A proposito di un aspetto rilevantissimo del consumo di suolo a livello planetario, che incide pesantemente anche sulle condizioni di vita della piccola provincia Italia. dalla risorta rivista Ecologia politica, 9 luglio 2013
Nel Rapporto di analisi di OXFAM del 22 settembre 2011 è stato accertato che, soltanto nei paesi in via di sviluppo, dal 2001 circa 227 milioni di ettari di terra (un’area grande quanto l’Europa occidentale) sono stati venduti o affittati a investitori internazionali e la maggior parte di queste acquisizioni è avvenuta negli ultimi due anni.
Questa “caccia alla terra” oltre confine, ad una terra che dati incontrovertibili denunciano come sempre più scarsa ed a breve insufficiente a soddisfare la domanda crescente di cibo, è stata interpretata come una nuova fase della crisi alimentare del 2008 ed è stata anche rappresentata come la terza onda della delocalizzazione, che ha riguardato prima il settore manifatturiero nel 1980 e poi quello dell’informazione tecnologica nel 1990.
Il fenomeno è, senz’altro, l’espressione più manifesta del nuovo (o rinnovato) interesse del mondo finanziario nei confronti dell’agricoltura, che ha contribuito, secondo la FAO, a causare l’impennata dei prezzi di grano, riso e soia, che tra il 2006 e il 2008 hanno toccato livelli molto elevati; tale evento di portata mondiale , e cioè la crisi economica-agricola-ambientale-energetica, ha spinto poi alcuni paesi importatori di prodotti alimentari ad assicurarsi la terra dove costa poco o nulla, al fine di coltivare il necessario a nutrire la propria popolazione. Come è stato efficacemente sintetizzato, governi nazionali e investitori privati di paesi “finance-rich, resource-poor” guardano ai paesi “finance-poor, resource-rich” per assicurarsi cibo ed energia per i bisogni interni futuri.
Tuttavia, la concentrazione della terra coltivabile nelle mani di pochi soggetti, accompagnata dal cambiamento di destinazione d’uso, sta colpendo anche i paesi sviluppati con conseguenze rilevanti per l’agricoltura locale e tipica e, più in generale, per il diritto a produrre degli agricoltori estromessi dai processi produttivi tradizionali per consentire un utilizzo “diverso” delle aree agricole. Le stesse aree agricole dell’Europa, come risulta da una recente ed approfondita analisi di “Hands off the land”, sono oggetto di interesse da parte di privati speculatori internazionali.
Si parla, al riguardo, di Land Grabbing, un fenomeno recente ed ormai diffuso su scala planetaria che contraddistingue forme di accaparramento, appropriazione e concentrazione della terra coltivabile sita in territori extra-nazionali, operate da soggetti privati e pubblici, al fine principale (ma non esclusivo) di produrre cibo destinato all’esportazione. Detto fenomeno è altresì descritto come una forma di usurpazione o di vero e proprio saccheggio delle terre e, segnatamente, della rendita discendente dal profitto che si trae dal fatto di acquisire o controllare per un lungo periodo superfici agricole straniere.
Il Land Grabbing assume, così, i connotati di una nuova ed inedita forma di colonialismo, non necessariamente plasmata sull’archetipo “paesi ricchi contro paesi poveri” essendo presente anche un asse sud-sud, composto da aziende di paesi emergenti (India, Cina, Brasile, Sud Africa) verso paesi in via di sviluppo. Si evidenzia, cioè, un conflitto inedito ed al contempo drammatico tra due esigenze fondamentali per i popoli del pianeta: il diritto al cibo dei paesi ospiti e la ricerca della sicurezza alimentare (ma anche energetica) dei paesi stranieri.
Jacques Diouf, quando rivestiva il ruolo di Direttore generale della FAO, aveva già affermato profeticamente, all’epoca di uno dei primi tentativi di Land Grabbing (il caso Daewoo, in Madagascar) : “Il rischio è che si crei un patto neocolonialista per la fornitura di materie prime senza valore aggiunto da parte dei paesi produttori, a condizioni inaccettabili per i lavoratori agricoli”. Lo scenario che si propone non è nuovo di per sé; ciò che cambia è la crescente pressione su una risorsa naturale dalla quale dipende la sicurezza alimentare di milioni di persone povere.
