Spetta dunque a me, visto che l´ho aperto, concludere questo dibattito sul laicismo che si è sviluppato con ampiezza sulle pagine di «Repubblica» per oltre due mesi valendosi di firme qualificate sia di laici sia di cattolici, di credenti e di non credenti, e che ha avuto larga eco anche su altri giornali e riviste.
Non nego che l´avvio a riprendere un tema plurisecolare ci è stato fornito dall´uso delle religioni nelle battaglie politiche e financo nelle guerre vere e proprie, condotte da terroristi organizzati e da eserciti regolari; un uso anch´esso plurisecolare, anzi addirittura plurimillenario che peraltro si sperava caduto finalmente in desuetudine. Non era così ed è infatti ripreso con nefasto vigore in questi ultimi anni e in questi ultimi mesi. Ma quel tema, del rapporto tra la religione e i principi della civile convivenza, tra le gerarchie che amministrano le chiese e quelle che gestiscono la «polis», infine tra il peccato e il reato punito dalla legge, è ben più ampio di quello delle guerre di religione che ne radicalizzano uno dei molteplici aspetti.
Quel tema coinvolge la concezione stessa del divino, il senso della vita, l´autonomia della coscienza individuale e infine la crisi della modernità.
Credo di non allargare indebitamente l´argomento che ci occupa se dico che in questo dibattito c´è anche un ospite inquietante del quale non abbiamo neppure pronunciato il nome ma la cui presenza è stata data quasi per sottintesa in tutti gli interventi.
Quel nome deve essere ora reso esplicito poiché è con esso che dobbiamo fare i conti, laici e religiosi, credenti e non credenti, assertori di verità assolute e relativisti.
E´ con il nichilismo che dobbiamo fare i conti poiché è quello il nome che riassume la crisi della modernità.
Il nichilismo, la «décadence», la disarticolazione dei valori, sono stati d´animo che hanno pervaso i nostri spazi mentali e modificato profondamente i nostri comportamenti. Hanno aggredito tutte le società ? quelle occidentali in particolare ma non esse soltanto ? che siano emerse dal livello della pura sussistenza e dell´appagamento dei soli bisogni primari. Sono penetrati nell´arte, nella filosofia, nella politica, nei rapporti interpersonali. Hanno capovolto i rapporti tra l´uomo e la tecnologia trasformando quest´ultima in un fine e gli uomini in altrettanti strumenti al suo servizio.
E' dagli ultimi decenni del XIX secolo che il nichilismo ha fatto la sua comparsa; negli anni a cavallo tra i due secoli sembrò aver raggiunto il culmine, ma non era così. Ha continuato ad espandersi e a produrre i suoi effetti per tutto il Novecento che ne ha trasferito la virulenza al secolo in cui siamo appena entrati. Da questo punto di vista mi sembra dunque sbagliato trattare il Novecento come un secolo breve che sarebbe cominciato nel 1914 con la guerra e la fine della «Belle Époque» e si sarebbe concluso con l´implosione del comunismo sovietico nel 1989.
Se infatti si guarda alla ferita profonda che si è aperta in Occidente con l´avvio del nichilismo, le date cambiano, il Novecento comincia a metà del XIX e non sappiamo ancora quando si concluderà. Parliamo spesso di transizione politica forse senza renderci pienamente conto che stiamo attraversando da 150 anni una fase di transizione epocale che ha travolto culture, religioni, modi di vivere e di sentire.
Il dibattito sul laicismo, nelle forme in cui oggi si può e si deve condurre, non è dunque simile a quelli che ebbero luogo ai tempi del positivismo o, risalendo ancora più indietro, quando la società dei Lumi ne pose i fondamenti rovesciando le culture dell´«Ancien Régime».
Dopo Auschwitz, dopo i lager, dopo Hiroshima, tutto è cambiato. Il problema della gratuità del Male ha intaccato la fede nella Provvidenza. Le nozioni stesse di peccato e di salvezza sono state sconvolte.
Occorre quindi avere il coraggio intellettuale di porre questo dibattito su nuove basi, essendo ben consapevoli che non si uscirà dal nichilismo rimettendo indietro le lancette dell´orologio e brandendo il vessillo del Dio degli eserciti contro il vessillo di chi affida allo stesso Dio un´appartenenza e un colore diversi. Dio è dunque una costruzione così antropomorfica che lo si può arruolare nella guerra santa di Al Qaeda o alla testa dei marines seguendo l´esempio di Costantino il grande o di re Carlo dalla barba fiorita? Chiaro che no.
