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Francesco Durante
Giannì: «Torno in Puglia. Con entusiasmo»
18 Dicembre 2010
Altri padri e fratelli
Nelle parole di un protagonista della politica urbanistica napoletana (e un amico di eddyburg) le tappe di una vita di urbanista, che prosegue sull’altra costa del Mezzogiorno. Il Corriere del Mezzogiorno, 17 dicembre 2010

« Con Vendola il clima e la sensibilità giusti per una grande esperienza urbanistica»

NAPOLI — Nella città dove si conciona su tutto, il più spesso a sproposito, Roberto Giannì incarna una virtuosa vistosa eccezione. Da trent’anni, questo distinto signore si ostina a girare sempre in bicicletta, indifferente a qualsiasi clima, salita o delirio di traffico, occupa ruoli strategici all’interno della macchina comunale. Fedele alla regola di un’assoluta discrezione, parla oggi, ed è la prima volta, alla vigilia della sua partenza per Bari, dove dal gennaio dirigerà l’area urbanistica della Regione Puglia.

Un ritorno a casa: sei nato ad Acquarica del Capo, provincia di Lecce. Ma per tutti sei napoletano. «Beh, sono qui dal 1965, quando m’iscrissi al terzo anno dell’Istituto tecnico industriale Enrico Fermi».

Come mai venisti a Napoli?

«Amavo il nuoto e avevo il mito di Fritz Dennerlein. Dopo il biennio, quando si trattò di scegliere la specializzazione, m’inventai una passione per la fisica nucleare, a Casarano non c’era. A Napoli, però, passai presto a edilizia, la specializzazione più sfigata, scelta da chi non s’era iscritto a geometri. Capitai in una classe di pluriripetenti che non si spiegavano come mai fossi tra loro, visto mi applicavo piuttosto seriamente» .

Da lì, il passaggio ad Architettura e alla Casa dello studente («un posto magnifico, appeso alla collina di Capodimonte con vista sul golfo. Era l’unica di Napoli e fu chiusa ’73. Sarebbe bene che la Regione, che ne è proprietaria, la rimettesse in sesto» ). Tempi di tumultuosa ricerca. Con Sergio Cappelli e Benedetto Gravagnuolo facemmo amicizia col gruppo radicale degli Archizoom, che nel ’73 c’invitarono alla Triennale a Milano. Portammo un Super8 con spezzoni di film legati in una sorta di Non toccare la donna bianca. Era la lotta tra soldati blu e indiani associata alle lotte per la casa» .

Dopo gli innamoramenti iniziali per l’architettura radicale e (grazie ai corsi di Renato De Fusco e ai libri di Cesare de Seta) per la storia, all’urbanistica Giannì arriva dal versante politico. Decisivo l’incontro con Attilio Belli, che Napoli collaborava a Città-Classe. «Mi laureai con lui, Riccardo Dalisi correlatore: un tentativo estremo di tenere insieme due anime diverse» .

Era l’anno 1975, data fatidica per Napoli. «L’anno della prima giunta rossa. Stavo col manifesto e i collettivi di facoltà. Era una svolta: si poteva far qualcosa subito senza aspettare la rivoluzione. Per un’area politica da sempre fuori da tutto, si aprivano scenari impensabili. Mi si presentò l’occasione di lavorare con un gruppo di urbanisti, tra i quali Gianni Cerami e Sandro Dal Piaz, al Piano quadro delle attrezzature. Arrivarono altri giovani neolaureati: Elena Camerlingo, Giovanni Dispoto, Laura Travaglini, Giuseppe Pulli, Mario Moraca, quelli che poi sarebbero stati definiti i ragazzi del Piano. Lavorare al Comune era ritenuto un ripiego; ma noi, animati una forte sensibilità civile, volevamo convincere il Comune a dotarsi di un suo ufficio urbanistico, che non esisteva. Con Elena andammo a Venezia da Salzano, e a Bologna da Cervellati. Ci guardavano con simpatia, piaceva l’idea di un risveglio civico a Napoli. E potevamo contare un’amministrazione di persone intelligenti: Andrea Geremicca, Aldo Cennamo, eccellente assessore al Personale, Giulio Di Donato, assessore all’Urbanistica e nostro quasi coetaneo... Capivano che la pianificazione era un tema nodale».

Ai ragazzi furono affidati molti piani, tra cui quello delle periferie, approvato all’unanimità in consiglio comunale pochi mesi prima del terremoto: «Un frutto tipico dell’epoca, nato dalle lotte nei quartieri. Certe foto di Mimmo Jodice documentano quei luoghi prima del piano: vi si viveva in condizioni disumane, 3-4 persone a vano. Il piano voleva riorganizzare i quartieri conservandone il tessuto sociale. È significativo che mentre a Bologna si lavorava sul centro storico, a Napoli si partisse dalle periferie. Non era facile. Una volta, Giovanni Dispoto bussò a casa di una vecchietta che rispose: ‘‘ Chi site?’’ Siamo del Comune’’. ‘‘ E nun ve mettite scuorno?’’ [Non vi vergognate?]. La gente voleva i palazzi, e noi facemmo le case nuove, ma recuperammo pure le vecchie, e alla fine tutti avrebbero voluto tornarvi».

