loader
menu
© 2024 Eddyburg
Marco Cammelli
Problemi e soluzioni per la PA
14 Aprile 2004
Gli attrezzi dell'urbanista
Nel seminario “Politica, Istituzioni, Società, Governo del territorio”, organizzato dal DP dell’IUAV a Venezia, mi è sembrato particolarmente interessante l’intervento di Marco Cammelli: per l’acutezza dell’analisi sulle trasformazioni intervenute nelle regole e nei comportamento della Pubblica amministrazione, e per l’equilibrata lucidità in cui affronta il problema del government e della governance. Marco mi ha cortesemente inviato la scaletta del suo intervento a Venezia, e un suo scritto, steso in occasione delle prossime scadenze programmatiche delle amministrazioni bolognesi, nel quale sviluppa il tema centrale di quell’intervento. Li pubblico entrambi: lo scritto più disteso qui di seguito, (anche in formato .pdf: Marco Cammelli, Idee per un progetto), e la scaletta di Venezia solo in formato .pdf ottenibile cliccando qui: Marco Cammelli, Scaletta.

Idee per un progetto

1. Avvertenze.

Le analisi condotte su punti strategici del progetto, hanno messo in chiaro che per ognuno di questi (riequilibrio territoriale, internazionalizzazione, sostegno allo sviluppo) è cruciale un sistema istituzionale attrezzato per la elaborazione delle politiche e la loro messa in opera.

E’ il modo giusto di affrontare il tema delle istituzioni del governo locale, e per quanto qui interessa quello di Bologna e del suo Comune, perché proprio questi sono i compiti che quest’ultimo è chiamato ad assolvere e su cui va misurata la capacità di governo.

Si tratta tuttavia di un approccio che pur necessario non è sufficiente: certo è necessario, perché consente di evitare la maggior parte degli approcci (che fare con il titolo V Cost?, città metropolitana sì o no? il ruolo dei quartieri, della partecipazione, ecc.), tanto diffusi quanto poco producenti, perché partono dalle soluzioni e non dai problemi e dunque da dimensioni astratte e non da obbiettivi concreti.

Ma non è sufficiente perché oltre a questi aspetti, che restano pregiudiziali e determinanti, vi è anche un diverso profilo, quello cioè dei processi di trasformazione dei soggetti del governo locale in sé considerati, da valutare per il loro autonomo rilievo e per l’evidente incidenza sulla capacità o meno di sostenere i progetti strategici di cui si è detto.

In breve: a quali condizioni Bologna, nelle sua amministrazione comunale e nelle sue istituzioni, può essere effettivo protagonista delle innovazioni prima ricordate ?

2. I problemi.

Per rispondere è necessario prendere coscienza di un dato di fondo: la netta, profonda discontinuità che si è verificata negli ultimi decenni (e, in particolare, a partire dal 1990) in tema di governo locale, al punto che oggi non è neppure del tutto chiaro se e quanto “governo” locale sia davvero esercitato dal Comune, con quali forme questo avvenga, quali le funzioni astrattamente da svolgere e quali quelle in concreto esercitate, quale relazioni sia dato rinvenire tra il Comune come soggetto politico e Comune come macchina amministrativa, come azienda di servizi, come attore di processi, di decisioni, di gestione.

Addossare al Comune progetti strategici o illustrare la panoplia delle innovazioni istituzionali possibili senza rispondere a queste domande, o senza neppure porsele, è ovviamente sconsigliabile sul piano culturale ma del tutto pregiudizievole su quello dei progetti, perché mina alla radice qualunque proposta politica. Ed è questo che ora ci interessa.

Dunque: sappiamo che cosa vorremmo che le nostre istituzioni facessero (progetto strategico) ma ignoriamo in che stato queste si trovino e quanto e come si siano trasformate, cioè quanto e come possano concorrervi. E’ un grave deficit di analisi che in parte è riferibile a noi stessi, per esserci troppo concentrati sul colore delle maggioranze al centro e in sede locale quando questi processi di trasformazione erano già da tempo in atto, in parte è dovuto a fattori oggettivi, e in particolare alla profondità e rapidità dei mutamenti. Malgrado tutto ciò, e pur nei limiti della definizione di un primo quadro della situazione, è necessario provarci.

La discontinuità rispetto al passato è frutto principalmente di tre dinamiche tra loro fortemente contraddittorie: la crescita esponenziale dell’interdipendenza, che pone il problema del ruolo odierno dell’ente locale; la centrifugazione delle funzioni dalla sede istituzionale, che solleva il tema di come governarne lo svolgimento, e infine la concentrazione dei poteri pubblici e delle relative responsabilità in sedi limitate, che pone la questione delle forme della democrazia in sede locale.

