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Flavia Martinelli
La pianificazione strategica
6 Aprile 2004
Gli attrezzi dell'urbanista
La relazione introduttiva di Flavia Martinelli al Seminario internazionale La pianificazione strategica in Europa. Metodologie ed esiti a confronto, organizzato dal DipartimentOasi dell’Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Facoltà di Architettura, Reggio Calabria, 27 novembre 2003.

1. Che cosa si intende per pianificazione strategica

Le origini

Il termine “pianificazione strategica”, come spesso accade è ormai diventato di uso comune nel linguaggio urbanistico e non, ma non sempre con l’appropriato livello di precisione/consapevolezza. E’, in effetti, un’etichetta ormai applicata in modo disinvolto ad una varietà di esperienze.

L’origine del termine strategia va ricercato nella scienza militare, assieme a quello di tattica. Come sintetizza Salzano (2003):

"La strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra; la sua missione è raggiungere il fine ultimo. La tattica è finalizzata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia.

"La strategia è la guerra, la tattica è la scaramuccia, la battaglia, la ritirata. Per vincere una guerra (strategia) si può anche perdere una battaglia o ordinare una ritirata (tattica)."

La nozione di strategia è stata poi adottata in economia aziendale. Le imprese definiscono strategie di lungo periodo per raggiungere precisi obiettivi aziendali, attraverso misure ed azioni di breve periodo. La pianificazione strategica è ormai pratica consolidata nelle aziende moderne e tecnica basilare nelle scuole di business administration.

Dall’ economia aziendale il concetto è stato poi traslato alla pianificazione territoriale. A partire dagli anni ’80, e soprattutto negli anni ’90, in varie città d’Europa sono state sperimentate nuove procedure di pianificazione urbana, che travalicano gli strumenti urbanistici tradizionali di tipo vincolistico e legati essenzialmente alla destinazione d’uso dei suoli (Piano Regolatore Generale, Master Plan, ecc.) e vengono più o meno esplicitamente designate con il termine di pianificazione “strategica”. Con il nuovo millennio, il Piano Strategico ha fatto la sua comparsa anche in Italia.

Definizioni e caratteristiche della pianificazione strategica

Da allora sono state fornite innumerevoli, anche molto diverse, e spesso fuorvianti definizioni di pianificazione strategica territoriale (cfr. Salzano 2003). Qui di seguito ne riporto due che mi sembrano le più aderenti alla concezione attuale di PS.

"I piani strategici agiscono attraverso la costruzione ampia di un impegno collettivo che incorpora la molteplicità dei centri decisionali a partire dal basso e la fa convergere su una visione socio-politica della città e del suo territorio proiettata in un futuro anche lontano, ma realizzabile sulla base di partenariati, di risorse, di tempi individuati, di interessi convergenti, del monitoraggio dell’efficacia dei tempi di attuazione" ( Spaziante 2003, p.42)

"… approcci di pianificazione che si riferiscono all’area vasta: che aspirano a definire grandi indirizzi di sviluppo (economico, sociale e ambientale) di un territorio integrato (urbano/periurbano/rurale) e a renderne le dinamiche insediative più coerenti con i principi dello sviluppo sostenibile (competitività/solidarietà/cura dell’ambiente) attraverso modelli di governance capaci di costruire un’idea di cittadinanza metropolitana certamente rispettosa delle identità locali, ma più cooperante e lungimirante". (Gibelli 2003, p. 62)

Una differenza fondamentale della pianificazione strategica territoriale, rispetto a quella militare o aziendale, tuttavia, va subito segnalata. A differenza dell’ambito militare o aziendale, nella pianificazione territoriale non vi è centralizzazione dell’autorità e le decisioni non possono essere “imposte”. In un regime democratico e in una società ad economia di mercato con una pluralità di attori, qualunque strategia deve in qualche misura basarsi sul “consenso” (ci si può interrogare sulle somiglianze con la pianificazione “indicativa” del periodo corporativo).

