Non si sa se piangere o ridere davanti ai «non è vero», «è una bugia», «è una menzogna», gridati dai berlusconiani afflitti perché le cose vanno proprio male per loro. La povera Concita De Gregorio, una brava giornalista (l’elogio non vorrebbe danneggiarla presso i ministeriali addetti della cultura popolare, tenutari dei libri neri) faceva proprio pena quando a «Primo piano» del Tg3 tentava di far domande all’onorevole Bondi e lui, con l’atteggiamento del bambino cattivo colto sul fatto, negava senza pudore ogni verità documentata.
Negava anche come un adulto in ipnosi, tra ira e disperazione. E lei, paziente, riprovava a dire, a chiarire, a contestare, a smentire, a cercare di far capire l’accaduto ristabilendo un minimo di rapporto umano. Questo è successo a proposito di Telekom Serbia e delle sue vergogne, ma accade a proposito di tutto, economia, finanza, Iraq, imposte e tasse, carovita, scuola, pensioni, Istat e prodotto interno lordo.
E quando il ministro Tremonti fa trasparire la possibilità di cambiare la rovinosa legge sul falso in bilancio e butta là un ironico «udite, udite», perché conosce benissimo i guasti prodotti da quella legge, suscita gli entusiasmi dell’Ulivo: il successo dell’opposizione, la politica ritrovata, il dialogo possibile.
È un gran chiacchierare, nel cortile della Repubblica. Rutelli tira fuori d’improvviso, all’insaputa dei Ds, una vecchia proposta della Margherita sul problema delle carriere dei magistrati, sulla riforma della giustizia. Piace al Polo. Scompagina idee e programmi del centrosinistra. Non si parlano tra loro i leader alleati? Forse non hanno tempo.
In una sola sera li trovi su tre tv diverse e visto che l’ubiquità è da escludere e le trasmissioni sono il più delle volte registrate, significa che il pomeriggio l'hanno dedicato alla visibilità mediatica.
La mattina è dedicata invece alla radio, a scrivere qualche intervento per i giornali, a concedere qualche intervista. E poi c’è da guardare la rassegna stampa. Un vero disastro il tempo che fugge.
Le parole scoppiano, dunque. Giuliano Amato, in un convegno organizzato dalla Cgil, ha detto che «anche noi dobbiamo fare un contratto con gli italiani». Chi farà il Vespa? Qualcuno scelto con sagacia per non spaventare il ceto medio. Un terzista, magari con un piede di qua e la testa di là.
C’è anche Fassino nel cancan delle parole. Il segretario Ds ha commentato l’approdo di Cirino Pomicino al centrosinistra, tramite Mastella, citando la parabola del figliol prodigo. Sorretto dal presidente D’Alema: «Cirino Pomicino fa parte di un fenomeno di massa: il distacco dalla destra, la sfiducia in Berlusconi.
Perciò non trovo un solo motivo per dispiacermi, né per imbarazzarmi». Significa che il centrosinistra acquisirà di certo nuovi voti dalla palude di ’O ministro (libro-inchiesta di Andrea Cinquegrani, Enrico Fierro, Rita Pennarola, pubblicato nel 1991 da Publiprint-la Voce della Campania). Ma quanti voti perderà tra i dispiaciuti e gli imbarazzati, poco tattici che resteranno a casa il giorno delle elezioni?
E poi la Lega che attacca il Papa per le parole in romanesco rivolte ai parroci. Chissà perché.
Non è una prova dell’amato localismo, anche se antagonista, un test da spettacolo di paese che dovrebbe piacere ai leghisti dei dintorni di Bèrghem? Bossi attacca invece l’otto per mille. Non sa bene cos’è. Da ministro della Repubblica è stato favorevole ai provvedimenti clericali del governo in favore della scuola privata e alla legge sulla fecondazione assistita e dovrebbe essere prudente. Non si pretende che abbia letto almeno Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni di Arturo Carlo Jemolo, ma qualche nozione sul potere temporale, sulle lacerazioni, conflitti e dolori dei cattolici e dei non cattolici potrebbe pur averla.
Il problema è sempre quello, irrisolto, della classe dirigente italiana. Un sommo banchiere e grande umanista, Raffaele Mattioli, creatore della collana della Ricciardi, fondamentale per nostra cultura, La letteratura italiana. Storia e testi, venduta con profitto l’anno scorso dalla Einaudi di Berlusconi all’Istituto dell’Enciclopedia italiana, fondò nel 1972 l’«Associazione per lo studio della formazione della classe dirigente nell’Italia unita». Il progetto che si proponeva analisi e ricerche restò senza seguito per la orte di Mattioli avvenuta l’anno seguente. Nessuno, dopo, ha pensato di riprendere quell’idea essenziale per la conoscenza di un paese.
Trent’anni fa, Mattioli definiva così la classe dirigente italiana: «È gente che non sa di che cosa parla. Si è appropriata di una serie di slogan e di una terminologia più o meno repellente di cui non capisce il significato. Oggi tutti parlano in modo incomprensibile: quando ti hanno detto quel po’ di balle, se tu gli chiedi che cosa significa, non lo sanno. “Più non dimandare”, è il loro motto. L’ignoranza democratica non è ancora diventata cultura popolare».
Che cosa direbbe oggi il presidente della Banca Commerciale, il grande amico di Benedetto Croce, della politica quotidiana di parole che volano?