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Amartya Sen
La democrazia non si esporta: è di tutti
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
Alberto Flores d’Arcais intervista il Nobel per l’economia, su laRepubblica dell’11 marzo 2004. “È un errore pensare che la civiltà greca sia solo occidentale negando i legami con i persiani, gli egizi e gli indiani - Non dobbiamo dare troppa enfasi agli integralisti islamici ma nemmeno ad altri fondamentalismi”

«Sì, ne sono convinto, la lotta per la democrazia è la sfida più importante dei nostri tempi». Amartya Sen, indiano del Bengala, è un premio Nobel per l´economia. L´ha ottenuto nel 1998 - per i suoi studi sul welfare, la povertà e la carestia - quando insegnava a Cambridge (Inghilterra) nel prestigioso Trinity College. Adesso insegna in un´altrettanta prestigiosa università (Harvard), vive in un´altra Cambridge (Massachusetts), e un suo saggio, che di economia non tratta proprio, (Democracy and Its Global Roots) apparso lo scorso ottobre sulla New Republic ha fatto discutere molto il mondo accademico e politico americano. Questo saggio è una parte del libro - La democrazia degli altri - che esce ora in Italia per la Mondadori (pagg. 88, euro 10).

Le radici della democrazia non sono dunque in Occidente?

«Non dico questo, è un fatto che in Grecia la democrazia ha preso forma. Già nel V secolo a.c. quando ad Atene c´era una sorta di democrazia diretta e si tenevano vere e proprie elezioni. Quello che contesto è che la civiltà greca faccia parte solo della cultura occidentale. Le dirò di più: se prendiamo le diverse storie delle diverse parti d´Europa vediamo che quei paesi che sono oggi un esempio di democrazia, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, al tempo dei greci avevano come antenati i goti piuttosto che i visigoti. Ed è sbagliato non riconoscere i legami culturali e intellettuali che i greci avevano con gli antichi egizi, con i persiani e con gli indiani».

Democrazia vuol dire libere elezioni?

«No. Da sole le elezioni non bastano a stabilire una democrazia. Le faccio l´esempio di Stalin, che come è noto otteneva quasi il 100 per cento dei voti, a volte di più. In tutti i regimi dittatoriali si sono svolte elezioni, dove la gente andava a votare per paura, non per scelta o convinzione. La democrazia è una cosa più complessa».

Proviamo a definirla?

«In una frase? Rispetto delle libertà fondamentali e delle diversità, pluralismo. Io la chiamo la "discussione pubblica", la possibilità di manifestare e discutere liberamente le proprie idee. Da questa "discussione" consegue la partecipazione popolare alle discussioni vere e proprie dei problemi di governo, all´agenda politica».

Lei ha preso un Nobel per i suoi studi sulla povertà, è possibile una democrazia completa nei paesi in via di sviluppo?

«La democrazia completa qual è? Prendiamo l´esempio di questo paese, gli Stati Uniti. E´ un paese sicuramente democratico, eppure sono pochi quelli che vanno a votare, soprattutto tra le minoranze etniche come gli afroamericani. Ma sarebbe sbagliato criticare l´America per questo. Quanto alle nazioni povere, le faccio l´esempio dell´India, il paese dove sono nato. Quando negli anni Settanta Indira Gandhi, che non era un´antidemocratica ma forse venne malconsigliata, tentò di ridurre i diritti civili e le libertà politiche, fu sonoramente battuta alle elezioni. Gli elettori "poveri" decisero che anche in un paese in via di sviluppo come l´India le libertà e la democrazia erano fondamentali».

E´ possibile la democrazia nei paesi islamici?

«Certo che sì. Ripeto la democrazia è un valore globale, è profondamente sbagliato pensare che sia un valore solo occidentale».

E se confligge con i principi dell´Islam?

«Non dico che non ci sia un conflitto con la religione, ma se c´è un conflitto c´è una discussione e questo ci riporta al principio di democrazia come "discussione pubblica". Del resto ogni religione entra in conflitto con la democrazia. La religione può essere, e in certi casi è, un problema. Atene non era una città particolarmente religiosa. Però direi che non dobbiamo dare troppa enfasi agli integralisti islamici come non la dobbiamo dare ai "fondamentalisti" cristiani in questo paese».

