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Sergio Brenna
L'urbanistica della sinistra
6 Aprile 2004
Gli attrezzi dell'urbanista
Sergio Brenna è docente di diritto urbanistico alla II Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano ed ex assessore alla pianificazione e gestione del territorio del Comune di Rho (MI) per il PRC dal 1994 al 1998.

Ho letto con interesse l’articolo di Salvatore Bonadonna sulla proposta del nuovo Piano Regolatore di Roma, pubblicato su Liberazione del 15 marzo 2002, e condivido molte delle critiche che egli esprime ai suoi contenuti e ai limiti di partecipazione con cui essi sono stati individuati.

Ciò nonostante, mi pare che gli argomenti esposti indichino anche i limiti che il partito ha nell’affrontare il tema urbanistico, nell’utilizzare al meglio tutta la strumentazione legislativa che le forze di sinistra hanno saputo conquistare nel corso degli anni Sessanta e Settanta, prima della spinta deregolamentativa degli anni Ottanta e Novanta, che fu favorita anche da una deriva in tal senso dei governi di centrosinistra, e che, tuttavia, non ha cancellato del tutto quelle conquiste. Il problema è che la cultura diffusa nel partito spesso non ne ha memoria o, peggio, si fa convincere da un’opinione diffusa e interessata che dichiara quegli strumenti desueti ed impraticabili.

Sono, innanzitutto, un po’ sorpreso che tra gli obiettivi che Bonadonna cita tra quelli che Rifondazione intende verificare per esprimere il proprio giudizio sulla condivisibilità delle previsioni del Piano regolatore non venga indicato come fondamentale che contestualmente all’approvazione del P.R.G. si proceda alla verifica dello stato di attuazione del Piano di Zona dell’edilizia economica popolare, ed all’approvazione dell’aggiornamento delle sue previsioni in modo tale da garantire che un minimo del 40% (ma per legge si può arrivare sino ad un massimo del 70%) delle previsioni di fabbisogno residenziale stimate per la formulazione del P.R.G. e tra le aree a tale funzione destinate, sia soddisfatto da attuazione destinata all’edilizia economico popolare, nel rispetto delle vigenti disposizioni dell’art.3 della L. 167/62, tutt’ora vigente anche se spesso sempre più disatteso. Eppure questo era uno degli obiettivi per cui in precedenti articoli Bonadonna aveva dichiarato ci saremmo battuti strenuamente.

Inoltre mi sembrerebbe fondamentale chiedere che nei criteri di attuazione di tali Piani di Zona si privilegi l’assegnazione in diritto di superficie (la legge prevede che possa giungere sino all’(80% delle aree destinate all’edilizia popolare), in modo da costituire un demanio permanente di aree su cui promuovere un uso sociale della città e del territorio, senza che ciò comporti nel tempo la necessità di mettere ad edificazione nuove aree.

La questione che sto ponendo, non è quella di un’errata o insufficiente azione dei compagni del consiglio comunale di Roma, ma quella assai più di fondo di quale sia la cultura politica del partito a riguardo della questione urbana, del sapere chi si è e che cosa si vuole, per usare le parole di un recente articolo di Riccardo Bellofiore sulle tesi congressuali.

So, infatti, bene per esperienza diretta che tali linee di indirizzo non sono diffuse e popolari neppure all’interno del nostro partito: degli oltre cento comuni del Consorzio per l’edilizia popolare milanese uno solo - quello in cui sono stato assessore dal 1994 al 1998 - ha rifiutato la trasformazione delle aree di edilizia popolare da diritto di superficie a diritto di proprietà, per far cassa, come prima consentito e, poi, addirittura incentivato da due successivi disposizioni di legge finanziaria dei governi di centrosinistra. Nessun altro, nemmeno quelli amministrati dalle sinistre con Rifondazione, e talvolta con l’assessore all’urbanistica di Rifondazione ! E’ davvero troppo lungo rispetto ai tempi brevi della politica e dei mandati amministrativi l’orizzonte dei sessanta/novant’anni del diritto di superficie, per comprendere che i cicli di trasformazione della città si confrontano con i tempi della lunga durata, e che alla lunga ci si troverà stretti nell’alternativa o di non fare più intervento sociale nell’uso della città o di doverlo fare scontando una nuova espansione residenziale ?

E, ancora oggi, quando – come spesso mi capita – svolgo una consulenza tecnico-politica per i compagni dei circoli di alcuni comuni posti di fronte alle proposte di nuove previsioni di piano regolatore, spesso mi sento obiettare che chiedere di vincolare aree per l’edilizia popolare per un periodo di diciotto anni rischia di farci apparire responsabili di un lungo periodo di non attuazione di quelle aree di fronte alla mancanza di adeguati finanziamenti pubblici e che spesso l’esperienza passata è che l’azione della cooperazione edilizia è stata oggetto di comportamenti non limpidi. Sono obiezioni comprensibili: in fondo nei quattordici punti con cui il nostro partito tentò di segnare il discrimine su cui misurare la possibilità di continuare a collaborare con i governi di centrosinistra, il rilancio del finanziamento dell’edilizia popolare e la riforma in senso partecipativo della cooperazione edilizia non apparivano tra i punti qualificanti! Debbo concluderne che la critica che dovetti subire allora da parte delle opposizioni come assessore del comune di Rho e cioè di personalistico, testardo, quasi monomaniacale accanimento su una posizione che nemmeno il partito cui appartenevo sembrava troppo interessato a praticare, avesse un fondo di verità?

