loader
menu
© 2024 Eddyburg
Vezio De Lucia
Il sacco di Roma. L’impegno urbanistico di Aldo Natoli
12 Novembre 2012
Padri e fratelli
Relazione al convegno: “Aldo Natoli: impegno politico e ricerca critica nel comunismo del Novecento", Roma, biblioteca del Senato, 9 novembre 2012. Interventi di Enzo Collotti, Aldo Agosti, Giuseppe Vacca, Peter Kammerer; letta una relazione di Rossana Rossanda; coordinamento di Albertina Vittoria.


Più volte Aldo Natoli ha ricordato la sua “scoperta dell’urbanistica”. Nel dialogo con Vittorio Foa del 1992 racconta che nel 1956 al comune di Roma aveva affrontato “per la prima volta i problemi dello sviluppo delle città e della loro organizzazione urbanistica come nessuno aveva mai fatto in Italia”.
Nella premessa alla ricerca di Luigi Coletta, Giuliana De Vito e Roberta Persieri sulla Proprietà fondiaria a Roma negli anni ’80 scrive che all’inizio del 1954 a lui, Luigi Gigliotti e Piero Delle Seta accadde di imbattersi “nei misteri dell’urbanistica”:
[…] giungemmo a scontrarci con il nocciolo duro della realtà; lo sviluppo, o meglio, la crescita della città non obbediva ad alcuna normativa generale, tanto meno alla razionalità di un disegno ideale; e, quanto alla funzione amministrativa e alle sue regolamentazioni, esse erano determinate, direttamente o indirettamente, dal vero motore del meccanismo della crescita e questo altro non era che l’interesse materiale dei proprietari del suolo urbano. Tutta la “scienza” urbanistica poggiava […] sulla concreta realtà del suolo urbano.

In verità è impropria la parola urbanistica. Aldo Natoli si occupò soprattutto del peso che giocava la grande proprietà fondiaria nelle decisioni riguardanti il futuro della città. Siamo nel vivo dello scontro sul piano regolatore di Roma, che si sviluppò nei primi anni Cinquanta quando Natoli era capogruppo Pci in consiglio comunale (lo fu fino al 1966, e fino al 1954 fu anche segretario della federazione). Sull’urgenza di una politica attiva delle aree fabbricabili le sue idee sono chiarissime.
Se non riusciremo a risolvere positivamente questo problema – scrive nel Sacco di Roma –, tutto il resto diventa illusorio. Noi potremo parlare quanto vorremo della conservazione del vecchio centro, della creazione di altri centri, della distinzione di centri culturali, artistici, politici, dello sviluppo della città a raggio, a stella, a nuclei satelliti, potremo parlare quanto vorremo di tutte queste belle cose; ma in realtà tutto questo non avrà nessun senso […].

Il sacco di Roma, com’è noto, raccoglie il lungo intervento di Natoli che, nel febbraio del 1954, occupò più sedute del consiglio comunale impegnato nel dibattito introdotto da Enzo Storoni, assessore all’urbanistica (sindaco Salvatore Rebecchini), che aveva concretamente messo mano alla formazione del nuovo piano regolatore generale con un’allarmata e coraggiosa relazione sull’“anarchia edilizia” imperante a Roma. Storoni era un galantuomo liberale, collaboratore del «Mondo» di Pannunzio, che cercava di ridurre lo strapotere della proprietà fondiaria attraverso strumenti fiscali e con la moralizzazione degli uffici comunali. Per Natoli, invece, che pure aveva rispetto e stima per Storoni, l’unico rimedio per bloccare la speculazione era l’esproprio delle aree destinate all’espansione e la formazione di un demanio comunale.

Aldo Natoli è stato il primo autorevole esponente politico italiano a porre così lucidamente la questione della rendita fondiaria. È bene chiarire subito che la proprietà pubblica dei suoli non era una novità: era noto il libro pubblicato in Italia nel 1951 La città e il suolo urbano, di Hans Bernoulli, importante studioso e amministratore svizzero, convinto sostenitore della proprietà pubblica delle aree urbane. Natoli aveva anche studiato le esperienze urbanistiche inglesi, svedesi, olandesi. Conosceva certamente l’art. 10 della legge di approvazione del Prg del 1931 e l’art.18 della legge urbanistica del 1942 che consentivano l’espropriazione dei suoli destinati all’espansione urbana. E soprattutto a Roma erano conosciute le realizzazioni del regime fascista (l’E42, le bonifiche e le nuove città) fondate sulla preventiva acquisizione dei suoli.

