Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto , Venezia, Corte del Fontego Editore, 2010, pagg. XLVII+240
Il ruolo delle città e del territorio nei processi di sviluppo, presente nelle ricerche e negli studi della Svimez sin dall’inizio della propria attività, appare di nuovo all’attenzione delle politiche regionali. Gli orientamenti comunitari, che alla coesione economica e sociale hanno affiancato il termine “territoriale”, prevedono un ruolo specifico delle città, nelle quali gli aspetti positivi della dimensione urbana (imprenditorialità, innovazione, occupazione) convivono con aspetti negativi (sacche di povertà e disoccupazione, congestione del traffico, inquinamento); pertanto, per rafforzare l’attrattività e l’apporto delle città ad una crescita economica sostenibile (accompagnata – cioè – da contestuali misure destinate a ridurre la povertà, l’esclusione sociale e i problemi ambientali), si ritiene che le azioni nelle aree urbane si debbano concentrare su quattro punti fondamentali: i trasporti, l’accessibilità e la mobilità; l’accesso ai servizi ed alle attrezzature; l’ambiente naturale e fisico; il settore culturale. Obiettivi recepiti in Italia dalla politica regionale unitaria, varata con l’adozione del QSN 2007-2013; che - tuttavia - non sembra abbiano suscitato la dovuta attenzione.
Il governo del territorio, nei suoi aspetti sia fisici sia sociali, attraversa un periodo di grave incertezza nei riferimenti culturali e disciplinari, e di grande confusione nelle procedure di gestione; come evidenziato in alcuni recenti interventi su questa Rivista. Per orientarci a comprendere come si sia potuta produrre una tale situazione, può risultare un ausilio determinante la testimonianza di oltre mezzo secolo di storia vissuta, offerta dalle memorie da Edoardo Salzano che – detto senza retorica – sembra aver dedicato la propria vita all’urbanistica, nei diversi ruoli di professionista, politico di opposizione, politico di governo, docente, divulgatore.
Già da studente di ingegneria si trova coinvolto nelle pratiche della ricostruzione del dopoguerra, che evidenziano la necessità di fornire una casa (non solo) ai ceti meno abbienti, adoperandosi contestualmente per la costruzione di una città moderna. Cultura tecnica e impegno sociale accompagnano la sua attività culturale (prevalentemente all’interno dell’Istituto nazionale di urbanistica) e politica (come consigliere comunale di opposizione a Roma e nella direzione nazionale del PCI). Determinante il trasferimento a Venezia nel 1975, dove nel successivo decennio, in qualità di assessore comunale all’urbanistica, ha la responsabilità di proporre uno scenario per il futuro della città lagunare. Dopodiché, manifestatasi la crisi di identificazione sia con l’INU sia con il PCI, dei quali non condivide l’evoluzione delle rispettive scelte, si dedica completamente all’insegnamento ed alla divulgazione, che comunque già lo impegnavano e che da ultimo sono concretizzate nella gestione del sito eddyburg, il cui oggetto principale è la città (nei suoi diversi aspetti funzionali, formali, sociali, politici, ecc.), e nella sua scuola estiva, che ogni anno tratta uno specifico tema di rilievo sull’urbanistica e il governo del territorio.
La complessità dell’esposizione memorialistica non può essere banalizzata da una sintesi. La ricostruzione, la mai attuata riforma della legge urbanistica, la nascita e l’evoluzione delle Regioni a statuto ordinario, gli strumenti di conoscenza del territorio, la tutela dell’ambiente e del paesaggio, sono solo alcuni dei temi incrociati dalla vita vissuta. Le considerazioni espresse vanno assunte quali testimonianze piuttosto che quali tesi. Tuttavia, quello che colpisce nella narrazione è la totale assenza di qualsivoglia espressione autocritica, ammissione di errore, ripensamento; per un periodo che ne ha prodotti in abbondanza nella medesima area culturale (avendo come testimone d’eccezione Pietro Ingrao con il suo Volevo la luna).
