Intervento al Convegno di Rifondazione Comunista «La città ai tempi del neoliberismo» che si è tenuto il 6 Aprile 2019 a Bergamo. Dal caso emblematico di Milano a considerazioni sulla deriva dell'urbanistica nazionale. (i.b.)
«Oggi è l’americanismo indigesto che folleggia in grattacieli.
Perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all’utile?
Anche se animato da volontà di far nuovo, di far grande, ogni signore delle ferriere suole affidare la soluzione dei propri problemi a un suo tecnico, necessariamente ubbidiente alla moda che è nell’aria e alla personalità volitiva del padrone.
Costui ha sempre delle idee, raccolte a Londra, a Parigi, oggi soprattutto in America: costui si gloria non di inventare (la parola è disusata fuor del campo tecnico) ma d’imitare ieri un lord Derby, o un banchiere Laffitte, oggi una Corporation famosa pel suo grattacielo.
...poggiando su questo caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha distrutta.
...le case non hanno ragione d’essere più basse di quanto lo fossero ieri (limite generale a m. 24), ma neppure di salire più in alto.»
[Tratto da G. de Finetti, Sulle aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in G. de Finetti, op. cit., 2002, Milano, Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, p. 395.]
«La mania delle grandi altezze rientra nella mania del «Kolossal», così caratteristico negli sviluppi moderni, nella megalomania moderna.
Non la grande altezza dobbiamo desiderare, nel caso di costruzioni in aree urbane più care, ma la giusta altezza; e questa va determinata mediante esperienze preventive di non ardua istituzione.
Solo così si possono evitare quei wastes in planning che ad esempio hanno portato a costruire a New York l'Empire State Building, che misura più di 300 m. in altezza (…)
La stessa tendenza presiedette nelle nostre città a molte iniziative edilizie che per essere di mole assai minore non mancano di costituire col loro complesso una massa di cattivi investimenti assai gravosi per l'economia italiana e che, last but not least, hanno recato immenso danno, spesso anzi definitivo ed irrevocabile insulto al volto delle nostre città”
[Tratto da G. de Finetti, ibidem, p. 397]
Nelle più o meno grandi trasformazioni urbane attuatesi a Milano dal quindicennio scorso (ex Fiera/Citylife, Porta Nuova District) o in corso di definizione (ex scali ferroviari FS/Sistemi Urbani, ex Piazza d’Armi, ex caserme, ecc.) le quantità edificatorie consentite dal Comune sono state “consensualmente contrattate” in base ad accordi con le proprietà fondiarie determinandoli non su preventivi criteri di congruità urbanistica, ma solo sulle aspettative di rendita delle proprietà in base alla necessità di risanare situazioni debitorie pregresse (Fondazione Fiera, con 250 Milioni di € di debito imprevisto per la costruzione del nuovo polo di Rho-Pero) o alle disponibilità economiche degli investitori finanziari (Intesa San Paolo e Generali a Citylife; Hines-Catella prima e Fondo Sovrano Qatar poi a Porta Nuova) che hanno consentito loro di pagare alle proprietà delle aree una rendita fondiaria doppia di quella corrente per le operazioni immobiliari più usuali (1.800 € per metro quadro di superficie commerciale vendibile contro i 900 €/mq correnti nel 2005 per operazioni immobiliari di media dimensione), con una scommessa speculativa sull’effetto monopolistico atteso sull’orizzonte dei successivi 15-20 anni e che solo operatori finanziari di quella dimensione potevano permettersi di affrontare e anche di rischiare di perdere – come in parte sta accadendo – senza con ciò andare in fallimento.
Oltre tutto, ciò è avvenuto senza nemmeno che il Comune riuscisse ad ottenere una consistente quota di compartecipazione economica agli utili che vi si sarebbero potuti stimare attesi, come alcuni propongono debba essere il criterio di valutazione dell’utilità pubblica di tali scelte[1] .
Quanto a quello di ottenere adeguate risorse nella dotazione di spazi pubblici corrispondenti ad una concezione di moderna città europea la partita si è rivelata altrettanto perdente: solo un terzo delle dotazioni di verde e servizi pubblici promessi nelle previsioni iniziali è stato effettivamente realizzato, perché altrimenti non vi sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati o avrebbero dovuto essere alti il triplo delle già incombenti torri da 200 metri di altezza. Ciò che non è divenuto spazio pubblico ed è stato pagato alla proprietà fondiaria originaria 2.000 €/mq è stato indennizzato al Comune a 300 €/mq, cifra con la quale si può espropriare una stessa quantità di aree da destinare ad uso pubblico solo in estrema periferia. Quel criterio di falsa equipartizione mezzadrile (metà al pubblico, metà al privato) - che come vedremo viene surrettiziamente spacciato come equa divisione delle aree, ma non nella definizione dei pesi insediativi – in questo caso non è stato ritenuto criterio valido affinché il Comune venisse remunerato dall’investitore alla pari della rendita fondiaria: 1.000 € ciascuno!