Ma, ancor di più, mi riesce incomprensibile nell’articolo di Bonadonna il punto in cui critica la riattivazione dell'efficacia dei Programmi Pluriennali di Attuazione (P.P.A.), indicati come strumento di costrizione dell’autonomia dei comuni. In realtà i Programmi pluriennali di attuazione istituiti dalla legge 10/77, la cosiddetta legge Bucalossi, furono una innovazione progressiva della legislazione urbanistica, votata anche dalle sinistre, che ha consentito ai comuni di articolare una modulazione nel tempo dell’attuazione delle previsioni di piano regolatore in grado di meglio raccordare edificazione privata e dotazione di attrezzature pubbliche. La loro sospensione di efficacia, disposta da leggi finanziarie del centrosinistra del ‘96/’98, si iscrisse in una deriva di deregolamentazione che puntava ad un rilancio “selvaggio” dell’edilizia, in crisi dopo le vicende di Tangentopoli, ed aprì le porte alla sempre più estesa diffusione di una serie di piani in variante, che giustamente Bonadonna chiede non possano costituire elementi di destrutturazione della logica espressa dal Piano regolatore.

In genere ai compagni amministratori per opporsi a questa tendenza suggerisco di battersi perché il limite di variabilità che questi piani deregolamentativi (purtroppo istituiti da leggi nazionali e regionali a partire dal 1992, e, quindi, non improponibili in assoluto) possono apportare al piano regolatore, venga definito dalle stesse norme tecniche del Piano Regolatore, modificabili – quindi - solo con le procedure di pubblicazione/osservazioni del piano regolatore (una forma di partecipazione limitata, ma sempre più garantista della variabilità assoluta e caso per caso, altrimenti possibile e sempre più spesso praticata).

E’ chiaro che si tratta di un espediente tattico. Il passo definitivo da fare per opporsi a questa destrutturazione del Piano regolatore come momento nel quale la collettività riflette e decide circa le modalità sociali con cui una comunità insediata utilizza il proprio territorio, da questo punto di vista, non può che essere una tempestiva riproposizione in questa legislatura del disegno di legge in discussione nell’VIII commissione LL.PP.della Camera e decaduto per termine della legislatura precedente, che riprendeva la proposta dell’I.N.U. di un’articolazione fra Piano Strutturale, dotato di caratteri di rigidità sui temi di più ampia condivisione ( dimensionamento complessivo del piano, aree di tutela ambientale, reti strutturali fondamentali, ecc.; insomma, una sorta di Carta costituzionale del territorio che, in quanto tale dovrebbe essere approvabile e trasformabile solo con ampie procedure partecipative e maggioranze qualificate, ben al di là di quanto avvenga oggi con il Piano Regolatore, approvabile anche con un solo voto di maggioranza), ed un Piano Operativo flessibile, che – nei limiti determinati dal Piano Strutturale – definisca le modalità attuative che nel corso di un mandato amministrativo si assume una determinata maggioranza politica.

Ciò che noi dobbiamo riuscire a cogliere è che l’approvazione di una tale impostazione pianificatoria generale farebbe giustizia di tutta quella congerie di piani-progetti attuativi (P.I.I., P.R.U., P.R.U.S.S.T., ecc.) escogitati nella fase di destrutturazione logica dell’urbanistica che abbiamo attraversato, facendo venir meno l’alibi della sudditanza ad un Piano Regolatore totipotente e, quindi, spesso accusato di essere troppo rigido e stantìo nelle sue previsioni, per non dover essere variato con frequenza.

Un Piano Operativo di una durata quinquennale non potrebbe venir invocato come troppo vetusto, essendo del tutto coerente in termini di tempo con una fase urbana di attuazione (i programmi pluriennali di attuazione hanno durata da tre a cinque anni, i piani attuativi al massimo di dieci).

Il mutamento di un Piano Operativo, possibile come tutte le cose umane, dovrebbe tuttavia in tal caso comportare una nuova sanzione di mandato politico, come da molte parti si invoca per quanto riguarda il quadro politico nazionale.

Il Partito sta discutendo in tal senso ? I gruppi parlamentari hanno promosso iniziative al riguardo ? Non sarebbe opportuno farlo, nell’ambito di una linea politica che rivendichi la necessità di una legge quadro in materia urbanistica, in un momento in cui le regioni – sull’onda della riforma regionale approvata nella scorsa legislatura, sancita per referendum, e da noi non condivisa - si stanno muovendo verso nuove legislazioni regionali del tutto eterogenee nelle procedure, ma accomunate da un regime di liberismo dei piani attuativi rispetto al Piano regolatore ? E, nel frattempo, perché prendersela col ripristino dei P.P.A., che certo non hanno la portata strategica di una legge quadro, ma sicuramente reintroducono alcuni elementi di controllo pubblico sui ritmi di crescita dell’organismo urbano ? Non sarebbe meglio battersi con più forza e determinazione contro le falsificazioni ideologiche che spacciano per innovazione lo smantellamento dei principi della legge urbanistica del 1942 per tornare a quelli di un’urbanistica fatta tutta per piani attuativi della legge del 1865 ? e, quindi, mobilitarci per fermare l’entrata in vigore il prossimo 30 giugno dell’art. 58 comma 62 del decreto delegato sugli espropri per pubblica utilità, che surrettiziamente e senza alcuna discussione parlamentare, introdurrà l’abrogazione dell’intero titolo II della gloriosa (almeno a confronto di ciò che ci viene prospettato oggi) legge urbanistica del 1942, cioè della previsione di piani particolareggiati di iniziativa pubblica, sancendo così che i piani regolatori si attuano per singole opere pubbliche e per piani urbani interamente proposti dai privati ? Non si fornirebbero così quegli strumenti di gestione partecipata alla costruzione dell’uso di città, che altrimenti rischiano di rimanere una condivisibile, ma impraticabile, rivendicata aspirazione ?

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