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Gennaro Avallone e Salvo Torre
Decolonizzare le migrazioni
19 Luglio 2018
2015-EsodoXXI
Effimera, 9 luglio 2018. L'introduzione al libro «Decolonizzare le migrazioni. Razzismo, confini, marginalità». Per contrastare la costruzione del migrante come nemico e comprendere le migrazioni attuali, una delle più grandi sfide di questo secolo, anche per l'urbanistica. Con commento. (i.b.)

Effimera

É un articolo lungo e impegnativo, cherichiede forse più di una lettura perché si intrecciano due discorsi complessi,ma ne vale la pena.
Da una parte gli autori affrontano il temada un punto di vista dei contenuti e riassumono i caratteri peculiari dellemigrazioni di questo secolo. A questo proposito, l'analisi spiega in manierachiara il rapporto, imprescindibile, tra le migrazioni e il sistemacapitalistico. Ci spiegano che le migrazioni sono strettamente legate non soloal passato coloniale e ai processi di decolonizzazione, ma anche alle piùrecenti trasformazioni avvenute nei rapporti di produzione del sistemaeconomico globale. È un aspetto fondamentale per comprendere come lemigrazioni sono esse stesse prodotto del sistema socio-economico attuale,esattamente come lo sono le crisi che si stanno susseguendo una dopo l'altra.Mettono inoltre in evidenza che le migrazioni di questo secolo si distinguonodalle precedenti perché «si muovono al di fuori degli schemi classici didefinizione dell’identità nazionale, religiosa, linguistica, etnica» e quindivanno a creare nuove forme di aggregazioni sociali, con le quali dovremo fare iconti.
Dall'altra parte,apparentemente più accademicamente, gli autori si pongono il problema di comestudiare il fenomeno e quanto l'approccio utilizzato possa essere determinanteper riuscire attraverso l'analisi a interpretarlo e fare emergere delle ideeper affrontarlo. Spiegano come le analisi che si continuano a fare, anche daparte degli studiosi, siano ideologicamente legate al modello coloniale. Unmodello eurocentrico, che affronta i problemi sulla base dei rischi e vantaggiper le società ricche, e che si porta appresso una idea di superioritàculturale che continua a determinare le relazioni di dominio dei paesioccidentali su quelli colonizzati.
In realtà è questa la parte piùinteressante dell'articolo, perché è tutt'altro che una disquisizioneaccademica! È una questione fondamentale. Gli autori sostengono che se nonusciamo da questa logica, che non riguarda solo gli studiosi, ma noi tuttiquando ci poniamo di fronte a questo fenomeno, che implica anche porci neiconfronti dell'Altro (del migrante, del diverso), continueremo a perpetuareun'immagine del migrante come nemico, sostenere un dibattito pubblico basatosulla razzializzazione dei migranti, e a non trovare "soluzioni"diverse dall'escludere e marginalizzare, in maniera sistematica, continuativa estrumentale, un crescente numero di persone.
Infine, ci sono tanti spunti su ulterioribuone letture per educarci a decolonizzare le nostri menti (i.b.)

Introduzione al libro
«Decolonizzare le migrazioni
Razzismo, confini, marginalità»
Lo sguardo violento sulle migrazioni

La figura, indistinta e pericolosa, del migrante è probabilmente una delle rappresentazioni più forti che si è costruita negli ultimi decenni nella comunicazione politica delle aree più ricche del pianeta. Totalmente priva di riferimenti concreti con la quotidianità delle società europee è presente, priva del diritto di accesso allo spazio della politica, in tutte le forme di comunicazione e in tutti i riferimenti astratti della programmazione istituzionale. I migranti però esistono al di fuori della costruzione dell’immagine del nemico, esistono al margine dello spazio sociale e ci pongono di fronte al fallimento della grande costruzione della democrazia occidentale. Sono, infatti, il limite su cui si infrange il modello di democrazia universale che è stato presentato, a partire dalla metà dello scorso secolo, come l’orizzonte compiuto della nostra storia. Ci dicono, ad esempio, che quel racconto non teneva in considerazione minimamente la maggioranza del pianeta né le condizioni di costante e ineluttabile povertà a cui è costretta da più di cinque secoli la maggioranza della popolazione mondiale.

