione. Viceversa, le operazione di riqualificazione hanno senso solo se sono l’occasione del processo inverso : quello di un’elevazione della capacità di potere delle popolazioni nei loro quartieri, nelle loro città e soprattutto nelle loro vite.
Nota: (*) l'autore dell'intervista Alessandro Coppola ha inviato a Eddyburg con richiesta di pubblicazione la presente versione, diversa da quella de il manifesto (f.b.)