"Ma assumere una prospettiva di lunga durata in un campo di decisioni diverso da quello militare (dove vige un regime monocratico) comporta la necessità di assicurare alle decisioni un consenso ampio, che vada al di là delle oscillazioni della politica e quindi possa garantire la continuità del processo. Ecco allora che, dove si opera in un ambito caratterizzato da un regime democratico, il concetto di strategia deve arricchirsi di quello di consenso". (Salzano 2003)

Al di là delle diverse definizioni vi è, tuttavia, una certa convergenza sulle principali caratteristiche che connotano la pianificazione strategica in ambito territoriale – e la distinguono dagli strumenti urbanistici tradizionali – alcune delle quali strettamente interconnesse (cfr. anche Fera 2002, Gibelli 2003):

a)il carattere negoziato e, possibilmente, partecipato – piuttosto che autoritario e prescrittivo – del piano, attraverso la costruzione di una “visione” del futuro condivisa dal maggior numero di attori locali;

b)il carattere operativo – cioè orientato alla promozione di azioni e progetti – piuttosto che passivo e vincolistico (si “promuovono” progetti, piuttosto che “concedere” licenze);

c) il carattere flessibile – cioè suscettibile di aggiustamenti e revisioni – invece che rigido;

d)l’approccio integrativo (economia, società, ambiente, cultura), che non solo supera e ricompone il tradizionale approccio settoriale della pianificazione, ma mette anche in relazione una pluralità di attori;

e)la funzione di quadro strategico di lungo periodo entro il quale assicurare coerenza ai singoli progetti;

f) la partnership pubblico-privato nella promozione (e nel finanziamento) degli interventi;

g)la dimensione territoriale di area vasta, cioè sovracomunale, che superando “gli eccessi del localismo”, rilancia la necessaria concertazione tra livelli di governo diversi (Gibelli 2003);

h)l’adesione ai principi dello sviluppo sostenibile, che comporta tra l’altro l’introduzione di valutazioni anche di tipo qualitativo (qualità della vita, sviluppo umano, conservazione delle risorse non rinnovabili, etc.).

La dimensione “mistica” del PS

Se queste sono le caratteristiche salienti della pianificazione strategica contemporanea. Vediamo quali sono le sue funzioni e i suoi scopi. Gli obiettivi della pianificazione strategica, possono essere analizzati secondo una duplice ottica. Da una parte vi sono gli obiettivi specifici del piano, generalmente articolati in funzione delle specificità dell’area e della “visione” del suo futuro: la riconversione, il rilancio, l’internazionalizzazione, il recupero, la competitività, l’innovazione, la decongestione, la qualità della vita, etc. Da un altro punto di vista, però, il piano strategico va inteso come un processo, non solo tecnico ma anche e soprattutto sociale. Tra gli obiettivi più ambiziosi della pianificazione strategica – intesa come processo – va menzionata la costruzione o il rafforzamento del capitale sociale locale, attraverso un processo di apprendimento collettivo. Anche di capitale sociale si poarla sempre più spesso e non sempre a proposito. Secondo Mutti (1998, p.13), il capitale sociale:

… consta di relazioni fiduciarie (forti e deboli, variamente estese e interconnesse) atte a favorire, tra i partecipanti, la capacità di riconoscersi e intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente e di cooperare a fini comuni.

Questo processo di costruzione e/o rafforzamento del capitale sociale dovrebbe avvenire attraverso la promozione della comunicazione, della partecipazione, della fiducia e della cooperazione, ovvero attraverso la mobilitazione di tutta la società civile attorno a quella “visione” condivisa del futuro locale che si configura nel piano strategico (Camagni 2003). Il piano strategico, inoltre, proprio attraverso la visione condivisa del futuro collettivo, può contribuire a creare/rafforzare un senso di identità territoriale nella cittadinanza. Contribuisce a rigenerare la fiducia nella nella pianificazione e quindi nell’intervento pubblico in generale, come garante dell’interesse collettivo e della democrazia (Albrechts et al. 2003). Può promuovere, infine, nuove forme di governance[1], intesa come gestione “dal basso”, attraverso le quali è la città intera e non più la sola amministrazione locale al centro dei processi di decisione e di trasformazione territoriale (Salzano 2003, Donolo 2003).

