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Furio Colombo
La nostra responsabilità in Iraq
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
“Non ricordo di aver letto in vita mia un articolo come quello scritto oggi dal direttore de l’Unità Furio Colombo, in cui l’incitamento all’odio e alla delegittimazione del governo giunga a livelli così pericolosi. Ma c’è almeno qualcuno nell’opposizione disposto a prendere le distanze da questo linguaggio violento e irresponsabile?”. Questa frase di Sandro Bondi (Adnkronos, 9 maggio ore 18.07) mi ha spinto a cercare l’articolo di Furio Colombo. Eccolo. Giudichi il lettore chi è “violento e irresponsabile”

La tortura cambia il discorso, fa aprire gli occhi e dimostra che l'accettazione della guerra e la partecipazione alla guerra, sia pure come fatto compiuto, sono fondamentalmente sbagliate perché troppi fatti che riguardano quella guerra sono immersi nel buio?

Le immagini della tortura bastano da sole a dire: non sappiamo e non sapevamo niente del modo in cui viene condotta questa guerra, dei vivi, dei morti, delle ferite di tutti i tipi inferte e subite, degli ordini dati, se e che cosa è andato storto, in questa guerra, rispetto a che cosa, perché, restando, restiamo al buio, senza conoscere le cause e gli effetti, di ogni evento che ci riguarda, dagli ostaggi agli assalti continui contro i soldati italiani?

Sarebbe necessario condurre un dibattito netto e frontale: guerra o non guerra, con tutte le sue conseguenze. Questo dibattito, con i toni disperati di un'opinione pubblica che ha scoperto troppo tardi eventi che umiliano tutto il Paese, ha luogo adesso in America. Non in Italia. In Italia ogni argomento è intercettato dal ricatto. È il ricatto dell'abbandono e del tradimento, del venir meno all'impegno dell'alleato. Viene avanti un fantasma che - ci dicono - è il destino dell'Iraq e che, a quanto pare, è a carico di tutta la sinistra che fin dall’inizio si è opposta alla guerra. Ecco perché il dibattito, con pazienza, deve continuamente ricominciare da capo. Ricomincia da dove si è detto che - nonostante l'enormità dei fatti accaduti e che adesso sono sotto gli occhi di tutti - finirà per ricadere su chi chiede e vota, sia pure vanamente, il ritiro dei soldati italiani.

Chi ha letto, con attenzione l’intervista di Giuliano Amato a la Repubblica (4 maggio, pag.9) ha certo notato alcuni punti di riflessione fondamentali per la Sinistra.

Mi sembrano importanti e cercherò di esaminarli uno per uno. Lo farò a nome di coloro che, come me, ascoltano e rispettano le argomentazioni limpide di Amato ma, a volte, (questa volta, per esempio) non riescono a essere d’accordo.

Comincio con questa citazione: «Io continuo a ripetere che è stato comunque un errore andare in Iraq. Ma oggi, al di qua e al di là dell’Oceano, sono sempre di più coloro che pensano: io ero contrario ma a questo punto è in gioco il futuro dell’Iraq, quindi cerchiamo una soluzione».

Manca qualcosa in questa frase, ed è la differenza tra le due sponde dell’Atlantico. Di là, negli Stati Uniti, c’è un cattivo governo (Amato lo ha descritto bene nelle prime frasi della sua intervista: «un impasto di ideologia, semplicismo, unilateralità, improvvisazione») contro cui si sta levando una vasta opposizione. Quando, speriamo, quell’opposizione avrà vinto, essa tornerà al multilateralismo, alle alleanze, al fare le cose insieme, allo spirito di cooperazione e collaborazione che è il tratto più importante di identità dell’America e che George Bush ha distrutto. La liberazione degli Stati Uniti da Bush e dal pericolo che rappresenta (cito John Kerry) è, per ora, solo speranza, d’accordo.

Ma è una speranza realistica, con una scadenza relativamente vicina (novembre di quest’anno). La liberazione dell’Italia da Berlusconi, invece, non è altrettanto imminente. Il suo infaticabile lavoro di devastazione della Costituzione italiana, delle relazioni e del commercio internazionale (lo ha detto chiaro il Presidente della Repubblica), della nostra immagine e dei nostri legami con l’Europa, continueranno per oltre due anni da adesso, il tempo di recare un danno considerevole, sempre più notato nel mondo. È difficile per noi farci carico del futuro dell’Iraq mentre non abbiamo una nozione precisa del nostro futuro, ma anche del nostro ruolo.

