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Gian Antonio Stella
La scuola: per che cosa?
16 Gennaio 2017
de homine
Molto interesse, nei giornali di oggi, per la scuola. Ma i
Molto interesse, nei giornali di oggi, per la scuola. Ma i

columnist più gettonati, e i giornali più letti, aiutano a scendere sempre più in basso. Articoli di Ernesto Galli della Loggia, Gian Antonio Stella, Francesca Barbieri. Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2016, con postilla

Corriere della Sera
LA GRANDE CRISI DELLA SCUOLA
di Ernesto Galli della Loggia

Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia.

La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione.

Allo scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere (c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano rappresentare.

Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di tutti i gradi dell’istruzione.

È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante, credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice. Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.

Tutto ciò, ripeto - dalla nascita dello Stato italiano fino a un dipresso al 1960 - è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.

È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla «selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere «libera» e di «contare».

Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato.

A partire comunque dalla metà dei Sessanta, in ognuno di questi modi la scuola e l’istruzione divennero per anni e anni il luogo del più aspro e violento conflitto sociale, perfino la palestra per ambigui esercizi di sapore eversivo. Per la politica dunque un terreno minato: di cui essa cominciò ad avere paura, sempre più paura. L’incubo di ogni governo, e in specie di ogni ministro con sede a viale Trastevere, divenne quello di avere scuole e università occupate e studenti e professori in piazza: con esiti sempre incerti e spesso drammatici. Unico risultato per lui certo l’impopolarità.

Fu così che alla lunga cominciò a profilarsi la svolta. La politica decise che era meglio sgomberare il campo. Nella grande crisi della politica che a partire dagli anni Ottanta ha annunciato e poi accompagnato massicciamente la globalizzazione - con la conseguente ritirata della politica stessa e dello Stato dalla società - l’istruzione è stata la prima trincea ad essere abbandonata. La prima non a caso. L’abbandono segnalava che stavano ormai venendo meno partiti e culture politiche nutrite di idee e di valori forti. In grado di esprimere in qualche modo un progetto complessivo di società, di credere realmente in un tale progetto, e su tale base addirittura di assumersi il compito di trasfonderne il senso nella formazione delle nuove generazioni, dirigendo contenuti e modi di questa attraverso la scuola. Tutto ciò doveva ormai essere considerato impossibile.

Specialmente in Italia, dove in quel fine secolo gli attori politici e la sfera stessa della politica erano sottoposti a un massiccio processo di delegittimazione che si sarebbe sempre più accentuato. E dove gli effetti dell’avanzata della modernità - quella modernità capace per sua natura di «sciogliere tutto ciò che è solido», secondo la profezia di Marx - erano resi ancor più dirompenti dal non trovare alcun ostacolo in una società dall’antico carattere «gelatinoso», priva di una radicata tradizione cultural-nazionale sul modello francese della quale le istituzioni si considerassero tutrici.

Priva di qualunque fiducia non solo nelle proprie capacità direttive, ma anche nel senso storico che poteva ancora avere una tale direzione, la politica italiana da allora in poi ha abbandonato dunque la scuola. Lo ha fatto consegnandone velocemente e progressivamente tutti gli spazi a due «dispositivi», che poi non erano che altrettanti feticci della modernità: la «tecnica» e l’«autonomia».

La tecnica nelle sue più varie forme e accezioni: dal vastissimo campionario delle prescrizioni circa le modalità presunte «scientifiche» d’insegnamento e di accertamento dei risultati degli studenti, alle procedure di reclutamento e di selezione del personale sempre più dominate dall’impersonalità efficientistica del questionario, del test, ovvero da sistemi preformati di autovalutazione, per finire con la panoplia di strumentazione telematica (lavagne elettroniche, computer, e quant’altro) somministrata in dosi tanto massicce quanto dagli esiti didatticamente e culturalmente quasi sempre nulli.

Dall’altro canto l’autonomia: da quella degli insegnanti a quella degli istituti. La quale autonomia, al di là delle virtuose chiacchiere democratiche, in realtà ha corrisposto a null’altro che al desiderio da parte del centro politico-ministeriale di spogliarsi - complice il più sciagurato dei regionalismi - di ogni responsabilità, in certa misura perfino finanziaria, riguardo l’intero insieme dell’istruzione. Che così ne è uscito inevitabilmente frantumato, segmentato per linee di divisione geografica e sociale nonché di capacità economiche, drammaticamente diviso tra Nord e Sud, in balia delle più casuali e incontrollate capacità (o incapacità) di questo o di quello. Privata della bussola di una direzione politica unitaria la nostra scuola si presenta oggi, così, come una mirabile accozzaglia di progetti, iniziative, corsi, attività, offerte formative che con i più vari obiettivi spaziano sui più vari ambiti.