Si può esportare la democrazia?

«Io posso esportare qualcosa che io ho e tu no. Dire che noi come "Occidente" esportiamo la democrazia è un comportamento arrogante, significa appropriarsi di qualcosa che non è solo nostro, significa "rubare" la democrazia, un valore che è un´eredità mondiale. Nel nono, decimo e undicesimo secolo c´era più democrazia e tolleranza a Cordoba, dominata dai musulmani, che non in "occidente". Nel dodicesimo secolo il filosofo ebreo Maimonide fu costretto a fuggire da un´intollerante Europa e trovò benevola accoglienza alla corte dell´imperatore Saladino, quello stesso Saladino che combatté per l´Islam contro i crociati. E le crociate le hanno "inventate" in Occidente. Quando Giordano Bruno venne messo al rogo a Roma l´imperatore moghul Akbar proclamava in India la necessità della tolleranza e apriva il dialogo tra genti di fedi diverse: indù, musulmani, cristiani, parsi, jainisti e persino atei».

E´ legittimo imporla con la forza?

«Io non credo che sia il modo migliore. Credo che spetti innanzitutto agli "indigeni", trovare il modo di sviluppare e imporre la democrazia. A volte la pressione e le interferenze esterne sono necessarie; mi viene il mente la Birmania, adesso si chiama Myanmar, ma io preferisco continuare a chiamarla Birmania. Lì la pressione esterna è stata importante».

E l´Iraq?

«Per l´Iraq ci sono state le pressioni degli esiliati iracheni a Washington; il loro punto di vista è discutibile e comunque non era l´unico di cui tenere conto. L´Iraq è un problema particolare».

In che senso?

«Perché non c´è dubbio che era un regime tirannico e sanguinario, una terribile dittatura. Però era un regime "secolare" non un paese islamico integralista. Adesso, dopo l´invasione americana, questa società secolare verrà dichiarata, con una "Costituzione", una società islamica. Ci sono molte contraddizioni in tutto ciò».

Però lei era a favore della guerra in Kosovo. Perché?

«Perché ritengo che fosse un intervento più giusto. L´intervento in Iraq è stato deciso non perché quello era un regime sanguinario ma perché Saddam rappresentava un "rischio" per gli Stati Uniti, anche se poi le famose armi di distruzione di massa non sono state trovate. In Kosovo migliaia di persone, in quel caso musulmani, venivano brutalmente uccise. E l´intervento non venne deciso per difendere gli interessi americani o della Gran Bretagna».

Si può usare la violenza "per" la democrazia?

«La violenza in alcuni casi può essere giustificata, Un esempio per tutti quello della seconda guerra mondiale. Però occorre stare molto attenti. E per tornare all´Iraq io trovo che non avere coinvolto le Nazioni Unite sia stato un grave errore».

Le Nazioni Unite non godono di buona salute non crede?

«Allora prima di parlare dell´Onu le devo dire una cosa».

Che cosa?

«Che io sono un consigliere speciale di Kofi Annan. Lo devo precisare per correttezza».

Allora, cosa pensa un consigliere di Kofi Annan dell´Onu?

«Pagato simbolicamente un dollaro all´anno. Lo dico perché non sono un fan delle Nazioni Unite perché mi pagano, ma sono diventato consigliere speciale perché credo nelle Nazioni Unite. Il problema dell´Onu è che dipende dagli Stati, non solo economicamente, ma anche politicamente. In Iraq l´Onu non c´è perché non ce l´hanno voluta gli americani e gli inglesi. Ed è stato un errore».

Lei è anche un esperto di globalizzazione. Quali sono oggi i problemi più gravi?

«La globalizazione per se stessa non è un problema. La globalizzazione in economia, nelle scienze, in matematica, nella musica è qualcosa che arricchisce l´umanità, è un fatto assolutamente positivo. Il problema è l´ineguaglianza nel partecipare nella globalizzazione».

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