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In questo nostro dibattito c´è un punto che merita, io credo, d´esser chiarito. Nell´articolo di apertura ho usato il termine laicismo ma in molti degli interventi successivi al posto di quella parola e del concetto che essa esprime è stata usata la parola laicità. La quale esprime un concetto diverso.
La laicità appartiene sia ai credenti che ai non credenti e distingue tutti coloro che aderiscono e praticano la distinzione tra spirito religioso e attività politica. Il «date a Cesare ciò che è di Cesare» con quel che segue è appunto il fondamento della laicità, la separazione di due sfere di influenza, i due «soli» dei quali parla Dante nel «De Monarchia» a proposito del Papato e dell´Impero. Va da sé che l´Impero cui Dante si riferisce è pur sempre un regno cristiano il quale rivendica una sua autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica chiamata a gestire la comunità dei fedeli in quanto tali. La dialettica tra quei due poteri riguarda dunque i rispettivi confini e la rispettiva legittimità; i contrasti avvengono quando quei confini siano messi in discussione ed eventualmente violati ora dall´uno ora dall´altro come infinite volte è storicamente accaduto.
Ho già osservato (e Pietro Scoppola nel suo intervento ha approfondito questo aspetto della questione) che la convivenza tra i due «soli» danteschi ha favorito l´evoluzione delle chiese cristiane, allontanandole da quel modello teocratico che ha invece ingessato l´Islam nonostante la ricchezza originaria e l´immenso deposito culturale di cui dispose nei primi secoli del suo fulgore.
Sorte in qualche modo analoga fu riservata alle chiese che, dopo lo scisma, restarono sotto l´influenza bizantina e di lì trasferirono in Russia quell´ortodossia a canone inverso, accettando o dovendo subire una forma di teocrazia rovesciata che aveva l´imperatore a capo della gerarchia ecclesiastica. Proprio da questi confronti emerge la superiorità culturale delle chiese cristiane di occidente e in particolare di quella cattolica cui la compresenza di un potere civile, prima legittimato anch´esso dall´investitura sacra e poi da quella democratico-popolare, ha consentito un´integrazione e un´articolazione con la modernità, con la libera scienza, con culti e religioni diversi e quindi una sensibilità ai diritti civili e alle libertà che vi sono connesse, che il riflusso teocratico avrebbe impedito e spento.
In questo quadro il «date a Cesare» è diventato il fondamento di quella laicità partecipata al tempo stesso da credenti e da non credenti che, per quanto in particolare riguarda questi ultimi, costituisce uno degli elementi essenziali del loro laicismo. Il quale tuttavia contiene la laicità ma non si esaurisce in essa, così come la laicità costituisce la proiezione civile e politica dei cristiani che rifiutano il temporalismo, coerenti con una fede imperniata sul messaggio evangelico dell´amore, del perdono, della dignità della persona e del suo libero arbitrio nella scelta del Bene, nel faticoso cammino sorretto dalla grazia verso la salvezza e l´eterna beatitudine al cospetto di Dio.
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Nel suo notevole intervento in questo dibattito Giuliano Amato sostiene che i credenti «hanno una marcia in più» rispetto ai non credenti nel loro empito di fratellanza e di attivo amore del prossimo. Concorda con lui Arrigo Levi, che pure definisce «fede civile» quella dei laici. Scrive Levi che «l´amore che sostanzia quella marcia in più ha una portata mille volte più pervasiva della ragione e della severità su cui si fonda l´etica laica».
Può darsi che sia così oppure può darsi di no: quest´immagine della marcia in più appartiene piuttosto al campo delle sensazioni non provate e non provabili. Si potrebbe obiettare (con Kant) che un´azione è etica solo quando non rechi beneficio a chi la compie. Mentre questo requisito manca per definizione in chi si affida alle opere per meritarsi la salvezza. Ma discutere di marcia in più o in meno non mi sembra inerente al tema di fondo del dibattito, a meno di non considerare il sentimento religioso soprattutto come un elemento utile alla coesione sociale. Il che è probabilmente vero ma sminuisce il contributo spirituale che la fede nella trascendenza può diffondere nella società.
