Niente è cambiato. Si è tentato – tardi, tardissimo – ma non si è risolto nulla. L’esercito, i volontari, la pazienza e le proteste. Ma tutto versa nello stesso stato di prima. O quasi. Il centro e le piazze vengono salvati, si cerca di non farli soffocare dai sacchetti. E nella scelta dei luoghi in cui raccoglierli emerge la differenza fra le zone e le città. Zone dove conviene pulire per evitare che turisti e telecamere arrivino facilmente, strade dove vivono professionisti e assessori. E invece altre dove la spazzatura può continuare ad accumularsi. Tanto lì la monnezza non va in prima pagina. I paesi divengono discariche di fatto. Tutta la provincia è un’ininterrotta distesa di sacchetti. E la rabbia aumenta. Spazzatura ai lati delle strade, o che si gonfia in collinette multicolori fuori dai portoni, dove sono apparse scritte come "non depositare qui sennò non si riesce più a bussare". Niente è cambiato se non l’attenzione. Dalla prima pagina alle cronache locali.
Lentamente tutto questo rischia di divenire abituale, ordinario: la solita monnezza, parte del folklore napoletano, quotidiana come lo scippo, il lungomare e la nostalgia per Maradona. E invece qui è tragedia. Spazzatura ovunque, discariche satolle, gonfie, marce. Camion stracolmi, in fila. Proteste. E poi dibattiti, indagini, dimissioni, e colpevoli, ecologisti, camorristi, politici, esperti. Maggioranze e opposizioni e cadute di governo. Ma la monnezza resiste a tutto. E continua ad aumentare. La spostano dal centro alla periferia, la spediscono fuori città, qualcosa fuori regione. Però non basta mai, perché quella si riforma, si accumula di nuovo. Tutti pronti a parlare, in un’orchestra che emette suoni talmente confusi da divenire indecifrabili come il silenzio.
Certo risulta difficile credere che se Roma, Firenze, Milano o Venezia si fossero trovate in una situazione simile avrebbero continuato a far marcire i sacchetti nelle loro piazze, a tenersi strade bordate di pannolini e bucce di banana, a lasciar invadere l’aria dall’odore putrescente degli scarti di pesce. Difficile immaginare che in una di queste città la notte girino camion che gettano calce sopra ai cumuli per evitare che le infezioni dilaghino e soprattutto che vengano incendiati.
Il rinascimento napoletano finisce così, coperto di calce. Si sbandierava la rivincita della cultura, ma sotto il tappeto delle mostre, dei convegni e delle parole illuminate le contraddizioni erano pronte a esplodere. Non c’erano solo stuoli di progetti culturali e promozionali per il turismo. Negli ultimi cinque anni sono spuntati in un’area di meno di 15 km enormi centri commerciali. Prima il più grande del Sud Italia nel casertano, poi il più grande di tutt´Italia, poi il più grande d’Europa e da poco uno tra i più grandi al mondo: un’area complessiva di 200.000 mq, con 80 negozi di brand nazionali e internazionali, un ipermercato, 25 ristoranti e bar, una multisala cinematografica con 11 schermi e 2500 posti a sedere. Ultimo arrivato, a Nola, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano che ha tratto spunto dall’icona napoletana per antonomasia: il Vesuvio. Una collina artificiale, un’escrescenza del suolo che segue le uniche e sinuose forme del vulcano. Alta 40 metri e con un diametro di oltre 170, un complesso di 150 mila metri quadri coperti e 450 mila in tutto. Si costruiscono centri commerciali come unico modo di far girare soldi. Quali soldi? Le stime dell’Istat segnalano che la Campania cresce meno del resto d’Italia. La regione è mortificata nei settori dell’agricoltura e dell’industria e incapace di compiere il salto di qualità nel comparto dei servizi. E per quanto riguarda il valore aggiunto pro capite, se la media nazionale s’attesta a 21.806 euro per abitante, al Sud non supera quota 14.528. Keynes diceva che quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose non vadano bene. Riguardo il nostro paese bisognerebbe sostituire al termine casinò la parola centro commerciale. Così rimangono, tra queste cattedrali di luci e cemento, gli interrogativi di sempre. Perché a Napoli c’è tutta questa spazzatura? Come è possibile quando cose del genere non accadono a Città del Messico e nemmeno a Calcutta o a Giakarta? È incomprensibile. Bisogna quindi essere didascalici. Perché le discariche napoletane sono piene? Semplice. Sono state usate male, malissimo. Sversandoci dentro di tutto, senza controllo. Chi gestiva le discariche non rispettava i limiti, né le regole riguardo alle tipologie. Somiglianti più a buche fatte male che a strutture per lo sversamento, le discariche si riempivano di percolato divenendo laghi ricolmi di un frullato di schifezze, fogne a cielo a aperto. E così si sono riempite presto, e non solo di rifiuti urbani. Scavare crateri enormi, portare giù il camion e poi, uscito il conducente, saldare le porte del tir e sotterrare: era un classico. Un modo per non toccare i rifiuti nemmeno con un dito. Il tutto dava un guadagno talmente alto da poter sacrificare, intombandoli, interi tir. A Pianura, racconta la gente, c’è persino una carcassa di balena, e a Parete pacchi e pacchi di vecchie lire.