Eppure, quando discuto con persone anche con me d’accordo nella valutazione critica delle impostazioni e degli esiti prodottisi o prevedibili, facendo rilevare coi miei calcoli la scorretta o gravemente insufficiente determinazione dei cosiddetti “standard di spazi pubblici” fissati per legge mi capita spesso di sentirmi obiettare che i possibili effetti migliorativi che si sarebbero realizzati con criteri di legittimità e razionalità urbanistica che avrebbero imposto una maggior quantità di aree pubbliche rischiano di essere difficilmente compresi dall’opinione pubblica a fronte del successo di immagine mediaticamente veicolato e alla folta frequentazione – soprattutto giovanile - che gli interventi realizzati riescono ad attrarre con la loro inusuale novità e che .- quindi – tanto vale affidarsi solo ad un discussione sul gradimento della presuntamente “libera” inventività tipologico-progettuale degli edifici. Assistiamo così a interi servizi giornalistici sulla inusuale novità delle torri di Citylife, solo perché fantasiosamente denominate Il Dritto-Isozaki, o Il Torto-Hadid, o Il Gobbo-Libeskind oppure sulle “insule” ispirate da architetture simil crocieristico-navali (Hadid) o vagamente astronautiche (Libeskind), ma che comunque si distanziano assai poco tra loro e giusto perché ci è stato ficcato in mezzo un po’ di verde pubblico a strisce, altrimenti finirebbero direttamente spiaccicate l’una contro l’altra. A Porta Nuova Il Diamantone-Caputo/Kohn/Pedersen/Fox, la Torre Solaria-Studio Arquitetconica, il Verde Verticale-Boeri e quello fallico di Cucinella per Unipol non ha ancora trovato un’intitolazione, solo perché si rischia di cadere nel pecoreccio: tutte incombono su una striscia di percorso pubblico pedonale in cui ci si rapporta solo con pub, temporary stores, shopping centers di piani terra o sotterranei.
Ho avuto il modo di dimostrare planivolumetricamente[2] che in alcune parti dell’area di Porta Nuova il Comune, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto far sì che i 250.000 metri cubi di edificazione impostigli dall’esito sfortunato di un pluridecennale contenzioso giudiziale si sviluppassero con tipologie a volumi compatti ed altezze non superiori ai 35-40 metri, come sono stati realizzati col Markthall di Rotterdam e col nuovo edificio del Ministero delle Finanze francese a Bercy, anziché per lo più con edifici a torre di grande altezza.
Sia nel caso di Citylife che in quello di Porta Nuova si tratta quindi sostanzialmente di attuazioni orfane di qualunque orientamento urbano, insediativo e tipologico riconoscibilmente guidato e voluto dall’ente pubblico, lasciato invece totalmente alla proprietà privata nella possibilità di stabilire liberamente non solo “dove e come” (spazi ad altezza media di interpiano di 3 metri, ciò che massimizza la superficie commerciale vendibile, liberamente adattabile a residenza o uffici secondo l’andamento delle opportunità di mercato), ma anche “quanto” spazio pubblico e soprattutto quanto spazio pubblico per abitante/utente realizzare effettivamente nell’intervento.
In fondo proprio come si è lasciato negli anni ‘50 e ‘60 con le lottizzazioni privatisticamente autoregolate, solo con un po’ più di agio economico e un po’ più di bizzarria nelle finiture dell’immagine degli edifici ![3]
Proverò allora a ripercorrere la storia della legislazione urbanistica in Italia, cercando di dimostrare perché quelle quantità minime di spazi pubblici e di spazi pubblici per abitante/utente (gli “standard”, appunto) che dovrebbero essere garantite per legge in modo indisponibile dalla cedevole volontà del Comune e dalle fantasiose soluzioni dei progettisti loro ispirate dalle aspettative delle proprietà private siano in realtà un elemento necessario anche se non del tutto sufficiente a garantire l’interesse pubblico collettivo degli esiti urbani di tali interventi.
Le norme sugli standard minimi di spazio pubblico e sulle distanze minime degli edifici tra di loro e dai confini di proprietà furono introdotte nel 1967 (pur con grande difficoltà ed aspre polemiche sulla compressione dei diritti alla libertà d’uso delle proprietà, giunte sino a fomentare tentativi di colpo di Stato) con la Legge “Ponte” (così detta perché doveva essere una modifica di emergenza della legge del ’42, in attesa di una riforma organica che non arriverà mai) e il successivo Decreto Ministeriale del 1968.
Essa ribadì l’obbligo per i Comuni di approvare un Piano Regolatore Generale (PRG) prima di qualunque possibilità di intervento da parte dei privati, i quali potevano farlo solo in base alle localizzazioni e alle quantità edificatorie e di spazi pubblici in esso stabilite. Ciò era già previsto nella Legge Urbanistica approvata nell’agosto del 1942 sotto l’impulso dell’architetto-gerarca Alberto Calza Bini, segretario del Sindacato Nazionale Fascista Architetti e fondatore dell’Istituto Nazionale di Urbanistica-INU.
In questa doppia veste, con questa legge egli mirava a due obiettivi: il primo, impedire che l’assetto urbano fosse determinato prevalentemente dalla struttura della proprietà fondiaria esistente, la quale - pur legittimata alla propria valorizzazione economica - a suo avviso non poteva avere la necessaria visione d’insieme, possibile solo col disegno di un assetto urbano complessivo; la seconda, che con l’affidamento degli incarichi dei progetti dei piani regolatori e piani particolareggiati da parte dei Comuni che dovevano approvarli prima della possibilità dell’intervento edificatorio da parte dei privati, si sarebbe offerta alla sua corporazione professionale un’ampia occasione non solo di sviluppo economico, ma anche di affermazione del ruolo culturale e sociale della nascente figura professionale dei progettisti urbani.