Vediamole brevemente una per una.

2.1. La crescita dell’interdipendenza è dovuta alle prodigiosa espansione dell’integrazione, tanto in verticale che in orizzontale. L’integrazione verticale è enormemente cresciuta sia lungo la filiére dei poteri pubblici, grazie alle istituzioni comunitarie e all’avvio, negli ultimi decenni dello scorso secolo, delle regioni a statuto ordinario, sia per il trasferimento di un numero crescente di regolazioni al mercato e alla sua globalizzazione. Si tratta, ovviamente, di fenomeni diversi e solo in parte tra loro correlati, ma è indubbio che la loro azione congiunta ha generato due effetti:

- la stretta integrazione funzionale tra livelli di governo locale, nazionale e comunitario, nel senso cioè che non c’è processo di qualche rilevanza che non veda la partecipazione congiunta, a vario titolo (attivo, consultivo, di finanziamento e di controllo) e in tempi diversi (iniziativa, istruttoria, decisione, attuazione), di tutte le sedi istituzionali ricordate;

- l’enorme aumento delle forme di regolazione, cui sono state sottoposte non solo materie un tempo prive di apposita regolazione (e per questo, sul piano tecnico, neppure da considerare “materie” in senso proprio: v. tutela della salute e dell’ambiente) ma anche ambiti più riposti, riguardanti ad esempio le forme contrattuali delle pubbliche amministrazioni (dall’appalto di lavori pubblici alle forniture e ai servizi).

b) Altrettanto esteso, è poi l’incremento della integrazione orizzontale, dovuto principalmente a tre fattori:

- il primo, e probabilmente più importante, è dovuto proprio alla globalizzazione che a livello macro, prima ancora di tradursi in “privatizzazione” (cioè in una nuova relazione con il privato), si è espressa ed è collaborazione intergovernativa tra paesi, cioè un nuovo modo di agire dei poteri pubblici in ragione dell’evidente insufficienza dello stato nazionale;

- il secondo è rappresentato dagli effetti della privatizzazione che in realtà, vista dal lato delle istituzioni pubbliche, si traduce in processi estesi di “consensualizzazione”, vale a dire in una trama di relazioni basate su moduli negoziali e pattizi tra pubblica amministrazione e imprese

- il terzo infine, particolarmente evidente nella trasformazione delle aree verificatasi a livello locale, è costituito dal fatto che la riorganizzazione dei sistemi sociali e dei processi produttivi ( [1]) tende ad accentuare all’interno e all’esterno dei propri confini, dinamiche di specializzazione funzionale (produttiva, residenziale, di servizi, ecc.) delle proprie aree, con inevitabili e forti squilibri (qui si colloca la questione dei centri storici, della distribuzione dei servizi, delle aree ad alta densità abitativa, dell’inevitabile mobilità, ecc.) coinvolgendo territori ed enti territoriali anche non immediatamente confinanti. Fatti, questi, che inevitabilmente pongono l’esigenza di un inedito e robusto coordinamento inter-istituzionale.

In breve: oggi il comune di medie-grandi dimensioni è avvolto in una fitta rete di regolazioni, procedure, vincoli e compatibilità che condizionano profondamente l’esercizio dei propri poteri. Questi ultimi restano, naturalmente, ed anzi si sono largamente accresciuti nel tempo, specie a partire dagli anni ’90: ma la selezione e soddisfazione della propria “domanda” passa, almeno per le decisioni rilevanti, sempre meno per i moduli dell’autodeterminazione e sempre più per quelli della cooperazione con altri soggetti pubblici e privati.

Il che ci offre una prima importante indicazione: il grado e le prospettive dell’autonomia locale, oggi, vanno esaminati non tanto in termini di saldo, più o meno attivo, di poteri e competenze riconosciute ai Comuni o alle Province (e, correlativamente, sottratte ai livelli superiori, statali o regionali), ma soprattutto con riguardo alle forme di cooperazione e ai principi che ne ispirano l’esercizio. Anzi, specie per le scelte strategiche, è proprio questo il terreno su cui va misurata la possibilità degli enti locali di decidere del proprio destino: cioè, in breve, la loro autonomia.