Ma allora (oggi è ancora peggio), i temi dell’urbanistica e dintorni erano considerati di natura tecnica, riservati alla competenza di specialisti, non meritevoli dell’impegno politico di vertice. Aldo Natoli fu un’eccezione. L’unico altro autorevole esponente politico italiano che si spese per la proprietà pubblica dei suoli urbani fu Fiorentino Sullo, – raro esempio di democristiano giacobino – che nel 1962, esattamente cinquant’anni fa (ma otto anni dopo Natoli), quando era ministro dei Lavori pubblici, presentò un disegno di legge di radicale riforma urbanistica. Era fondato sull’esproprio generalizzato delle aree urbane che i comuni, dopo averle urbanizzate, dovevano cedere in diritto di superficie ai costruttori privati. Com’è noto, Sullo finì male, accusato di voler togliere la casa agli italiani, fu sconfessato dal suo partito, lentamente ma ferocemente emarginato dalla politica. Ma non si spense il terrore della riforma urbanistica, tant’è che nell’estate del 1964, per paura che il primo governo organico di centro sinistra presieduto da Aldo Moro la riproponesse, fu addirittura tentato un colpo di Stato.

[Aggiungo, fra parentesi, che il terzo uomo politico di rango nazionale sicuramente attento all’urbanistica è stato Silvio Berlusconi. Beninteso su un versante opposto a quello di Natoli e di Sullo. La sua micidiale parola d’ordine è stata “padroni in casa propria”; ha firmato due condoni, e il “piano casa” che è peggio di un condono. Al paesaggio italiano Berlusconi ha fatto più danni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Adesso sembra politicamente finito ma è più che mai diffuso il berlusconismo.]

L’interesse per l’urbanistica di Aldo Natoli non fu adeguatamente apprezzato dai vertici del Pci. Sempre nel dialogo con Vittorio Foa ricorda che quando nel 1954:
nel lasciare la segreteria della Federazione romana, feci un rapporto al Congresso della federazione tutto impostato sulle questioni dello sviluppo della città e quindi sulla prospettiva di una riforma urbanistica, c'era Togliatti presente e non disse niente. Poi parlando con degli altri disse che questi erano problemi da intellettuali. […]. Cosa che poi mi fu riferita. Ma del resto, lo ripeto, non ebbi mai l'appoggio. La cosa che bisognava fare allora, con la grande forza che il partito aveva nelle amministrazioni comunali, era la mobilitazione di queste amministrazioni comunali perché si impegnassero nella preparazione di Piani Regolatori moderni. Non è stato mai fatto questo. Io sono stato isolato sempre, cioè nessuno mi ha mai impedito di fare certe cose, però le facevo da solo e il tentativo di generalizzare il lavoro che si era fatto a Roma, che pure aveva avuto una grande risonanza nazionale, di generalizzare questo lavoro nei comuni, non si fece.

Edoardo Salzano, che nel 1966 successe a Carlo Melograni nel gruppo consiliare capitolino del Pci, nel suo libro di memorie conferma il disincanto di Aldo Natoli e scrive:
Il leader del ruppo consiliare non era più Aldo Natoli, che era su posizioni molto rigorose. […] Ma era l’insieme dell’atteggiamento del Pci che stava cambiando. L’urbanistica, almeno a Roma, non era più argomento centrale: le sue scelte potevano essere adoperate come merce di scambio per ottenere altri vantaggi […]. Così, in cambio d’un atteggiamento della Dc più vicino alle posizioni della sinistra sui grandi temi simbolici (come l’approvazione unanime da parte del consiglio di un ordine del giorno contro la guerra del Vietnam) assumemmo un atteggiamento più disponibile sulla politica urbanistica.

Intervistato da Peter Kammerer e Stefano Prosperi nel 2001 Aldo Natoli insiste sul colpevole silenzio del partito che “duole dirlo, neanche i dieci anni di amministrazione capitolina di sinistra sono valsi ad interrompere. In campo politico, civile, economico-sociale, culturale, una sconfitta che nulla vale ad attenuare”. Il riferimento di Natoli al decennio delle amministrazioni di sinistra (1976-1985, da Argan a Vetere) è in larga misura da condividere, ma a me dispiace di non sapere qual è stato il suo giudizio su Luigi Petroselli. Il quale, da giovane dirigente politico e amministratore di Viterbo, sensibilizzato proprio dall’azione capitolina di Natoli, aveva posto l’urbanistica al centro del suo impegno e, a Roma, nel progetto per Tor Bella Monaca realizzò un’inedita intesa con i costruttori romani disposti a operare su area pubblica, sottraendosi al canto delle sirene della speculazione fondiaria. Infine, devo aggiungere, mi dispiace non aver trovato nelle interviste citate alcun apprezzamento per il progetto Fori, la più bella idea per l’urbanistica di Roma moderna, sostenuta con entusiasmo da Petroselli.

