Caro direttore, il presidente Ciampi ha sollevato con forza il problema della scarsa presenza femminile nella rappresentanza politica. Il caso italiano è, in effetti, scandaloso. Purtroppo, nell’imminenza di una scadenza elettorale, bisogna registrare un avvio di discussione tra le forze politiche con deformazioni caricaturali delle proposte in campo per aumentare la rappresentanza di genere.
E’ stata dunque opportuna la pubblicazione su questo giornale dell’articolo di Dahrendorf "Le quote e le ingiustizie", nel quale il grande studioso ricolloca la discussione sulle "quote" nei suoi più ampi termini filosofici e sociali.
I pari diritti, dice Dahrendorf, non bastano a garantire la partecipazione di tutti i cittadini ai beni sociali più ambiti - l’istruzione è l’esempio che gli sta particolarmente a cuore - ed in generale per garantirne la partecipazione alla vita pubblica. Una barriera invisibile separa dall’accesso alla cittadinanza attiva interi gruppi di cittadini diseguali o diversi: la storia del XX secolo è stata anche storia del tentativo di «dare sostanza sociale al concetto astratto di parità di diritti». E proprio la difficoltà di questo compito ha dato origine, in primo luogo negli Stati Uniti, a quella che Dahrendorf definisce la coraggiosa innovazione politica dell’affirmative action (di cui le quote sono un aspetto): una politica che agisce contro la discriminazione e che, con il fine dell’eguaglianza di fatto, deroga all’egual trattamento formale degli individui, favorendo gruppi di svantaggiati o di diversi. Fin qui dunque Dahrendorf loda questa esperienza, inscritta nella vicenda della cittadinanza liberal-democratica. Poi però esprime delle riserve sulle quali vale la pena di soffermarsi, proprio perché propongono in forma alta gli stessi interrogativi che confusamente si aggirano nel dibattito italiano attuale.
Non si rischia, con azioni mirate a promuovere chi appartiene a certi gruppi, di creare nuove ingiustizie? O di promuovere chi è meno capace? Insomma, si interroga Dahrendorf, «può la parità coesistere con l’eccellenza?». Dahrendorf rievoca un famoso caso giudiziario americano, lo studente bianco che non fu ammesso ad una prestigiosa facoltà di medicina a numero chiuso, pur avendo titoli più alti di suoi concorrenti afroamericani che potevano usufruire di una quota. Dahrendorf non ricorda però il dibattito che ne è seguito, un dibattito in cui intervennero non solo politici, ma anche grandi filosofi come Rawls e Dworkin. La Corte Suprema vi pose fine con una sentenza mediatoria: le quote sono legittime, purché non siano rigide, ma semplici orientamenti quantitativi verso i quali tendere. E’ dunque giusto derogare dai trattamenti uguali per creare un’uguaglianza futura: non si crea con ciò ingiustizia, non si impoverisce la qualità della vita sociale e ne può risultare un beneficio d’insieme per tutti. In un recente studio di grande impegno l’ex rettore dell’Università di Harvard, Bok, ha ricostruito con altri studiosi i percorsi e gli ottimi esiti professionali degli studenti che avevano avuto accesso alle Università più prestigiose degli Stati Uniti in virtù delle quote: la parità non è andata contro la qualità. Ma è anche stato rilevato che, se lo stimolo della promozione viene meno, quegli stessi studenti smettono di provare: è accaduto in California, quando 5 anni fa sono state abolite le quote di accesso ed è rapidamente caduta la presenza dei candidati afroamericani e delle donne, gli stessi che avevano avuto successo in precedenza, nel regime protetto.
Questo ci porta a considerare un altro dubbio di Dahrendorf, quello che lui chiama la clausola di temporaneità, la "sunset clause", secondo cui l’azione positiva dovrebbe essere un rimedio temporaneo. Lo studio di Bok ed altri suggerisce che la "sunset clause" non va applicata, se la società continua a riprodurre condizioni di svantaggio: l’affirmative action, l’azione positiva come diciamo in Europa e in Italia, dura finché ce n’è bisogno, di fronte al riprodursi delle diseguaglianze e in mancanza di altri rimedi. Ma cosa accade dell’affirmative action e della sua durata di fronte alle differenze? La domanda ci porta a considerare un altro dei dubbi di Dahrendorf.
Il superamento degli svantaggi è altra cosa dalla cancellazione delle diversità: le differenze possono essere ineliminabili anche perché volute e valorizzate; ciò vale per il genere, le etnie, le religioni. Ha ragione Dahrendorf a non auspicarsi una società meccanicamente omogenea. Ma dimentica che nell’affirmative action vi è anche un messaggio di rispetto della differenza, certo più difficile da realizzare che non quello del superamento della diseguaglianza. E’ più difficile perché porta ad interrogarsi su quali differenze vadano rispettate, e fino a che punto. Ci sono differenze che possono entrare in conflitto con i principi di cittadinanza universale in modo assai più grave delle quote, quando ad esempio alcune minoranze chiedono rispetto per una cultura che lede i diritti degli individui ? si pensi all’infibulazione - in un modo che la società ospite trova intollerabile.
Ma torniamo al punto di partenza. Si tratta di diseguaglianza o di differenza quando si discute di rafforzare la rappresentanza delle donne in politica? Dahrendorf "rabbrividisce" al pensiero di un Parlamento i cui membri siano scelti in base al criterio di appartenenza ad un gruppo, e la preoccupazione è condivisibile. Ma ritengo che Dahrendorf semplifichi troppo un problema complesso quando suggerisce che volere più donne in politica si giustifica solo con la teoria della "democrazia a specchio", mirror democracy, secondo cui ogni gruppo sociale dovrebbe aver titolo ai suoi "naturali" rappresentanti: una teoria che risale alla democrazia corporativa, ed è impropria per una democrazia liberale. Ma è anche improprio per una democrazia liberale che interi gruppi sociali si allontanino dalla partecipazione politica: una massiccia sotto-rappresentanza rappresentativa indica un deficit di democrazia. Come trovare modi per far sì che diseguaglianze e differenze non si traducano in esclusione? Certo, le elezioni sono un punto d’arrivo e bisognerebbe intervenire prima, nel momento in cui si formano le carriere politiche, i gusti per la partecipazione politica. E se non ci si riesce? Quali lezioni trarre dalle esperienze di altre democrazie, in cui spesso le quote sono state efficaci? Sarà meglio studiare e discutere di un problema che si riconosce complesso, piuttosto che liquidarlo con giudizi troppo facili.
(L’autrice è docente di Sociologia del lavoro. Nel 2001 ha pubblicato per Feltrinelli "Donne in quota")
Vai a:
Ralf Dahrendorf, Quando le “quote” provocano ingiustizia