Il volume curato da Tindaro Bellinvia e Tania Poguish si pone in modo evidente nel solco di quella critica che sta portando una parte sempre più ampia degli studiosi a rimettersi in discussione di fronte all’oggetto del proprio lavoro. Questa critica, da un lato, parte dall’esperienza diretta, dal legame necessario che le scienze sociali devono mantenere con la materialità sociale del vivente, e, dall’altro lato, è il frutto di un processo di riflessione, che tutti gli autori stanno compiendo, sul senso stesso del loro ruolo e sulla possibilità che il pensiero non addomesticato possa agire concretamente nei luoghi più problematici della quotidianità. Affrontando le diverse questioni che vengono poste dal lavoro di superamento dell’eredità coloniale, i vari autori mettono in discussione gli elementi che hanno determinato la costruzione di un discorso scientifico pienamente coinvolto nell’esercizio del contenimento e nell’uso economico delle migrazioni.

l discorso violento sulle migrazioni costruito da un’ampia parte del pensiero politico recente rientra, a tutti gli effetti, nella narrazione coloniale, nonostante si possa ritrovare in luoghi che non sono necessariamente il centro dell’economia globale. È un discorso che presuppone uno spazio di vita civile contrapposto ad una massa informe e barbarica e, quindi, un valore asimmetrico delle esistenze, una differenza tra migrante e cittadino che sintetizza alcune questioni di fondo della società attuale. Sulle migrazioni si è evidenziata in questi anni la capacità finale del neoliberalismo di distruggere anche i residui del discorso universalista del tardo capitalismo europeo. Le vite dei migranti sono evidentemente sacrificabili. Esse sono esistenze di scarto a cui è riconosciuto al massimo l’obiettivo di inserirsi in un contesto che ha bisogno di un esercito di manodopera di riserva: un contesto che oggi non possiede più che una pallida speranza di accesso ai margini del mercato.

La marginalità è l’unica dimensione stabile da cui non si può uscire. Le grandi migrazioni attuali si svolgono tutte all’interno di uno spazio asimmetrico che definisce l’intera esistenza della maggior parte degli abitanti del pianeta, esiliati oltre i confini della ricchezza, in qualunque collocazione geografica si situino. Da questa posizione, dal segno tracciato per definire tale differenza costitutiva, non è riuscita a scostarsi un’ampia parte degli studi sui processi in atto, né, in alcuni casi, le teorie politiche che sostengono l’integrazione.

Nella sua adesione alle esigenze del mercato, con il linguaggio settoriale e con la ricerca di soluzioni per la crescita economica, lo studio delle migrazioni si è rivelato spesso una pratica violenta, che rimanda al dibattito sulla circolazione e la distribuzione globale delle merci. I migranti sono stati considerati, spesso a tutti gli effetti, variabili produttive e inseriti in un discorso generale sulla sicurezza delle società di arrivo (Palidda, 2016). I tre grandi poli delle migrazioni attuali (quelle dirette verso gli USA, a tappe attraverso tutto il continente da Sud a Nord; quelle dirette verso l’Europa, a tappe attraverso due continenti; quelle interne all’asse India-Cina), sono chiaramente alimentati dalla ristrutturazione dell’economia. Le migrazioni in quel caso rispondono allo schema, seppure divenuto più complesso negli anni più recenti, proposto dalla lettura del sistema-mondo: si organizzano da varie periferie in direzione di centri produttivi, nell’ipotesi di incontrare maggiori opportunità di occupazione.

Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.

L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.

Di fronte ai mutamenti globali dell’economia e alla velocità con cui si realizza la delocalizzazione delle aree produttive, si pone il problema della validità delle definizioni tradizionali dei processi migratori. È evidente che non può esistere in alcun modo una teoria generale delle migrazioni nel contesto globale postcoloniale senza un’analisi precisa dei mutamenti generali nei rapporti di produzione del sistema economico globale. Soprattutto se si assume il punto di vista generale delle teorie sociali in cui le istituzioni che si attribuivano il compito di regolare il diritto di movimento degli esseri umani avevano una precisa relazione con il funzionamento economico della società. Il dibattito sulla relazione tra stato e mercato non può essere considerato marginale, così come non si può sottovalutare l’insieme dei fenomeni che hanno determinato le grandi migrazioni degli ultimi tre secoli, dirette verso i centri urbani e le nuove aree di produzione di valore. Allo stesso modo è impossibile elaborare una nuova teoria analitica sulle migrazioni senza superare l’ottica eurocentrica con cui sono state studiate finora.