2.2. La centrifugazione delle funzioni. In parallelo a quanto appena visto, il comune ha assistito ad una formidabile opera di riallocazione di poteri decisionali e di attività di gestione verificatesi in tempi, modi e settori diversi ma con un tratto comune: la fuoriuscita di tali poteri e attività dalle sedi politico-amministrative alle quali erano tradizionalmente affidate (e sulle quali, si noti, resta quasi intatta la responsabilità finale) a vantaggio di altre sedi o soggetti, alcuni dei quali addirittura esterni al circuito dei poteri pubblici.

Il primo esempio è rappresentato dalla generalizzata e netta separazione dei livelli politici dagli apparati e dal deferimento a questi ultimi (e più precisamente, alla dirigenza amministrativa) della quasi totalità dei poteri di amministrazione attiva.

Il secondo è costituito dal diffondersi, fino a divenire l’asse portante delle politiche di settore più innovative, di modelli di contrattualizzazione, e cioè di amministrazione negoziale che con forme pattizie giunge alla definizione delle politiche pubbliche per le imprese (programmazione negoziata), in materia di sviluppo economico, delle scelte e della attuazione degli interventi in materia di governo del territorio (convenzioni urbanistiche) e di infrastrutture, ecc..

Il terzo esempio, più operativo ma anche più capillarmente diffuso, riguarda tutto il versante delle esternalizzazioni (affidamento a terzi di compiti della amministrazione: propriamente, contracting out) e dell’acquisto all’esterno di prestazioni strumentali per il funzionamento degli apparati e delle istituzioni locali (propriamente, outsourcing).

Non basta. Forme ancora più marcate di autonomizzazione di segmenti del potere locale rispetto alle sedi istituzionali degli enti territoriali sono riscontrabili nelle dinamiche che hanno interessato interi macro apparati operanti in settori decisivi della società locale, restando ininfluente il mantenimento della propria natura formalmente pubblicistica (ASL) o le trasformazioni connesse a processi di privatizzazione (v. ente Fiera).

Il caso più eclatante, in ogni caso, è costituito dalle ex municipalizzate per la gestione di tutti i più rilevanti servizi pubblici locali, passate in rapida sequenza dalla condizione di organi (sia pure sui generis) del comune a enti strumentali, poi a società a capitale pubblico, poi a società miste con la presenza anche di privati generatrici a propria volta di una miriade di partecipate.

La sequenza giuridica rappresenta degnamente il processo di affrancamento sostanziale cui stiamo assistendo ed è anzi singolare come in alcuni casi (Hera [2][3], ad esempio) sembri sottovalutato il rischio della marginalizzazione degli enti locali sia per il peso (non solo economico) del nuovo soggetto e la complessità delle iniziative poste in essere, sia per la moltitudine (e dunque la tendenziale debolezza) degli enti locali rappresentati nelle assemblee societarie, sia infine per gli ulteriori condizionamenti che questi ultimi conosceranno dalla quotazione in borsa della società, perché le aspettative e le esigenze del mercato finiranno per rappresentare altrettanti limiti cui riferire l’accettabilità o meno delle domande espresse dalle collettività locali e dalle rispettive istituzioni territoriali.

2.3. concentrazione dei poteri e delle responsabilità. La terza direttrice di trasformazione del potere locale è costituita dalla straordinaria concentrazione dei poteri formali e delle responsabilità istituzionali in sedi ristrette e in particolare sui sindaci. Anche per questo aspetto il comune di oggi assomiglia ben poco a quello consegnatoci dalla tradizione e comunque esistente fino alla fine degli anni ’80. Le dinamiche che hanno portato a questa condensazione sono principalmente tre:

- quella lungo l’asse centro-periferia. I trasferimenti delle leggi Bassanini infatti, e più ancora l’attuale titolo V, implicano lo spostamento sugli enti territoriali e in particolare sui comuni di una massa ingente di compiti dei quali non è ancora acquisita la consapevolezza perché segnano sostanzialmente la fine, se non per aspetti specifici, dello Stato come amministrazione;

- quella del privilegio dell’autonomia territoriale su quelle funzionali. Il secondo segno del processo di concentrazione di poteri sugli enti locali è costituito dall’obbiettivo rischio di indebolimento di altri segmenti del pubblico operante a livello locale in parte già avvenuto (v. prefetto e amministrazione periferica dello Stato), in parte in atto (Fondazioni ex-bancarie), in parte ancora probabile vuoi per la mancata o debole tutela delle autonomie funzionali (istituti scolastici, camere di commercio) imputabile al nuovo titolo V, vuoi per dinamiche interne (il prevedibile indebolimento delle Università, specie medio-piccole, in ragione della crescente scarsità di mezzi è da mettere in conto);

- quella della forma di governo presidenziale o del sindaco. La terza direzione lungo la quale si è sviluppato il processo di concentrazione è il trasferimento formale o sostanziale (in ragione della elezione diretta introdotta nel 1993) dei poteri più rilevanti dai consigli al sindaco o al presidente.