A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti», assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale».

Così come è stata cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha cambiato realmente nulla.

Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica» apposto al sostantivo «istruzione» - che fino a qualche tempo fa, ma ora non più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per l’appunto a quell’ambito - si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del congedo della politica dall’istruzione stessa.

È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo - si può immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere perseguito - di fare di essa la matrice del carattere e della personalità.

La scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura. Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente con un computer.

Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci riesce nemmeno al terzo tentativo

Corriere della Sera
UN ALUNNO SU DUE CAMBIA PROF DI SOSTEGNO
di Gian Antonio Stella

Vengono prima i diritti degli alunni disabili o gli interessi dei docenti fuori piazza? Domanda ustionante. Ma va fatta: è accettabile che il 43% degli scolari più fragili sia scosso dal trasloco dell’insegnante di «sostegno»? Che i quindici bimbi autistici o down d’una scuola d’infanzia laziale vedano ruotare in tre mesi 27 supplenti? O che 18 su 18 dei maestri e professori «specializzati» nominati in un altro istituto «diano buca» obbligando il dirigente a prendere supplenti magari volenterosi ma ignari della materia?

Il nuovo dossier di Tuttoscuola.com da oggi online è ancora più duro di quello sulla folle giostra di docenti anticipato dal Corriere la settimana scorsa. Perché quel tourbillon destabilizzante di oltre 250 mila insegnanti (il triplo del solito) per due milioni e mezzo di bimbi, adolescenti e ragazzi colpiti da qualche sostituzione, era perfino meno grave, pare impossibile, di quanto è denunciato nell’ultimo rapporto. Che parla di «tsunami».

Dicono i numeri, elaborati dalla rivista di Giovanni Vinciguerra, che nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ci sono oggi 233 mila alunni disabili che sulla carta possono contare, tra stabili (96.480) e in deroga (41.021: una enormità che andrebbe sanata), su 137.501 docenti di sostegno che costano oltre 5 miliardi l’anno di soli stipendi.

Un investimento vitale. Per capirci: sono più numerosi dei carabinieri e il doppio dei medici. Bene: 60 mila di quei docenti negli ultimi tre mesi hanno cambiato posto e in automatico oltre 100 mila di quei 233 mila alunni, con effetti spesso traumatici, hanno perso il loro punto di riferimento.

Potrebbero essere, quei docenti, il fiore all’occhiello della nostra scuola, che spesso arranca in ritardo sugli altri ma in questo caso fu tra le prime al mondo a capire, nel ‘77 quando le «differenziali» furono abolite, l’importanza dell’integrazione. Potrebbero, se troppo spesso il «sostegno» non fosse visto come uno dei comparti del «postificio» scolastico. Delegato a erogare buste-paga (sia pur modeste e precarie) più che a crescere i cittadini di domani.

Lo conferma una tabella del dossier Tuttoscuola. Dove si spiega che gli alunni con disabilità al Mezzogiorno sono 89.412 contro i 96.163 del Nord ma possono contare su oltre 11 mila docenti di sostegno in più. Ed è già una ripartizione più equilibrata di un tempo, quando nel Mezzogiorno era concentrata, come nel 2007, quasi la metà (il 47%) di tutto il personale di sostegno. Contro una quota di disabili otto punti più bassa. Per carità, quello squilibrio va anche a supplire altre carenze. Però...

Certo è che l’equivoco sul senso del «sostegno», ha pesato in modo esorbitante anche questa volta. Ricorda infatti il dossier che, come sanno tutti i genitori toccati dall’handicap, «i danni della discontinuità didattica sono elevati all’ennesima potenza per gli alunni con disabilità: se l’interruzione della relazione con il docente è in generale negativa, per un alunno disabile, che ha un grado di dipendenza dal docente molto maggiore (specie nel caso di disabilità intellettiva), può essere devastante. Anche perché, nel suo caso, è molto più complesso e lungo stabilire la relazione educativa con l’insegnante a lui dedicato, che richiede una reciproca conoscenza e competenze specifiche del docente, e quindi più deleterio interromperla». Quando arriverà un nuovo docente, «spesso dopo un periodo in cui l’alunno con disabilità è rimasto senza una figura di riferimento, tutto dovrà necessariamente ripartire dall’inizio. Incontro, attese, emozioni, aspettative, paura, rischio di abbandono...».