Ma perché i cittadini si ribellano alla riapertura delle discariche? Perché sembrano così folli da preferire i sacchetti che da circa due mesi hanno davanti a casa? Perché temono che insieme a quelli che dovrebbero essere solo rifiuti solidi urbani invece arrivino anche i veleni. Eppure ricevono le massime garanzie che la loro situazione non peggiorerà. Ma da chi le ricevono? Da coloro di cui non si fidano più. Da coloro che hanno sempre appaltato lo smaltimento a ditte colluse, a uomini imposti dai clan di camorra. E chi deciderà quindi davvero la sorte dei rifiuti? Come sempre i clan. A loro non ci si può ribellare. Ma siccome allo Stato invece sì, spesso contando su una buona dose di pazienza dei reparti antisommossa, si fa ostruzione alle sue decisioni perché non accada poi che si inneschino i consueti accordi. Si preferisce rinunciare persino agli aiuti economici destinati a chi vive nei pressi della discarica, piuttosto che correre il rischio di finire marci di cancro per qualche sostanza intombata di nascosto. Certo, tra i manifestanti ci sono anche i ragazzotti dei clan pagati 100 euro al giorno per far chiasso, bloccare strade, saper lanciare porfido e caricare. Ma loro rendono soltanto esasperate paure che invece sobbollono in tutti. E le rendono isteriche perché più spazzatura ci sarà, meno controlli ci saranno per le ditte pagate per raccoglierla e più l’uso dei macchinari in mano ai clan sarà abbondante.
E più le discariche saranno bloccate, meglio si potranno infiltrare camion colmi di rifiuti speciali da nascondere mentre quelli bloccati fuori fanno da copertura. E i consorzi e la politica? I consorzi che gestivano i rifiuti lo facevano per conto di imprenditori e boss, mentre la responsabilità della politica locale e nazionale stava nella solita logica di non affidare posti a chi aveva competenze tecniche, bensì ai soliti personaggi con il solo requisito di essere in quota ai partiti. Quanti posti di lavoro distribuiti in periodi preelettorali, in strutture dove la raccolta dei rifiuti o la differenziata rappresentavano puramente un alibi. Perché non si è fatto nulla? Perché l’emergenza fa arrivare soldi a tutti. E quindi di emergenza si vive. Finita l’emergenza, finiti i soldi. Bisognava forse ribellarsi anche nei giorni in cui i clan prendevano terre. E il termovalorizzatore di Acerra su cui tanto si discute, che per anni non è stato costruito e ora lentamente sta per realizzarsi? Quel genere di impianto non è dannoso, dichiarano gli oncologi, al centro di Vienna uno simile è persino divenuto un palazzo prestigioso. Certo. Ma in un territorio dove l’indice di mortalità per cancro svetta al 38.4%, chi rassicura la gente che negli impianti verrà bruciato solo quel che si deve? Quale politica saprà mantenere la promessa di massimo controllo in una terra che è stata definita la Cernobyl d’Italia? Il centrosinistra ha creduto di essere immune dalle infiltrazioni camorristiche perché la questione camorra riguardava l’altra parte. Ma non era così. Le porte dei circoli della sinistra si sono aperte ai clan mai come in questi ultimi anni.
E il crimine è stato percepito come un male naturale, fisiologico. La politica ha continuato a presentarsi sempre più come qualcosa di indistinto con l’affare e il crimine. Destra e sinistra uguali, basta mangiare. Il qualunquismo italiano forse non è mai stato così sostenuto dall’esperienza. E oggi occupano, bloccano, non collaborano perché non si fidano più di nessuno.
Non c’è altro da dire e da fare. Togliere, togliere la monnezza subito. Non si può più aspettare. Togliere e poi capire chi ha ridotto così questa terra e accorgersi che i meccanismi che qui hanno portato allo scempio totale sono gli stessi che governano in modo meno mostruosamente suicida l’intero paese. In questi giorni mi è venuta in mente una scena di un racconto di Salamov, forse il più grande narratore dell’aberrazione del potere totalitario. Quando i soldati sovietici misero in isolamento alcuni prigionieri del gulag, tutti invalidi tranne Salamov, pretesero che consegnassero le loro protesi: busti, dentiere, occhi di vetro, gambe di legno. A Salamov che non ne aveva, il soldato, scherzando, chiese: "E tu che ci consegni? L’anima?". "No, l’anima non ve la do" rispose. Prese una punizione durissima per aver difeso qualcosa che fino ad allora credeva inesistente. Questo è il momento di capire se ancora abbiamo un’anima, e non farcela togliere come una gamba di legno. Non consegnarla. Prima che non ci restino che protesi.