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Francesco Erbani
Ippolito Pizzetti, i giardini e la storia
17 Agosto 2007
Altri padri e fratelli
Ricordo di un padre italiano della sensibilità contemporanea al paesaggio e all’ambiente. La Repubblica, 17 agosto 2007, l'immagine dal Corsera

La laurea in architettura l’ha presa solo nel 2004. Honoris causa. Ippolito Pizzetti, il più illustre fra i progettisti di giardini, disegnatore di forme e di profili paesaggistici, oltreché botanico, in realtà si era laureato in Letteratura italiana con Natalino Sapegno, anno accademico 1950. Argomento: Cesare Pavese. E la formazione umanistica ha sempre condizionato il suo sguardo sulla natura.

Pizzetti è morto ieri a Roma. Aveva ottantun anni. «Sono diventato naturalista quasi per caso», ha raccontato una volta. «Come Vita Sackville West», diceva. Il suo sogno era quello fin da quand’era bambino, ma con il passare degli anni nella sua vita è comparsa la letteratura, sono apparsi Goethe e Stifter, Lawrence e Thomas Hardy. «Non mi rendevo conto che diventavo un paesaggista leggendo Etruscan places di Lawrence oppure Nachsommer di Stifter».

Pizzetti è stato un cultore del paesaggio come luogo al quale si accede da molti punti d’osservazione, ma la cui fisionomia mescola le competenze, scioglie le discipline che rischiano, se fossilizzate, di sezionarlo a seconda se chi lo percepisce è un esperto di fiori, di architettura o di estetica. È stato il primo in Italia a ritagliare uno spazio specifico, dal punto di vista culturale, per la cura, la manutenzione e il restauro del verde. Pizzetti è stato insegnante universitario (prima a Roma, Venezia, Palermo, ora a Ferrara) e autore di saggi ( Il libro dei fiori del 1968, diventato poi una Garzantina nel 1998, Piccoli giardini, Robinson in città. Vita privata di un giardiniere matto). Gran parte della sua popolarità è legata alla collaborazione a giornali e riviste (dal 1975 al 1985 ha curato la rubrica "Pollice verde" sull’ Espresso, ma ha scritto anche per il Corriere della Sera, per La Stampa e molto per Repubblica), diventando divulgatore in un senso pieno del termine. Infine è stato progettista, da solo e con celebri architetti: fra gli altri, Ludovico Quaroni, Giancarlo De Carlo, Gino Valle, Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino. In tutte queste occasioni ha saputo offrire di un paesaggio e di un giardino un’immagine unitaria, un assetto definito nei suoi aspetti fisici e compositivi. Di essi ha fornito la narrazione viva, scrutandoli nella loro storia, nella storia dei loro elementi, nelle relazioni che intessono con il contesto.

Nel paese in cui il cemento avanza con andatura militaresca, Pizzetti non ha fatto mancare la sua voce quando si è trattato di difendere i diritti del verde - il verde inteso sia nella sua componente più naturale che in quella di artificio. È stato lui, ad esempio, a denunciare insieme ad altri la distruzione del patrimonio di ulivi secolari in Puglia.

Era nato a Milano, figlio di Ildebrando, musicista di grande notorietà durante il fascismo, operista e organizzatore culturale. Ma ha vissuto quasi sempre a Roma. Dopo la laurea, si è impegnato come traduttore. Si racconta sia stato Pietro Citati, un giorno, verso la metà degli anni Sessanta, a chiedergli un parere su un libro di orticoltura che stava per essere pubblicato da Garzanti. Pizzetti lo giudicò noiosissimo. «Perché non lo scrivi tu?». Nacque così Il Libro dei fiori, seguito dalla collaborazione all’ Espresso.

Negli ultimi anni Pizzetti abitava fra la Cassia e Corso Francia, in una palazzina con un grande terrazzo esposto a mezzogiorno. Un giardino può vivere anche sul terrazzo di un quartiere residenziale, teorizzava. Perché il giardino è l’espressione di una poetica. E questa può realizzarsi ovunque. Ma il suo paesaggio ideale era un paesaggio del Nord, ha detto una volta in una intervista. «Penso alla quercia e all’ornello, che sono le piante del Nord, come quelle del Sud sono l’ulivo, la sughera e il carrubo». Aveva in mente un bosco profondo, ormai scomparso.

Nelle sue fibre si agitava una vena polemica che si condensava in una scrittura asciutta e colta, tagliente e argomentata. «È assurdo», diceva, «ma in Italia i giardini non hanno alcun rapporto con le piante del luogo. I parchi pubblici, in Emilia, sono pieni di conifere. Le ha volute la moda, il gusto dell’altro, il rifiuto di piante che sentissero le stagioni». Cercava di bandire i luoghi comuni. Detestava i boschi costruiti, diceva, dalla forestale, da improvvisati botanici «che distruggevano il paesaggio delle coste piantando forsennatamente eucalipti». Un’avversione, quella per gli eucalipti, che faceva il paio con quella per le ossessioni geometriche. «Fin dall’infanzia ho avuto un profondo orrore per la geometria», e ciò lo rendeva diffidente verso il giardino all’italiana. Il giardino era ai suoi occhi come l’otium dei latini, il luogo di un piacere privato, un piacere che si esaltava nella cultura araba perché si nutriva di odori e di tatto. «Invece nella tradizione cattolica un giardino può essere bellissimo, ma resta un luogo di peccato, come quello di Klingsor, nel Parsifal».

Fino a che non gli hanno dato la laurea honoris causa era un paesaggista non architetto. Non la sentiva come una diminuzione. «I giardini io non li disegno, io vado sul luogo e decido come mettere le piante, poi magari faccio anche fare un disegno: ma per me è molto più importante conficcare dei bastoncini nel terreno e dire: qui ci va questo, qui quest’altro».

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