Proprio per questo la legge del ‘42 aveva contenuti esclusivamente procedurali (da chi e come vengono approvati i piani urbanistici, quanto durano, ecc.), mentre – con un’impronta tipicamente “corporativa” - la corretta definizione dei contenuti di piani regolatori e piani particolareggiati (quantità edificabili, altezze e distanze degli e tra gli edifici, quantità di spazi pubblici) era lasciata alla manualistica e all’esperienza professionale dei redattori dei piani urbanistici.
La legge ottenne la distratta promulgazione del re Vittorio Emanuele II mentre stava in vacanza nella tenuta di caccia di San Rossore, ponendo così termine ad una resistenza trascinatasi per oltre un trentennio da parte degli esponenti della proprietà fondiaria. L’Italia era già entrata in guerra da due anni e anche se le sorti del conflitto non avevano ancora preso la piega drammatica che si avrà coi bombardamenti alleati sulle città italiane nel 1943, era evidente che non era proprio il momento adatto a preoccuparsi davvero dei possibili vincoli che la legge avrebbe posto alla libertà di investimento immobiliare sulle proprietà fondiarie: chi ne aveva era impegnato ad occuparsi di borsa nera o di come salvarsi la pelle.
Com’è ovvio, col precipitare degli eventi bellici la legge e il suo regolamento di attuazione finirono rapidamente negli scantinati del Ministero dei Lavori Pubblici[4], e quando poi, nell’immediato dopoguerra, con la caduta del Fascismo e il cambio della forma istituzionale dello Stato da Monarchia a Repubblica, si porrà l’impellente necessità di ricostruzione delle città bombardate, essa verrà affrontata con strumenti d’emergenza, incompatibili coi tempi e le complesse procedure di approvazione previste nel 1942; e infine quando anche l’emergenza verrà superata, quella legge — benché vigente — finirà per apparire come l’eco spenta e ormai desueta di un mondo ormai travolto dagli eventi.
Non deve, quindi, sorprendere se, negli Anni Cinquanta e Sessanta, quando la ripresa economica conseguente all’iniziale ricostruzione del Piano Marshall andrà diffondendo anche un nuovo e più duraturo impulso all’attività edilizia, i Comuni si accinsero ad affrontare i problemi posti dalle trasformazioni urbane in corso come se essa non fosse mai esistita, tornando invece a ricorrere ad una prassi ancor più antica e per essi più usualmente abituale: quella delle “convenzioni”, cioè di accordi di natura privatistica presi di volta in volta con chi pressava per poter edificare, pur in assenza di qualunque progetto pubblico complessivo di assetto della città.
Il Comune, cioè, a partire dalla volontà espressa dalla proprietà di edificare una certa area, stipulava con essa un contratto di diritto privato in cui, a fronte dell’impegno del Comune a rilasciare le licenze edilizie per certe volumetrie concordate, essa si impegnava a realizzare le strade di accesso all’area, quelle di distribuzione interna, i marciapiedi, l’illuminazione stradale e, nei rari casi migliori, anche a cedere le aree per costruire qualche opera pubblica e solo talvolta, ma ancor più raramente, contribuendo in qualche modesta misura al loro costo di realizzazione.
Dove e quanto costruire era perciò in prima istanza decisione della proprietà fondiaria (o del suo potenziale acquirente) in base alle proprie risorse economiche, alle proprie capacità tecnico-costruttive (tipicamente in quel periodo: strutture in cemento armato con edifici di 8-15 piani; i grattacieli in cemento armato quali il Pirelli o la Velasca richiedevano la genialità di Nervi o di Danusso. In precedenza la struttura muraria consentiva edifici di 4-6 piani; oggi con l’acciaio su può arrivare facilmente ai 30-40 piani e oltre) e all’aspettativa di collocazione sul mercato degli immobili realizzati. Con quali contropartite in termini di aree e servizi pubblici era affidato, di volta in volta, alla capacità o volontà di contrattazione degli amministratori pubblici del momento: il rapporto fra quantità edificabili ammesse e attrezzature urbane corrispondenti che ne derivava, l’assetto insediativo della città ne era il risultato occasionale.
I Comuni di maggior dimensione che casualmente si trovavano ad avere un Piano Regolatore già in vigore in base alla Legge del 1865, considerandolo un intralcio alla possibilità di stipulare liberamente quegli accordi convenzionali, escogitarono artifici giuridici per poterne aggirare le indicazioni: Milano fu il caso più emblematico con il proverbiale “rito ambrosiano”, che considerava le quantità edificatorie stabilite nelle convenzioni, ma in contrasto col Piano Regolatore vigente, come “licenze in precario”, cioè consentite provvisoriamente in attesa di una futura modifica del Piano e da demolirsi se in seguito non confermate (cosa in pratica ovviamente impossibile, poiché si sarebbe trattato di demolire interi quartieri ormai abitati). I Comuni minori, in genere nell’hinterland metropolitano dei grandi capoluoghi in via di conurbazione sotto la spinta del flusso migratorio, in assenza di Piano Regolatore si regolavano “a vista”.
L’esito fu - ovviamente - caotico soprattutto nei casi compromessi da comportamenti collusivi (che pure, in moltissimi casi, si verificavano) tra Amministrazioni comunali e iniziative fondiario-immobiliari, ma anche in quelli in cui il pubblico provò a mostrarsi più autonomo e virtuoso.
Quando ancora oggi noi vediamo interi quartieri con case troppo alte attorno a strade troppo strette e invase dalle auto parcheggiate in continuità sui bordi, ebbene questo è l’esito di quella prassi prolungatasi per tutti gli Anni ’50 e ’60.
