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Francesco Erbani
Il sindaco contro i vandali
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
La seconda tappa del viaggio di Francesco Erbani tra i paesaggi italiani, su Repubblica del 28 agosto 2003. L’epica vicenda del Sindaco Gerardo Rosania e della demolizione di 400 villette abusive nella pineta marittima di Eboli.

«Se avessimo dovuto farlo ora, non avremmo abbattuto niente, nessuna villetta, nessun abuso». Lo sguardo di Gerardo Rosanìa, sindaco di Eboli, si spegne nel vuoto, vaga sulle pareti del suo ufficio, poi torna a fissare un punto. «Quella stagione si è esaurita. E poi oggi chi me li darebbe i soldi per le ruspe e per alloggiare i militari?».’

Non è passato tanto tempo da quando i Caterpillar si avviarono verso la pineta di Eboli per demolire le prime 72 villette abusive che deturpavano il litorale. Ma sembra un secolo. La pineta è lunga otto chilometri e in alcuni punti è profonda anche 250 metri. Alle spalle corre la strada, davanti ha una spiaggia bianchissima e poi luccica il mare. Era il settembre del 1998. Ci vollero tre giorni per sbriciolare il cemento e il ferro. Le altre 328 casette vennero giù nel volgere di due anni. Fu girato un video che la sera venne proiettato sulla piazza di Eboli davanti a trecento persone. Molti applaudivano, si levò qualche fischio, forse indirizzato alle ruspe, forse a chi aveva violato con il cemento la quiete di quei pini, che erano di tutti. Altri stettero zitti e covarono i rancori nelle viscere.’

Eboli è un paese conosciuto dappertutto, nonostante il fatto che Carlo Levi, nel suo libro, non si sia occupato di Eboli, estremo lembo del mondo moderno, bensì di quello che c’era dopo. Rosanìa ha 45 anni, è alto, agita le lunghe braccia e si aggiusta il ciuffo che i capelli arruffati fanno scendere sugli occhi. E’ iscritto a Rifondazione comunista e guida un centrosinistra travagliato - e travagliate sono tutte le storie della sinistra qui nella piana del Sele, zona di bonifica, di agricoltura ricca e di miseria contadina, di boschi e di aree umide, di speranze industriali che si infrangevano, di lotte e di rivolte.’

Dopo aver abbattuto le quattrocento villette abusive è lui il custode della pineta. L’ha ripulita dai calcinacci, ha divelto le ultime palizzate, e ora sta avviando il risanamento. Hanno sistemato i pali della luce e attrezzato una pista ciclabile che dalla foce del Sele, dieci chilometri più a sud, porta fino a Salerno. In alcuni angoli sorgeranno oasi naturali, fazzoletti umidi dove ricondurre la fauna - uccelli, anfibi e persino pesci. Dopo una estenuante trattativa con la Regione Campania sono arrivati 18 miliardi di vecchie lire (ma Rosanìa ne aveva chiesti 40), e con questi si potrà ripascere la pineta, piantare nuovi alberi, attrezzare piccole strutture sportive.’

La pineta segna il limite tra il mare e la pianura. Come altre pinete costiere in Italia, racconta Maria Bellelli, un’agronoma che a lungo l’ha studiata, anche questa che scorre da Paestum fino a Pontecagnano fu impiantata negli anni Cinquanta «per stabilizzare le dune impedendo che avanzassero e per proteggere dai venti marini e dalla salsedine le colture agricole che sono all’interno». Questa striscia di verde brunito è dunque un bosco artificiale, prodotto di quelle imponenti opere di manutenzione di cui l’ingegneria italiana si vantava, prima di cercare la gloria solo attraverso cavalcavia e autostrade. La pineta segnava il compimento di un’altra immane opera, la bonifica realizzata negli anni Trenta sotto la direzione di Arrigo Serpieri – bonifica integrale, venne definita, perché oltre a prosciugare le paludi, fissò nuove forme del paesaggio rurale. La pineta chiudeva verso il mare questo gioiello dell’ingegneria idraulica e a sua volta veniva protetta da una duna che sfilava lungo la spiaggia e che tratteneva la salsedine.’

Con il passare degli anni, racconta Bellelli, la pineta venne abbandonata. E qui, dove le piante non venivano diradate e mentre il sottobosco si riduceva, costruirono le villette. Proprietà del demanio e cioè di tutti, quindi di nessuno e, come accade spesso in queste contrade, di chi per primo se l’accaparra. Quattrocento villette, alcune di buona fattura, la gran parte baracchette indegne di ospitare gli attrezzi agricoli. Qualche ristorante, lo spaccio, la bottega con le mozzarelle di bufala della piana.’