Ebbene, questa fede nella trascendenza è esattamente il centro del problema. La crisi della modernità e il diffondersi del nichilismo promanano infatti dall´affievolirsi progressivo di quella fede. La morte di Dio, prima che un proclama, è una constatazione. La morte di Dio (attenzione) non equivale alla morte del sentimento religioso né all´assenza del divino; tantomeno equivale al dominio esclusivo d´una razionalità che tutto spiegherebbe dissipando ogni mistero e illuminando ogni zona d´ombra. I «philosophes» dell´Enciclopedia, salvo i più grossolani tra loro come d´Holbach, non affermarono mai questa banalità; tantomeno l´aveva affermata Spinoza. Quanto a Nietzsche, la sua religiosità è fuori discussione.
In realtà la morte di Dio postula il deperimento della trascendenza e quindi dell´assoluto. Il nascere d´un nuovo tipo di metafisica, cancellata quando si analizzano le modalità di funzionamento della «ragion pura» ma riproposta nell´ambito della «ragion pratica» o del mondo come «volontà e rappresentazione».
E´ evidente tuttavia che il deperimento della trascendenza, quello che lo stesso Giovanni Paolo II ha definito il «ritiro di Dio dal mondo», il suo sconsolato (o irato) allontanamento di fronte al prevalere del Male scelto dagli uomini che hanno fatto pessimo uso della libertà di scelta che Dio stesso ha loro concesso nel momento in cui li ha gettati nella storia; quel deperimento è stato foriero di profonde modificazioni nei modelli mentali e comportamentali. I più importanti e i più gravidi di conseguenze etiche, sociali, politiche e soprattutto culturali, sono stati la filosofia dell´apparenza e il relativismo.
Lascio da parte la prima che ci porterebbe ad un discorso arduo da approfondire in questa sede; ma è il relativismo che entra in pieno nel nostro tema. Esso è un punto di discrimine decisivo tra la coscienza moderna e i puntelli della tradizione. Riguarda la disputa antica anzi antichissima tra oggettività e soggettività e quella, più recente, sulla verità.
Esiste una verità assoluta? Una verità da accertare, da raggiungere passo dopo passo fino al momento in cui saremo interamente arrivati a possederla? Avremo allora trovato finalmente la chiave con cui potremo aprire la porta che nasconde i segreti del mondo e il senso della vita?
Le grandi religioni monoteistiche ci hanno rivelato la strada per arrivare a quella verità; essa è scritta nei libri sacri e nelle parole dei fondatori e dei profeti.
Talvolta si tratta di parole arcane, misteriose quanto i misteri che vorremmo penetrare; parole dense di significati, parole ineffabili, da percepire attraverso lo slancio mistico della fede e attraverso l´interpretazione «autentica» delle Chiese, autoproclamatesi come il tramite esclusivo tra la realtà visibile e la vera vita dell´oltremondo.
Oppure quella verità assoluta sarà conquistata dalla scienza nel suo graduale processo conoscitivo che sta via via affiancando al metodo sperimentale una sorta di religiosità non mistica ma intuitiva, un affidamento crescente ai processi induttivi rispetto a quelli deduttivi.
Che la verità assoluta sia dominio della fede religiosa oppure d´una formula matematica capace di tradurre in numeri il divino, resta in ambedue questi modelli mentali, un´analoga tensione di ricerca dell´assoluto ed è proprio di lì che passa il crinale che segna la differenza con la filosofia dell´apparenza. Essa postula la cancellazione (la morte) dell´assoluto, il relativismo della verità, il dominio del caso rispetto ad ogni ipotesi di destino, il riferimento all´autonomia della coscienza individuale e la responsabilità che ogni individuo non solo si assume ma anzi rivendica come elemento della sua nobiltà. Mentre le altre specie si distinguono secondo la capacità di volare nell´aria o di camminare e strisciare sulla terra o di nuotare nelle acque dei mari e dei fiumi e in mille altri modi, la specie dell´uomo possiede una mente riflessiva capace di pensare se stessa e una coscienza resa vigile dalla memoria di sé e responsabile verso se stessa delle azioni che compie e degli effetti che esse producono.
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Qui avviene l´incontro con la morale e con il cosiddetto diritto naturale. Per i credenti e per le chiese che li rappresentano si tratta di due assoluti; per i laici di concetti relativi, cioè variabili secondo i luoghi, le epoche, i risultati della scienza sperimentale, i costumi e soprattutto i risultati delle libere decisioni della coscienza individuale.
