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Vittorio Emiliani
Costruire nel centro storico? Non facciamo come Parigi
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
Una risposta alla provocazione di Jean Nouvel che vorrebbe "liberalizzare" il centro storico per consentire ai "bravi" architetti moderni di trasformare e lasciare il loro segno. Dal Corriere della sera del 10 maggio 2004, edizione di Roma

Nell’intervista di domenica il sindaco Veltroni ha messo con esattezza un punto fermo: non si tocca la cosiddetta «ansa barocca», non si interviene in generale nel centro storico, si interviene con progetti di qualità nella cosiddetta «città allargata» (la Roma di Nathan per intenderci) e ancor più nelle disgraziate periferie - anche quella «firmate» purtroppo - dove la vita individuale e collettiva rimane spesso scadente. Walter Veltroni - la cui proposta di legge sui centri storici andrebbe recuperata - rivendica un dato culturale italiano: l’identità dei centri storici va salvaguardata attivamente perché è parte integrante della nostra identità di italiani di oggi. La ricetta del «si può e si deve intervenire nelle città antiche perché, alla fine, nei secoli lo si è sempre fatto, ecc. ecc.» stavolta è venuta da Parigi e da uno degli architetti più «spettacolari», Jean Nouvel, secondo il quale la Città Eterna non va messa «sotto formalina».

Ora, chi abita dentro le Mura Aureliane, tutta questa formalina in giro non la avverte. Dove la residenza è riuscita a difendersi, dove gli abitanti non sono stati cacciati, dove negozi e artigiani sono quindi rimasti ad operare, Roma antica è viva, molto più viva, a disdoro di noi moderni, di tanti quartieri sorti nei decenni scorsi. Basta fare qualche passo nel rione Monti oppure a Ponte- Parione.

La questione centrale è semmai questa: come è possibile far sì che i 130- 150 mila residenti della città storica ( ma anche gli altri di Mazzini- Delle Vittorie, per esempio, sempre più povero di residenze) non siano costretti ad emigrare altrove, ma anzi vengano incrementati? Il nodo vero delle nostre città storiche è questo. Mi permetto di citare un mio libro - L’enigma di Urbino - appena uscito, dove racconto come quel mirabile centro storico, conservato grazie ad alcune leggi speciali dello Stato e al piano regolatore anni ’ 60, oggi conti appena 673 residenti dentro le mura dove una volta abitavano 5 mila persone. Come a dire che se ne è andato più dell’ 85 per cento della popolazione fissa, sostituito da istituti universitari, da affittaletti, da rumorosissimi pub per studenti, che fanno scappare i rari superstiti. Con costi da capogiro per tutti e con la conseguente sparizione di negozi, di laboratori artigiani, di ogni servizio. Urbino è certo un caso- limite, ma i casi- limite fanno capire dove si rischia di andare se non si recupera la consapevolezza che sono gli abitanti veri a far vivere la città, ad assicurarne il controllo sociale, a dare regole e limiti umani al « divertimentificio » notturno.

Poiché la lezione di Jean Nouvel veniva da Parigi, andiamo allora al Museo Carnavalet, delizioso museo della città: ci accorgeremo che della Parigi storica è rimasto ben poco, quasi nulla. A Roma, nonostante tutto, non è accaduto l’eguale. È un difetto? Un guaio serio? Dato il gradimento che Roma antica incontra parrebbe di no. A Roma è successo già una volta che si facesse, in un certo senso, « come a Parigi » . Fu dopo il 1870 quando Quintino Sella, grande sostenitore di Roma capitale, progettò, « senza una soverchia agglomerazione di operai » , la Terza Roma non fuori dalla Roma dei Cesari e da quella dei Papi, ma « sopra » , dentro di essa. Con grandi sventramenti ( Corso Vittorio su tutti, ma non solo) che aprirono la strada a quelli ancor più clamorosi di Mussolini. Il modello era la Parigi del barone Hausmann, il quale aveva sbriciolato la città del passato e disegnato i grands boulevars, anche con l’intento di scongiurare altri moti rivoluzionari. Facendo « come Parigi » , ci siamo maledettamente complicati la vita cercando di adattare - idea disperata - la città storica alle esigenze di una capitale moderna, con tormenti che ci assillano tuttora. Per favore, finiamola però con l’architetto di oggi che vuole lasciare il suo segno, la sua impronta nei centri storici. Un signore che si chiamava Raffaello, inviò nel 1519 a Leone X che l’aveva nominato soprintendente alle antichità, una sensazionale lettera alla quale si rifanno tutti i veri riformatori e fautori della tutela: con chi se la prendeva furibondamente Raffaello? Con i barbari, ma anche coi papi che avevano « ruinata e guasta » la città antica, mentre, « lassando vivo el paragone de li antichi » , bisognava « aguagliarli e superarli con magni edifici, risvegliare gli ingegni » , ecc. ecc.

Sa di « formalina » anche questo Raffaello? O non è un « manifesto » attualissimo?

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