Questi obiettivi di costruzione di “capitale sociale” del piano inteso come processo sono, come ho detto, estremamente ambiziosi. Su questa sorta di visione “mistica” del piano si sta costruendo una vera e propria retorica della pianificazione strategica. Il piano assume funzioni “taumaturgiche” (Gastaldi, 2003). Ed è proprio all’interno di questa visione mistica del piano che si annidano anche i principali nodi. Per affrontarli è utile fare un breve riepilogo del contesto storico nel quale emerge la pianificazione strategica.

2. Alcuni nodi critici

Il contesto storico

La nuova stagione di pianificazione flessibile e strategica nasce e si sviluppa in Europa in un momento storico – gli anni ’80 – che vede il paradigma neo-liberale sostituire quello keynesiano-fordista e l’intervento pubblico contrarsi e ritrarsi in tutti i campi, incluso quello della pianificazione. E’ un periodo di profonda crisi della politica, durante il quale si sgretola il patto corporativo che aveva garantito stabilità al regime keynesiano-fordista. In particolare, la politica dei partiti – che erano profondamente radicati nelle classi sociali che rappresentavano e poteva esplicarsi su strategie di lungo periodo – è stata sostituita da un sistema di leadership fortemente personalizzata e da strategie – mandati – di breve periodo: risultati a tutti i costi. Si accorciano tempi della politica e si ricerca spesso il facile e demagogico successo.

La dimensione “globale” dello spazio economico, che contribuisce ad accentuare la concorrenza tra luoghi, da una parte, e a modificarte il ruolo dei diversi livelli di governo, dall’altro. E’ un periodo di re-scaling istituzionale, in cui alla globalizzazione crescente di alcuni attori (le grandi transnazionali) e istituzioni (OMC, UE, etc.) si contrappone una perdita di legittimità dei governi nazionali e un forte rilancio dei governi locali.

E’ anche un periodo di crisi della pratica (della gestione) urbanistica. Si è verificato uno scollamento tra tempi e approcci della pianificazione urbanistica tradizionale e tempi e dinamiche delle trasformazioni territoriali. Queste ultime sono molto più rapide e si caratterizzano per modalità affatto diverse da quelle previste dall’urbanistica tradizionale (città non più in crescita ma indeclino, urbanizzazione diffusa, aree dismesse, nuove modalità di comunicazione, etc.), a fronte di un peggioramento di alcune vecchie dinamiche (congestione dovuta al traffico automobilistico, immigrazione, peggioramento della qualità urbana, etc.). La funzione del piano tradizionale di regolare e contenere, attraverso un sistema di vincoli si è così svuotata. Questo scollamento ha portato ad una pratica urbanistica “in deroga” nei casi migliori e all’abusivismo più selvaggio nei casi peggiori.

E’ contro questo sfondo che si può leggere l’evoluzione della pianificazione strategica europea e si possono identificare le differenze di “generazione”, in particolare – come ha messo in luce Gibelli (1996) – tra la generazione dei PS degli anni ’80 (USA, Inghilterra, Olanda, Francia, Spagna) nei quali prevalgono la componente deregolativa e la logica aziendalistica, attorno ai grandi interventi di rivalorizzazione urbana, e la generazione dei PS della seconda metà degli anni ’90, più attenti a creare sinergie tra decisori, attorno ad una visione condivisa, con un approccio, appunto, di tipo “integrativo”. A questa generazione di piani sembrano appartenere i primi piani italiani degli anni 2000.

I nodi

D’altro canto, l’affermarsi della pianificazione strategica come nuovo ‘paradigma’ della pianificazione territoriale e l’adesione entusiastica – specie in Italia – a quella che ho chiamato dimensione “mistica” del nuovo corso rischiano di oscurare alcuni alcuni nodi critici, che configurano altrettanti rischi istituzionali e sociali e di cui occorre essere coscienti.

1. Un primo nodo è quello della effettiva partecipazione della società civile ai processi di formulazione e decisione. Attuare un vero processo partecipativo in una società complessa come quella attuale è molto difficile.