Risale ad allora l’incontro con Vezio De Lucia, alla Direzione generale del coordinamento territoriale del ministero dei Lavori pubblici, sancta sanctorum dell’urbanistica italiana. «Cercavamo aiuto per il piano e lo trovammo. ’76, Vezio aveva firmato con Antonio Iannello il mitico numero 65 della rivista Urbanistica dedicato a Napoli: quasi una folgorazione. Quella era una scuola di caratura internazionale. Per dire, il rinnovamento di Barcellona s’ispirò a quella rivista» . E quella cultura è anche alla base lavoro svolto, con De Lucia e i ragazzi del piano, al programma per la ricostruzione. «Fui colpito da un’affermazione di Leonardo Benevolo, che sosteneva la necessità di prevedere programmi di urbanizzazione pubblica, un sistema in cui si crea sinergia tra amministrazione pubblica e imprenditori illuminati. Si poteva immaginare un rapporto simile, basato su regole condivise, anche in una città in cui il piano regolatore del ’72 aveva dovuto presentarsi in pratica solo come uno scudo per proteggersi dalle nefandezze speculative? Fortuna volle incontrassimo Francesco Rallo, presidente dell’Associazione dei costruttori, che stabilì un ottimo rapporto con Guido Alborghetti, venuto a Napoli per assistere Valenzi. Fu Rallo, nell’ ‘83, a scrivere a Valenzi chiedendogli insistere sul recupero, perché Napoli era il più grande laboratorio italiano in questo campo».

Questa è pure la filosofia del lavoro svolto per redigere prg di Napoli, nato con l’arrivo di Bassolino sulla poltrona di sindaco nel ’93 e approvato nel 2004. «E ai molti che dicono che il mancato rinnovamento della città dipende dalle scelte urbanistiche fatte, rispondo che il vero problema, per me, è un altro. Quello di una mancata coesione corpo sociale. Il meccanismo s’inceppa proprio quando si dovrebbe avere la partecipazione convinta e fattiva una pluralità d’interlocutori per rendere operative le scelte del piano. In questi anni molte piccole cose si sono fatte, basti dire del progetto Sirena, intervenuto sul 10% patrimonio edilizio utilizzando le regole del Prg. Ma è mancata una collaborazione, una mobilitazione corale. Avviene il contrario: e ogni passaggio che si potrebbe fare pochi giorni impiega mesi, e magari s’insabbia fino alla paralisi».

Per esempio? «Il completamento del centro direzionale. Basato sulla finanza di progetto, è stato approvato cinque anni fa, ma i lavori non sono ancora iniziati. Nel frattempo sono insorte tante e tali complicazioni che se ne potrebbe fare un romanzo. Non so se accade dappertutto, ma insomma: superato il problema urbanistico, servono altri cinque anni per affrontare gli altri problemi».

Un po’ troppo per i partner privati. «Sì. Eppure, le scelte del piano hanno fatto sì che oggi siano in campo 40 grandi iniziative, non solo a Napoli per circa 3 miliardi di euro di investimenti privati. Ovviamente non potranno aspettare troppo. Vedi: tra i migliori conoscitori del piano, ci sono molti imprenditori. È curioso che in questi anni abbiamo avuto intellettuali pronti a giudicarlo impraticabile, e imprenditori che la pensano in modo opposto».

La Napoli di oggi presenta enormi criticità... «Ma io sono riconoscente al sindaco Iervolino e al vicesindaco Santangelo. Hanno sempre condiviso le scelte del prg e ne hanno tenute aperte le possibilità di riuscita senza cedere alle sirene della deregulation. Che partono, con molta superficialità, pure da sinistra».

E ora te ne vai. Tirando un respiro di sollievo? «Sono pugliese e avverto che in Puglia c’è un clima nuovo, una sensibilità al paesaggio, una dimensione imprenditoriale interessante. Vendola ha saputo catalizzare questa voglia di fare. Inoltre, mi manca un’esperienza di programmazione su scala più ampia».

Niente fughe, dunque? «Napoli vive un momento difficile, ma mi ha dato moltissimo. E sono abituato a tirare le somme algebriche: quelle dove, se prevale il segno più o il segno meno, lo capisci solo alla fine, evitando bilanci affrettati».

Rimpianti? «Ho ricordi bellissimi. Della dolcezza che Napoli ha saputo comunicarmi. E di una forza autentica: in quale altra città sarebbe stato possibile che a un gruppo di giovanissimi fossero affidate tante responsabilità? Avevo trent’anni firmavo stati di avanzamento per 40 miliardi al mese... Non dovrei dirlo io, ma il nostro ufficio di piano è stato giudicato un’eccellenza tra le amministrazioni italiane. E non escludo che mi abbiano chiamato in Puglia anche per questo, in un’area di coordinamento dove s’incontrano tante diverse specificità. Nel clima di grandi novità che rende quello di Vendola un esperimento più collettivo individuale, spero di ritrovare la dimensione in cui ho avuto il privilegio di crescere.

Vedi anche l' articolo di Vezio De Lucia su eddyburg

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