The vision, 18 Aprile 2018. Neanche la Bologna "rossa e fetale" resiste alle seduzioni del mercato, del turismo, dell'estetica asettica, minimalista e omologante. 'Ripulita' dei cantieri sociali, luoghi storici di aggregazione, FICO vuole essere l'immagine della nuova città. Con riferimenti (i.b.)
Negli ultimi anni, al mito della Bologna ribelle del ’77 si vuole soppiantare una nuova visione di città da cartolina, mecca del turismo e della buona cucina. Questo radicale cambio di rotta delle politiche cittadine si è manifestato con interventi chiari e mirati. Un certo tipo di azione politica ed economica deve passare giocoforza dall’identità, e quindi dall’immaginario.
Una “pedana per selfie”: questa è la prima cosa che si incontra all’ingresso di FICO, il megastore dello slow food – circa 100.000 mq – voluto da Oscar Farinetti e inaugurato il 15 novembre in zona Pilastro. La pedana è la prima avvisaglia del modo spettacolarizzato di concepire l’enograstronomia. Il sito di FICO descrive lo spazio come: “Un sorprendente e unico parco tematico agroalimentare, uno straordinario progetto di educazione alimentare per offrire a tutti i visitatori, italiani e stranieri, e in particolare ai giovani, una grande fattoria didattica che richiama e valorizza le eccellenze dell’agricoltura italiana di qualità”.
FICO si presenta come una serie di capannoni non troppo diversi, al loro interno, da un centro commerciale: stand in simil-legno e vari ambienti asettici da industria biotecnologica. A fare da collante fra le due estetiche dominanti sono i bar e i ristoranti, divisi per tema e provenienza regionale. Nelle lunghissime gallerie di FICO troviamo spazi dedicati alla carne, al formaggio, alla pasta e a ogni altro prodotto tipico della cucina italiana. Allo stesso modo vediamo sfilare i padiglioni di Lombardia, Calabria o Puglia, come se si trattasse di un EXPO in sedicesimi. L’idea di FICO è proprio creare una vetrina permanente: cornucopie di prosciutti lasciano spazio a pareti di mele in diverse gradazioni, forme di grana ammonticchiate, pannelli che raffigurano giganteschi tagli di carne. L’esposizione dei prodotti ricorda quella barocca e parossistica di Harrods, ma peggio. Il cibo diventa oggetto, scultura da ammirare.
La definizione “parco divertimenti”, di primo acchito, può sembrare fuori luogo, eppure è in questo solco di attrazione che si configura la presenza di piccole stalle e recinti nell’area esterna – mucche, maiali e cavalli tirati a lucido per essere offerti in pasto all’entusiasmo di bambini e famiglie; e ancora, coltivazioni di menta, basilico e altre erbe aromatiche dalle innumerevoli tonalità di verde pantone.
Lo spazio di FICO, proprio come quello dei centri commerciali, è a dir poco eterogeneo: dentro ci troviamo campetti da beach volley o da tennis, piccole arene, una centrale del latte in miniatura, gli onnipresenti silos che pubblicizzano l’ultimo libro di Farinetti, persino un ufficio postale.
Da ogni angolo, gli slogan sull’autenticità dei prodotti ci ricordano la natura genuina della nostra esperienza. Gigantografie cartonate delle città italiane danno la sensazione di navigare nel bignami di tutto ciò che rappresenta, o dovrebbe rappresentare, il Made in Italy. Ogni elemento suggerisce che siamo nel Paese di Bengodi, in una sorta di ossessiva autoreferenzialità che vorrebbe comunicare l’unicità dei nostri consumi.
Caratteristiche e funzionali all’educazione gastronomica sono le cosiddette “giostre”, alcuni padiglioni adibiti al racconto di un alimento specifico: dalla carne al pesce, dalle sementi al vino. Istallazioni interattive, giochi elettronici e proiezioni ci illustrano lo sviluppo storico di ciò che mangiamo. Benché l’intento sia nobile, il vago sapore illuminista delle spiegazioni fallisce nella trasmissione del sapere; la sensazione è di trovarsi di fronte a installazioni di arte contemporanea di cui non si capisce bene il senso, dalle “giostre” si esce spaesati, capaci solo di disperdersi nelle labirintiche gallerie del megastore.