Al riguardo mi permetto di fare alcune osservazioni, legate ad un periodo molto indietro nel tempo, nel quale la mia vita si è parzialmente incrociata con quella di Salzano.
Negli anni ’70, quando Salzano era consigliere di opposizione al comune di Roma, come studente di architettura partecipavo alle attività dei Comitati di quartiere e dei Comitati di lotta per la casa, presenti in maniera attiva ancorché conflittuale nelle vicende urbanistiche della Capitale, ma soprattutto espressione di una domanda di sostanziale rinnovamento della politica all’interno delle regole democratiche. Nonostante questa esperienza coinvolgesse un numero assai rilevante di cittadini, l’attenzione dei partiti - in quel periodo e in riferimento al conflitto sociale - era presa pressoché esclusivamente dal fenomeno del terrorismo (che, nonostante la sua drammaticità, coinvolgeva comunque un numero di persone di gran lunga inferiore), i cui rappresentanti nelle istituzioni mantenevano, con riferimento alle istanze sociali (la casa, l’urbanistica, i servizi sociali, ecc.), un prevalente atteggiamento di distacco stile “non disturbare il manovratore”. Fa piacere che, a distanza di tempo, venga rivalutato il ruolo delle reti dei cittadini; ma forse sarebbe stata utile una riflessione sui motivi dell’attuale assenza di sedi della rappresentanza sociale.
Nel biennio 1978-1979 ho lavorato, quale giovane funzionario, presso l’assessorato all’urbanistica del comune di Venezia, diretto dall’assessore Salzano. Esperienza repentinamente conclusa per motivi esclusivamente personali (il livello stipendiale mi impediva di mantenere a Venezia la famiglia appena costituita), la quale tuttavia mi ha consentito di formarmi una prima personale idea sul governo della città ed il ruolo dell’urbanistica. Uno degli incarichi principali assolti è stato quello di redigere e portare all’approvazioni i piani per l’edilizia economica e popolare delle isole minori. In particolare quello per l’isola di Mazzorbo (di fronte a Burano) avrebbe dovuto consentire, con la realizzazione del primo intervento di nuove costruzioni, la demolizione e la sostituzione di case popolari monopiano malsane e non risanabili. Il piano è stato attuato con un nuovo intervento realizzato a seguito di un ottimo progetto di Giancarlo De Carlo; ma le case minime sono ancora al loro posto. La cultura professionale degli architetti e degli ingegneri attribuisce un significato totalizzante al progetto di piano, del quale curare l’ottima redazione ma disinteressandosi del tutto della gestione. Lo stesso piano della città di Venezia, come ci racconta Salzano, redatto nel decennio 1975-1985, producendo ottime innovazioni sugli aspetti disciplinari, è stato approvato nel 1992. Essendo intercorsi 18 anni solo per il progetto, viene da domandarsi come sia stato gestito il governo della città nel medesimo periodo; temporalmente coincidente con l’affermarsi della politica del “decisionismo”, della quale si denunciano le negative conseguenze ma non si riflette sui modi con i quali sarebbe stato possibile evitarne l’affermazione.
La memoria è soprattutto riflessione su una vita vissuta, che, inevitabilmente, ha visto convivere luci ed ombre, ed anche da un sereno riconoscimento di errori e/o ingenuità sarebbe possibile disegnare il futuro.
Nota dell’autore del libro
Innanzitutto una precisazione. Agli eventi degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso ho partecipato più come spettatore e studioso che come attore. Ne ho scritto con una certa ampiezza perché mi proponevo di inquadrare in quegli eventi quelli degli anni cui partecipai pù direttamente.
Gallia pone una domanda, cui devo rispondere, con qualche precisazione e, soprattutto, con riferimento al contesto: se negli anni Ottanta si è posta con tanta enfasi la questione della governabilità e ha trionfato il “decisionismo”, questo non sarà perché i tempi impiegato per decidere erano divenuti intollerabilmente lunghi? E assume come esempio del vizio che ha generato l’errore il lungssimo periodo di gestazione del piano della città storica di Venezia.