Il fenomeno in esame viene, tuttavia, interpretato dagli osservatori internazionali anche sotto una luce diversa. Per la World Bank, così come anche per alcuni settori interni alla FAO, le sopradette modalità di appropriazione della terra sono considerate alla stregua di proficue forme di investimento nei paesi in via di sviluppo, in grado di apportare risorse finanziarie in realtà geografiche deprivate economicamente ma ricche di risorse naturali, quali la terra, l’acqua, le foreste, etc. In linea con tale orientamento, si trovano anche diversi paesi poveri che rifiutano il concetto di accaparramento della terra e sostengono la necessità di attirare valuta straniera per sostenere gli sforzi per lo sviluppo interno.
Secondo questa prospettiva, la cessione delle terre nelle mani di investitori stranieri agevolerebbe il processo di crescita e modernizzazione del paese beneficiario . Si è infatti sostenuto che gli investimenti sulla terra possono sì colpire il diritto al cibo ed altri diritti umani fondamentali nei paesi in via di sviluppo sotto capitalizzati ma essi possono, altresì, risultare vantaggiosi se gli investitori si impegnano a creare delle utilità per le popolazioni interessate quali: programmi di educazione, servizi sociali per la cura della salute e la costruzione di alloggi, realizzazione di infrastrutture (strade, ponti, elettricità e reti di acqua potabile). Detti investimenti, collaterali a quello principale sulla terra, possono direttamente ed indirettamente generare lavoro e contribuire all’economia del paese ed alle sue infrastrutture.
Tale visione che induce a giustificare, per alcuni aspetti, l’attività di sottrazione delle aree coltivabili ai detentori locali, può essere, in realtà, facilmente smentita guardando ad alcune esperienze di Land Grabbing che si stanno realizzando in paesi altamente industrializzati, quali il Canada, ove la richiesta di superfici coltivabili è molto aumentata in questi ultimi anni soprattutto da parte della Cina. I vasti territori della regione canadese sono assai appetibili per molti paesi esteri in quanto poco costosi ed abbondanti di risorse naturali (terre disabitate, acqua, foreste, ect.) così che essi vengono ceduti a società private oppure vengono inclusi nei fondi pensione, una forma di investimento che guarda con crescente interesse alle commodities e, tra queste, in modo privilegiato alle aree agricole. Tali fondi sono gestiti prevalentemente da grandi imprese finanziarie ben liete di inserire nel loro portafoglio degli investimenti sia la terra che le imprese agricole.
Anche lo speciale Rapporteur presso l’ONU per il diritto al cibo, Olivier De Shutter – e con lui molti settori dei movimenti sociali e delle organizzazioni della società civile – ha criticato il tentativo, sostenuto in particolare dalla World Bank, di rendere più “responsabili” (RAI ovvero Responsible Agricultural Investment) questi investimenti di vasta scala sulle aree agricole produttive perché una volta che la terra viene venduta o concessa in affitto agli investitori stranieri, costoro punteranno ad uno sfruttamento di tipo intensivo giungendo, così, a sottrarre alle comunità locali di agricoltori non solo le terre ma anche il loro potere di scegliere quale tipo di coltivazioni realizzare e, conseguentemente, in che modo affrontare il problema della fame.
In conclusione, secondo il panorama delle opinioni dominanti, l’appropriazione di terreni agricoli al di fuori dei confini domestici, può rientrare per un verso nel noto paradigma win-win ovvero in una forma virtuosa di investimento che, alla fine, non scontenta o danneggia alcuno dei soggetti coinvolti in quanto risulterebbero tutti vincitori: le nazioni insicure, in termini di approvvigionamento alimentare, possono accrescere il loro accesso alle risorse agricole beneficiando, nello stesso tempo, le nazioni ospiti con investimenti in capitale umano e infrastrutture agricole e accrescendone le opportunità di accesso ai mercati, occupazionali e di sviluppo delle conoscenze.
Per altro verso si stigmatizzano gli effetti deleteri di questa pratica di sottrazione delle terre, diffusa generalmente ma non esclusivamente nei paesi poveri come si diceva poc’anzi, che assume i connotati del neo-colonialismo.
In entrambi i casi ciò che viene a mancare è proprio il presupposto fondamentale del riconoscimento del bene terra come risorsa comune appartenente anche alle collettività locali che non sono poste nella condizione di esprimere il loro consenso libero, preventivo ed informato, rispetto agli interventi stranieri sulle loro terre e di partecipare ai processi di utilizzazione delle stesse.