Qui si colloca la domanda che manca nella affermazione di Amato. Noi chi? Una buona parte di noi italiani, cittadini tutt’altro che insensibili alla disperata situazione irachena, non soltanto non avremmo voluto la guerra. Non avremmo mai mandato i nostri soldati come braccia armate e sottoposte alla guerra di altri, di strategie e piani di cui non sappiamo nulla, a disposizione di comandi che non devono rispondere né al governo né al Parlamento italiano.

Non avremmo mai offerto i nostri soldati per metterli agli ordini di generali inglesi e americani, senza un trattato, senza alcun riferimento a regole o limiti di qualsiasi genere. I nostri soldati sono bravi. E ne siamo tutti orgogliosi. Ma sono - dal punto di vista parlamentare - illegali perché inviati per una missione di pace che non esiste e che non possono compiere.

Combattono ogni giorno per difendersi, cercando di fare il minor numero possibile di vittime fra i civili. Lo fanno con valore, con bravura. Ma questo fanno, combattono. Il Parlamento italiano aveva votato una bugia del governo, ormai ampiamente svelata: missione di pace. Per comprendere l’enormità di quanto è avvenuto nel nostro Paese si consideri che nessun altro contingente di truppe di altri Paesi (a cominciare naturalmente dagli Stati Uniti, ma fino ai Paesi più piccoli) è stato mandato in Iraq sotto falso pretesto. Gli spagnoli di Aznar avevano fatto - ha deciso Zapatero - la scelta sbagliata. Ma non hanno mentito sulla guerra.

La missione spagnola era stata votata come missione militare che include il combattimento. La questione non è formale. Come possiamo occuparci del futuro dell’Iraq se non abbiamo voce in capitolo ad alcun livello, non siamo parte di alcun comando, se persino la “battaglia dei ponti” (la cifra delle vittime civili resta sconosciuta) è stata decisa da un generale inglese che non deve rispondere della sua decisione al nostro Parlamento?

Più avanti Amato dice che «abbiamo responsabilità oggettiva verso l’Iraq». Moralmente è vero. Ma politicamente c’è di mezzo Berlusconi e il suo governo, che da un lato è segnato da una grave incapacità di funzionare. È forse il governo più incapace e inadeguato della storia della Repubblica. E dall’altro, risolve la sua inadeguatezza mettendosi al servizio di un altro governo non da alleato ma da subalterno.

Noi, al momento, siamo sottoposti invece che amici e alleati, siamo soltanto dei dipendenti. Amato parla il linguaggio responsabile di uno statista. Ma non governa. Governa un miliardario di umore instabile che ama svolte pericolose e dichiarazioni irresponsabili. Come quel suo ostinato ripetere «resteremo in Iraq fino in fondo», mentre si tratta la liberazione degli ostaggi (gli Usa, in silenzio, liberano gli ostaggi americani, come Hamil, senza dire in cambio di che cosa).

Il nostro premier ama soprattutto vantarsi di essere il miglior amico di Bush. Come dire, allora, che «l’unica forza negoziale che ha l’Italia è quella di restare, dicendo: se non cambiate me ne vado?» (cito sempre dall’intervista). A chi lo diciamo, visto che non siamo parte di alcun organismo collegiale, visto che siamo solo coloro che hanno offerto senza condizioni le vite dei nostri soldati? Come si può impiantare il negoziato, chi lo conduce, Martino? Frattini? Fini ha dovuto dire a Washington, nel corso della sua ultima visita, che l’Italia non poteva offrire altri soldati, segno che altre truppe erano state insistentemente richieste.

Sostiene ancora Giuliano Amato: «Dico che non ci conviene impegnarci ora su una posizione di ritiro delle truppe. Potremmo trovarci fra un mese con un governo che si trova sulle stesse posizioni di Francia, Germania, Gran Bretagna». Quale governo, quello che ha lavorato alacremente, finora, a spezzare l’Europa? C’è un doppio salto mortale in quella frase: credere che questo sia un governo normale, paragonabile ad altri governi normali, invece che un aggregato di sudditi di un miliardario vanitoso che ha in pugno tutti i media. E immaginare un’Europa che si unisce senza l’Italia (se l’Italia va via dall’Iraq) ma senza domandarsi come mai in quell’Europa ci sia già (di nuovo) la Spagna, che è appena uscita dall’Iraq, con il rispetto e l’attenzione di tutti. Ha ragione Amato a dire: tutto ciò non aiuta l’opinione pubblica a capire che cosa vogliamo sull’Iraq. Ma la domanda è proprio questa: che cosa vogliamo?

Si pone la stessa domanda Morton Abramowitz, presidente del Carnegie Endowment, sulla rivista The National Interest, uno dei luoghi più importanti del dibattito americano sugli affari internazionali. Risponde: vogliamo il ritiro americano. E infatti dice: «La nostra posizione preminente nel mondo può affrontare l’apparente contraddizione di un ritiro anticipato dall’Iraq che è urgente e auspicabile.

