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Guido Viale
Come vincere la sfida dei rifiuti
5 Marzo 2008
Rifiuti di sviluppo
Il conflitto tra la cultura della crescita e la cultura della sobrietà. Finchè vince la prima non c’è speranza. La Repubblica, 5 marzo 2008

Il problema dei rifiuti non può essere isolato dal suo contesto, cioè dalle produzioni e dai prodotti che li generano, dai modi del loro consumo. Alla luce del contesto il tema rifiuti si colloca all’interno di una contesa tra culture diverse in cui le posizioni dei contendenti si radicano entrambe nell’ambito della modernità; ma con esiti sempre più divergenti. Ritroviamo la stessa contrapposizione tanto sulle grandi questioni dell’umanità, come guerre o cambiamenti climatici, quanto in quelle minute della vita quotidiana – compresa la produzione di rifiuti – il cui effetto cumulativo decide il destino del pianeta

Da un lato abbiamo la cultura della crescita, affidata alla tecnica e al mercato, più o meno corretto con interventi “politici”, ma anch’essi di natura tecnica; non a caso chiamati sempre più spesso “manovre”. Qui, alle aspettative sullo sviluppo tecnologico viene affidato anche il rimedio ai “danni collaterali” prodotti dalla tecnica: alla superiorità nella tecnologia bellica il compito di garantire l’ordine mondiale messo in forse dalla disseminazione di armi micidiali; all’energia nucleare, alla cattura del carbonio, all’idrogeno, il compito di neutralizzare i cambiamenti climatici provocati dai combustibili fossili, il cui utilizzo non deve conoscere tregua per non ostacolare la crescita. L’assunto è semplice: la tecnologia ci ha dato il benessere; la tecnologia rimedierà ai suoi danni collaterali.

Nella vita quotidiana la cultura della crescita è promozione del consumo per il consumo; del consumo per mandare avanti la macchina produttiva; del consumo per sostenere occupazione e redditi. Consumo di beni sempre più inutili mentre miliardi di uomini mancano del minimo necessario. Il “danno collaterale” del consumo è costituito dai rifiuti, perché tutto ciò che viene prodotto è destinato a trasformarsi in rifiuto in un lasso di tempo sempre più breve. Quindi, tanto vale produrre direttamente rifiuti: l’usa-e-getta (nel cui novero rientrano tutti gli imballaggi “a perdere”) non è altro che fabbricazione di rifiuti destinati a qualche effimera funzione per il tempo più breve possibile.

Ma la cultura della crescita ha sempre una “tecnologia” pronta per rimediare a tutto: Per i rifiuti, prima c’era la discarica, più o meno “controllata”; poi l’inceneritore (il sogno di “mandare in fumo” tutto ciò che non ci serve); poi il “termovalorizzatore” (la produzione di energia più costosa mai comparsa sulla Terra: il termovalorizzatore manda in fumo con rendimenti energetici infimi non solo quello che brucia, ma anche tutta l’energia consumata per produrre i materiali che usa come combustibile e che potrebbero invece venir riciclati); infine il “ciclo integrato” dei rifiuti, inframmettendo tra pattumiera e inceneritore altre macchine per separare il secco dall’umido e “un po’” di raccolta differenziata; ma non troppa; altrimenti il termovalorizzatore si spegne.

Il secondo contendente di questa contrapposizione è la cultura della sobrietà. Non è organizzata, né sponsorizzata, né roboante; ma in qualche modo si radica in ciascuno di noi quando realizziamo che la rincorsa ai consumi è soprattutto una corsa alla produzione di rifiuti che rende tutti più poveri e intasa il mondo. Anche la cultura della sobrietà è figlia della modernità: non è frutto della penuria, della nostalgia per il passato o di una volontà di espiazione; bensì di saperi che ci guidano a usare le risorse in modo ragionevole. Non ha inventato macchine volanti, ma il deltaplano, che permette di realizzare il sogno di Icaro sfruttando i movimenti dell’aria; o la bicicletta, che moltiplica il rendimento dello sforzo che si fa per camminare; o il trasporto flessibile che combina velocità, comodità e risparmio di spazio, di risorse e di energia. Non ha realizzato la fusione a freddo – la pietra filosofale che trasformava il piombo in oro e oggi dovrebbe trasformare l’acqua in idrogeno – ma i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche, che possono fornire all’intero pianeta tanta energia quanta ne basta per una vita moderna e agevole. Ma solo in un quadro di contenimento e perequazione nell’utilizzo delle risorse.