L’assalto iniziò negli anni Sessanta. Arrivarono da Napoli, da Salerno e dall’entroterra. Ma le occupazioni furono incessanti dopo che Eboli divenne il teatro della Grande Rivolta. Accadde nel maggio del 1974. Una faida interna alla Dc aveva dirottato verso l’Irpinia, lo stabilimento della Fiat-Iveco che doveva essere installato nella piana del Sele. Gli ebolitani bloccarono l’autostrada e i binari ferroviari. Per Rosanìa fu il battesimo politico: anche lui era sulle barricate, alla testa degli studenti liceali. Una nuova promessa, quella di collocare altri stabilimenti, li riportò alla calma. Ma nessuna industria si stabilì da quelle parti. La Dc perse onore e voti a vantaggio del Psi, che contava su uomini scaltri e intraprendenti. I socialisti crebbero in misura straordinaria, trasformando l’intera provincia in uno dei centri di irradiazione del craxismo (nel '57 avevano l’8 per cento, nell’’80 raggiunsero il 31; la storia della città è narrata da Gabriella Gribaudi in un libro del 1990, esemplare nel suo genere fra antropologia, sociologia e politica: si intitola A Eboli). Nel '76 Rosanìa si trasferì a Modena, dove si laureò in Economia. «In quegli anni scomparvero tanti antichi mestieri», ricorda, «sparirono falegnami, artigiani del rame, ferrai, ciabattini. Eboli perse il suo rapporto con la piana, gli ebolitani non lavorarono più la terra. I fondi agricoli servirono per costruirci le villette e dopo il terremoto dell’’80 il centro storico si svuotò». Rosanìa ritornò in paese nel 1982. Ma se ne ripartì quasi subito per la provincia di Bergamo, dove trovò un posto da segretario comunale. Eboli era cambiata. Alcuni si erano arricchiti e molti sognavano di seguirli. Gli ebolitani avevano scoperto il mare e con il mare avevano scoperto quant’era bella la pineta. Furono quelli gli anni delle occupazioni incessanti. Arrivò anche la camorra. Racconta Rosanìa che nella casa del boss Pasquale Galasso a Poggiomarino venne sequestrata una copia del piano regolatore di Eboli e lo stesso Galasso, che poi è diventato un pentito, si era costruito una villa intonacata di bianco, con i portici e gli archi. La villa è ancora qui, con il cancello sulla strada che porta a Battipaglia. Adesso ospita il Centro per la legalità Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Pochi a Eboli ritennero che quelle case fossero illecite. Ma una svolta si ebbe nel 1996, quando Rosanìa si candidò a sindaco appoggiato da una lista civica e da Rifondazione comunista. Suo avversario era l’Ulivo. In testa ai suoi programmi mise gli abbattimenti delle ville. E vinse. Partirono gli ordini di demolizione e vennero indette le gare d’appalto. Tutte le gare andarono deserte. Una volta concorse una sola impresa, offrendo un ribasso irrisorio, lo 0,05. Ma qualche tempo dopo il titolare telefonò al sindaco, sfoderò una solenne faccia tosta e disse: «Scordatevelo che veniamo a demolire».’

Rosanìa fu colto dallo sconforto. Le villette erano state sequestrate da un magistrato di Salerno, Angelo Frattini. Ma i proprietari continuavano ad abitarle. Uno spiraglio venne aperto dal prefetto che tutti consideravano una persona perbene, Natale D’Agostino: le demolizioni le avrebbe fatte l’esercito. Un primo intervento (siamo arrivati al maggio 1998) venne bloccato perché nel frattempo era franata la montagna sopra Sarno. Poi D’Agostino morì, ma anche il suo successore, Efisio Orru, era persona tenace. E così il 28 settembre del '98, all’alba, le ruspe militari arrivarono nella pineta e buttarono giù le prime ville. In piazza si festeggiò quando tutto era finito. Ma il sudore freddo di quei giorni Rosanìa sente scorrerlo al solo rievocarli. Intanto l’esercito demolisce, bontà sua. Ma le case le vuole trovare sgombre di tutti gli arredi. E del trasloco dovette occuparsi il Comune, che scovò un magazzino per sistemare mobili, tavoli e sedie a sdraio. Trovò gli alberghi dove alloggiare i soldati. Fece una convenzione coi ristoranti per fornire pranzi e cene. E alla fine, dissanguandosi, dovette pagare solo all’esercito un conto di 600 milioni.’

Per alcune ore non si ebbe notizia di una signora di settant’anni. Qualcuno sussurrò che poteva trovarsi sotto i calcinacci. Vera o falsa che fosse (falsa, per fortuna, la signora era nella sua casa di Battipaglia), la voce servì a tenere il sindaco sulla graticola, a fargli capire quale scarto separasse la gloria dalla galera. L’ultimo gruppo di case fu demolito in fretta e furia nel 2000: si sapeva che alle politiche avrebbe vinto Berlusconi e allora addio ruspe.’

Eboli sembrava avesse retto nello slancio degli abbattimenti. Ma poi i partiti si sono sfaldati, la maggioranza ha perso alcuni suoi pezzi. «Non so se arriveremo al 2005, quando scadrà il nostro mandato», confessa Rosanìa. Sono riemersi i rancori nascosti quella sera davanti al filmato delle ruspe. Nel nuovo piano regolatore, realizzato da Vezio De Lucia, si è bandito il cemento sul lido: gli stabilimenti devono avere solo strutture in legno. Si è indetta una gara perché chi aveva già uno stabilimento demolisse quello vecchio: in cambio avrebbe ottenuto la concessione per uno nuovo, ma in legno. Alcuni si sono opposti. Sono andati alla Procura della Repubblica e hanno denunciato Rosanìa per abuso d’ufficio e hanno persino insinuato che lui abbia favorito qualcuno a scapito di altri. Ora l’indagine è in corso. Tutte le sentenze della giustizia amministrativa hanno dato ragione al sindaco, che però si è visto perquisiti gli uffici dalla Guardia di Finanza. «Se dovessi abbattere ora non potrei più farlo», ripete Rosanìa, che per fortuna sua e della pineta, seppe cogliere l’attimo.

(2 - continua)

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