Non dimentico di ricordare che Natoli fu sempre privo di indulgenza per l’abusivismo. A Kammerer e Prosperi dichiara: “tu sai quanto era sensibile a quel tempo la direzione del Partito alla alleanza con certi strati di piccoli borghesi. Il problema di avere una influenza sulla piccola borghesia era uno dei cardini della strategia di allora del partito, non della tattica, ma della strategia”. E a Roma la piccola borghesia è certamente quella degli abusivi. Nella citata prefazione alla ricerca sulla proprietà fondiaria scrive delle “fandonie sulla «metropoli sponanea» e di Roma soggetta “senza alcuna possibilità di riscatto ad una mala, sordida continuità. Speculazione fondiaria, abusivismo, crescita a macchia d’olio: questa la triade fenomenica”. La metropoli spontanea è il titolo di un famoso convegno del 1983 in Castel Sant’Angelo, voluto dal comune di Roma (allora amministrato dalle sinistre) proprio per celebrare l’abusivismo. L’unico comunista autorevole che prese le distanze fu Piero Della Seta.

L’impegno urbanistico di Aldo Natoli non fu adeguatamente riconosciuto neanche dagli studiosi dell’urbanistica romana, e mi riferisco in particolare a quelli pur critici con le amministrazioni democristiane. I prestigiosi fascicoli 27 e 28-29 della rivista «Urbanistica» integralmente dedicati alla formazione del piano regolatore di Roma negli anni Cinquanta, trattano pochissimo di Natoli. Carlo Melograni, che fu con Natoli nel gruppo capitolino del Pci dal 1960 al 1966, conferma che l’avversione al Pci era innegabile anche in alcuni dei migliori urbanisti di quella stagione, simpatizzanti democristiani (Leonardo Benevolo, Michele Valori) e olivettiani (Giovanni Astengo, Ludovico Quaroni). L’eccezione fu Italo Insolera. Sul n. 40 di «Urbanistica», trattando del dibattito relativo all’adozione del piano di Roma nel 1962, prende le distanze dalla “posizione preconcetta anticomunista, in una situazione in cui i comunisti si assumono l’impegno dell’estrema difesa del rigore urbanistico”.

Nella prefazione al volume di Piero Della Seta, Carlo Melograni e Aldo Natoli che raccoglie i loro interventi in quello stesso dibattito, difende con convinzione la decisione comunista di votare contro l’approvazione del piano (che pure era firmato da Luigi Piccinato e altri importanti urbanisti). Un piano affetto da un esorbitante dimensionamento e da vistose previsioni a favore della grande proprietà fondiaria, ma di quel piano vanno pure apprezzati la chiarezza con la quale si proponeva di costruire la città moderna nella prima periferia orientale, accanto alla Roma storica e il vasto e diffuso sistema di verde pubblico formato da giardini storici (villa Ada, villa Chigi, villa Doria Pamphili) e da parti pregiate dell’agro romano (Castel Fusano, Castel Porziano, Veio, Valle dell’Aniene e poi l’Appia Antica).

Il voto contrario del Pci ha avuto un’importanza storica. Fu una decisione, coraggiosa, ben motivata, razionale e radicale, tuttavia molto sofferta e accolta dal partito non senza disagio. Una decisione la cui lungimiranza si è imposta con il passare degli anni ed ha accreditato a lungo la competenza e il rigore del Pci in materia di urbanistica.
L’isolamento dal mondo degli intellettuali non sfuggì certo a Natoli che, nella citata intervista di Kammerer e Prosperi, lamenta giustamente la distanza con la quale urbanisti e intellettuali progressisti trattavano la posizione comunista: “Ora leggo dei libri che vengono pubblicati in cui – scrive Natoli – quello che ho fatto io nei primi anni al consiglio comunale è completamente ignorato, completamente come se non fosse esistito”.

