Il fatto è che tra il dire e il fare ci sono in mezzo gli affari: se vogliamo essere più precisi, un’idea perversa nascosta dietro l’etichetta della parola dell’innocente parola “sviluppo” Un'idea che sul territorio genera cemento e asfalto. L’Unità, 24 novembre 2013
Nulla di nuovo sotto la pioggia, nemmeno quella che lunedì notte ha trasformato metà Sardegna in un lago di morte. Nulla di nuovo perché, come troppo spesso capita, tutti sapevano, qualcuno ha detto, nessuno ha fatto. Tutti sapevano e tutti sanno che in Italia il territorio è un malato senza cure, dunque fragile. Ed è per questo, non altro, che le frane e le alluvioni sono la regola, non l’eccezione, che negli ultimi sessant’anni ha provo cato 5500 vittime. Tutti sapevano e tutti sanno che i cambiamenti climatici non sono più la folle idea di qualche «ambientalista in sandali infradito» (definizione di Gian Antonio Stella) ma una teoria accettata da tutta o quasi la comunità scientifica internazionale.
È vero, non sappiamo e non possiamo sapere con certezza quanta di quella pioggia torrenziale fosse dovuta alla normale bizzarria della natura e quanta alla coperta di gas che stiamo tessendo nell’atmosfera anno dopo anno e che continueremo a tessere dopo il fallimento della Conferenza Onu ieri a Varsavia. Ma una cosa è certa: quei fenomeni così potenti e così estremi non potranno che aumentare, non certo diminuire. E allora perché continuiamo a far finta di nulla, a costruire e condonare, a ricoprire la terra con uno strato di asfalto e cemento? Il 7% del Paese è avvolto da questa impermeabile coltre ma è un dato fuorviante: nelle aree metropolitane quelle dove si vive, si lavora, si dorme abbiamo coperto il 50% del terreno.
La verità è che stiamo progettando e realizzando un Paese sempre più inadeguato a ricevere le grandi quantità di pioggia (bombe d’acqua, cicloni extratropicali, chiamateli come volete) che d’ora in avanti saranno sempre più frequenti. Dal 1956 gli italiani sono aumentati del 24% come popolazione ma il consumo del suolo è cresciuto sette volte di più, arrivando al 156%: ogni cinque mesi viene cementificata una superficie pari al comune di Napoli. Dove finisce l’acqua che cade sulle nostre città? Rimbalza nel cielo? O si infila nei sottopassaggi, nei tunnel, nei seminterrati come quello in cui vivevano i Passoni, morti affogati come i turisti del Titanic?
Nel 2013 in Italia si muore di pioggia: questa è la drammatica realtà di un Paese che parla (o ha parlato) di grandi opere ma dimentica le più elementari regole di manutenzione e prevenzione. Come il divieto di costruire nelle zone a rischio, la cancellazione della parola condono, la restituzione dello spazio naturale ai fiumi che devono essere lasciati liberi di esondare in tutta sicurezza e in zone non abitate o non pericolose.
C’è un punto, nella vicenda sarda, che inquieta in modo particolare: l’ostinazione a non fare i conti con la realtà. Per quanto violento, il «ciclone» di lunedì scorso (400 millimetri, la pioggia di sei mesi in una notte) non è stato un episodio senza precedenti. Sempre in Sardegna nell’ottobre del ’51 caddero sull’Ogliastra 1400 millimetri in quattro giorni: ci furono cinque morti e due paesi, Gairo e Osini, abbandonati. Nel dicembre 2004, sempre sull’Ogliastra, vennero giù 517 millimetri in 24 ore. Cinque anni fa nel Campidano, a Cagliari, 372 millimetri in poche ore.
Guardo sconcertato la terra di mio padre, la Gallura devastata dall’acqua e i cognomi familiari travolti dalla tragedia. Ma se dopo l’ora del dolore arrivasse anche quella del perché, le domande andrebbero poste ad ogni livello. Il discorso è quello che abbiamo fatto in pochi tante volte, così tante da farci zittire, rei di dire sempre le stesse cose.
Con autentico sprezzo del ridicolo, il governatore della Sardegna Ugo Cappellacci è intervenuto pochi giorni fa dicendo che la tragedia della sua Regione non cambierà il nuovo «piano paesaggistico» che cancella quello del centrosinistra del 2006 e prevede meno vincoli per nuovi progetti e nuove costruzioni, compresi 25 campi da golf accompagnati da tre milioni cubi di ristoranti, case e alberghi: «Dovrò pur dare a un golfista una club house e un posto dove mangiare bene». Nell’Italia dove si parla di alzare la benzina piuttosto che far pagare l’Imu ai ricchi succede anche questo. Tutti sapevano e tutti sanno: ma allora perché dopo ogni «disastro annunciato» ripetiamo e ascoltiamo le stesse frasi e gli stessi commenti, come il lunedì mattina al bar dopo le parti.
Certo, mettere in sicurezza il territorio costa, perché si parla di 40 miliardi, euro più euro meno. Una cifra «bella e impossibile» ma sempre più bassa dei 61,5 miliardi di danni collezionati dal 1944 al 2012 fra frane e alluvioni che salgono a 232 miliardi se contiamo gli effetti dei terremoti. Cosa costa di meno: stare fermi e guardare o decidere e fare?
L’unica vera grande opera di cui abbiamo bisogno è la messa in sicurezza del territorio. Così come una buona prassi politica sarebbe definire «virtuosi», non i Comuni che rispettano i conti di bilancio, ma quelli che salvano le vite dei loro abitanti applicando le norme di sicurezza e aggiornando i piani di emergenza, come invece non è avvenuto in molte aree della Sardegna e non avviene in molti Comuni d’Italia.
John Maynard Keynes diceva che per rimettere in moto l’economia in tempo di crisi bisognerebbe far circolare denaro anche a costo di creare lavori inutili ma regolarmente pagati: piuttosto che tenere la gente a casa senza stipendio e senza consumi, diceva, era meglio impiegarla a scavare delle buche al mattino per riempirle la sera. E se al posto delle buche mettessimo in sicurezza il Paese?