Tra gli esercizi intellettuali più difficili quello di non cadere nella disperazione quando si scopre (ahimè così spesso) che la memoria degli italiani è morta, o è seppellita dagli “affari”. Sono decenni che si sa perché i disastri accadono, e si fa il contrario di ciò che serve per evitarli. La Repubblica, 4 agosto 2014
Bomba d’acqua” fuori stagione? Forse, anche se l’annessione dell’Italia ai Tropici sembra ormai un fatto compiuto. Ma mentre tutti si stracciano le vesti, non nascondiamoci dietro un dito.
Frane, fiumi in piena, disastri naturali ritmano la cronaca di questi anni. Ogni volta, proclami e promesse, in attesa del prossimo lutto. «Una devastazione che mai ci saremmo aspettati» dichiara il presidente del Veneto Zaia, dimentico di smottamenti ed esondazioni nella stessa zona di Refrontolo, lo scorso febbraio.
«Ora si volta pagina, investiamo in opere di difesa» proclama il sito del Governo, con una velina-fotocopia di quelle di altri governi. Per citarne uno, Corrado Clini (allora ministro dell’Ambiente), che dopo una frana in Liguria (settembre 2012) dichiarò pensosamente: «Servirebbe un piano contro il dissesto idrogeologico». Gran prova d’intuito, da parte di chi era stato direttore generale dello stesso Ministero per dieci anni.
Ma in Italia ogni disastro è opera del fato avverso o di congiunture astrali. Mai che si parli di responsabilità o di punire i colpevoli: che sarebbe la prima mossa per voltar pagina davvero, e non a parole. E a che cosa è mai servito il monito del Capo dello Stato, quando dopo un’altra alluvione con quattro morti (settembre 2011) dichiarò che «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione»?
Con un territorio allo sfascio dal Cervino a Pantelleria, anziché analizzarne le fragilità e concepire piani d’insieme aspettiamo che i riflettori si accendano su piccole porzioni di territorio, per metterci una pezza: oggi Treviso, ieri Sibari affogata nel fango o Giampilieri coi suoi 38 morti. Come se tutto il resto fosse al sicuro.
L’Italia ha il territorio più fragile d’Europa (mezzo milione di frane), il più esposto al danno idrogeologico, che colpisce periodicamente le persone, l’economia, il paesaggio. Eventi che dovrebbero imporre la redazione di mappe del rischio e la ricerca di soluzioni. Invece, gli investimenti per la messa in sicurezza del territorio sono diminuiti del 50%, e i lavori per un’aggiornata carta geologica sono stati affossati. Usiamo ancora quella al 100.000, voluta da Quintino Sella nel 1862 più per le risorse minerarie che per lo stato dei suoli.
La nuova carta al 50.000 prevedeva 652 fogli, ma solo 255 sono stati realizzati (il 40 % del territorio), dopo di che, per i tagli lineari alla Tremonti o la spending review che ne è l’impudico sinonimo, il progetto si è arenato. E se del 60% del territorio non c’è carta geologica, come intende il Governo «chiudere la stagione che ha visto l’Italia inseguire le emergenze»? Secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% del territorio è in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico.
I costi della mancata manutenzione sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i morti): negli anni 1985-2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. Nonostante questi segnali di allarme, scrive il rapporto, cresce senza sosta «l’abbandono della manutenzione e presidio territoriale che assicuravano l’equilibrio del territorio».
Continua invece il consumo di suolo: secondo dati Ispra, otto metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni (e il Lombardo-Veneto è al primo posto). Dati che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9% per il nostro Paese. Pretestuose “grandi opere” pubbliche si aggiungono “piani-casa” e condoni edilizi, con l’assunto che basta “mettere in moto i cantieri” e l’economia è salva: la stessa litania menzognera che ci viene ripetuta da Craxi in qua.
Ma questa dissennata cementificazione uccide i suoli agricoli, colpisce al cuore l’agricoltura di qualità, copre i suoli di una coltre di cemento, con perdita irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema che aggrava gli effetti di frane e alluvioni. Eppure, secondo l’Associazione Nazionale Costruttori, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per vent’anni, che assorbirebbe manodopera bilanciando il decremento delle nuove fabbricazioni.
Con un curioso lapsus, Erasmo D’Angelis, che a Palazzo Chigi guida #italiasicura, struttura contro il dissesto idrogeologico, ha dichiarato all’Ansa che il Governo intende procedere allo «sblocca dissesto ». Si spera che intendesse “bloccare il dissesto”, perché a sbloccarlo ci pensano le bombe d’acqua. Ma il decreto “Sblocca Italia” prevede «permessi edilizi più facili e grandi opere accelerate», senza distinguere (lo ha notato Asor Rosa sul manifesto ) «fra le opere in ritardo per motivi burocratici e quelle nei confronti delle quali si è manifestata la consapevole opposizione dei cittadini in nome di una vivibilità che fa tutt’uno con il rispetto del territorio e dell’ambiente, anzi facendo intenzionalmente d’ogni erba un fascio».
Se sarà così, il lapsus di D’Angelis si rivelerà tragicamente profetico. Per non dire che le “leggi ad alta velocità” servono spesso (come per il Mose) a indirizzare fondi pubblici sul profitto privato dei soliti noti: lo hanno mostrato benissimo Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri nel loro impeccabile Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia ( Rizzoli).
«Il maggior rischio degli investimenti in infrastrutture è la vanità», intitolava il Financial Times del 5 gennaio 2014. Ma nell’Italia delle frane e delle bombe d’acqua la vanità dovrebbe essere bandita