Non bastarono le numerose e ripetute denunce ed inchieste giornalistiche sul degrado diffusosi nell’assetto urbano e territoriale del Paese (in prima fila Antonio Cederna sul settimanale L’Espresso, che denunciò la collusione tra Amministrazione comunale capitolina e immobiliarismo laico e vaticano, col titolo “Capitale corrotta, nazione infetta” e il regista Rosi col suo film “Le mani sulla città”, ambientato nella Napoli di Lauro) a smuovere l’inerzia delle forze politiche di maggioranza del centro-sinistra (DC, PSI, PSDI, PRI) e le resistenze di quelli di destra e del potere economico-immobiliare.
Occorse, invece, che si verificasse un episodio drammatico e clamoroso come la frana di Agrigento nel 1966 (il crollo di 200.000 metri cubi di edifici malamente accatastati sul fianco di una collina franosa, fortunosamente senza vittime, dati i segni premonitori dell’evento), che divenne simbolo dell’esito generalizzato un uso subalterno delle risorse territoriali rispetto allo sviluppo economico durante il “boom” del dopoguerra, perché il Parlamento — dopo la relazione di una Commissione d’inchiesta ministeriale — varasse un provvedimento d’urgenza per porre fine a quella prassi illegittima e subalterna.
L’esperienza degli Anni ’50-’60, con i privati che facevano presentare in Comune progetti redatti da professionisti da essi incaricati, i quali non si peritavano di firmarli senza alcun minimo ritegno su altezze, distanze e dotazione di spazi pubblici indusse a ritenere di poter non fare più affidamento sulla loro autonoma deontologia tecnico-professionale, ma a prevedere per norma di regolamento alcune prescrizioni inderogabili: e siamo così ai famosi “standard” fissati nel 1968, solo un anno dopo la legge, da un Decreto del Ministro dei Lavori Pubblici.
In sostanza esso prescrive una distanza minima di 5 metri dai confini di proprietà (prima di allora vigeva solo la norma del Codice Civile di 1,5 metri dal confine, con la conseguente distanza di 3 metri tra edifici indipendentemente dall’altezza!), una distanza tra gli edifici pari a quella di altezza maggiore con un minimo assoluto di 10 metri tra pareti finestrate e, infine, che coi Piani Regolatori Generali e coi loro Piani Attuativi i progettisti dovessero garantire la realizzazione di almeno 18 mq per abitante di spazi pubblici di quartiere (circa 9 mq di verde e 9 mq di scuole, asili, centri civici, parcheggi, ecc.; ma in ciò è stata prassi lasciar valutare al progettista di piano in base ad opportunità) + altri 15 mq per abitante di parchi territoriali e 2,5 mq per abitante di grandi funzioni urbane (attrezzature per l'istruzione superiore all'obbligo esclusi gli istituti universitari e attrezzature sanitarie ed ospedaliere), indicando anche come dovessero computarsi gli abitanti delle future realizzazioni edilizie: mediamente 1 per locale, inteso come 30 metri quadri di pavimento muri compresi.
Certo erano criteri “empirici” desunti dalla manualistica e da alcuni rari esempi di buona pratica professionale tradotti in norma di legge da un gruppo di giovani volonterosi ed entusiasti funzionari ministeriali (Vezio De Lucia, Fabrizio Giovenale, Giusa Marcialis, Daria Ripa di Meana, Edoardo Salzano, Giulio Tamburini, Maurizio Di Palma, Camillo Nucci, Gianni Nigro) messi al lavoro dal “mitico” Direttore generale dell’ufficio urbanistica del Ministero Lavori Pubblici, Michele Martuscelli.
Inoltre le aree previste ad uso pubblico nei Piani Regolatori dovevano essere cedute gratuitamente dai privati ai Comuni al momento dell’attuazione dei loro Piani di lottizzazione e dietro pagamento dei costi delle opere pubbliche necessarie che vi erano previste (i cosiddetti “oneri di urbanizzazione”), sostituibili in alternativa dalla loro diretta realizzazione da parte privata, come per lo più si fece con le cosiddette opere di urbanizzazione “primaria”, cioè strade, marciapiedi e parcheggi, fognature, pubblica illuminazione, ritenute più facilmente controllabili in base a prescrizioni tecniche. I Comuni, viceversa, preferirono farsi pagare i costi presunti delle urbanizzazioni “secondarie”, cioè scuole materne, elementari e medie, centri civici, parchi, eccetera, per le quali il progetto su incarico dell’ente pubblico avrebbe dovuto maggiormente caratterizzarsi in consonanza agli obiettivi di orientamento politico e sociale delle amministrazioni locali.
Quando talvolta sento lamentare l’eccessiva rigidità normativa di queste prescrizioni non posso che rispondere che al di là dei “numeri” esse hanno tuttavia sicuramente un valore come indicazione almeno di ordine di grandezza e che l’imposizione dall’esterno come norma la categoria professionale se l’è pur ben meritata con una prassi professionale che per tutti gli Anni ’50 e ’60 (ma sempre più spesso la vedo riemergere ancora di nuovo in questi anni di “liberismo” rimontante) che ha scontato la redazione di progetti ben al di sotto di quei minimi almeno quantitativi di decenza che le norme si propongono di tutelare.