In effetti, come scrivo nel libro, il piano fu iniziato all’inizio degli anni Ottanta, e la prima approvazione (l’adozione) intervenne solo nel 1992. Dodici anni sono certamente molti per fare un piano urbanistico. Eravamo perfettamente consapevoli del fatto che la pianificazione non poteva avere tempi così lunghi. Proprio per questo sostenevamo che occorreva “passare dal piano alla pianificazione”: che occorreva superare la concezione, e la prassi, secondo cui si faceva un “piano” ogni 10, 15, 20 anni, ogni volta ricominciando daccapo, e bisognava invece considerare la pianificazione come un’attività continua e costante nella quale – sulla base di un’impalcatura di conoscenze organizzate e di strategie definite, unitariamente definita una volta per tutte e sistematicamente aggiornata - si procedeva quinquennio per quinquennio alla definizione di scelte relative al periodo immediatamente successiva. (Chi abbia interesse ad approfondire questo punto potrà trovare maggiori delucidazione in due miei scritti: “L'urbanistica dal ‘piano’ alla ‘pianificazione’”, la Rivista Trimestrale , - nuova serie , n. 3, dicembre 1985, e “Sull’articolazione dei piani urbanistici in due componenti”, Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentini , n.11-12, anno 10, aprile 2008, tomo 2). Intendevamo costruire a Venezia appunto l’impalcatura generale, che avrebbe permesso di trasformare la pianificazione in un’attività continua, capace di reagire tempestivamente al mutare della domanda sociale e politica pur conservando la fedeltà a determinate scelte di fondo (“invarianti”) e una costante visione d’insieme. Ciò richiedeva di mettere a punto un insieme di strumenti (da un ufficio efficace e motivato, a un sistema informativo sistematicamente alimentato, a un efficace coordinamento tra i diversi settori dell’amministrazione, per non citare che alcuni aspetti). Ci riuscimmo solo in parte, e i risultati non furono consolidati.
Per quanto riguarda l’edilizia storica il nostro tentativo (riuscito) era di superare la prassi fino ad allora seguita in Italia, di formare prima un “piano regolatore generale” e poi, su questa base, un più approfondito “piano particolareggiato”, adottando invece un metodo che ci consentisse di definire le scelte di conservazione/trasformazione dell’edilizia storica già a livello del piano generale: è il metodo dell’analisi tipologico-morfologica, che cerco di descrivere sinteticamente nel libro. Essa ci consentiva anche di sfuggire, nell’approvazione dei progetti di restauro e trasformazione dell’edilizia storica, alla discrezionalità della scelta caso per caso, affidata al gusto del tecnico o alla preferenza del politico, inevitabili quando non ci sono regole chiaramente definite e facilmente applicabili da qualsiasi soggetto.
Il nostro tentativo era certamente ambizioso. Sarebbe stato arduo raggiungere l’obiettivo anche in un clima culturale nel quale la pianificazione urbanistica fosse stata riconosciuta, politicamente e socialmente, un’attività essenziale per il governo della città. Così era stato, in qualche momento dei decenni precedenti e in qualche luogo. Ma il clima cambiò radicalmente proprio in quegli anni. Lo testimonia il fatto che non riuscii neppure a ottenere che la giunta comunale discutesse e approvasse l’ampio documento nel quale illustravamo il nostro progetto di piano. Tardammo a comprendere il cambiamento? Certamente, ma era l’intero mondo cui appartenevamo che si dissolveva. E, come imparai più tardi, era un fenomeno mondiale: non riuscimmo (non riuscì la sinistra nel suo insieme) a comprenderlo e a tentar di contrastarlo.
A Venezia si riuscì fortunosamente a portare il piano all’approvazione, ma la maggioranza (sempre di centrosinistra) che subentrò negli anni successivi smantellò quello che poteva smantellare. Ne racconta alcuni passaggi decisivi Luigi Scano, in uno scritto del 1997 riportato in appendice al suo libro Venezia: terra e acqua , Corte del fontego, 2009. E ne raccontano i numerosi documenti ospitati in eddyburg , dove si possono trovare anche i testi citati.