Dunque, più poteri dal centro, più poteri dal restante tessuto pubblico e più concentrazione degli stessi sui presidenti e sui sindaci: dinamiche che trovano significativi riscontri anche nelle macro aziende pubbliche (ruolo del direttore generale nelle ASL o dell’amministratore delegato nelle spa a capitale pubblico) e che certo pongono seri problemi in sé e per il fatto che a questo forte processo di valorizzazione dell’esecutivo e delle sedi monocratiche non corrisponde affatto uno sforzo di bilanciamento e di equilibrio del restante tessuto istituzionale. Anzi molti fattori, tra i quali in particolare l’evidente perdita di peso dei partiti politici, la fragilità dei media e dell’opinione pubblica locale, la sostanziale mancanza di tutela giurisdizionale dovuta alla lentezza della giustizia, rendono ancora più grave e serio il problema.

3. Le risposte.

I problemi, come si è appena visto, sono di notevole complessità ma questo non significa che non si possa dare loro una soluzione, o almeno avanzare ipotesi. E in ogni caso, è proprio di questo che si deve discutere e approfondire.

3.1. Alla crescita di interdipendenza, intanto, è difficile che si possa rispondere limitandosi semplicemente ad ampliare la scala territoriale dell’ente di riferimento, cioè con un comune di Bologna più grande (o trasferendo le funzioni ad un livello istituzionale superiore, come la Provincia o la Regione) perché, al di là di altri aspetti, l’interdipendenza all’esterno sarebbe comunque destinata a rimanere mentre crescerebbe, sia pure in termini di rapporto tra nuovo ente e antiche municipalità, una complessità interna comunque difficile da gestire sia in termini politici che istituzionali.

Stando così le cose, è da ritenere che la costituzione di una autorità metropolitana (quali che ne siano le forme e la natura) sia più un punto di arrivo che di partenza, mentre il problema attuale è quello di porre mano alle regole della cooperazione tra enti, o più semplicemente a quelle che possiamo definire le regole della rete.

Queste ultime vanno individuate in un insieme di government, cioè di punti fermi definiti in via autoritativa dai livelli istituzionali di governo, e di governance, cioè di regole della cooperazione tra soggetti pubblici e tra pubblico e privato. E’ evidente che si deve agire, congiuntamente, sull’uno e sull’altro fronte.

Quanto al primo, è indubitabile che la natura processuale e cooperativa della definizione e della messa in opera delle politiche pubbliche di settore presupponga alcuni elementi di fondo senza i quali si aprirebbe uno scenario confuso, segnato dall’empiria e dall’improvvisazione dei diversi attori. In altri termini, non è possibile affidarsi alla cooperazione senza la definizione di un quadro di riferimento chiaro e stabile, cui possano rifarsi le opzioni pubbliche e private.

Di conseguenza, alcune scelte di fondo come quelle individuate nel piano strategico (riequilibrio dello sviluppo insediativo, residenziale e infrastrutturale, sviluppo sostenibile e qualità dell’ambiente, internazionalizzazione) non possono che costituire elementi fondanti definiti a priori (e congiuntamente) a livello bolognese e regionale, rappresentando in tal modo il parametro di riferimento necessario per le diverse politiche di settore.

Del quadro di riferimento, inoltre, sono elementi costitutivi la natura e la provenienza delle risorse finanziaria, che coinvolgono la responsabilità politico-amministrativa e quella tributaria degli enti coinvolti, nonché la precisa indicazione dei beni o interessi di particolare rilievo sottratti, per questa ragione, all’ambito della contrattazione o perché dichiarati a prori indisponibili dalla carta costituzionale (ambiente, salute, beni culturali e paesaggistici) o perché appunto, come quelli richiamati, qualificati come strategici in via preliminare e come opzione politico-amministrativa.

Si noti, tra l’altro, che questi punti fermi sono indispensabili anche per la messa in opera di corretti rapporti con il “privato”, sia in termini di riferimento per i relativi investimenti, sia come regole del gioco senza le quali la stessa contrattazione non sarebbe né concepibile né praticabile.