L’insieme di questi processi diventa chiaro solo al di fuori del vecchio sistema di controllo e difesa dei confini statali, perché l’azione di controllo condotta finora dalle varie istituzioni presuppone la difesa delle aree di libero scambio e non dell’integrità statale. Non solo, essa presuppone la prevalenza della programmazione economica sull’integrità territoriale. Il risultato dell’insieme di queste caratteristiche disegna un complesso quadro di spostamenti umani che rende evidente la fine del progetto di suddivisione del pianeta prodotto dalla modernità. In quel progetto gli stati avevano un ruolo fondamentale, tracciavano i confini ed esercitavano il controllo diretto sulle potenzialità di movimento degli esseri umani. Rimane da valutare quanto questo slittamento verso forme di controllo puro, prive di un controllo politico di qualunque tipo possa produrre solo uno spazio per l’esercizio di dominio o sia anche la base per la costruzione di nuove forme istituzionali.

b. Le migrazioni odierne rideterminano in forme nuove in seguito alla nascita di movimenti controegemonici (de Sousa Santos 2010; Gramsci 2001-2007). È il caso dell’America Latina, in cui le nuove esperienze politiche si oppongono alle forme dirette di controllo politico-sociale realizzate dai vecchi governi e dalle grandi corporation euroamericane, ma avviano anche processi di movimento della popolazione su scala continentale. La manodopera non è più delocalizzata in base a grandi programmi nazionali di distribuzione della popolazione o alla nascita pianificata di aree di investimento, ma inizia, in diversi casi, a ridefinire i confini stessi e le appartenenze (Martinez, 2012; Novick, 2008).

c. Le migrazioni correnti si definiscono come processi centro-periferia, attivati dalla ricerca di manodopera a basso costo all’interno delle aree ricche, ma sono anche il prodotto diretto della nascita di aree speciali di lavoro collocate in zone di confine, come è avvenuto nel caso delle Zonas Económicas Especiales, delle Free Trade Zone e delle Export Processing Zone in diversi casi in Asia Sud Orientale o in America Settentrionale (Mezzadra e Neilson, 2013; Sassen, 2005; Ong, 2005). Le migrazioni recenti giustificano inoltre un enorme apparato di controllo, una guerra a bassa intensità condotta contro i migranti lungo i confini delle aree ricche del pianeta, come avviene in Europa, Stati Uniti, Australia. Si costruisce dunque uno schema di distribuzione globale che può essere considerato un elemento centrale della divisione globale del lavoro all’interno del sistema-mondo (Castillo Fernández, Baca Tavira e Todaro Cavallero, 2016).

d. Le migrazioni attuali sono condizionate anche dalla delocalizzazione delle produzioni in aree povere e a bassissimo costo del lavoro. Si definiscono in questo caso in modo misto, non seguono più i processi tradizionalmente indicati come migrazioni interne o internazionali né sono necessariamente dirette verso grandi aree urbane. Esse contribuiscono anzi, in molti casi, a creare nuovi processi di urbanizzazione (Sassen, 2005).

e. Le migrazioni in corso si muovono al di fuori degli schemi classici di definizione dell’identità, nazionale, religiosa, linguistica, etnica (Appadurai, 1996; Anderson, 1983). Esse vanno oltre le categorie consolidate delle appartenenze e definiscono nuove aggregazioni sociali.

I mutamenti degli ultimi decenni hanno contribuito a rimettere in discussione gli strumenti utilizzati finora, sono stati spesso oggetto di grandi proposte di revisione degli aspetti più profondi delle scienze sociali (de Sousa Santos, 2010; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015; Grosfoguel, 2017), ma continuano a scontrarsi con l’eredità culturale coloniale. In molti casi lo studio di questi processi si è strutturato, cioè, seguendo un preciso apparato ideologico che ne ha riproposto il modello di dominio, soprattutto nella costruzione di differenze tra gruppi umani e nell’abuso della categoria di identità etnica (Gil Araujo, 2011b; Avallone, 2015a). In parte si è trattato di quello che Balibar e Wallerstein hanno definito razzismo senza razza, una categoria che loro stessi consideravano non particolarmente nuova nello scenario politico occidentale (Balibar e Wallerstein, 1991; Grosfoguel, Oso e Christou, 2015), individuando una costruzione culturale che ha proseguito il lavoro di differenziazione tra i popoli del pianeta.

