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Franco Cordero
Storia del federalismo: da quello classico alla Lega. La retorica dialettale e il sogno di Cattaneo
15 Febbraio 2007
Scritti 2005
Per chi vuole ragionare sul becerume di oggi comprendendo lo spessore delle questioni bistrattate. Da la Repubblica del 22 novembre 2005

L’accentramento amministrativo italiano è carattere genetico radicato nell’happening da cui nasce il Regno. Era una partita d’intelligenza: Cavour persuade Napoleone III all’intervento se l’Austria assalisse il Piemonte; Vienna manda l’ultimatum, confermando detti proverbiali; «sot comme un diplomat autrichien». Guerra fulminea: l’alleato desiste dopo Solferino (il patto era: un regno dell’Italia settentrionale fino all’Adriatico; Nizza e Savoia alla Francia); Franz-Joseph cede la Lombardia al confratello parvenu, che la passa a Vittorio Emanuele II. Muoiono suicidi due ducati e un granducato, Parma, Modena, Toscana. Implodono le Due Sicilie: Sua Maestà sabauda va a pigliarsele, consegnate da Garibaldi; en passant, occupa Marche e Umbria papaline. Plebisciti a suffragio universale maschile decidono l’annessione tout court al Piemonte (un re investito dalla plebe, esclama inorridito l’intellettuale reazionario Claudio Cantelmo nelle Vergini delle rocce). I ministri dell’Interno Farini e Minghetti contemplano un ipotetico decentramento burocratico, regioni senza autonomia normativa, ma i decreti del novembre 1861 estendono l’ordinamento piemontese agli ex Stati: urgeva chiudere la partita davanti all’Europa; e nella scelta pesa l’esperienza d’un ingovernabile meridione (briganti, consorterie pericolose, retour de flamme borbonico).

Carlo Cattaneo, milanese (15 giugno 1801-5 febbraio 1869), aborre l’archetipo subalpino: sogna gli Stati Uniti d’Italia e che vendano il Piemonte alla Francia separandosene con una muraglia cinese; ma supponendolo redivivo, non riesco a immaginarlo entusiasta; dista troppo, umanamente, dagli operai della devolution padana. Vediamoli. In territori già democristiani dallo sfacelo partitocratico affiora la Lega, creatura d’un demagogo fiutatore del vento: l’unica costante è una violenta retorica dialettale contro insegne e poteri dello Stato; presta man forte alla corrida giustizialista; convola nell’effimero primo gabinetto B. e l’affonda; coltiva riti fluviali, folklore pseudoceltico, messinscene separatiste, finché trova un’identità, come Mussolini 1920 quando converte i fasci in partito dell’ordine, fornendo squadre e spedizioni punitive agli agrari; la Lega diventa braccio pretoriano dell’impero d’Arcore, congenitamente anti-italiana, xenofoba, razzista, turpìloqua, insofferente delle regole, né nascondeva il fine, dissestare l’apparato statale.

L’assecondano pulsioni masochiste ex adverso. Come se non bastasse la commedia bicamerale, in quel funereo epilogo della XIII legislatura i sicuri perdenti propongono alla Cdl tre materie su cui votare d’accordo: conflitto d’interessi (viene da ridere), meccanismi elettorali, federalismo; i futuri vincitori ridono; e la coalizione moribonda vara un nuovo titolo V della Carta (Regioni, Province, Comuni), illudendosi d’adescare voti nordisti (la Lega «costola della sinistra»). Così lavorano gli apprendisti stregoni. Non essendo votato dai due terzi delle Camere, tale capolavoro richiede un referendum confermativo: ormai governa la Cdl; domenica 7 ottobre 3,4 elettori su 10 vanno alle urne; il 64 per cento della sparuta minoranza diligente risponde sì; nasce un gratuito federalismo italiano. Era scritto con i piedi: l’art. 117 enumera le materie su cui lo Stato può legiferare, chiamando «concorrenti» le altre: ma il participio va inteso nel senso contrario; Stato e Regione non concorrono affatto; una frase riserva «la potestà legislativa alle Regioni», salvi i «princìpi generali»; formula nebulosa su cui «bianco» e «nero» sono egualmente asseribili, infatti la Consulta è oberata d’un largo contenzioso. L’unico che vi guadagni davanti al suo pubblico è il condottiero padano, ora ministro delle Riforme. Naturale che voglia qualcosa in più e l’ottiene dagli alleati riluttanti (i postfascisti coltivavano una fiera retorica unitaria). Probabilmente l’exploit rimane sterile perché gli elettori chiamati al referendum non lo confermeranno, ma qualunque sia l’esito, un effetto negativo pare acquisito. Gl’italiani hanno visto quanto sia facile scardinare le «norme fondamentali», come le chiama Hans Kelsen, definitore classico dei dinamismi costituzionali: le Carte fissano scelte condivise dai costituenti; nell’epoca berlusconiana le Grundnormen sono materia banale, manipolabile da qualunque maggioranza, come le tariffe d’una gabella.

Torniamo a Cattaneo, ignorato pour cause nel tripudio devoluzionistico: cultura enciclopedica, testa fredda, un positivista educato da Giandomenico Romagnosi, contro fondamentalismi, dogmatiche, fumisterie metafisiche, pose istrionesche; con onesta ferocia confuta lo spiritualismo rosminiano; non esercita l’avvocatura né frequenta i politicanti; studia, osserva, scrive, sordo alle passioni patriottiche; nella mistica mazziniana sospetta un Ego gonfio. I moderati lo odiano. Cosa direbbe della devolution padana? Che un conto è il federalismo originario, organico, altro l’artificiale, prodotto dalla decomposizione voluta dello Stato unitario. Strenuo studioso dei fatti, solleverebbe questioni capitali: costi della riforma; razionalità ed economia del sistema futuro; quanto valga la fauna politica pullulante intorno ai nuovi organismi (nelle dispute 1860-61 Giuseppe La Farina combatte le regioni perché teme una reviviscenza delle vecchie cloache governative napoletano-palermitane); possibili perversioni. Ad esempio, la Regione diventa monopolista della scuola. E se legislatori rudi stabiliscono una ratio studiorum sulla loro misura etico-intellettuale?: dialetto, sei ore; folklore locale, altrettante; le rimanenti dodici da spartire tra italiano basic, rudimenti d’"umanità", matematica, scienze, filosofia degli affari, oratoria da tribuna, arti rampanti. Ci vuol poco a imbarbarirsi. Se le previsioni sono attendibili, lo scempio leghista resterà sulla carta, mancando la conferma referendaria, ma il virus circolava già, iniettato dagli autori della l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3. I peccati contro l’intelligenza non risultano mai innocui, tanto meno quando fossero ciniche furberie.

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