Quanto alla governance, e alle forme di cooperazione negoziata che ne costituiscono uno degli elementi essenziali, a fronte dei rischi più evidenti che ne conseguono in termini di deriva di interessi parziali e di settore e di conseguente contrasto tra deficit di generalità, nel momento della stipulazione dell’accordo, e esternalizzazione delle conseguenze anche a chi non vi ha preso parte, nella fase della attuazione, la sfida consiste nel chiedersi come recuperare appunto, in questi casi, la dimensione “generale” ( [4]).

In proposito, a parte l’ancoraggio agli elementi di quadro appena richiamati (di per sé necessario ma non risolutivo), è indispensabile concentrare i nostri sforzi su due fronti:

- il primo, per così dire interno, è costituito dallo sforzo di mettere a punto e di offrire strumenti atti a migliorare (nel senso appena detto) la qualità della negoziazione soprattutto in termini di equità, cioè di riequilibrio tra interessi forti e interessi, se non deboli, quantomeno disarmati. Vale a dire non soltanto comitati o gruppi a bassa organizzazione, ma anche categorie sociali o professionali marginali, comuni di ridotta dimensioni, singoli (cittadini, imprese, associazioni) che non dispongono della robusta serie di informazioni, ricerche, consulenti e visibilità sui media degli attori più forti.

Il modo per farlo è da un lato quello favorire la disponibilità di risorse e di strumenti di sostegno, tra le quali andrebbe annoverato quel personale qualificato che Luigi Bobbio definisce “tecnici di processo”; e d’altro lato, valorizzare (in sede normativa e contrattuale) l’esplicitazione dei principi generali che debbono presiedere a queste forme di amministrazione negoziale, in particolare quelli della buona fede e della tutela dell’affidamento, da considerare i flessibili ma chiari punti di riferimento sia per la questione del se e a quali condizioni dalle parti che partecipano all’accordo possano derivare implicazioni sui terzi che non vi partecipano, sia più in generale per la protezione degli attori pubblici e privati che partecipano al procedimento,

- il secondo, più esterno, concerne tematiche quali la pubblicità (spesso carente) di tali processi, la circolazione e l’accessibilità dei dati (idem), e anche una più efficace tutela rispetto alle controversie che possano sorgere in fase di stipulazione e attuazione dell’accordo (ADR, su cui infra).

Nessuno di questi accorgimenti, ovviamente, è di per sé risolutivo: ma il loro insieme può concorrere a migliorare le condizioni della negoziazione e a riequilibrarne le forze in gioco. Non è difficile vedere come, per questa via, potrebbero trovare soluzione ad esempio delicati problemi istituzionali (come il rapporto tra piccoli comuni della cintura e comune capoluogo) che, in mancanza d’altro, o restano insoddisfatti o cercano soluzioni strutturali che rischiano di creare più problemi di quanti ne possano risolvere.

3.2. Quanto alla fuga delle funzioni dalle sedi politico-amministrative, i rimedi vanno articolati a seconda dei diversi aspetti posti in luce.

Per quanto riguarda la separazione tra livello politico e apparati burocratici, con il serio rischio di rigidezze e autoreferenzialità di burocrazie facilmente più sensibili alle esigenze di garanzia (propria) che a quelle di realizzazione degli obbiettivi assegnati, il punto non è quello di tornare indietro riagganciandone l’operato ai governi e alle maggioranze del momento (v. additivi di rapporto fiduciario) ma di andare avanti, mettendo a regime e in pratica gli strumenti e i controlli della c.d. “amministrazione di risultato”, dalle direttive annuali all’esame dei programmi, dai controlli di gestione a quelli di valutazione dei dirigenti.

Della governance e della contrattualizzazione si è appena detto. Resta invece da soffermarsi sulla denunciata e crescente autonomizzazione dei macro-apparati (Asl, Fiera, Areoporto, ecc.) il cui governo richiede tavoli appropriati al livello degli interessi (pubblici e privati) in gioco e alla loro dimensione, accordi quadro nei quali comprendere sia le scelte strategiche che le implicazioni di settore (finanziarie, territoriali, ambientali, dei servizi di mobilità, ecc.) e che potranno credibilmente essere gestite dal governo locale solo superando l’idea del “governo dall’interno” (tramite i propri rappresentanti nelle assemblee o nei consigli di amministrazione), assai carente come l’esperienza insegna, e attrezzando invece i propri apparati per le funzioni di regolazione e di controllo per le quali sono visibilmente inadeguati.