L’intero percorso delle migrazioni che sono iniziate insieme ai processi di decolonizzazione ha riproposto la questione in termini differenti, ma, al tempo stesso, ha in vari modi proseguito il progetto coloniale dell’Occidente. Le diverse pratiche coloniali hanno determinato un’eredità che ha condizionato la gestione delle migrazioni, che hanno assunto non solo l’immagine della differenza etnica, neorazziale, ma anche quella dell’assimilazione come processo evolutivo, dell’idea cioè che sussistesse una superiorità delle società di arrivo, un’emancipazione che non è solo economica. Nel complesso degli studi europei, le analisi relative alle migrazioni negli altri continenti sono state spesso affrontate solo come aspetto del percorso verso l’Europa, definita come la civiltà da raggiungere, faro globale di riferimento insieme agli Stati Uniti. Inoltre, tale analisi ha finito con il rappresentare di fatto una questione inespressa di fondo: quella della difesa dell’identità europea (Amselle, 2008). In questo quadro la categoria di integrazione si è rivelata molto ambigua, è stata utilizzata dal punto di vista assimilazionista e da quello multiculturale (Gil Araujo, 2011b; Palidda, 2010), ma soprattutto ha contribuito a costruire uno schema preciso in cui i migranti assumevano il ruolo di elemento estraneo da trasformare all’interno del corpo dello stato.

La continuità ideologica però non corrisponde ad una sostanziale permanenza delle strutture di potere. Proprio l’esercizio del controllo sulle migrazioni ha reso evidenti gli elementi della nuova struttura geopolitica globale che indeboliscono l’assunto principale, la permanenza cioè delle funzioni dello stato moderno, l’unica struttura che possedeva il diritto di decisione, il potere di difendere i confini. La difesa dei confini tracciava anche il solco dell’appartenenza statale-nazionale e si estendeva ai diritti di sopravvivenza generali dei migranti, segnandone l’esistenza, attraverso la separazione naturalizzata tra nazionali e non nazionali (Sayad, 2013). La macchina in cui sono inseriti i migranti segue un principio che non può più essere quello del superamento dei confini statali (Balibar, 2005), anche se è evidente una forte permanenza del pensiero di stato nelle azioni delle istituzioni e nelle gerarchie adottate dagli studi. Le grandi linee fortificate del pianeta, quelle in cui si sta svolgendo un conflitto costante per il contenimento delle migrazioni, sono in genere i punti di accesso ad aree allargate di scambio commerciale e circolazione di beni e persone, non singoli stati. Non è possibile inoltre neanche ricondurre le grandi migrazioni cinesi e indiane degli ultimi due decenni al modello delle migrazioni coloniali o a quello della circolazione interna agli stati.

Sulla crisi della visione tradizionale pesa anche la caratterizzazione contro-egemonica di alcuni movimenti di popolazione, soprattutto in America Latina e in Africa, i casi che creano più problemi all’inquadramento politico delle migrazioni recenti. In tutti e due i casi le dinamiche di rimescolamento della popolazione hanno ridefinito nell’ultimo secolo, più volte e molto velocemente, i quadri geopolitici e gli interessi economici. I mutamenti nelle migrazioni latinoamericane recenti hanno messo in evidenza, ad esempio, come diverse delle nuove esperienze politiche abbiano prodotto un mutamento generale delle condizioni di vita nei luoghi di arrivo, e non siano state solo il risultato di crisi economiche locali (Martinez, 2012; Yépez del Castillo e Herrera, 2014). Mentre quelli africani sono stati sostenuti soprattutto da enormi crisi umanitarie e conflitti armati. Le nuove forme della politica e le nuove rivendicazioni hanno rappresentato anche una forma di reinterpretazione delle gerarchie sociali sia nella percezione dei processi sia nella costruzione di nuovi spazi.

La categoria gramsciana di egemonia può essere utilizzata in questo caso per ridefinire l’analisi delle migrazioni, perché in quel contesto consente di spostare l’attenzione sui soggetti migranti, che si collocano sempre nella categoria di subalterni, sono privi di diritti. L’esistenza di processi controegemonici (de Sousa Santos, 2010; 2003), secondo cui gruppi prima subalterni possono avviare nuovi processi culturali che diventano egemonici, colpisce direttamente le gerarchie utilizzate nell’analisi delle migrazioni. Ciò perché i migranti sono in genere la parte più debole della popolazione nello stato nazione moderno. In diversi casi, la crisi delle identità nazionali comporta una perdita di senso dei limiti statali al movimento umano e la presenza di nuove comunità può favorire tale processo. Bisogna inoltre sottolineare come, in molte aree del pianeta, la subalternità non differenzi più i migranti in modo netto rispetto ai residenti storici. Questa è una novità sostanziale nella costruzione storica della marginalità ed è un elemento su cui si perde un connotato fondamentale dei migranti.