Sta di fatto che sulla base di quelle prescrizioni normative tradotte nelle planimetrie e nelle norme tecniche di attuazione dei PRG, i privati erano poi autorizzati a far presentare ai Comuni dai propri progettisti dei piani di lottizzazione, i quali pur rispettandone le prescrizioni quantitative di cessione gratuita degli spazi pubblici, spesso erano più che altro improntati alla tutela e massima valorizzazione della struttura fondiaria pregressa: edifici di maggior dimensione e altezza in proporzione a quella dei lotti, orientamento determinato dalla forma e distanza dei confini, cessione frammentata pro quota degli spazi pubblici prescritti.
Era proprio ciò che l’impostazione della legge del ’42 si proponeva di evitare prevedendo, invece, l’obbligo anche di una seconda fase di conformazione pubblica, quello del Piano Particolareggiato con indicazione dei comparti edificatori e degli andamenti planivolumetrici. In questo modo, il piano di lottizzazione proposto dalle proprietà private successivamente al Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica si riduceva a poco più che un riaccatastamento dei lotti fondiari per adeguarli al disegno di conformazione urbana dei comparti edificatori e del planivolumetrico del Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica. Con la Legge Ponte del ’67, invece, il Piano di lottizzazione dei privati direttamente successivo al PRG configura un piano di autonoma effettiva conformazione urbana in cui prevale però la tutela dell’assetto privatistico-fondiario.
Gli esiti spesso farraginosi dal punto di vista dell’esito di conformazione urbana dei Piani di lottizzazione dei privati ha via via portato a considerare irrilevante il miglioramento quantitativo imposto dagli standard minimi di spazi pubblici fissati per norma di legge, anche quando – con leggi urbanistiche regionali tra cui per prima nel 1975 quella della Regione Lombardia[5], seguita poi da quasi tutte le altre – lo standard minimo di spazio pubblico di quartiere previsto a livello nazionale è stato aumentato di circa il 50%, sino a 25-30 mq per abitante.
Oltre tutto, mentre dal 1968 in poi gli standard prescritti per spazi pubblici di quartiere i Comuni sono riusciti a farli attuare, facendoseli cedere gratuitamente nei Piani di lottizzazione via via approvati – anche se, come si è detto, con esiti più o meno buoni dal punto di vista della soddisfacente immagine urbana –, gli standard per i parchi territoriali sono stati, invece, per lo più lasciati disegnati nei Piani Regolatori, senza che venissero tradotti in acquisizioni alla proprietà pubblica, né con espropriazioni, né con cessioni messe a carico degli attuatori di Piani di lottizzazione.
Come sia accaduto è abbastanza intuibile – anche se non giustificabile – perché mentre è ovvio che gli standard “di quartiere” dovessero essere realizzati contestualmente a quella dell’ambito del piano di lottizzazione (salvo piccoli aggiustamenti marginali dell’ordine di frazioni di punti percentuali, se proprio non si fosse riuscito a far tornare la cosiddetta ”ragioneria degli standard”), non è apparso subito altrettanto chiaro che anche gli standard “generali” di PRG dovessero essere anch’essi posti in carico ai piani di lottizzazione o come cessione gratuita diretta se previsti “in situ” dal PRG o come compensazione monetaria per effettuare espropri forzosi altrove o, infine, come cessione di una quota di edificabilità per “perequarli” con la cessione volontaria gratuita da parte delle proprietà dei parchi territoriali previsti altrove dal PRG. Altrimenti, come è accaduto, i Comuni non avrebbero mai potuto farli realizzare autonomamente con espropri da indennizzarsi a carico dei propri magri bilanci.
Il problema sta diventando scottante perché – a seguito di ripetute sentenze nei ricorsi alla Corte Costituzionale succedutesi dal 1968 in poi – le aree sottoposte a vincoli di destinazione ad uso pubblico nel PRG/PGT devono essere acquisite al pubblico entro un determinato termine temporale (che improvvidamente il Parlamento, sempre nel 1968 e sino ad ora, ha fissato nella durata troppo breve 5 anni, per scongiurare ulteriori ricorsi; ma su questo potrebbe anche tornare a decidere diversamente, se solo ce ne fosse volontà e consapevolezza: i vincoli pubblici dei piani urbani di risanamento igienico della legge del 1865 duravano ben 25 anni !) altrimenti il vincolo decade e non è più possibile attribuire loro una nuova destinazione pubblica.
E’ ciò che nel 2014 è accaduto a Milano con l’area dell’ex Trotto S. Siro destinata dal PRG/PGT a verde sportivo pubblico e che – a seguito di un ricorso della proprietà SNAI – è stata trasformata in area privata edificabile, addirittura con una Determina Dirigenziale e all’insaputa dello stesso Consiglio Comunale, il quale avrebbe ben potuto anche optare per una destinazione a verde sportivo privato. Il rischio concreto è che la vicenda possa ripetersi anche per altre ben più vaste aree, quali le attigue piste di galoppo o l’ex Piazza d’Armi o ancora molte altre sparse per l’intera città.
La prima cosa da decidere sarebbe, quindi, se nelle grandi trasformazioni urbane in corso a Milano e che usano gli strumenti “derogatori” al PRG/PGT introdotti dagli Anni ’90 in poi (i Piani di Riqualificazione Urbana o di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile del Territorio -PRU o PRUSST, i Programmi Integrati di Interventi-PII, gli Accordi di Programma-AdP) si vogliono far realizzare sia gli standard minimi “di quartiere” (giardini pubblici, parcheggi, scuole, centri civici, ecc.) sia il verde naturalistico-territoriale, oppure confermare l’obiettivo indicato dai precedenti PRG/PGT in cui i parchi territoriali erano indicati doversi realizzare in zone più periferiche e soprattutto sotto forma di penetrazioni radiali (i cosiddetti “raggi verdi”).