Altrettanto, ma anche di più, può dirsi per il vasto arcipelago delle imprese pubbliche locali, che approfittando di dieci anni di sterile dibattito sulla riforma dei servizi pubblici locali si sono sottratte ai vecchi controlli amministrativi e politici, hanno evitato i nuovi (come credibili verifiche dei partners privati e del mercato), hanno assorbito anche quote di servizi comunali tradizionali, ma soprattutto si sono estese su aree di mercato in diretta (e non sempre paritaria) concorrenza con l’impresa privata ( [5]) lasciandosi alle spalle, con concentrazioni di dimensione ormai anche interregionale, l’originaria scala territoriale.

Sul punto è bene essere chiari: non sono in discussione, naturalmente, le ragioni di questi processi (necessità di rafforzare la dimensione delle aziende pubbliche locali per consentire loro di affrontare in condizioni adeguate la concorrenza di altre imprese nazionali ed europee o la possibilità di economie di scala) ma il loro effetto attuale di affrancamento rispetto ad un governo locale non ancora attrezzato per guidarne e controllarne l’azione, e ad un mercato e relativa concorrenza, palesemente ancora di là da venire.

L’autonomizzazione in atto di questo settore, cruciale per le attività svolte e per le risorse che (a differenza delle amministrazioni locali) è in grado di mobilitare, costituisce dunque un problema di prima grandezza la cui soluzione, in attesa del chiarimento della materia ormai da riporre in sede comunitaria, richiede l’uso dell’intera gamma di strumenti sopra ricordati e anche la messa a punto di ulteriori mezzi intervento, quali il diretto controllo comunale anche sulle partecipate, misure di sostegno per le forme di partecipazione/controllo da parte degli utenti, nuove e più penetranti regole sulle incompatibilità e i conflitti di interessi degli amministratori, uffici comuni tra gli enti locali interessati (specie quelli minori) con compiti di regolazione e di controllo, corsie privilegiate assegnate dai regolamenti consiliari per gli atti di controllo politico-amministrativo esercitati dalle assemblee comunali su tali settori.

Si è già sottolineato, come si ricorderà, quanto tutto ciò sia destinato ad aggravarsi con la quotazione in borsa delle società a partecipazione pubblica e non è necessario insistervi.

3.3. Resta da affrontare il tema concentrazione dei poteri e delle responsabilità, per chiedersi in che modo ovviare o almeno attutire le dinamiche che rischiano di alterare l’equilibrio democratico del sistema locale, sia nel senso di un eccesso di poteri condensato su sedi monocratiche come quella del sindaco, sia (e solo apparentemente) al contrario, nel senso cioè di un enorme sovraccarico di responsabilità politiche e istituzionali a cui, anche per i fenomeni appena richiamati, spesso non corrisponde una effettiva disponibilità di poteri.

Le ragioni di seria preoccupazione su questo fronte, già richiamate, sono le stesse che invitano a non coltivare illusioni sulla possibilità di identificare almeno a breve, se non contropoteri, almeno credibili garanzie in grado di ristabilire l’equilibrio che appare compromesso. Eppure qualcosa è necessario proporre e provare, per evitare che il sistema politico locale del XXI secolo si avvii ad essere per questi aspetti un sistema di feudi chiusi all’esterno e dominati da oligarchie poggianti sul combinato sindaco/fondazioni ex-bancarie/sistema delle società miste nel campo dei settori pubblici e dintorni, in grado di condizionare significativamente (tramite le esternalizzazioni e l’outsourcing) l’area della piccola e media impresa, dei soggetti del terzo settore, delle sedi universitarie di dimensioni contenute, di una parte non trascurabile delle attività autonome o professionali.

Un sistema, già lo si è detto, ormai non più condizionabile dall’esterno in via amministrativa (prefetto, controlli, ecc.) o politica (partiti nazionali o regionali); che tale è, ma solo parzialmente, sul piano delle risorse finanziarie; che per il resto appare affidato all’esile tenuta delle clausole generali stabilite dall’art.117.2 Cost. (v. livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali), mentre al proprio interno risulta privo di seri contrappesi (partiti locali, media, tutela giurisdizionale tempestiva) salvo forse, unico attore dotato di risorse autonome e incisive (stabilità, visibilità, ecc.), l’autorità ecclesiastica e la Curia.