Lo spazio contro-egemonico è precisamente quello della costituzione di nuove aree di espressione della politica, in cui le identità previste dalle strutture pre-esistenti perdono valore. Le migrazioni assumono una caratterizzazione contro-egemonica quando rappresentano la prima tappa di creazione di spazi che non possono più essere riconducibili alle strutture tradizionali. In diversi casi si tratta di processi contro-egemonici perché sono il prodotto dell’attività di gruppi che iniziano a rivendicare identità territoriali di tipo nuovo, non statale, ma comunitario.

Una parte del dibattito scientifico ha risposto a tale problema con la categoria di nazionalismo diasporico (Appadurai, 1996; Anderson, 1983), cioè quella costruzione identitaria che si realizza solo dopo una migrazione in un contesto culturale diverso da quello di origine. Non solo si pone una questione di notevole spessore, quella della nascita delle identità diasporiche che popolano il pianeta, ma anche un problema molto preciso relativo alla possibilità dell’esistenza di identità senza territorio. Il presupposto del nazionalismo diasporico è l’assenza di un territorio, la delocalizzazione dell’identità culturale e la ricerca di forme di integrazione in nuovi gruppi insediati in aree culturali distanti. La presenza di movimenti contro-egemonici è caratterizzata invece da una proposta politica, dalla volontà di costituire comunità all’interno di un conflitto sociale.

Il potere e la colonia

In una loro forma peculiare, gli studi decoloniali, come quelli postcoloniali, sono espressione di un pensiero della crisi, nascono dalla crisi di quello che Anibal Quijano (1991) ha chiamato modello di potere della modernità e dalla fine della grande espansione economica e finanziaria che ha sostenuto tutto il sistema nella seconda metà del XX secolo. La crisi del capitalismo ha spinto verso la formazione di uno spazio globale che, però, è diventato anche il luogo di espressione delle nuove forme di critica radicale. La percezione della conclusione del lungo percorso della modernità capitalista ha portato all’interno del dibattito politico la questione del superamento delle forme di potere, comprese quelle delle stesse esperienze di liberazione nazionale dei paesi colonizzati. La critica si è indirizzata verso la rilettura della storia della nascita degli stati e verso l’affermazione dell’idea del nazionalismo, contestata già da Sayad (2003) come prospettiva di rimodulazione in termini coloniali delle società africane. Lo stato come piena espressione della modernità è infatti una struttura colonialista, la perfetta espressione di quel modello di potere che viene contestato come proprio della storia del pianeta trasformato in una grande Europa. Per superare l’esperienza coloniale è però necessario anche rielaborare l’esistenza delle culture non europee, in un percorso molto difficile di revisione degli elementi culturali coloniali. Nelle specifiche modalità con cui gli studi decoloniali hanno iniziato a postulare la necessità di ridefinire secondo una prospettiva differente tutte le problematiche della società globale, si può identificare anche un percorso che inizia a connettere tra loro aspetti ritenuti spesso distanti dell’analisi sociale, del dibattito ecologico e della prassi politica (Avallone, 2017).

Il percorso non è stato lineare e non è certamente concluso. L’area degli studi decoloniali, ammesso che si possa già definire come un campo autonomo di analisi, deve indubbiamente la propria nascita ad uno scambio globale mediato dal pensiero di opposizione europeo, all’elaborazione latinoamericana del dibattito politico sulla négritude, alla riformulazione delle grandi questioni dell’indipendenza del pensiero africano nello scenario della costruzione delle nuove democrazie dell’America meridionale della fine degli anni Novanta. Il percorso è chiaro: mentre nel dibattito asiatico e poi euro-americano si delineava un’idea della costruzione della società postcoloniale e si definivano i postcolonial studies (Mellino, 2005), come prospettiva di superamento dell’esperienza politica e sociale del progetto coloniale dell’Occidente (Said, 1979), nel dibattito latinoamericano si poneva l’esigenza di rivedere in profondità alcuni assunti della modernità e soprattutto la lunga eredità del colonialismo. Tutto ciò partendo dal presupposto che il colonialismo è ancora vivo, soprattutto nelle sue forme più estreme di sfruttamento e appropriazione (Moore, 2015). Costruire un pensiero decolonizzato significa superare l’insieme delle relazioni di potere che ancora definisce quella totalità eterogenea che è la società globale, superare quell’eredità che ha continuato a delineare il potere e la società in cui vivono gli eredi storici dei popoli colonizzati, insieme agli eredi storici dei colonizzatori.

