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Ida Dominijanni
In che paese
15 Febbraio 2007
Scritti 2005
Che cosa cambierà dopo lo scandalo Unipol? che cosa è già cambiato? Da il manifesto del 30 dicembre 2005

La domanda è: che paese è un paese che da sei mesi guarda una complicata soap-opera economico-finanziaria con un cast mediocre di star dell'editoria, prim'attori affaristi e comparse politiche, fa fatica - comprensibilmente - a capire il plot, contempla rassegnato un'economia bloccata, non sogna più né cultura né ricerca né lavoro né consumi, e non reagisce? Domanda fuori luogo: nessuno story-liner ha davvero a cuore le sorti del suo pubblico, gli basta tenerlo incollato davanti al video e suscitarne mediocri reazioni emotive. Che tutto fa un po' schifo è la mediocre reazione che la soap suscita, alimentando la deriva antipolitica che travolge l'Italia in perenne transizione. Una transizione che da quindici anni scorre e si impantana sul crinale, anzi sull'intreccio, fra affari e politica. Troppi paragoni si sprecano fra Bancopoli e Tangentopoli, peggio questa o peggio quella, come se un paese governato da Silvio Berlusconi potesse stupirsi se il problema è rimasto lo stesso sotto la finta numerazione delle repubbliche in prima, seconda e terza: fine dell'autonomia della politica; subordinazione della politica all'economia, e degli interessi pubblici agli interessi privati; gestione mass-mediatica della sfera pubblica. Il problema sta qui, e chi prima riesce non diciamo a risolverlo, ma almeno a istruirlo avrebbe qualche chance di vincere la partita.

Non è stato un buon modo di risolverlo, e nemmeno di istruirlo, l'idea che bastasse aggiungere una finanza rossa al panorama per passare la linea d'ombra della modernizzazione di un partito ex-comunista e partecipare al mercato politico ad armi più pari. Non è e non è mai stata in questione la liceità della scalata Unipol; ma non può nemmeno bastare adesso liberarsi delle mele marce Consorte e Sacchetti e perseverare come nulla fosse. L'episodio, dice Napolitano, porti consiglio ai vertici diessini: sulle prospettive della finanza rossa, sul rapporto fra soldi e politica, sui criteri di valutazione dei «capitani», rossi e non, che di volta in volta tentano - legittimamente, ma la legittimità non fa lo stile né il senso né il consenso - l'assalto a questo o quel bastione del capitalismo nazionale.

Ma non solo. Checché resti legittima l'opa Unipol è morta, si dice ora; il partito democratico, invece, può nascere. Al saldo delle scalate e delle inchieste, il risultato è che il precoce crack della finanza rossa travolge con sé quel residuo di mondo ex-comunista che le coop rappresentano e quel residuo di leadership più socialista che democratica che Massimo D'Alema, agli occhi infastiditi di molti, ancora incarna. Consorte ha barato, D'Alema e Fassino hanno perso, Carlo De Benedetti ha ragione, il futuro è democratico, Veltroni e Rutelli si mettano al volante. La sequenza sarebbe questa, con l'oscar per la regia al Corsera, che in soli sei mesi sbaraglia gli scalatori suoi e quelli altrui e detta la linea della riforma finale della politica e della normalizzazione finale dell'Italia.

Troppo facile. Dietro le quinte della mediocre soap bancaria, resta il problema, e vale per il salotto buono non meno che per i parvenus, di un capitalismo italiano che non ha mai conosciuto un'etica del capitalismo. Resta il problema di un suo perimetro troppo ristretto, familistico e arroccato per consentire a nuovi attori, più presentabili di Ricucci e Consorte, di venire alla luce. Resta il problema di una politica troppo impastata di affari e di una televisione fatta di affari e politica, ma anche quello di una stampa troppo legata ai suoi azionisti di riferimento. Resta il problema di un blocco di potere, economico ed editoriale, che a scadenze ritornanti sbarra la strada, con metodi propri e impropri barche comprese, allo squilibrio che nell'establishment italiano potrebbe portare quello che resta del ricordo della sinistra di ieri. Resta infine, immutato, il problema di una sinistra di oggi, che l'ennesimo cambio di etichetta, più americana che europea, archivia senza risolvere. E che forse, più che con gli alfabeti accattivanti su Europa, potrebbe provare a inaugurare l'anno con una ruvida analisi del capitalismo italiano.

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