2. Un secondo problema, collegato al primo è quello della disuguaglianza tra soggetti/interessi, determinata dalla loro diversa capacità contrattuale. Tra gli interessi privati, vi sono quelli imprenditoriali e immobiliari “forti”(Camagni 2003) e vi sono quelli “diffusi” (Salzano 2003), cioè quelli di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse per una comunità, piccola o grande che sia. Questi ultimi attori generalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni, ma sono comunque in grado di organizzarsi. Vi sono poi gli interessi “deboli” che spesso non riescono nemmeno a mobilitarsi (gli “esclusi”). Chi rappresenta gli interessi deboli e dà voce agli esclusi?

3. Un altro nodo è connesso ai fallimentidella negoziazione senza una qualche forma di autorità che faccia da arbitro. Tra gli esiti possibili della negoziazione assunta a paradigma vi sono lo stallo e la deregolamentazione, che raramente garantiscono risultati socialmente accettabili nel lungo periodo.

4. Collegato al precedente è il nodo del rapporto tra autorità pubblica (teoricamente garante del bene collettivo) e interessi privati, specie nel caso di iniziative a capitale misto. Chi indirizza chi?

5. Strettamente collegato ancora è il problema della definizione dell’ interesse pubblico/collettivo/comune di cui l’autorità pubblica dovrebbe essere garante (su questo argomento si veda Moroni 2003). Evidentemente il bene comune non può essere determinatosolo dal processo partecipativo. Come osserva Salzano (2003) alcune istituzioni sono garanti di interessi e beni pubblici indiscutibili (soprintendenze, protezione civile, pubblica sicurezza, difesa del suolo, etc.), ma nella maggior parte dei casi la definizione di cosa costituisca l’interesse pubblico è molto più vaga.

6. Altro nodo ancora è il diverso orizzonte temporale tra pianificazione, progetti e politica: lungo per il piano strategico (10-15 anni); corto per i mandati elettivi di governo (sindaci, etc.) e per la realizzazione di progetti. Questo sfalsamento ha portato numerosi osservatori a sviluppare la distinzione tra quelli che devono essere gli elementi “strutturali” (invarianti) dei piani e quelli flessibili (i progetti). A questo nodo si ricollega, in effetti, quello del rapporto tra la pianificazione strategica e la strumentazione urbanistica tradizionale.

I rischi

I rischi, rispetto a questi nodi sono numerosi, alcuni dei quali si possono intravvedere anche nei casi che saranno presentati oggi.

Un rischio rilevante, è la strumentalizzazione del piano, attraverso la finzione demagogica del consenso, per legittimare scelte di gruppi di interesse ‘forti’, già prese altrove (il consenso maschera un compromesso tra interessi forti al di fuori del piano). Nei luoghi in cui il capitale sociale è debole, il pericolo di esiti deregolativi, contrabbandati come “flessibilità”, ma in realtà funzionali ad obiettivi di mera rivalorizzazione urbana o pura speculazione edilizia, è molto forte

In particolare, il PS non può essere usato per delegittimare il piano urbanistico ed il controllo pubblico sui meccanismi di trasformazione del territorio. L’ultima generazione di piani – in parte come ripensamento critico dopo i deludenti risultati dei meccanismi affidati al mercato dei primi piani – sembrano riportare la pianificazione strategica nell’alveo di una gestione pubblica delle trasformazioni. Come afferma Gibelli (2003), occorre ritornare ad una legittimazione delle istituzioni pubbliche nel campo della pianificazione e definire regole nella flessibilità.

Altro rischio è l’adozione di una visione strategica ‘alla moda’ per ottenere ampi consensi, senza che vi siano i presupposti locali per raggiungere quel tipo di obiettivi. L’ossessione con la necessità di essere “competitivi” ha portato all’imitazione acritica di modelli già sperimentati in località centrali, contribuendo ad un “appiattimento” della visione strategica e alla scomparsa della diversità (Gastaldi 2003).

Nel Sud questi pericoli di un uso spregiudicato della pianificazione strategica sono maggiormente presenti: esiste una società civile potenzialmente ricca e motivata, ma è scoraggiata e priva di fiducia nel sistema politico ed amministrativo. Non si esprime. Questo si vede, ad esempio nella gestione di molti POR e PIT, dove se, da una parte, i tavoli di concertazione e negoziazione vedono in alcuni casi un effettiva interazione tra attori locali, cosa che costituisce senz’altro una significativa innovazione sociale, dall’altra, gli interessi “deboli” – imprenditorialità “diffusa”, società civile, immigrati – restano nella maggior parte dei casi assenti e i progetti finanziati sono promossi dai “soliti noti”.