La decolonialità, il neologismo introdotto da Anibal Quijano e anticipato con parole diverse da altre studiose ed altri studiosi da W.E.B. Du Bois a Silvia Rivera Cusicanqui, rimanda ad una prospettiva più profonda che coinvolge il problema dell’epistemologia (de Sousa Santos, 2010) e della visione dominante anche nella società globale. Ciò che va decolonizzato è il potere, in tutte le sue forme ed espressioni. La colonia permane nei presupposti (neo) coloniali delle strutture di potere a livello globale, ma anche nelle prospettive, nella classificazione del mondo e nella stessa idea di una società futura liberata. Si tratta di un pensiero autonomo latinoamericano, che può ribaltare diversi approcci alla lettura della modernità e alle prospettive di cambiamento. Al tempo stesso, è un approccio che sta determinando, attraverso la partecipazione di intellettuali di varie culture, la costruzione di una nuova prospettiva politica a partire dalla ricerca di un’autodefinizione di cultura.

Ngugi Wa Thiong’o sostiene che l’imperialismo ha creato un’arma molto potente, che chiama bomba culturale, per controllare i popoli colonizzati, spogliati del diritto di parola nelle loro lingue madri e derubati della loro storia. «La bomba culturale induce i popoli a vedere il loro passato come una discarica di insuccessi, dalla quale prendere le distanze. Li induce a desiderare di identificarsi con quanto c’è di più lontano da loro: per esempio con la lingua di altri popoli e non con quella loro propria. Li induce a rispecchiarsi in tutto ciò che è decadente e reazionario, in quelle forze che inibiscono la loro stessa sorgente di vita» (Ngugi Wa, 2015, p.11). Questo atteggiamento viene definito dallo scrittore gikuyu come un desiderio di morte, una partecipazione dei popoli colonizzati alla distruzione della loro identità. Lo stesso desiderio che, secondo Achille Mbembe, si riflette nella volontà di esercitare il potere di vita o di morte, nella necropolitica dell’Occidente (2003). Una distinzione tra chi deve morire e chi può vivere, sempre a patto di ibridarsi con la cultura dei colonizzatori e rinunciare alla propria lingua e alla propria storia.

Nella sua più pura espressione di potere, la colonizzazione è stato uno dei processi costitutivi della modernità e ha definito questioni che sono ancora irrisolte nella costruzione dell’immagine del mondo attuale, così come nella lettura delle disuguaglianze e nella stessa essenza delle migrazioni. Una di queste, evidente nella costruzione del dibattito pubblico sulle migrazioni, è la razzializzazione dei migranti. Quijano sostiene che la razza è un’invenzione dell’espansione coloniale europea in America. La modernità produce la razzializzazione dei popoli non europei e, attraverso la costruzione della razza, si definisce una nuova gerarchia che permane per tutta la modernità. Le migrazioni attuali seguono la struttura della razzializzazione della società, non si tratta solo della modalità con cui sono presentate nel dibattito pubblico, ma della sostanziale subordinazione razzializzata dei migranti. Secondo Quijano, le relazioni di potere si strutturano in conformità alla classificazione razziale delle popolazioni, perché la razza è un elemento di gerarchizzazione universale che stabilisce superiorità e inferiorità e giustifica l’azione del potere (Navarrete, 2014) e questo processo corrisponde alle differenze storiche coloniali, ma anche alla distribuzione attuale della ricchezza.

I modi in cui sono pensate, governate e vissute le migrazioni sono definiti dalle rappresentazioni coloniali dell’altro, dunque dalla colonialità che classifica le popolazioni e ne influenza le possibilità di mobilità spaziale, di accesso ai mercati del lavoro, di inserimento e collocazione sociale. La realtà coloniale è attiva nel presente postcoloniale, con effetti anche sui modi di pensare le migrazioni e le persone migranti. La costruzione coloniale del mondo, al cui centro vi è stata la razza, con i suoi specifici processi di controllo, disciplinamento, assoggettamento e resistenza, fondata sulla divisione tra zone dell’essere e zone del non essere (Fanon, 2015), influenza la definizione del mondo, dove i soggetti legittimi sono solo quelli della prima zona, quelli appartenenti alla zona dell’essere, e sono gli unici a porre le domande ritenute appropriate. È chiara la relazione che c’è tra gerarchie sociali e intellettuali: le prime organizzano le seconde, caratterizzando anche le scienze sociali, le quali «partecipano ad una tradizione intellettuale che attribuisce molta importanza alla distinzione tra oggetti nobili e oggetti ignobili, tra modalità nobili (ciò che si chiama “teoria”, speculazione) e modalità ignobili di affrontare questi soggetti» (Sayad, 1990, 8). Lo studio delle migrazioni si colloca in questa gerarchia in modo coerente con il suo oggetto ignobile, un oggetto dominato sul piano intellettuale e politico-sociale, e tende, per tanto, a riprodurre questa gerarchia, svolgendo il «lavoro del colonizzatore o il lavoro della società di immigrazione» (Sayad 1990: 20-21).