Anche in questo caso, si tratta di battere contemporaneamente più piste. Accanto ad una politica di sostegno nei confronti di chi (comitati, associazioni) può mettere in atto forme di dialettica aperta, e certo c’è ancora molto da fare in termini di accesso ai dati, di pubblicità degli atti, di spazi disponibili a tali finalità, c’è da approfondire il tema delle incompatibilità e dei conflitti di interessi (meno vistosi ma qualitativamente altrettanto pericolosi di quelli che si verificano al centro), c’è da promuovere (anche accettando inevitabili rischi) una esplicita responsabilizzazione (consultazioni, pareri, ecc.) delle sedi tecniche o comunque terze (università e istituti di ricerca, ordini professionali, corpi e burocrazie tecniche) rispetto ai principali interessi in gioco. Internet e tutto ciò che vi si lega rappresenta uno strumento già disponibile per raccogliere e valorizzare queste realtà: si tratta solo di saperlo utilizzare in modo adeguato. Altrettanto è da dirsi rispetto alle tecniche, ormai sufficientemente attendibili, di verifica del consenso e delle opinioni della popolazione, mentre appare ineludibile una approfondita e aggiornata riflessione sul terreno media tradizionali e sulla loro utilizzazione.

Un discorso a parte, infine, va dedicato alla questione della giustizia nei rapporti tra cittadini e amministrazione, poiché è essenziale individuare strumenti in grado di risolvere celermente i conflitti che nascono con l’ente locale o in ordine a rapporti dei quali quest’ultimo è parte. Il ricorso a strumenti alternativi a quelli del giudice ordinario o amministrativo (ADR) non è nuovo: se ne discute da tempo a livello nazionale e esistono anche tentativi, con una resa peraltro incerta, di favorire in sedi decentrate (camere di conciliazione presso le Camere di Commercio) la loro utilizzazione.

Ma c’è spazio per l’autonoma promozione di una iniziativa della amministrazione comunale in materia. Il punto chiave della proposta, limitandosi agli aspetti generali mentre in altra sede si potrà dare conto pienamente dell’approfondimento dedicato alla questione ( [6]), è che riguarda la tutela fuori dal processo di posizioni soggettive giuridicamente rilevanti; che in questo caso il problema non riguarda i rapporti tra i privati ma, appunto, quelli tra privato e amministrazione locale; che, infine, la soluzione alternativa (conciliazione) nasce come impegno a praticare questa strada assunto direttamente dalla pubblica amministrazione.

I soggetti per i quali in particolare la misura è pensata sono coloro (utenti, piccole imprese) che non hanno rapporti abituali con l’amministrazione e che comunque sono sprovvisti degli strumenti a disposizione dei soggetti più forti i quali non hanno difficoltà a procurarsi legali esperti, dispongono di risorse sufficienti per attendere i tempi lunghi della giustizia ordinaria (e, talora, vi fanno affidamento) o, praticando relazioni continuative con l’amministrazione, sono in grado di proporre o accettare soluzioni compensatorie differite nel tempo.

Gli oggetti per i quali prevedere la soluzione conciliativa riguardano ipotesi come la determinazione del quantum nel risarcimento del danno, le controversie relative a servizi fruibili per selezione (v.asili nido) o riguardanti la utilizzazione di beni pubblici (edilizia popolare, parchi, ecc.), conflitti relativi alla distribuzione e fruizione dei servizi pubblici (gas, acqua, trasporto, ecc.) nei rapporti con utenti singoli, il che significa che l’impegno assunto dalla amministrazione comunale dovrà riguardare anche tutto il sistema delle imprese pubbliche locali.

La strada della conciliazione, per questi oggetti sempre da praticare salvo ragioni particolari che ne sconsiglino il ricorso, comporterà l’obbligo per l’amministrazione di adeguarsi alla determinazione adottata dall’organismo terzo cui è deferito il giudizio e che è tenuto a pronunciarsi in tempi brevi: terzietà da considerarsi ovviamente essenziale, e che potrebbe essere assicurata senza troppe difficoltà con la collaborazione dell’Ordine degli avvocati e sotto la vigilanza degli organi giudiziari locali.

4. per concludere (e proseguire).

I problemi e le soluzioni che si sono proposte richiedono, come è chiaro, una verifica cognitiva e fattuale assai più articolata e approfondita di quanto è stato possibile compiere in questa occasione e rappresentano, già di per sé, un programma di interventi impegnativo e di ampio respiro anche in termini temporali, che non sarà possibile realizzare senza associare alla chiarezza del progetto capacità di sperimentazione e di autocorrezione.

Appare tuttavia utile indicare fin d’ora i punti di cerniera, vale a dire come le linee del progetto strategico delineate nelle parti precedenti di questo documento si innestano nel tessuto istituzionale che si è qui delineato.