Può essere un calvario, sferza il dossier, «trovare il supplente annuale da nominare, in una sequenza di supplenti temporanei che si avvicendano, a volte per mesi, in attesa dell’arrivo dell’“avente diritto”, come lo definisce l’ineffabile terminologia burocratica (che non si sofferma sul vero “avente diritto”, la persona disabile che ha il diritto di studiare nelle migliori condizioni possibili». Qui è la differenza, sottolineava l’altra sera a «Zapping» Sergio Govi, già dirigente scolastico ed esperto di problematiche educative: «Mentre maestri e professori hanno (legittimi) “interessi” da difendere, gli studenti hanno “diritto” a una scuola migliore». E il conflitto tra questi «legittimi interessi» di chi insegna e i diritti di chi studia pesa. Come un macigno.

Tanto più se la giostra di docenti riguarda, accusa il rapporto, i disabili: «Per capire gli effetti di questa girandola diabolica, occorre tenere presente che i docenti di sostegno che aspirano a una supplenza sono iscritti sia in una graduatoria provinciale (per le supplenze annuali) sia in diverse graduatorie di istituto (per le supplenze brevi). Un docente nominato su supplenza d’istituto può essere chiamato altrove per supplenza annuale; il supplente che lo sostituisce può essere chiamato a sua volta per supplenza annuale in un altro istituto, e così via, in un gioco dei quattro cantoni che a volte dura due o tre mesi prima di stabilizzarsi. Ma al peggio non c’è mai fine: la ricerca del docente di sostegno supplente che avrà il posto fino alla fine dell’anno scolastico, che può durare mesi, ha sempre esito positivo? Purtroppo no: e allora, sembra un paradosso, l’alunno disabile viene affidato a un docente non specializzato». Cosa piuttosto frequente.

Basti ricordare, appunto, i due casi citati. Il primo lo racconta Manuela Scandurra, dirigente scolastica della scuola «Karol Wojtyla» di Palestrina, e riguarda alunni fra i tre e i sei anni: nell’infernale girotondo «i miei 15 bambini con disabilità (parliamo di disabilità motorie, intellettive, sindrome di Down, sindromi autistiche di diverso grado) tornati in classe dopo le vacanze estive, hanno visto in pochi mesi 27 volti nuovi, senza contare i nove docenti di sostegno dell’anno scorso, per i bambini che erano già nella nostra scuola». Totale: trentasei docenti in pochi mesi.

Antonella Arnaboldi, dirigente dell’Istituto «San Nilo» di Zagarolo, conferma: «Quest’anno abbiamo nominato 18 docenti di sostegno attraverso la “chiamata diretta” ma nessuno di loro ha lavorato con continuità perché hanno ottenuto tutti e 18 l’assegnazione provvisoria nella loro provincia». Tutti. «Siamo dovuti ricorrere a supplenti senza specializzazione nel sostegno». Evviva la «continuità didattica»… Ma l’anno prossimo, almeno, andrà meglio? No, risponde lo studio. Salvo miracoli no.

Il Sole 24 Ore
SCUOLA-LAVORO, AUMENTA LA DISTANZA
Francesca Barbieri

Oltre 400mila giovani «overeducated»: sono il 18% dei diplomati e il 26% dei laureati

Due record negativi che fanno un paradosso. Da un lato, siamo fanalino di coda in Europa per numero di laureati: solo il 25,3% degli italiani fra i 30 e i 34 anni, secondo Eurostat, ha un titolo accademico in tasca, rispetto alla media del 38 per cento. Dall’altro, i pochi che riescono a raggiungere il traguardo faticano a trovare un lavoro o lo ottengono non in linea con il proprio curriculum: appena il 53,9% è occupato a tre anni dal titolo (rispetto all’82% della Ue) e i laureati rappresentano la fetta maggiore dei giovani “overeducated”, quelli cioè troppo istruiti rispetto alle competenze necessarie per svolgere le mansioni assegnate.

