Dentro il dibattito autoreferenziale degli addetti ai lavori, irrompe talvolta il punto di vista di chi specialista non è, e forse proprio per questo finisce per vedere quello che sfugge agli esperti. È il caso, mi pare, dell´articolo di Michele Serra («Le periferie dimenticate dalla società dei sapienti» uscito su Repubblica il 26 agosto) a commento dei fatti di Rozzano.
Sul tema delle "periferie", dell´assenza di qualità dello spazio fisico e sociale che le caratterizza, Serra propone una elementare domanda che sembra fare piazza pulita dei tanti dibattiti degli addetti ai lavori: «Ma io vivrei lì, in quel clima sociale, con quel paesaggio davanti alle finestre?».
Una domanda a lungo elusa da noi architetti, che sembra porsi tuttavia persino la gente comune. Meglio sarebbe dire che da almeno trent´anni si è posta la gente comune mentre quella che Serra definisce la "società dei sapienti" - cioè gli architetti, gli urbanisti, gli amministratori - continuava a progettare, in cieca buona fede, i Corviale, gli Zen, i Tor Bella Monaca, i Laurentino 38. Uno iato ormai quasi incolmabile, quello tra le attese della gente comune e la cultura architettonica, che è possibile far risalire almeno agli anni Settanta. È a partire dalla seconda metà di quel decennio, infatti, che si segnala una svolta nel fenomeno dell´abusivismo edilizio. La casa abusiva diviene strumento di una società che non è più in grado di condividere i valori e la cultura abitativa proposta nella città pianificata. «Il rifiuto di un quartiere costituito da case multipiano è espressione di un giudizio negativo sulla incongruenza dell´impianto urbanistico con tipologie ad alta densità, che determinano una sindrome da ghetto appartenente alla tradizione dei quartieri popolari di periferia (...). L´indiscussa vincitrice del referendum sulla casa desiderata è risultata la piccola dimensione: il 56,9% degli intervistati ha indicato nella casa di borgata il luogo preferito dove vivere».
Era il 1983 e il Censis (nella Indagine conoscitiva sul fenomeno dell´abusivismo edilizio, realizzata su incarico del Comune di Roma) proponeva un´interpretazione dell´abusivismo edilizio come risposta alla deludente qualità della vita che gli ambienti urbani della città pianificata moderna sapevano garantire ai loro abitanti: «Il trasferimento nell´alloggio costruito illegalmente solo in pochi casi si configura come un evento dettato da una stringente necessità. Nella generalità esso appare invece come l´occasione di un miglioramento voluto e consapevolmente pianificato dagli standards abitativi. L´alloggio abusivo rappresenta quindi, per la maggioranza degli intervistati, la conquista di un miglioramento sostanziale del comfort abitativo. Accanto all´incremento della superficie abitabile e del numero medio di stanze si può rilevare un pronunciatissimo incremento delle superfici accessorie dell´alloggio e delle superfici scoperte di pertinenza dell´abitazione, specialmente costituite dai giardini e dalle aree libere».
Una bella lezione per gli architetti: a fronte della nostra incapacità di garantire qualità all´ambiente urbano, la gente comune cominciava ad autocostruirsi la sua villettopoli. Cominciava a percorrere quella strada che oggi consegna i nostri territori metropolitani a un oggettivo paradosso: da un lato ettari di aree suburbane informi (nelle quali, tuttavia, la gente vive volentieri); dall´altro interventi pianificati per mano pubblica (dove ogni persona in regola con la propria intelligenza non vorrebbe vivere).
Fin da allora dunque ce ne sarebbe stato a sufficienza per allertare "la società dei sapienti", che però ed al contrario, proprio in quegli anni metteva a segno alcuni tra i meno amati interventi edilizi di mano pubblica. Un "fiasco", a cogliere il giudizio pressoché unanime dei non addetti, che non ha nulla a che vedere, si badi bene, con la speculazione edilizia e con i cosiddetti "palazzinari", se è vero che le forze messe in campo per la progettazione provengono in buona parte dalle file giuste. Proprio in quegli anni e di fronte a quelle attese, Vittorio Gregotti e Franco Purini realizzano il quartiere Zen a Palermo (1970); Mario Fiorentino il Corviale a Roma (1974). Mi limito a citare questi due esempi perché in questi due casi, forse più che per i tantissimi altri esempi che si potrebbero citare, la divaricazione tra quello che in campo cinematografico chiameremmo il giudizio della critica ed il giudizio del pubblico, misura la maggiore distanza.
