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Ida Dominijanni
La culla infranta della democrazia
2 Dicembre 2005
Scritti 2004
È dall’Europa che nascono la democrazia e la sua crisi, è da qui che si dvrebbe cominciare a superarla. Uno degli insegnamenti di questo articolo, comparso su il manifesto del 14 novembre 2004

Ci stiamo americanizzando due volte, dice Yves Mény parlando di populismo e democrazia da europeo ed europeista convinto ancorché alquanto deluso e disilluso. Il Vecchio Continente importa dall'America del nord il rigetto per i partiti, la retorica dei valori popolari, le tecniche di marketing in campagna elettorale; dall'America del sud la denuncia della corruzione delle élite, l'abuso dei media nel discorso politico, la retorica violenta che spara a voce alta l'indicibile; e da tutte e due, America del nord e del sud, il mito del capo - la leadership al meglio, il caudillismo al peggio - che nella costellazione populista fa sempre da pendant all'appello al popolo. Non è una buona notizia per l'Europa e i suoi retori, politici e intellettuali, troppo spesso sicuri di una superiorità e di una superiore tenuta delle forme della democrazia nella culla della politica. Anche le culle talvolta si sfasciano, sotto l'urto della crescita poco conforme dei figli. E infatti le vicissitudini del populismo disegnano precisamente questo circolo, dalle origini europee della democrazia e ritorno, passando per le forme - o le deformazioni - che la democrazia ha preso via via in giro per il mondo. L'Europa è l'origine e il punto terminale della crisi: per la buona ragione che la crisi sta dentro l'origine. All'origine del populismo c'è infatti una doppia tensione irrisolta che è della democrazia: fra il corpo del popolo e la forma della rappresentanza, e fra la sovranità popolare e i limiti che le impone il costituzionalismo. Fra la «verità» delle masse e i «tradimenti» delle élite, fra il «caldo» della vox populi e il «freddo» delle regole. In teoria, una buona democrazia dovrebbe stare in equilibrio fra queste contraddizioni. In pratica, nessuna democrazia riesce oggi a mantenere questo sano equilibrio. E se la corrente populista tira dappertutto, in alcuni casi investendo non i margini ma il centro della scena politica, acquista evidentemente valore di sintomo della malattia democratica: il populismo essendo nient'altro che «un'ombra proiettata dalla stessa democrazia», per usare le parole di Margaret Canovan che ne è fra i principali studiosi, una sfida continuamente rilanciata da gruppi esclusi o penalizzati dalla rappresentanza al «bluff» di un sistema che garantisce il voto a tutti e il potere a pochissimi.

Il che comunque non esaurisce il problema, né la sua topografia. Volendolo approfondire, i due fascicoli dedicati al populismo in contemporanea da Filosofia politica e Ricerche di storia politica (entrambe edite dal Mulino e in libreria in questi giorni) offrono ampi materiali sia sul concetto sia sulla storia del populismo (in Russia, in America latina, negli Usa, in Europa), mostrando come il sintomo del disagio democratico, innestandosi su contesti diversi, acquisti di volta in volta anche valenze diverse, e attragga interpretazioni diverse. Questo spiega come mai accada, ad esempio, che a una stessa costellazione di fenomeni «populisti» possa essere attribuito un significato regressivo e di destra nelle democrazie nord-occidentali, progressista e di sinistra nei paesi latinoamericani (Loris Zanatta, in Filosofia politica). O come sia complicato, se non sbagliato, tracciare linee certe di demarcazione fra destra e sinistra nel populismo statunitense (Ronald Formisano, in Ricerche di storia politica), dove la stessa retorica populista si rintraccia tanto nei movimenti progressisti per i diritti civili dagli anni `40 ai `60 quanto nel «contraccolpo bianco» reazionario che ne seguì e, negli anni `80 e `90, tanto nella campagne elettorali del reverendo democratico Jesse Jackson quanto in quella del miliardario repubblicano Ross Perot. E oggi, osserva Mény, tanto nella campagna elettorale di Bush quanto in quella di Kerry.

Aggiunge tuttavia Mény che il sistema americano prevede una sorta di bilanciamento fra la retorica populista «calda» a livello statale e la forza «fredda» dello stato di diritto a livello federale. Mentre nelle democrazie europee, dove la democrazia costituzionale e rappresentativa è più forte, le spinte populiste rischiano di essere più esplosive: si tratterebbe dunque di trovare sbocchi per quella vox populi che non si sente rappresentata dai parlamenti ed esplode nell'antipolitica, nel leghismo, nel lepenismo. Aggiornando in qualche modo quell'equilibrio malcerto fra popolo ed élite, sovranità popolare e regole che dicevamo all'inizio. Ricetta difficile ma plausibile, se vogliamo mantenere un qualche tasso di ottimismo, o come suggerisce Mény di «dover essere» democratico. Ma è lecito anche un maggior pessimismo e disincanto nei confronti di questa crisi «originaria» dell'equilibrio democratico: tanto più che esso è oggi terremotato dalla globalizzazione e dalla fine contemporanea dello stato- nazione e del popolo-nazione. E forse proprio la fine del popolo-nazione potrebbe essere una buona occasione per ripensare la costituzione di quel demos che la teoria democratica ha da sempre.

Sulla democrazia:

Luciano Canfora, La democrazia qui e oggi

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