Stefano Boeri nell’ambito di una sua visione sui masterplan di indirizzo sul riuso degli ex scali ferroviari ha suggerito di concentrarne qui una parte consistente con la suggestiva denominazione di “Fiume Verde” . Ciò che dobbiamo, però, avere presente è che così quasi certamente dovremo rinunciare ad attuare molte di quelle previsioni del passato non ancora acquisite alla pubblica proprietà, accettando di vederle trasformarsi in aree edificabili.
Inoltre dobbiamo considerare attentamente se le quantità di spazi pubblici realizzabili in queste nuove aree di trasformazione urbane siano sufficientemente adeguate a consentire sia le dotazioni pubbliche “di quartiere” sia quelle di verde naturalistico o “Fiume Verde” che dir si voglia. Infatti, le due tipologie funzionali non sono interscambiabili a piacere né in termini di obblighi normativi, né – soprattutto – in termini di fruizione pratica: se i nuovi abitanti insediabili non avessero sotto mano sufficienti scuole, giardini o campi giochi per i bimbi l’utenza si riverserebbe su quelle spesso già sovraccariche dei quartieri attigui e sarebbe sprezzantemente irrisorio dar loro ad intendere che potrebbero comunque fare jogging nel grande Fiume Verde naturalistico [6].
Spesso per dimostrare l’opportunità dell’approvazione di questi strumenti di “pianificazione contrattata” al di fuori delle regole del PRG/PGT (e c’è da chiedersi se al di là delle innovativamente accattivanti nuove denominazioni non si celi una riedizione 2.0 su più vasta dimensione territoriale e finanziaria delle deprecate “convenzioni non urbanistiche” degli anni ’50 e ’60), si è addotto il criterio ingannevole del 50% dell’area destinata ad uso pubblico, presentata come una sorta di equipartizione mezzadrile. Metà al pubblico, metà al privato: cosa c’è di più equo?
Non è assolutamente così, perché dipende da quanto si vuol lasciare edificare sull’altra metà privata; lo sanno bene gli immobiliaristi che non valutano il valore a cui pagano le aree a metro quadro di suolo, ma a metro quadro di pavimento commerciale vendibile che ci si può realizzare !
Anzi, è possibile dimostrare che con solo il 50% dell’area pubblica, se si vuol davvero poter realizzare lo standard per abitante/utente di legge bisognerebbe sottoutilizzare l’edificabilità del 50% privato, rispetto a quanto sarebbe possibile fare nel rispetto delle norme urbanistiche di legge con la realizzazione del 60-65% ad uso pubblico. A meno che – come spesso capita in questi “fantasiosamente innovativi” strumenti di “pianificazione contrattata” – il 50% pubblico sia ritenuto il massimo insuperabile e, invece, l’edificazione sul 50% residuo sia una variabile senza alcun limite che non siano la disponibilità economico-finanziarie e le tecnico-costruttive della proprietà. Un po’ come – mutatis mutandis – accaduto nelle deprecate “convenzioni” anni ’50 e ’60 e con l’unica novità delle bizzarrie architettonico-progettuali da archistar che fomentano il consumo opulento degli adoratori di facili novità di immagine, trascinati soprattutto dall’esempio di influencer mediatiche/i, rapper, calciatori, starlettes cinetelevisive altre specie del genere.
Infatti a Citylife e Porta Nuova dei 45 mq/abitante di spazi pubblici (25 di verde e servizi di quartiere+20 circa di parco territoriale) previsti e promessi nel programma urbanistico inizialmente approvato, se ne sono riusciti a realizzare solo 15, altrimenti non ci sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati o avrebbero dovuto essere alti il triplo (600 metri e oltre, come a Dubai e negli Emirati Arabi, che però sorgono nel deserto, con temperature esterne di 60°, e non nel centro di una città europea !).[7]
Ma questo forse importa poco a chi il verde vuole e può goderselo privatamente sul terrazzo di casa e non solo all’attico, ma su ciascun piano e pazienza se per mantenerlo occorrono giardinieri-rocciatori! O a chi gli spazi di incontro socializzante se li può permettere nelle palestre e sale musica e spettacolo in-house!
Altrettanto rischia ora di accadere di nuovo sugli ex scali ferroviari di Farini e Romana, dove si concentrerà la maggior parte dell’edificazione prevista, con densità e altezze inevitabilmente molto simili ai due casi precedenti: se si farà Fiume Verde non ci saranno quasi per nulla spazi di quartiere adeguati; per avere sia verde e servizi di quartiere sia Fiume Verde bisognerebbe ridurre a circa la metà la quantità edificatoria prevista, oppure con queste quantità edificatorie, si potrebbe pensare di realizzare sì abbondanti verde e servizi solo di quartiere (25-30 mq abitante come si conviene ad una moderna città europea), ma assegnando “in perequazione” una quota dell’edificabilità a chi farà realizzare il Fiume Verde altrove, dove l’avevano previsto i “raggi verdi” in passato.