In termini decoloniali, il riconoscimento di questa condizione vuol dire che non ci sono punti di vista neutrali, ma sono sempre all’opera una geo-politica ed una corpo-politica che definiscono uno specifico punto di osservazione, non individuabile, dunque, come una visione oggettiva, perché visioni oggettive non sono possibili (Fanon, 2009; Lander, 2000; Mignolo, 2009). La critica alle gerarchie, all’oggettività scientifica ed alla neutralità dei saperi apre ad una messa in discussione delle categorie prodotte nell’ambito della storia delle stesse discipline sociali, riconoscendo il peso avuto dallo stato e dai rapporti coloniali globali in questa storia, specialmente nel caso dello studio delle migrazioni, il cui oggetto di osservazione, quello dell’immigrato e dell’immigrazione, è stato costruito attraverso un discorso imposto (AA.VV., 2013). Dunque, andare oltre queste categorie, parole di stato e concetti prodotti lungo i rapporti coloniali, è una condizione determinante per liberare gli studi delle migrazioni dagli assunti già dati e dalla domande già definite dai rapporti di forza vigenti tra aree geopolitiche, popoli e razze.

Praticare decolonialità

Il testo curato da Bellinvia e Poguish segue una sequenza precisa che rispecchia il dibattito recente sulle migrazioni, ma prova a rispondere alle questioni che si presentano a chi lavora sul campo. Prima emergono le domande sulla sostanza dei processi e sul modo in cui si possono definire, seguite da analisi sulle modalità storiche con cui si è realizzato sul territorio europeo il mutamento di identità e funzioni delle migrazioni: successivamente vengono poste delle riflessioni sul ruolo di chi pratica attività di ricerca e sulle modalità con cui si può uscire dalla gabbia del pensiero coloniale, riflettendo, come fanno tutti i testi, sulla difficoltà concreta di lavorare all’interno della permanenza di una struttura come lo stato nazione, ponendosi, infine, il problema delle possibili alternative.

I saggi contenuti nel volume affrontano, infatti, il problema della decolonizzazione nei suoi vari aspetti, partendo dalla decostruzione del pensiero europeo, riconsiderata da Lidia Lo Schiavo, che individua un legame tra il decentramento dell’Europa, operato dal pensiero decostruzionista, e il dibattito critico recente. Le migrazioni pongono di fronte all’esigenza di rielaborare anche l’epistemologia, le modalità con cui si definisce lo stesso oggetto di studio. Marco Letizia rende visibile il forte legame tra la questione del potere, come è stata posta da Michel Foucault, e la ridiscussione in cui è impegnato il dibattito attuale, suggerendo anche una riflessione sulla collocazione all’interno dei dispositivi di potere di chi realizza ricerche sul campo.

Tania Poguish affronta direttamente la questione fondamentale della crisi del confine e pone il problema della permanenza del confine nell’Europa fortezza. Una delle questioni più citate nel volume è, in effetti, la presenza del confine come metodo, nell’accezione che Mezzadra e Neilson ne hanno dato, e non è un caso che il punto di partenza del lavoro sia stata la riflessione di Abdelmalek Sayad.

Il lavoro di Eleonora Corace si inserisce in quel dibattito che ha dimostrato come le categorie del politico abbiano definito perfettamente la società attuale. Tra le categorie che vanno ridefinite inserisce quelle proprie della sfera dell’inclusione, che sottende tutti gli elementi della supremazia coloniale ed è carico di aspetti di profonda ambiguità. Seguendo la stessa linea, Sergio Villari ripropone la questione dei rapporti sociali, di dominio e sfruttamento, e, seguendo Sayad e Djouder, sottolinea come i processi di integrazione sottendano una forte dimensione repressiva.

Tindaro Bellinvia ricostruisce i percorsi materiali che portano all’etnicizzazione delle migrazioni e alla criminalizzazione della figura dei migranti, individuando un processo essenziale per il funzionamento dei dispositivi di controllo e per la costruzione dello spazio permanente di marginalità.