Dal report realizzato dal centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore risulta che i “sovraistruiti”, almeno nei primi anni successivi al conseguimento del titolo, sono più di 400mila su una platea di 1,8 milioni di lavoratori, considerando 1,1 milioni di laureati tra i 25 e i 34 anni e 700mila diplomati tra i 20 e i 24. Tra i primi si riscontra la maggior diffusione della “overeducation”, con un lavoratore su quattro in questa condizione (per un totale di quasi 300mila giovani), mentre si scende abbondantemente al di sotto del 20% per i diplomati (117mila).

Dai numeri emerge che il legame con la crisi economica è stretto: il tasso di disoccupazione è salito per i diplomati dal 17,9% del 2008 al 29,8% del 2016 e per i laureati dal 9,4% al 14,1 per cento.
Per gli occupati l’iperqualificazione è passata dal 13,9% al 17,6% per i diplomati e dal 23,7 al 25,6% per i laureati: un fenomeno più frequente al Nord, dove si concentrano le maggiori chance di lavoro e dove dunque si hanno più possibilità di “adattarsi”, per scelta o necessità, a lavori non allineati al proprio bagaglio di conoscenza.

E a livello di genere si registra una maggior quota di “overeducated” maschi tra i diplomati; situazione opposta tra i laureati, dove sono le donne che faticano di più a mettere a frutto i propri studi.

Non tutti gli indirizzi poi “soffrono” con la stessa intensità del fenomeno: la maggiore eterogeneità si riscontra nelle lauree, dove tra il massimo del 42% di “overeducated” tra i laureati in discipline umanistiche e il minimo del 9% di ingegneri e architetti si passa per il 12% dei medici e il 32% di coloro che hanno conseguito un titolo terziario nel campo delle scienze sociali.

Una quota leggermente più bassa degli “overeducated” laureati (22%, pari a 220mila lavoratori) risente inoltre di un disallineamento tra la posizione occupata e il percorso di studi (per esempio, l’archeologo che si occupa di vendite): anche in questo caso il gap maggiore si riscontra tra i laureati in materie umanistiche (46%), mentre per farmacisti, medici e infermieri l’abbinamento studi–lavoro è quasi perfetto (appena l’8% di mismatch).

Il gap tra tipologia di laurea e professione svolta è poi certificato dal consorzio interuniversitario AlmaLaurea: secondo l’ultimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati, solo per il 38% la laurea è richiesta per il lavoro svolto, la metà dei giovani occupati a cinque anni dal conseguimento del titolo utilizza in misura ridotta o per nulla le conoscenze acquisite nel percorso di studi (con punte di oltre il 60% tra i laureati in materie umanistiche).

«Paese paradossale il nostro - commenta Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea -, che soffre di una duplice e opposta patologia: di “undereducation” e al contempo di “overeducation”. Anche nei settori strategici di innovazione, internazionalizzazione e managerialità la percentuale di laureati è di poco superiore al 17%, rispetto alla media europea del 24,2%». Secondo Dionigi, sono tre gli attori in causa: «Le università, chiamate a formulare corsi parametrati sulla domanda e non sull’offerta e a innovare i corsi contaminando humanities e tecnologie secondo le specificità della cultura del Paese; le imprese, chiamate ad assumere e valorizzare i laureati; la politica, chiamata a favorire l’occupazione e a riconoscere il merito».

postilla
Non è male che la stampa si occupi della scuola. Difendere il ruolo formativo dell'istituzione scolastica è essenziale in una società in cui la formazione dei cervelli è svolta da quella vasta macchina demolitrice delle intelligenze che va dai "persuasori occulti" dalla Renault o del Mulino bianco agli imbonitori tipo Vanna Marchi o Matteo Renzi.
Il disastro (e il tradimento) si manifestano quando di scopre che gli intellettuali ospitati dalla grande stampa non si pongono il quesito fondamentale: l'istituzione scolastica ha il compito di formare le menti necessarie per lubrificare le rotelle arrugginite di questo sistema economico sociale che ci sta portando alla rovina, oppure quello di formare menti capaci di uscire dalla palude ed orientare le loro accresciute capacità a cambiare questo sistema? Siamo orgogliosi di aver pubblicato (insieme al
manifesto) l'unico rilevante articolo che affronti il problema dall'angolatura che a noi sembra giusta, e utile: Piero Bevilacqua, Contro l'alternanza scuola-lavoro

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