Infine occorre considerare che se la quantità edificatoria realizzabile non è determinata in base al rapporto con lo spazio pubblico che si intende opportuno e necessario realizzare (lo standard, appunto), ma viene prefissata “contrattualmente” tra le parti, si possono determinare indici edificatori fondiari molto elevati che impediscono di poter scegliere tra diverse alternative tipologiche di edifici più o meno alti ed obbligano, invece, ad adottare soluzioni a torri molto alte, rispetto a cui le “invenzioni” progettuali di archistar anche molto fantasiosi possono fare ben poco sull’incombenza e la dissonanza dai tessuti edilizi dei quartieri circostanti, sia che i nuovi edifici li si ponga al centro dei nuovi comparti sia, ancor peggio, sui bordi a racchiudere un “cuore verde”, sorprendente tesoro per appassionati cultori di giungle urbane, come testimoniano le stesse “esercitazioni progettuali” delle archistar autocraticamente convocate dalla proprietà degli ex scali ferroviari.
Senza una riflessione consapevole sugli esiti di densità fondiarie incontrollate[8], ci si ritrova nella condizione illustrata dall’immagine qui riportata.
Nella prima riga in alto a sinistra, ogni vicenda urbana che si svolga sulle aree esterne agli edifici si ripercuote quasi immediatamente sulla loro vita interna, nella terza soluzione della seconda riga lo spazio esterno inedificato è totalmente recluso dall’edificato e ciò che vi accade è quasi impermeabile a ciò che accade negli altri spazi inedificati pubblici o privati di aree vicine; nell’ultima soluzione a destra nella terza riga ciò che accade sullo spazio inedificato è quasi completamente non percepito dalla vita interna all’edificio (tranne, forse, che per il piano terra e per quelli più bassi).
Ciò non legittima, tuttavia, che così si possa collocare sull’area una quantità edificatoria a piacere: se, infatti, l'Indice fondiario è molto elevato e,quindi, le altezze si raddoppiano o triplicano, l'unica soluzione praticabile è obbligatoriamente quella in basso a destra e ciò non certamente per scelta tipologico-progettuale di un pur fantasioso progettista !
Tradotto in chiave odierna: se sugli ex scali FS l'indice edificatorio medio di 0,65 mq/mq si concentra sugli ex scali Farini e Romana sino a raggiungere 0,80-0,90 mq/mq (prossimo a quello di Citylife e Porta Nuova) non solo su quelle aree non si possono realizzare contemporaneamente Fiume Verde e adeguati verde e servizi di quartiere (l'uno impedisce l'altro persino con 0,65 mq/mq, se si vogliono almeno 20 mq/ab. di Fiume Verde/alias parco territoriale-naturalistico + 25-30 mq/ab. di verde-servizi di quartiere, altrimenti i nuovi abitanti si riverseranno sui servizi già scarsi dei quartieri attigui), ma si rendono obbligatori edifici-torre di 150-200 m. di altezza, molto dissonanti da quelle dei contesti attigui, sia che li si collochino al centro o sui bordi delle aree come dimostrano gli "esercizi progettuali" degli archistars convocati da Boeri su impulso della proprietà FS.
Anche a voler ammettere l'opportunità di alcuni Down Town District ad altezze e densità eccezionali (e forse li abbiamo già fatti con Citylife e Porta Nuova, anche se probabilmente nei posti e nei modi sbagliati) avrebbe senso ripetere quel modello insediativo diffusamente per tutto il corpo urbano ?
Come ho dimostrato occore da chi sostiene che, purché una quota almeno paritaria del plusvalore torni al Comune (vedi Roberto Camagni, Il mistero del “contributo straordinario, 5 febbraio 2019, Arcipelago Milano), qualunque modalità e conseguente forma urbana derivante da quantità edificatorie e di spazi pubblici proposti dalla proprietà fondiario-immobiliare vada bene. A Milano è andata così (sia pure per via indiretta) con ex Fiera/Citylife (tutto il volume necessario a ripagare i 250 Milioni di € di debito imprevisto sul nuovo polo di Rho/Pero; se poi l'acquirente ti paga il doppio tanto meglio per la proprietà fondiaria, ma il volume non si ridiscute). E' lo stesso criterio usato a Roma da Marino/Caudo per giustificare la volumetrie su ex Fiera/EUR (180 Milioni di debito gestionale su Nuova Fiera) o la scelta del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle: ti dò tutta la volumetria accessoria necessaria a pagare i debiti o le opere viabilistico-ambientali in un'area che di per sè sarebbe inadatta, ma che serve a salvare l'Ente Fiera o Parnasi dal fallimento. Ciò che viene sacrificato alla logica del tornaconto economico-finanziario è una visione di indirizzo pubblico da parte del Comune su localizzazioni, quantità, densità e altezze degli edifici, quantità e ruolo dello spazio e dei servizi pubblici. Insomma, mi pare ci sia un rapporto di reciprocità causa/effetti che mi pare taluni insistano a voler negare o sottovalutare...
Bisogna quindi tornare a mettere in campo la priorità di una visione di indirizzo pubblico delle trasformazioni urbane che si annunciano sempre più diffuse nelle nostre città, in modo che sulla base di congrui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici sia possibile aprire un confronto con la collettività insediata anche su tipologie e forme degli edifici nei rapporti con gli spazi circostanti pubblici e privati e, a partire da ciò, tornare a mettere in campo una discussione sulla possibilità di accesso e fruizione del bene casa e delle sue dotazioni pubbliche anche per i ceti economicamente esclusi dalle tendenze speculative del mercato immobiliare. Insomma il ritorno in campo (in forme quanto si vuole più incisive e adeguate alle mutate condizioni socio-economiche e ambientali) di una rinnovata concezione di urbanistica pubblica.