Le esperienze condotte sul campo dagli autori ci dimostrano come tutto il sistema italiano dell’accoglienza sia interno al processo della costruzione del margine invalicabile, dell’esclusione permanente cui è destinata la popolazione migrante. Angela Bagnato pone il problema della permanenza del controllo sui corpi e di come ciò si evidenzi anche in uno sfruttamento asimmetrico che colpisce le donne migranti, riproponendo le forme del potere patriarcale. Giovanni Cordova dimostra come la ricerca etnografica possa smontare con facilità l’immagine rassicurante costruita nel dibattito pubblico del sistema italiano dell’accoglienza.

Il saggio di Carmelo Russo contribuisce a ribaltare gli stereotipi sulla costruzione dell’immagine del migrante, ridefinendo l’esperienza e i processi di revisione della memoria delle migrazioni siciliane dirette verso la Tunisia.

Nel loro insieme, i saggi affrontano una molteplicità di vincoli attivi sulle migrazioni attuali, convergendo nella critica alle definizioni normalizzanti ed alle categorie coloniali e di stato che contribuiscono a governarle. Essi pongono, dunque, il tema della possibilità di liberazione politica, culturale ed epistemologica delle migrazioni e delle persone migranti: condizione determinante per costruire relazioni sociali più giuste su scala mondiale.

Liberare le migrazioni

I migranti sono ormai tra i principali attori di conflitti sociali in varie aree del pianeta (Mezzadra e Neilson 2013; Avallone 20l5b). Il loro protagonismo sociale e politico va oltre la storica problematica di integrazione nei paesi di arrivo e riguarda la crescente difficoltà nella costruzione di spazi di vita e l’impossibilità di rientrare nel sistema economico globale per una parte sempre più ampia degli abitanti del pianeta: si riferisce, cioè, allo status di esclusione permanente che si prospetta a vari strati dell’umanità. Di fronte a questa esplosione di esperienze conflittuali, Mezzadra e Neilson descrivono la moltiplicazione dei confini come uno dei processi fondamentali per la sopravvivenza del sistema economico globale. Un processo che si realizza in uno spazio eterogeneo, caratterizzato da alti livelli di controllo sulla libertà di movimento degli individui. La moltiplicazione dei confini corrisponde, nel quadro proposto dai due autori, alla moltiplicazione e parcellizzazione del lavoro e definisce, ormai, un fenomeno capillare in cui aumentano i confini fisici anche interni alle vecchie strutture geopolitiche. La divisione globale del lavoro determina la nascita di nuove forme di parcellizzazione sociale.

Le categorie tradizionali di sovranità e potere costituente, legate all’esistenza di confini stabili, sono state rimesse in discussione, ma non sostituite dall’individuazione di nuove categorie interpretative soprattutto di fronte ad una situazione in cui è il potere economico che istituisce i confini, mentre quello politico li gestisce in subordine. Tale processo può definire anche il percorso in cui la dimensione di marginalità propria dei migranti si estende ad un numero sempre più ampio di abitanti del pianeta e non dipende solo dallo spostamento fisico. Secondo la definizione classica del dibattito critico, lo spazio politico neoliberale si definisce come schema in cui si muovono liberamente capitali e merci, ma non gli esseri umani, così anche la costruzione di nuove forme di identità globale passa dalla moltiplicazione dei confini. In questo quadro l’esigenza di procedere a diverse forme di decolonizzazione dell’analisi postcoloniale è sempre più pressante. Non si tratta solo di analizzare o contrastare la costruzione del migrante come nemico, ma anche di confrontarsi con la nascita di nuove forme di conflittualità che non rivendicano integrazione, nell’accezione tradizionale del termine. Si può partire dall’assunto che la definizione territoriale della categoria di migrazione corrisponde ormai evidentemente ad un solo aspetto del processo. Il problema si può inquadrare come la questione dell’ampliamento del numero di persone collocate oltre il margine, la linea che divide l’accesso alla ricchezza dall’esclusione permanente. Quella linea non corrisponde più alla struttura territoriale costruita dal progetto coloniale dell’Occidente, è un prodotto diretto di quella storia, ma non corrisponde più alla differenziazione territoriale tra paesi dominatori e colonie.

La crisi della sovranità moderna si evidenzia chiaramente nel mantenimento delle formule di controllo prive di territorio e consenso. I migranti portano alla luce la permanenza di elementi forti, di un’eredità coloniale nella struttura stessa delle domande poste dalle scienze sociali. Come suggerisce la lettura di Sayad, non possiamo pensare di ricostituire il passato alla ricerca di forme sociali pre-esistenti la modernità e il capitalismo, non può esistere cioè una scienza sociale non coloniale nei suoi assunti. Può esisterne una decolonizzata, che assolva anche al ruolo storico di sapere di opposizione.

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