Perché dunque noi architetti abbiamo tanto apprezzato il Corviale e lo Zen che al contrario ogni persona "in regola con la propria intelligenza" ha individuato come manifestazione evidente dell´invivibilità dello spazio urbano contemporaneo?
Mi convince solo parzialmente la spiegazione che fornisce Vittorio Gregotti (Repubblica del 30 agosto): lo Zen non ha funzionato perché mai furono realizzati i servizi previsti, perché il progetto fu compiuto in modo frammentario, perché da subito l´amministrazione Ciancimino tentò di sottrarre ai progettisti ogni possibilità di controllo della realizzazione. Non è poco, certo. Anzi ce n´è a sufficienza per assicurare il fallimento di qualsiasi buon progetto. Ma tutto questo non coglie quello che a me pare il dato essenziale, e cioè lo scollamento irreversibile che con il Corviale e lo Zen noi possiamo misurare tra i modelli urbanistici messi a punto dal Movimento Moderno nel corso del Novecento, ed i modi e le attese e la cultura (o la sub-cultura) abitativa contemporanea nelle società post-capitaliste. Lo Zen e il Corviale rappresentano il punto di arrivo di una ricerca che in campo architettonico parte dal lavoro delle avanguardie degli anni Venti e Trenta, e si alimenta del pensiero dei grandi maestri del Movimento Moderno come Gropius e Le Corbusier. Un modello fondato in quegli "eroici" decenni della prima metà del Novecento, a partire dalle tumultuose esigenze di una società e di un´economia fondata sulla produzione industriale, sulle fabbriche, sulla manodopera, sulle lotte operaie, su un pensiero ancora di stampo modernista-determinista che garantiva un futuro inscindibilmente legato al progresso. Lo Zen e il Corviale sono il punto di arrivo di tutto questo: il che spiega l´apprezzamento degli architetti.
Ma proprio per questo essi rappresentano allo stesso tempo quanto di più distante possa essere percepito dalla società contemporanea. Dentro la quale sembrano scomparsi tutti gli attori che popolavano sino a ieri la società moderna: non più operai con le chiavi a stella; non più fabbriche; non più classe operaia ed anzi definitivamente non più classi sociali in assoluto; non più politica; niente più determinismo; e un futuro che appare non più irreversibilmente legato al progresso ed allo sviluppo.
Più consone alle attese e alla cultura abitativa dell´uomo contemporaneo, le tipologie autocostruite della città non pianificata, le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista. Basterebbe guardarle con meno disgusto per rileggere, in filigrana, il soggetto metropolitano che le abita, le sue attese, la sua cultura abitativa. Un uomo metropolitano contemporaneo che a differenza di quello moderno si caratterizza subito per il suo fortissimo individualismo. È un soggetto che sembra l´opposto esatto di quello per il quale il moderno aveva efficacemente costruito una precisa cultura abitativa attraverso altrettanto precise tipologie edilizie. Sui Corviale, sugli Zen, sui Tor Bella Monaca, allora, si addensa il confronto, irreale, tra due culture dell´abitare: l´uomo e la cultura urbana moderna per il quale quelle tipologie furono messe a punto nel corso del secolo ormai passato; e l´uomo e la cultura che dovrebbe abitarle oggi, senza avere più nulla da spartire con i valori che quello spazio metteva in figura. Le motivazioni di Gregotti non percepiscono la crisi "strutturale" delle periferie di stampo modernista dentro la metropoli contemporanea. Una crisi che proviene dall´inadeguatezza del modello di città proposto e che ben poco ha a che vedere con la sua completezza.
Ma allora tutto questo mi sembra converga verso un limite: la cultura urbana espressa dal moderno, che è alla base della formazione di noi architetti, che è tuttora la struttura principale dell´insegnamento di architettura, è ampiamente superata nei fatti e dalla cultura materiale della gente comune. Solo partendo da questa definitiva consapevolezza potremo, e dobbiamo con urgenza e con passione, rifondare un rapporto accettabile tra urbs (cioè città fisica) e civitas (cioè società civile).