E’ evidente, in primo luogo, che molti degli elementi che si sono riconosciuti propri al piano del government, sia in termini di regole della rete che di opzioni del piano strategico, si collocano in un’area tipicamente assegnata (specie dopo il nuovo titolo V Cost.) alla regione e a scelte necessariamente condivise tra quest’ultima e le istituzioni dell’area bolognese, cominciando ovviamente dal comune capoluogo.

La figura dell’accordo di programma, così come disciplinato dall’art.34 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, appare strumento adeguato (ancorché perfettibile) per definire con la dovuta ampiezza gli oggetti (definizione di programmi e relativa realizzazione), definire il processo di formazione delle volontà degli enti interessati, assicurare il coordinamento delle azioni, definire i tempi e le modalità attuative, stabilire il necessario finanziamento, disporre procedimenti arbitrali per la soluzione di controversie e interventi sostitutivi in caso di inadempimento.

In questa prospettiva, per un verso è chiaro che per ognuna delle aree indicate dal piano strategico si tratterà di analizzare le dinamiche e i problemi di settore, elaborare proposte di specifiche politiche pubbliche, individuare la scala territoriale (probabilmente diversa per ciascuna di queste) più adatta per porvi mano e, d’altro lato, proprio queste esigenze implicano un assetto a geometria variabile che difficilmente può essere soddisfatto con il ricorso, almeno nell’immediato, ad un ente metropolitano e che visibilmente suggerisce di affidarsi a procedure di cooperazione negoziata dimensionate, di volta in volta, alle caratteristiche dei singoli interventi.

La messa a punto e l’attuazione del piano strategico, in altre parole, richiede una azione di profonda riforma interna al sistema-comune secondo le linee che qui si sono indicate ma presuppone nello stesso tempo un insieme di iniziative da porre in essere su una scala più ampia e con il necessario coinvolgimento di altre istituzioni, prima delle quali la Regione.

E’ dunque fuori dal Comune che si gioca buona parte del successo degli interventi cui è affidato il compito di rilanciare Bologna e l’intera area circostante, così come è con riferimento al sistema bolognese che il governo regionale gioca molta della sua credibilità e del suo ruolo.

Se anche solo questo fosse ciò che delle presenti riflessioni risulterà condiviso da chi ha la responsabilità di queste due istituzioni, gli estensori di queste note si riterrebbero soddisfatti.

[1] Non è chiaro se l’aumento del tasso di delocalizzazione in questi processi (servizi in rete, telelavoro assistenza a distanza, ecc.) accentui (come in parte sembra) o corregga (come sarebbe lecito aspettarsi) la specializzazione funzionale delle aree territoriali

[2] Hera è una società nata dalla fusione di 11 aziende di servizi pubblici operanti in Emilia-Romagna, che prevede per quest'anno di raggiungere un fatturato di oltre 1,1 miliardi di Euro, con circa 4.500 dipendenti e un piano quinquennale di investimenti di 500 milioni di Euro.

[3]ADR è un acronimo, di derivazione angloamericana, sta per Alternative Dispute Resolution, che è ormai entrato a far parte del linguaggio comune per indicare gli strumenti alternativi al (tradizionale) giudice per risolvere i conflitti.

[4] Il problema, naturalmente, non è quello di (ri)andare alla ricerca del mitico “interesse generale” ontologicamente collocato a priori (e perciò legittimante) l’intervento pubblico ma, accettandone il carattere processuale (nell’incrocio dei vari interessi in gioco, pubblici e privati) e la identificazione per approssimazioni successive, come correggerne la possibile parzialità, impedendo cioè che l’amministrazione negoziale si riduca alla legittimazione pubblicistica della autopromozione di alcuni soltanto degli interessi in gioco o di quello semplicemente più forte.

([5] ) Dai dati Confesercizi, del 29 novembre 2002, risulta che il 38.6% delle ex aziende municipalizzate ha esteso la propria attività in settori diversi da quelli originari.

([6] ) In due riunioni svoltesi nel novembre 2002 cui hanno partecipato, muovendo da una scheda predisposta da Michele Giovannini, Paolo Biavati, Alessandra Corrado, Federico Gualandi, Roberto Manservisi, Fulvio Medini, Pietro Ruggieri e Alberto Ziroldi

Vedi anche:

Edoardo Salzano, Relazione al convegno “Governance e Government”, Ravello (2000)

Luigi Bobbio, introduzione al tema “Istituzioni” al convegno di Venezia (2002)

Edoardo Salzano, intervento per il convegno “Uso del suolo come difesa”, Roma (2002)

ARTICOLI CORRELATI
6 Dicembre 2004

© 2024 Eddyburg