Note
[1] Vedi: Roberto Camagni, Il mistero del “contributo straordinario, 5 febbraio 2019, Arcipelago Milano: “gli oneri pagati per prestazioni pubbliche in Italia rappresentano una quota quasi irrisoria delle rendite (fra il 3 e il 5% del valore del costruito, contro il 28-30% della Germania), e gli effetti si vedono bene: le trasformazioni arricchiscono le rendite ma lasciano sul terreno solo briciole per la collettività.”
[2] Cfr. S. Brenna, La Strada Lombarda, Gangemi, 2010, p. 116, Schizzi di studio delle possibilità di realizzare le volumetrie concesse dal Comune di Milano sull’area delle ex Varesine con tipologie compatte a sviluppo orizzontale con riferimento a progetti di G. Canella e di P. Chemetov
[3] Non è ovviamente un comportamento solo “milanese”: avendo frequentato i Laboratori partecipativi sul riuso dell’ex Fiera di Roma all’epoca della Giunta Marino/Caudo (proprio per interesse all’analogia con la vicenda a me ben nota di ex Fiera di Milano), quando proposi che se proprio non si voleva ridurre ragionevolmente l’edificabilità (fissata solo per far fronte al deficit gestionale di 180 Mln di € a Nuova Fiera; come a Milano coi i 250 Mln di debito per le pazzie di Fuksas nella costruzione di Nuova Fiera, per altro ripetute con esito analogo al Centro Congressi Nuvola all’EUR!) li si obbligasse almeno a concentrare volumetrie terziarie in altezza verso la Cristoforo Colombo (larga 80 metri) ed edilizia residenziale bassa verso le case preesistenti di via dell’Accademia, la rappresentante di Caudo mi fermò dicendo che “non si può condizionare così tanto la libertà imprenditiva e progettuale del futuro acquirente”. L’assessore Berdini ne aveva fatto dimezzare l’edificabilità; ora con la Giunta Raggi/Montuori/ M5S si è ventilato un Piano Casa da 1.000 abitanti che avrebbe di nuovo raddoppierebbe la volumetria (se ne è sentito parlare anche nelle intercettazioni di De Vico): chiaramente un espediente (condito con l'uzzolo di assurdi campetti sportivi) per vendere poi il mallopo ad altri, essendo ciò completamente fuori dagli obiettivi istituzionali di Ente Fiera.
[4] Il Regolamento di attuazione della Legge, che, pure in quei drammatici frangenti, il Ministero provvederà ad elaborare tra il settembre del 1942 e il marzo del 1943, finirà in un polveroso scantinato dove, a metà degli Anni Novanta, lo ritroverà un sagace ricercatore. Cfr, P.G. Massaretti, 1 marzo 1943: l’ultima ipotesi di articolato del “Regolamento di attuazione” della legge urbanistica, in URBANISTICA Quaderni (a cura di L. Falco), a. I, n. 6, pp. 94-104, INU, Roma 1995
[5] Sorvolo sul fatto che dal 2002 è stata anche la prima e per ora l'unica regione tornata ai 18 mq/ab. del DM 1444/68, dimostrando così che la Lombardia si pretende più ricca della Baviera, ma non sappia pretendersi altrettanto civilmente europea! Si potrebbe ancora comprendere che 18 mq/ab. fossero ritenuti sufficienti in comuni di qualche sperduta valle prealpina o dell’Oltrepò pavese, ma certo non nella conurbazione da Milano a Brescia e oltre, dove si dovrebbe aspirare a 30-50 mq/abitante di spazi pubblici.
[6] E’ un po’ ciò che rischia di accadere nel piano di riuso dell’ex Falck di Sesto S.G. dove i nuovi abitanti non avranno scuole, giardini e parchi giochi sufficienti, ma in caso di gravi malattie oncologiche o neurologiche avranno l’Istituto Neurologico Besta e l’Istituto Nazionale Tumori proprio dietro casa. Auguri !!!!
[7] Vedi M. Giannattasio, Stefano Boeri: «Vi svelo come ho avuto l'idea del Bosco Verticale».L'archistar che ha rivoluzionato la skyline della zona di Porta Nuova racconta di quando fece il primo disegno, tra i grattacieli di Dubai e sotto il sole cocente del deserto, in La Repubblica/Milan o, 7.3.2019, https://milano.corriere.it/19_marzo_07/ossessione-verdeio-archistreetcoi-piedi-terra-d6a36e08-4110-11e9-8d4c-9b3b6b114344.shtml?fbclid=IwAR0FaVudE-iXB8zCkZNlGj9CEaflted4tVHIaOlgZzqRDg3mZ74uLh5F1Is
[8] Cfr. Luigi Falco, L’indice di edificabilità, UTET,Torino,1999, p. 111:“Può essere utile, a partire dall’Indice di edificabilità fondiaria, e cioè da una definita immagine dell’insediamento residenziale e della sua morfologia (pur con quella approssimazione che è rappresentata dal definire l’immagine attraverso il solo Ief), arrivare all’Indice territoriale e alla quantità complessiva di aree pubbliche connesse a quell’Ief.”, anziché partire da una prefissata ed immotivata fissazione della Sp, ad esempio quando va bene al 50% della St, come oggi spesso è immotivatamente d'uso (a Citylife e Porta Nuova è stato realizzato 1/3 di quanto promesso!).