il manifesto, 15 agosto 2017
Il blocco per le navi delle Ong a 97 miglia dalle coste africane, ordinato dal Governo di Tripoli con il plauso dell’Italia e dell’Unione Europea, chiude il cerchio di quella che appare quasi una guerra contro i migranti nel Mediterraneo.
La situazione dei soccorsi ai battelli carichi di profughi che chiedono asilo e rifugio in Europa viene riportata a quella creatasi all’indomani dell’abolizione del progetto Mare Nostrum quando, dovendo partire le navi da centinaia di chilometri di distanza per rispondere alle richieste di aiuto, ci fu immediatamente una moltiplicazione delle vittime e delle sofferenze. Non a caso, prima Medici Senza Frontiere e poi anche Save the Children e Sea Eye hanno deciso di sospendere le operazioni di salvataggio in mare: troppo lunga la distanza da percorrere per fronteggiare con efficacia emergenze nelle quali anche un solo minuto di ritardo può risultare decisivo e, soprattutto, troppo rischioso – per sé ma ancora di più per i migranti – sfidare le minacce della Guardia Costiera libica, la quale non esita a sparare contro le unità dei soccorritori, come dimostra tutta una serie di episodi, incluso quello denunciato in questi giorni dalla Ong spagnola Proactiva Open Arms.
La decisione di dare “mano libera” alla Libia purché, attuando veri e propri respingimenti di massa, si addossi il lavoro sporco di fermare profughi e migranti prima ancora che possano imbarcarsi o a poche miglia dalla riva, è il capitolo conclusivo della politica che, iniziata con il Processo di Rabat (2006) e proseguita con il Processo di Khartoum (novembre 2014), con gli accordi di Malta (novembre 2015) e il patto con la Turchia (marzo 2016), mira a esternalizzare fino al Sahara le frontiere della Fortezza Europa, confinando al di là di quella barriera migliaia di disperati in cerca solo di salvezza da guerre, persecuzioni, fame, carestia, e intrappolando nel caos della Libia quelli che riescono ad entrare o sono intercettati in mare e riportati di forza in Africa. Tutto ciò a prescindere dalla libertà, dalla volontà e dalle storie individuali dei migranti, calpestandone i diritti sanciti dalle norme internazionali e dalla Convenzione di Ginevra e senza tener conto della sorte che li aspetta, in Libia, nei centri di detenzione governativi, nelle prigioni-lager dei trafficanti, lungo la faticosa marcia dal deserto alla costa del Mediterraneo.
Una sorte orrenda, come denunciano da anni, in decine di rapporti, la missione Onu in Libia, l’Unhcr, l’Oim, l’Oxfam, Ong come Amnesty, Human Rigts Watch, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani, numerose associazioni umanitarie, diplomatici, giornalisti, volontari. Rapporti che parlano di uccisioni, riduzione in schiavitù, stupri sistematici, lavoro forzato, maltrattamenti e violenze di ogni genere come diffusa pratica quotidiana.
Non a caso il procuratore Fatu Bensouda ha annunciato sin dal maggio scorso, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che la Corte Penale Internazionale ha aperto un’inchiesta su quanto sta accadendo ai migranti in Libia nei cosiddetti «centri di accoglienza» e su certi episodi che riguardano la stessa Guardia Costiera, avanzando l’ipotesi anche di «crimini contro l’umanità».
Chiunque sia artefice di questa politica di respingimento e chiusura totale e chiunque la sostenga – sorvolando, tra l’altro, sul fatto che la Libia si è sempre rifiutata di firmare la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati – si rende complice di tutti questi orrori e prima o poi sarà chiamato a risponderne. Domani sicuramente di fronte alla Storia ma oggi, c’è da credere, anche di fronte a una corte di giustizia. Non mancano, infatti, diversi ricorsi a varie corti europee promossi da giuristi, associazioni, Ong, mentre anche il Tribunale Permanente dei Popoli, nella sessione convocata a Barcellona il 7 luglio, ha posto al centro della sua istruttoria il rapporto di causa-effetto tra le politiche europee sull’immigrazione e la strage in atto.
Alla luce di tutto questo, l’Agenzia Habeshia fa appello alla comunità internazionale e alla società civile dell’intera Europa perché contestino le scelte effettuate dalle istituzioni politiche dell’Unione e dei singoli Stati e le inducano a un radicale ripensamento, revocando tutti i provvedimenti di blocco, istituendo canali legali di immigrazione e riformando il sistema di accoglienza, oggi diverso da Paese a Paese, per arrivare a un programma unico con quote obbligatorie, condiviso, accettato e applicato da tutti gli Stati Ue.
A tutti i media e ai singoli giornalisti, in particolare, l’Agenzia Habeshia fa appello perché raccontino giorno per giorno le morti e gli orrori che avvengono nell’inferno ai quali i migranti sono condannati, in Libia e negli altri paesi di transito o di prima sosta, dalla politica della Fortezza Europa, preoccupata solo di blindare sempre di più i propri confini, senza offrire alcuna alternativa di salvezza ai disperati che bussano alle sue porte. Serve come non mai, oggi, una informazione precisa, dettagliata, puntuale, continua perché nessuno possa dire: «Non sapevo…».
Don Mussie Zerai è presidente dell’Agenzia Habeshia. Vedi su eddyburg : In difesa di don Mussie Zerai