Torno alla biografia di Natoli. Nel 1954, quando lasciò la federazione di Roma per la direzione del partito si occupò della sezione Lavoro di massa con Luigi Longo, e lo fece con grande impegno. Il rapporto con gli operai lo travolse, finì con il dimenticare le precedenti esperienze. E nel 1956 (secondo Natoli, “l’anno in cui finisce la speranza”), dopo i fatti dell’Ungheria e il XX congresso del Pcus, fu spostato (retrocesso?) agli Enti locali, ma non ci pensò nemmeno a tornare all’urbanistica. Eppure, nel colloquio con Foa, riferendosi ai primi anni Sessanta, dichiara:
Pensa che cosa si poteva fare in Emilia, in quegli anni il partito controllava tutti i capoluoghi di provincia, se si fosse sistematicamente lavorato nei comuni per attuare e per, come dire, preannunciare la riforma urbanistica. Non si è fatto. Io ho chiesto più volte che si facesse, non l'ho mai ottenuto, non si è mai fatta una riunione. Mentre si sono fatte le riunioni del Comitato Centrale in cui si è parlato della nazionalizzazione dell'industria elettrica o addirittura della nazionalizzazione della Montecatini così si diceva allora, non è stato mai fatto nulla per la riforma urbanistica, sono stato sempre isolato. Infatti, qualche anno dopo, io ho deciso di non occuparmi più dell'urbanistica, perché mi ero reso conto che non potevo assolutamente modificare la posizione del partito.

La verità è che Natoli è preso da altre passioni. Dimentica o ignora che, proprio nel 1960 – lo ricorda Carlo Melograni –, si svolse un incontro con Mario Alicata, allora responsabile nazionale della cultura, con esponenti del Pci di Bologna che chiedevano la disponibilità di un compagno romano per l’incarico di assessore all’urbanistica del capoluogo emiliano (invito raccolto, com’è noto, da Giuseppe Campos Venuti): era evidentemente ancora indiscutibile il primato urbanistico del partito di Roma.
Ma Natoli l’urbanistica l’ha ormai lasciata spalle. Approfondisce la critica all’Unione Sovietica, comincia a seguire l’esperienza cinese.
Ed è lo stesso negli anni successivi, intorno al 1968, quando segue con attenzione la nascita della contestazione operaia e studentesca. Non possono essergli sfuggite le forti manifestazioni organizzate, in particolare a Torino nel 1969, proprio intorno all’insostenibilità della condizione urbana e dalla drammatica carenza di alloggi. La riforma urbanistica era fallita nel 1963 soprattutto perché Sullo – a causa dell’alterigia propria di un intellettuale giacobino –, non aveva capito l’importanza di un sostegno di massa. Anzi, contro Sullo si formò un fronte interclassista (“le fanterie” e “gli stati maggiori” della speculazione, secondo un’intramontabile definizione di Valentino Parlato).

Ma nel 1968 e negli anni successivi è cambiato tutto. Lo sciopero generale del 19 novembre 1969 per l’urbanistica e la casa fu una delle più possenti manifestazioni dell’Italia contemporanea e i risultati si videro, tant’è che nei mesi successivi, proprio grazie al sostegno operaio e sindacale, si ottennero importanti leggi di riforma del settore dell’edilizia abitativa e dei servizi collettivi.
Ma Aldo Natoli è ormai lontano.
E della sua azione in campo urbanistico non resta niente: questa è la mia amara riflessione conclusiva. Come non resta niente del tentativo di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, né della Roma di Luigi Petroselli. Non resta niente dello spirito autenticamente riformatore del centro sinistra. A me pare che in nessun campo come il quello delle politiche territoriali sia stato così rovinoso l’effetto delle filosofie neoliberiste che si sono affermate a partire dai primi anni Ottanta e hanno scompaginato anche la politica e la cultura di sinistra. Che negli anni più recenti ha accettato ambiguamente, ma più spesso esplicitamente, il primato della proprietà fondiaria, quella grande e quella minuta, quella legale e quella illegale.

Mi limito a tre esempi:
- nel 1986 la marcia, sostenuta dal Pci (Lucio Libertini), dei sindaci siciliani a favore dell’abusivismo
- nel 2005 la cosiddetta legge Lupi – dal nome del suo principale ispiratore, il deputato di Forza Italia Maurizio Lupi – con il complice silenzio della sinistra, che cancella il principio stesso del governo pubblico del territorio, non approvata per un pelo
- nel 2008 l’approvazione del nuovo piano regolatore di Roma (sindaci Francesco Rutelli e Walter Veltroni), rispetto al quale il piano regolatore del 1962 (quello che raccolse il voto contrario dei comunisti) è un capolavoro di cultura politica e urbanistica.

Com’è stata possibile, in pochi decenni, una così devastante regressione?

ARTICOLI CORRELATI
28 Febbraio 2019

© 2024 Eddyburg