È come se, d’improvviso, le solitudini delle nostre città si fossero fatte più acute, il loro degrado più irreversibile, la loro ingiustizia più radicale. Assieme agli occhi dell’architetto e urbanista Italo Insolera (nato a Torino nel 1929 e scomparso a Roma lunedì) si spegne, infatti, uno degli ultimi sguardi capaci di diagnosticare il male che sforma il nostro tessuto urbano e, con esso, il nostro modo di essere, anzi di non essere più, cittadini.
Una delle ultime, fulminanti diagnosi, Insolera l’aveva affidata a un’intervista a Francesco Erbani (Repubblica, 13 aprile 2010): “L’urbanistica? È ormai figlia dell’architettura. E l’architettura ridotta a pura forma assorbe tutto il dibattito culturale. Tutto lo spazio dell’informazione. Diventa il paradiso delle archistar. Si bada più al singolo progetto che non al disegno complessivo. Più al singolo manufatto che non alla città. Più all’individuo che non al collettivo. Occorre invece che l’urbanistica recuperi la sua linfa sociale”. Parole profetiche, una per una: proviamo a verificarle pescando a caso nella cronaca di questi giorni, anzi di queste ore.
Ieri il ministro Corrado Clini (che ormai porterà incollata per sempre la definizione geniale che ne ha dato Riccardo Mannelli su questo giornale: “Il ministro dell’Abbiente”), il governatore del Veneto, il presidente della Provincia e il sindaco di Venezia hanno inaugurato la mostra sul cosiddetto Palais Lumière di Pierre Cardin. Ancor prima che l’Enac dica se la torre di 250 metri che dovrebbe nascere a Marghera sia compatibile col traffico aereo, le istituzioni benedicono e consacrano un progetto – il dettaglio è grottesco – che scaturisce dalla tesi del nipote dello stilista, laureatosi con essa a Padova nel 2011. Le stesse istituzioni che non sono state capaci di aprire un vero confronto pubblico sul recupero della zona industriale di Marghera, di pianificare un risanamento urbano attraverso la partecipazione popolare, si prostrano all’istante di fronte a un singolo privato che presenta un progetto faraonico fatto in casa, che si basa sull’evidente desiderio di “oltraggiare Venezia” (così Salvatore Settis), modificandone per sempre lo skyline con una gigantesca torre luminosa degna del più cafone degli emiri.
Immancabilmente, il dibattito pubblico si è concentrato sulla forma della torre e sul suo valore estetico (“è bella o non è bella, mi piace o non mi piace”) sotterrando sotto il soggettivismo dell’archistar (in questo caso dell’apprendista archistar) ogni idea di città, di sviluppo sociale, di comunità. Naturalmente l’argomento più forte è che Cardin ci mette i soldi, e che siccome è molto anziano bisogna dire di sì all’istante: così, come in un nuovo medioevo, le torri dei feudatari più ricchi e potenti simboleggiano nel modo più violento e indelebile il trionfo degli individui sul collettivo, espellendo dalle vene esauste dell’urbanistica italiana le ultime gocce di linfa sociale (per usare le parole di Insolera).
In un bellissimo ricordo di quest’ultimo comparso ieri sul Corriere della Sera di Roma, Paolo Fallai ha citato un’intervista del 1993, quando qualcuno propose la candidatura dell’urbanista a sindaco di Roma. Insolera era forse il più profondo conoscitore della storia urbanistica recente della città, a cui nel 1962 aveva dedicato il fondamentale Roma moderna, ripubblicato da Einaudi nel 2011, con ampliamenti e contributi di Paolo Berdini (il quale è vicino a Insolera anche nell’impegno civile). Ma, nonostante questa indubbia competenza, Insolera declinò l’invito, e non già per pigrizia o codardia: “Non ho mai pensato di aver l’idea chiave in grado di capovolgere le cose – dichiarò in quell’intervista –. Un uomo, un’idea, un progetto non cambiano niente. Può riuscirci solo un lavoro faticoso, paziente, di tante persone. Solo la società può cambiare la società”. E al giornalista che gli chiedeva quando Roma sarebbe potuta rinascere, Insolera rispose: “Quando tornerà l’ideologia, una qualsiasi, si potrà fare. Per ricostruire, per risanare, occorre prima sapere quale tipo di città si vuole”.
Vent’anni dopo non solo questa analisi è ancora drammaticamente attuale, ma si può trasferire dall’urbanistica alla politica, da Roma all’Italia: con l’abdicazione della politica e il commissariamento dei tecnici tentiamo di risanare e ricostruire un Paese facendo a meno di un progetto comune. Ma, continua a martellarci la voce di Insolera, “solo la società può cambiare la società”.