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Ida Dominijanni
Multiculturale, non basta la parola
15 Febbraio 2007
Scritti 2005
Non esistono ricette semplici per risolvere problemi complessi. Riflessioni a proposito di un libro di Laura Lanzillo. Da il manifesto del 28 febbraio 2005

Dice il papa che Dio punirà chi sparge in suo nome il sangue del fratello. Ma chi punirà gli stati per il sangue versato, il dolore seminato, le esclusioni sancite nel nome dello Stato? La lunga storia della modernità secolarizzata che si aprì con la pace di Westfalia dopo le guerre di religione e sembra chiudersi o regredire con i conflitti culturali dell'era globale non ha eliminato ma solo regolato e istituzionalizzato quella violenza che le nuove guerre di religione di oggi ci ripresentano in forma postmoderna. Senza tuttavia che il lessico politico della modernità, incapace di fronteggiare e spesso anche solo di rappresentare il panorama del presente, sia uscito dai suoi paradossi originari. Di fronte ai problemi nuovi usiamo parole vecchie, o tarate da vecchie aporie. E di fronte all'offensiva teocon, il lessico politico progressista si rivela in affanno: a chi predica intolleranza sentiamo che non basta replicare con l'appello alla tolleranza, come a chi predica la superiorità della cultura occidentale non basta replicare con la parola magica del multiculturalismo. C'è bisogno di uno sfondamento del discorso; ma in quale direzione?

Multiculturalismodi Laura Lanzillo (Laterza, pp. 140, 10 Euro) è un ottimo strumento per orientarsi in queste difficoltà, proprio perch é l'autrice si pone sul bordo di crisi di questa parola, data per scontata in molte ricette politiche di sinistra, e lo risale fino a rintracciarne l'origine nei paradossi costitutivi dell'universalismo occidentale. Se infatti la storia del termine è relativamente recente (il problema si pone negli Stati uniti negli anni 60, quando l'equilibrio del melting pot cede sotto la pressione all'inclusione dei neri e delle minoranze in lotta per i diritti civili), l'arco spazio- temporale a cui rinvia è quello degli ultimi due secoli su entrambe le sponde dell'Atlantico, e la costellazione concettuale in cui va inserito è quella della politica moderna, a fianco alle grandi parole cardinali - stato, nazione, popolo, libertà, uguaglianza, diritti - che oggi palesano a loro volta segni di crisi irreversibile. E ripercorrendo il dibattito sul multiculturalismo che ha animato prima la filosofia e la scena pubblica americana, poi quella europea nella forma di un rilancio del tema "classico" della tolleranza, si capisce perché le difficoltà in cui versa la ricetta multiculturale vadano riportate a quelle in cui versa quell'intera costellazione. Sia nel dibattito nordamericano (lo scontro fra il paradigma communitarian di Taylor e quello liberal di Rawls, con le successive complessificazioni di Kymlicka, Walzer, Seyla Benhabib), sia in quello europeo (Habermas, Veca, Elisabetta Galeotti), le pur diverse e talora opposte risposte multiculturali al problema del riconoscimento e dell'inclusione nelle democrazie occidentali di gruppi, etnie, culture altre dal nucleo originario della cittadinanza bianca ripetono i paradossi originari dell'universalismo. Riproducono cioè, epistemologicamente prima che politicamente, la logica binaria dentro / fuori, inclusione / esclusione, su cui lo stato moderno e l'universalismo si sono affermati; e anche nelle loro versioni più radicalmente democratiche riproducono la gerarchizzazione fra «noi» e «loro», fra chi accoglie, assimila e tollera - e decide i criteri in base ai quali accoglie, assimila e tollera - e chi viene accolto, assimilato e tollerato. Non solo: anche nelle versioni più radicalmente democratiche, il multiculturalismo ripete la mossa di «essenzializzazione» delle culture altrui, presentandocele come una sorta di «bagaglio» precostituito che «gli altri» si portano appresso, reificandone e fissandone così, performativamente, le caratteristiche. Il che equivale a dire che molte ricette multiculturali, predicando una politica delle differenze, ripropongono in realtà una politica delle identità. E' attraverso queste ripetizioni che l'universalismo si ripresenta, ad ogni allargamento del cerchio, ineluttabilmente segnato dalla sua contraddizione originaria: più include più torna a escludere, più si pone obiettivi egualitari più gerarchizza.

Non c'è via d'uscita? Sì, ma a patto di spostare nettamente la prospettiva, suggerisce giustamente Lanzillo: dallo stato ai soggetti in carne e ossa, dall'identità alla differenza, dal normativismo alla narrazione esperienziale. Partendo dall'antropologia reale del presente, si vede che il mondo non è fatto di culture compatte che si confrontano e si scontrano, ma di soggetti meticciati e ibridi, di identità differenziali e in progress che si formano in relazione ad altro e agli altri, di culture contaminate l'una dall'altra che si nutrono di comunicazione non trasparente. La narrazione di sé di questi soggetti più che il consenso alla norma può suggerire e produrre sul campo nuove abitudini di convivenza. E le due grandi parole cardinali della modernità, uguaglianza e libertà, possono avere ancora da dire se si spogliano l'una della sua valenza omologante e assimilatrice, l'altra delle troppe garanzie da cui è presidiata, per aprirsi al rischio e all'imprevisto che ogni incontro con l'altro inevitabilmente comporta.

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