ROMA— S’avanza in Italia un consumatore sobrio, perché più povero ma pure più consapevole, e a chilometro zero. Attratto dai luoghi commerciali dove si offre o prepara cibo, meno dai maxi-televisori al plasma. La crisi economica, arrivata alla sesta stagione, sta cambiando ilmoodcommerciale degli italiani e piallando il mausoleo moderno del consumo di massa: l’ipermercato.Alla fine del 2012 in Italia ci saranno dieci ipermercati — aree di commercio superiori ai 4.500 metri quadrati — nuovi, quando quattro anni fa ne furono inaugurati trentasette. Ma solo la Coop ne sta rottamando sei in Toscana, togliendo la scritta iper dalle insegne di Montecatini e Montevarchi, Sesto Fiorentino e Arezzo, Lastra a Signa e Navacchio. Sta progettando, quindi, di trasformare gli ipermercati in superstore in Sicilia, in Puglia e in Campania, «regione dove il commercioè fortemente irregolare». La Conad, ancora, ha cambiato anima al suo negozio extra large di Rimini e i francesi di Carrefour sono usciti con il loro marchio dagli “iper” della Puglia e della Basilicata.
Ci sono dati facilmente leggibili a dimostrare la tendenza: per la prima volta quest’anno le superfici di vendita degli ipermercati non sono praticamente cresciute (+ 0,3per cento) quando nei sei anni precedenti erano salite del 32 per cento. E a fronte di superstore (più piccoli, più centrali, con ilfoodcome merce d’attrazione) che crescono, i volumi di vendita nei 450 “iper” italiani si contraggono (-1,4 per cento) e così i fatturati (-2,4 per cento). È la prima volta dalla loro nascita. La novità, economica e antropologica, si racconta meglio spiegando come le piastre commerciali da un ettaro approdarono in Italia a metà degli anni ’80: si iniziò in Lombardia (che oggi ha 236 ipermercati, quasi uno ogni tre) e il fenomeno portò con sé un’idea di consumo ipertrofico, «un eccesso di spesa», sostiene l’ultimo report della Coop azzardando un rapporto tra la bulimia dell’acquisto e il debito pubblico.
Si poteva trovare ogni cosa, in un “iper”. E le economie di scala consentivano di abbassare i prezzi. Tutto e conveniente. Il problema, trent’anni dopo, si è scoperto duplice: l’aumento del costo della benzina ha tolto all’ipermercato, situato in aree periferiche, la sua fetta di convenienza sicura. E poi sta cambiando l’uomo italiano, che i suoi duemila euro al mese in media non li vuole più buttare in grandi confezioni, ma preferisce usare più a lungo e destinareil welfare personale al cibo di qualità, spesso bio, spesso etnico, e alla conoscenza (tablet e iPhone). Il resto dei consumi, oggi, è crollato.
«Il modello ipermercato fuori dai centri urbani è in difficoltà in tutta Europa», dice Francesco Cecere, direttore marketing della Coop. «In Toscana abbiamo scelto di toglierespazio all’extra alimentare per concentrarci sul cibo, settore che da noi non declina. Non abbiamo messo la parola fine agli ipermercati, ma le nuove iniziative oggi si concentrano su metrature contenute, la vicinanza a città e paesi, la prossimità ai quartieri. Stiamo aprendo un superstore a Mulinella, sedicimila abitanti vicino a Bologna, e strutture simili a Mestre. In Italia si sonoinaugurati troppi ipermercati e in alcune aree si sta tornando indietro». Intrattenimento e convivialità, risparmio e sostenibilità, visto che l’acquisto massificato di prodotti non tira. I duemila metri quadrati che saranno tolti a ogni “iper” in Toscana (due, in realtà, saranno dimezzati) serviranno per allargare l’area cibo, creare gallerie commerciali, librerie e - novità - ristoranti. In una grande distribuzione che per sopravvivere si ibrida, ecco che all’ex cinema Ambasciatori di Bologna la cucina di Eataly è entrata in un superstore Coop.
Carrefour conferma: stiamo ragionando su una riduzione degli spazi di vendita e ripensando il prodotto. Pino Zuliani, direttore marketing della Conad: «La crisi vera è sugli iper di grandi dimensioni». Auchan, che comunque ha battezzato l’ultima delle sue 58 strutture oltre due anni fa, assicura che la voce “iper” per loro resta il futuro: «Puntiamo a essere i migliori d’Italia». La Methos, ricerche di mercato, dettaglia la situazione nel Lazio, 50 centri: «I grandi scatoloni a trenta chilometri dal Raccordo non incontrano più i favori del pubblico».
Postilla
Brevemente quanto decisamente, come si addice ai commenti sommari sui massimi sistemi: al ragionamento dell’articolo mancano (quasi ovviamente) almeno due aspetti, cioè l’avvenuta mutazione del mercato locale e le modalità dell’urbanizzazione globale. Che paiono appunto fumosi massimi sistemi finché non li si definisce un po’ meglio.
Primo, i bacini territoriali locali del nostro paese hanno tutti ormai subito la frattura dell’ingresso, piuttosto deciso e ingombrante, della grande distribuzione organizzata, che è lì per restare, e stabilire i termini della concorrenza. Non è la fine dell’invasione semplicemente perché l’invasione è già finita da un pezzo, con la vittoria soverchiante degli invasori, oggi legittimi abitanti e parte condivisa dell’identità regionale. La frattura, per usare un termine sociologico anni ’70, ce la siamo lasciata alle spalle, gli iper hanno fatto il loro mestiere e adesso la rete cambia pelle, ma rimane tale in quanto nuovo organismo, al tempo stesso assai diverso dall’antico sistema delle botteghe e via via lontano dal modello della fabbrica centralizzata novecentesca, a cui afferisce l’ipermercato.
Secondo, l’urbanizzazione contemporanea nei paesi ex industrializzati occidentali sta assumendo – per fortuna e per forza - caratteri via via più sostenibili e legati alla dimensione locale, a una certa efficienza e risparmio, si allontana almeno tendenzialmente dalla centralità automobilistica e dalla pura crescita quantitativa. Uno dei segnali vistosi di questo processo è la migrazione verso la densità urbana dei grandi contenitori e reti, che restano tali ma si smaterializzano, diluendosi nello spazio, ma (attenzione) restando grandi nella capacità di condizionamento. Sta alla società e alle istituzioni che la rappresentano il compito di “metabolizzare” dentro il contesto ambientale e di relazioni della città e del territorio i nuovi venuti, addomesticandoli per quanto possibile e facendoli almeno assomigliare a cittadini integrati che danno il proprio contributo come tutti gli altri.
Il resto, è solo pubblicità e autopromozione. Qualche dettaglio in più sui vari percorsi della nuova migrazione urbana del commercio negli ultimi interventi miei in Mall Spazi del Consumo (f.b.)