C’è da aspettarsi che la nostra influenza resterebbe molto grande, nonostante la fine delle operazioni militari. E la nostra capacità di fronteggiare gli imprevisti di un mondo minacciato dal terrorismo diventerebbe più veloce e più agile». Resta il problema delle Nazioni Unite. Se la missione sarà Nazioni Unite, ammonisce Giuliano Amato, non possiamo non esserci. E lo stesso Amato dà la giusta risposta: «Credo che se si ragionasse sui contenuti concreti di una risoluzione dell’Onu, probabilmente troveremmo Zapatero e Blair sulla stessa posizione». È vero. Perché non dovremmo essere pronti a votare con Zapatero e con Blair, non appena la risoluzione dell’Onu sarà vera e sarà pronta?

Oltretutto è più facile immaginare un accostamento fra Zapatero (che ha ritirato le truppe dall’Iraq) e Blair che fra questo governo italiano e l’opposizione. Perché quando l’opposizione sarà pronta a dare il via libera per l’Onu, Berlusconi avrà perduto il suo incentivo a proclamarsi l’amico esclusivo di Bush e uno dei tre grandi che occupano l’Iraq. Tutta la situazione, una volta divenuta legale e normale e non più soggetta alla segretezza che priva l’opposizione e l’opinione pubblica italiana di ogni notizia attendibile, non gli interessa più.

Il fatto è che in tutto questo dibattito sulla guerra e sui nostri soldati in Iraq manca il protagonista Berlusconi, ed è questo che crea disorientamento nel popolo di sinistra sul che fare in Iraq. Dire che Berlusconi è un presidente del Consiglio che governa perché ha vinto le elezioni è solo una parte della verità. Berlusconi ha esautorato il Parlamento, ha reso impossibile ogni rapporto o collaborazione con l’opposizione, ha lavorato a dividere il più possibile gli italiani dagli italiani e tutti noi dalla nostra storia. Ha favorito, attraverso il suo controllo totale delle informazioni, la circolazione di un clima di livore, incattivimento, vendetta e ricatto («se non sostieni la guerra in Iraq sei un traditore, sei un amico dei terroristi»).

Qualunque cosa si pensi dell’Iraq, per noi italiani tutto è alterato e reso illegale, incostituzionale e pericoloso (pericoloso sopratutto per la vita dei soldati italiani e dei nostri ostaggi) sia dalla vanagloria personale del premier, che gira il mondo vantandosi della guerra, sia dalla sua inclinazione a mentire, che lo ha indotto a far votare una missione di pace mentre mandava i soldati italiani in guerra, come ci dicono ogni giorno tutti i giornali e i telegiornali. In questa condizione, è evidente che i migliori soldati del mondo, senza responsabilità e senza partecipazione alle decisioni e alle scelte, non possono recare alcun contributo né essere utili in alcun modo alla vita degli iracheni e al loro destino.

Possono solo restare asserragliati in un bunker o nei mezzi blindati e cercare di non essere colpiti per primi. Il voto che ha mandato quei soldati è svuotato dalle false premesse. Sulla guerra (a cui la Costituzione non ci permetterebbe di partecipare) non possiamo influire. All’Iraq non possiamo giovare. Possiamo solo ubbidire e fare fuoco quando altri ci dicono di fare fuoco. Purtroppo non basterà il voto dell’opposizione per farli tornare. Che sappiano, almeno, che abbiamo dato il segnale giusto. Quanto alle Nazioni Unite, quando verranno staremo certo, come dice Amato, dalla parte di Zapatero e di Blair e di Francia e Germania. Cioè con tutta l’Europa.

Infine vorrei contribuire alla riflessione di Amato con questa persuasione, che mi sembra difficile da negare: noi non siamo una potenza militare. Noi siamo una potenza umanitaria. Noi - l’Italia - avremo un ruolo e un peso sull’Iraq, il suo futuro, il suo destino, quando saremo fuori dalla guerra che continua a tormentare senza soluzione quel Paese, e che fa apparire uguali e nemici tutti i combattenti. Quando saremo disinteressati, credibili e disarmati, allora saremo uniti all’Europa e a grandi operazioni umanitarie, mettendo in campo la forza più grande del nostro Paese, Ong, volontariato, Croce Rossa, nuovi ospedali, zone di raccolta e salvezza per i bambini, ponti aerei per i feriti.

Un contributo di civiltà. Contro il terrorismo è un’arma molto potente e noi l’abbiamo.

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