Meno consumi producono meno rifiuti; ma a ridurre la produzione di rifiuti sarà soprattutto quello che si consuma e il modo in cui lo si fa: le nostre scelte di acquisto. Cioè: meno imballaggi superflui (oggi sono il 40 per cento dei rifiuti urbani in peso e il 70-80 per cento in volume), cominciando da bottiglie e flaconi a rendere cauzionati; meno prodotti usa-e-getta (un altro 10 per cento): l’usa-e-getta ha sostituito per una frazione di secolo prodotti che prima si usavano fino alla consunzione; ma oggi ci sono sostituti dei prodotti usa-e-getta che costano e inquinano meno e sono più comodi e igienici di tutti i loro predecessori: nuovi pannolini lavabili o lavastoviglie che evitano il ricorso a piatti e bicchieri di plastica nelle mense. Più prodotti venduti sfusi (“alla spina”), a partire dai detersivi; meno sprechi di avanzi alimentari, per lo più frutto di una spesa fatta senza programma, come ricordava pochi giorni fa Carlo Petrini; più compostaggio domestico dei rifiuti organici (ovunque si disponga di spazi adeguati, e lo può essere anche un balcone); adozione di prodotti tecnologici modulari (computer, hi-fi, cellulari, elettrodomestici), in modo che per adeguarli ai progressi della tecnologia non sia necessario cambiare tutta l’attrezzatura, ma solo le componenti logore od obsolete; una moderna regolazione e incentivazione del mercato dell’usato, per non mandare in discarica o in fumo quello che milioni di persone sono ancora disposte a usare. E poi, ma solo poi, raccolta differenziata capillare porta-a-porta, responsabilizzando gli addetti perché intrattengano un rapporto diretto con gli utenti; impianti decentrati di compostaggio e di recupero dei materiali; incentivi agli acquisti ecologici (green procurement) per enti pubblici e imprese, per fornire un mercato ai materiali riciclati.

Sono cose semplici, alla portata di cittadini, enti locali e imprese grandi o piccole, ma tanto più urgenti, anche ricorrendo a misure straordinarie, quanto maggiore è l’emergenza rifiuti che soffoca un territorio. Intervenire alla fonte, in base alla gerarchia delle priorità indicata oltre trent’anni fa da Ocse ed Europa: riusare, ridurre, riciclare, e poi smaltire – “termovalorizzatore” e discarica – solo quello che rimane. Ma se si fa tutto ciò, che cosa resta da bruciare in un “termovalorizzatore”? Quasi niente: non l’acqua (60-70 per cento) contenuta nel residuo organico sfuggito alla raccolta differenziata; non la carta talmente bagnata da non poter essere conferita insieme a quella riciclabile; non il vetro e le lattine che invece di bruciare assorbono calore. Ma neanche quel poco di plastica che ne resta dopo una buona raccolta differenziata (che al 2012, per decisione coincidente – caso quasi unico – degli ultimi governi sia di destra che di sinistra, dovrà raggiungere l’obiettivo del 65 per cento). Perché la plastica è fatta con il petrolio e non potrà più essere assimilata a una fonte di energia rinnovabile e fruire di quegli incentivi che in passato hanno fatto ricchi i gestori degli inceneritori – primo tra tutti quello famosissimo di Brescia – a spese dei fondi pagati da tutti noi per promuovere l’energia del sole, del vento, dei residui dei boschi e delle colture bioenergetiche.

E allora? Allora, anche nel campo dei rifiuti, la cultura della sobrietà ha soluzioni, anche tecnologicamente molto sofisticate, e tutte già sperimentate, per raggiungere risultati che la cultura della crescita non riuscirà mai a conseguire, immobilizzata com’è in attesa di inceneritori che sarà sempre più difficile e costoso realizzare e soprattutto far funzionare senza incentivi (negli Stati Uniti non se ne costruiscono più da 15 anni, mentre in molte città del Nord America la raccolta differenziata ha raggiunto il 60 per cento in poco più di un anno). La crisi drammatica della Campania deve essere l’occasione per un ripensamento profondo e generale su queste alternative.

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