Alcuni requisiti minimi

Sulla scorta dei numerosi casi europei ormai in avanzata fase di attuazione, ma anche alla luce delle prime esperienze italiane (come vedremo oggi), sembra possibile affermare che affinché la pianificazione strategica intesa nel suo senso più ampio possa funzionare, sono necessari alcuni requisiti minimi, alcune condizioni di partenza, da sole o congiunte:

- un’amministrazione capace (forte, autorevole, radicata, competente, con spirito di servizio) o alternativamente una nuova “figura” istituzionale che guidi il PS, anche con consulenza esperta, ma non solo;

- una figura carismatica (leadership);

- una società civile forte;

- attori privati che esprimono interessi imprenditoriali e non legati alla rendita fondiaria (Salzano 2003);

- un clima di fiducia nel governo e nelle possibilità di governance e di orgoglio civico;

un’attitudine alla cooperazione tra diversi livelli di governo.

3. Obiettivi del seminario

I casi presentati oggi sono molto diversi. Alcuni – almeno 3 dei casi stranieri – appartengono alla prima generazione europea di piani strategici (fine anni ’80); gli altri – in particolare quelli italiani – appartengono alla seconda e forse terza generazione (fine anni ’90, inizio millennio). Ognuno di essi si situa in un contesto socioeconomico e istituzionale particolare. Si notano notevoli differenze, sia negli obiettivi, sia nel metodo. E tuttavia proprio nelle loro differenze, questi casi possono essere utili per capire alcune cose.

Nella mattinata saranno presentate 4 esperienze europee: in primo luogo, quelle di Bilbao e Lille, tra le prime città metropolitane d’Europa ad affrontare il problema del loro riassetto territoriale in termini di pianificazione strategica già alla fine degli anni ’80; poi quella di Groningen (Olanda), che forse più di tutte appartiene alla tipologia dei grandi progetti di rinnovo urbano; infine l’esperienza di Praga, il cui piano strategico approvato nel 2000 è divenuto un punto di riferimento per lo sviluppo di molte città medie e grandi dell’Est Europa. I primi tre casi saranno presentati da docenti univeritari delle città in questione, che ne hanno seguito attentamente gli sviluppi nel tempo; il quarto dal direttore del piano stesso. A discutere dei casi Europei sono stati invitati la Prof. Maria Cristina Gibelli, docente di Urbanistica presso il Politecnico di Milano, che da anni segue l’evoluzione della pianificazione strategica in Europa, e il Prof. Louis Albrechts dell’Università Cattolica di Lovanio, il quale, oltre che docente di Urbanistica, ha anche contribuito alla recente revisione della legislazione urbanistica delle Fiandre.

Nel pomeriggio saranno invece presentati 3 casi italiani: quello di Torino, il primo piano strategico italiano, approvato il 29 febbraio 2000 e già al suo terzo anno di attuazione, quello di Firenze aaprovato nel dicembre 2002 e quello di Pesaro, approvato quest’anno. A discutere di questi casi sono stati invitati il Prof. Franco Corsico, docente di Urbanistica e assessore all’urbanistica di Torino dal 1993 al 2001, e il Prof. Giuseppe Fera, docente di Teorie dell’urbanistica della Facoltà di Architettura di Reggio Calabria e attento osservatore della realtà urbana meridionale.

Obiettivo della discussione è verificare in quale misura i “nodi” prima identificati sono stati affrontati e/o risolti nelle diverse esperienze. In particolare, si cercherà di affrontare le seguenti questioni:

Il ruolo dell’autorità pubblica. Che rapporto si è determinato tra amministrazione pubblica e attori privati – chi ha indirizzato chi? In altre parole, in che misura il pubblico è riuscito ad incidere sulle strasformazioni della città? E’ riuscito ad indirizzare le scelte in termini socialmente inclusivi o ha solo ratificato le scelte degli interessi economici forti?.