Il cardinale Ratzinger, nello scambio di lettere con Marcello Pera, parla a lungo sul tema della coscienza individuale e del libero arbitrio. Si tratta infatti del nodo centrale di controversia tra la Chiesa e i laici e all´interno stesso della Chiesa. Per Ratzinger la libera scelta consiste nella scelta del Bene e della fede. Una scelta diversa si autocondanna all´esclusione. Il Bene e la fede comportano l´adesione alla precettistica morale indicata dalla gerarchia. Il credente dunque, quando si avvale della libertà di scelta che Dio gli ha concesso, non ha altra via da quella di rinunciare a quella libertà.
Questo modo di impostare la questione preclude ovviamente qualunque forma di dialogo tra credenti e non credenti che naufraga inevitabilmente sul tema dell´autonomia della coscienza individuale. Mi ricorda il dialogo che ebbero Blaise Pascal e monsignor de Saci, allora direttore spirituale del convento di Port Royal des Champs, quando Pascal chiese di entrare a far parte di quel gruppo e di quel movimento religioso.
De Saci l´interrogò a lungo sulle sue letture e sui libri preferiti. Pascal citò innanzitutto i Vangeli e Agostino, ma poi anche Epitteto e Montaigne. De Saci ascoltava silenzioso. Pascal gli chiese se conoscesse quegli autori, De Saci rispose di no. Ne aveva sentito parlare ma non li aveva mai letti; non ne aveva bisogno.
Pascal ne perorò l´importanza, disse che secondo lui quelle letture profane erano comunque propedeutiche per consolidare la fede o per arrivarci anche con il puntello della ragione; della mente in aggiunta al cuore. De Saci replicò che la fede non deve nulla alla mente e anzi arrivare alla fede seguendo la strada della mente è un atto di superbia. Alla fine concluse dicendo che, se Pascal voleva entrare nel gruppo di Port Royal, doveva fare proponimento di abbandonare quel tipo di letture.
Bene. La concezione di Ratzinger mi ricorda molto le prescrizioni di monsignor de Saci. Pienamente legittime per la mistica cristiana (agostiniana) della fede e della grazia, ma incomprensibili per chi, dalla sponda cristiana, si propone il problema di dialogare con i laici non necessariamente credenti.
L´incontro sulla morale è certamente il terreno fertile per un dialogo del genere, ma presuppone una religione che non continui a porsi come la sola depositaria d´una verità assoluta. Il relativismo non è nichilismo, al contrario. Il relativismo comporta un impegno continuo e responsabile sulle verità morali di volta in volta valide nell´epoca e nel luogo. Verità assolute nel luogo e nell´epoca, ma variabili secondo i mutamenti d´epoca e di luogo. Nulla meno di questo ma anche nulla di più.
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In un articolo bellissimo oltre che importante anche ai fini di questo dibattito («Repubblica» del 24 dicembre, con il titolo «I Cristiani») Pietro Citati ha scritto: «L´idea della morte di Dio non dovrebbe preoccuparci. In alcune grandi religioni gli dei non sono eterni... [ma] credo che una grande religione non muoia mai. La religione greca non è morta. Apollo o Ermes o Dioniso o Iside ? Afrodite-Demetra non sono scomparsi dalla nostra esistenza.
Dopo aver impregnato le immagini del cristianesimo antico, sono vivi ancora oggi come forme mentali o psicologiche. La compassione del Buddha ha modellato la sensibilità occidentale; il Tao ha influenzato la nostra intelligenza».
Dal canto mio aggiungo che Gesù di Nazareth ha modificato il Dio di Abramo, di Giobbe, del Qoèlet, il creatore del Leviatano, il Dio incontinente e tuonante dall´alto dei cieli. Il Figlio dell´Uomo ha modificato il Padre anzi l´ha sostituito. Forse è proprio di lì che il vecchio Dio ha cominciato a morire.
Questo discorso attiene ai credenti quanto ai laici.
Esso può aiutarci a chiudere la minaccia del nichilismo e ridare senso alla vita. Non è un senso unico, cardinal Ratzinger. E´ il senso che ciascuno di noi costruisce con fatica tenace, anche quando è consapevole che quel senso emerge da un caos insensato dove farà naufragio comunque ma dal quale riemergerà come tutte le forme periture che la natura crea e alla natura ritornano per riemergere ancora, sempre nuove e sempre periture.
Non so dire se ciò abbia un senso. Ma credo che questo eterno processo sia indistruttibile. Credo che il nulla sia l´ombra di Dio e che il divino sia dovunque, nel filo d´erba, nella rosa, nel passero, nel leone, nell´uomo. In questo ho fede.