Sul piano degli esiti: ha avuto successo il piano? Nella sua duplice dimensione: a) rispetto agli obiettivi che si era prefissato, cioè gli obiettivi “ufficiali” del piano (riconversione, internazionalizzazione, etc.); b) come processo, cioè il piano come costruzione di capitale sociale. E’ riuscito a stimolare, rafforzare, sviluppare la partecipazione, l’identità territoriale, la fiducia, etc. E’ stato effettivamente un piano partecipato? E’ riuscito a coinvolgere anche gli interessi “deboli”?

Sul piano della metodologia: in che misura il PS ha rappresentato una innovazione istituzionale e sociale rispetto alla prassi urbanistica consolidata del paese o della regione? In particolare, in che modi si relaziona con la pianificazione urbanistica tradizionale (la pianificazione “fisica”)? Dialogo, sostituzione, conflitto? La risposta a questo quesito cambia evidentemente a seconda del contesto, ma credo sia cruciale soprattutto in Italia, dove la pianificazione urbanistica tradizionale è in una fase di profonda revisione, attraverso le legislazioni regionali.

E, infine, cosa possiamo imparare da ognuna di queste esperienze? Quale è la lezione che ognuno di questi esempi può darci? Si possono identificare prassi ottimali, o alternativamente errori da non ripetere?

Io credo che nel tentare di rispondere a queste domande dobbiamo cercare di restare critici, ma in modo costruttivo. Per quanto riguarda alcuni casi italiani, in particolare, io credo che l’essere riusciti a mettere in movimento meccanismi di discussione e interazione tra attori diversi – i tavoli di concertazione tra diversi livelli di governo, i tavoli di negoziazione tra organizzazioni rappresentanti gruppi diversi di interesse (da quelli imprenditoriali, a quelli sindacali, alle associazioni civiche e non-profit), le forme, anche imperfette, di comunicazione e partecipazione da parte della cittadinanza – sia già un risultato di grande portata, specie in un momento di crisi della gestione urbanistica in particolare e della politica in generale. Certo, il nodo degli interessi “forti” e della loro capacità di prevalere – in modo più o meno esplicito – resta e va valutato caso per caso.

Riferimenti bibliografici

Albrechts L., P. Healy e K. Kunzmann, Strategic spatial planning and regional governance in Europe, Journal of theAmerican Planners Association Vol. 69 n. 2, 2003

Albrechts L., Strategic (spatial) planning revisited, paper presentato al Congresso annuale della APSA, Hanoi, settembre 2003

Camagni R., Piano strategico, capitale relazionale e community governance, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Donolo C., Partecipazione e produzione di una visione condivisa, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Fera G., Urbanistica. Teorie e storia, Gangemi, Reggio Calabria 2002

Gastaldi F., Pianificazione strategica in Italia: prime riflessioni a partire dai casi, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Gibelli M.C., Flessibilità e regole nella pianificazione strategica, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

Gibelli M.C., Tre famiglie di piani strategici: verso un modello ‘reticolare’ e ‘visionario’, in Curti F e M.C. Gibelli (a cura di) Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze 1996

Moroni S., L’interesse pubblico. Un concetto screditato o ancora rilevante per la pianificazione del territorio?, CRU - Critica della Razionalità Urbanistica n. 13, 2003

Mutti A., Capitale sociale e sviluppo, Il Mulino, Bologna 1998

Salzano E., Le nuove leggi urbanistiche: l’opportunità per costruire nuove strategie territoriali e nuove relazioni tra istituzioni, cittadini e operatori economici, materiali per il Corso per funzionari pubblici “Conoscere e ripensare per ripensare e pianificare”, ottobre 2003 (http://eddyburg.it, novembre 2003); ora in: Fondamenti di urbanistica, Editori Laterza, Bari 2003 (V edizione)

Spaziante A., Introduzione, in Pugliese T. e A. Spaziante (a cura di) Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, F. Angeli, Milano 2003

[1] Per governance, altro termine abusato senza adeguata definizione si intendono qui le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica (cfr. Salzano 2003 per una rassegna).

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