Il personale si presenta come esasperatamente cordiale, cristallizzato in un sorriso perenne e bardato con abiti a tema, come in un racconto di George Saunders: i costumi tipici dei padiglioni regionali, le tute da lavoro dei centri di produzione, le fogge caratteristiche dello stereotipo Made in Italy, abiti che ricordano il prodotto venduto, come ad esempio completi rossi per la zona macelleria e rosa per quella dei salumi. Ho visto un cameriere, completamente vestito di rosa, spendersi in salamelecchi all’entrata del Bar Mortadella, e pochi minuti dopo, lo stesso, all’esterno, che fumava una sigaretta con gli occhi bassi e la faccia di chi non ha esattamente l’aria di divertirsi. È possibile, del resto, che i tagli di 90 lavoratori interinali operati di recente dalla direzione abbiano generato un certo clima di preoccupazione.
Bisogna considerare che FICO, nonostante le reboanti dichiarazioni di dare lavoro a 3.700 dipendenti, non ha così tanto bisogno di personale, dato che si appoggia al comune, non solo per quanto riguarda i fondi erogati dal Caab, ma anche per l’adesione al progetto di alternanza scuola-lavoro, che coinvolge a titolo gratuito circa ventimila studenti e che sta suscitando molte polemiche.
Prima dell’apertura, l’obiettivo dichiarato dell’affluenza era sei milioni, una stima che, divisa su un anno intero, dovrebbe portare più di 16.000 visitatori al giorno: in pratica un comune italiano di medie dimensioni. L’analista finanziario Roberto Foglietta sostiene che “con un bacino di utenza di 200 milioni, nell’area metropolitana di Londra, attirarne 6 significa servirne il 3%, ma a Bologna significa servire il 50% dei potenziali clienti. Bisognerebbe che in Emilia Romagna il buon cibo e il buon bere italiano fosse più raro e/o costoso di 16 volte rispetto a Londra per avere un fattore di attività che compensi il bacino potenziale. Invece è l’opposto: a Bologna, e più in generale in Italia, l’offerta di FICO è ridondante”.
Durante la mia visita, benché si trattasse un sabato di primavera e per giunta all’ora di pranzo, quello che scarseggiava era proprio l’affluenza di turisti stranieri. FICO è situato in una zona industriale, dove lo sguardo abbraccia solo capannoni e reti stradali, a una decina di chilometri dal centro. Difficile racimolare visitatori, disposti ad allontanarsi dal centro e a spendere dai venti euro in su per un pasto veloce, se persino sul Guardian appaiono recensioni negative.
Il giornale inglese rileva la prima lampante contraddizione del centro agroalimentare: la delocalizzazione rispetto al tessuto urbano. Appare difficile che un turista – transitando da Bologna per un periodo medio di due giorni – decida di spendere un’intera giornata in uno spazio periferico, la cui attrazione principale, il cibo, è facilmente reperibile in centro, che ha dalla sua il patrimonio artistico cittadino. Il Guardian conclude dicendo che “Eataly vuole celebrare la cultura alimentare italiana, ma lo fa in un modo che non è affatto italiano”. Più che un parco agroalimentare ci troviamo di fronte un mall americano, alla “Strip” di Bologna, che sembra prendere le mosse da quella di Las Vegas.
La situazione di FICO nasconde contraddizioni evidenti. David Harvey, nel saggio Città ribelli, rileva che “negli ultimi decenni, il peso dell’imprenditorialità urbana è sensibilmente cresciuto a livello internazionale. Si tratta essenzialmente di modelli specifici di comportamento, all’interno della governante urbana, in cui fluiscono poteri pubblici statali, una vasta gamma di organizzazioni della società civile, e interessi privati, aziendali o individuali, che danno vita a coalizioni per promuovere o gestire un determinato tipo di sviluppo urbano e regionale”, il tentativo è creare una rendita monopolistica, sfruttando le particolarità del territorio. Si investe sul capitale simbolico, sul carattere di unicità che mercificato diventa brand. Il problema del marchio all’interno del commercio risiede nell’omologazione al mercato. Nel caso del turismo questo significa livellare le particolarità di un territorio per inserirle in un determinato immaginario. Quest’opera, volta all’aumento dei flussi turistici, e quindi dei guadagni, rischia di livellare l’unicità dei luoghi, e paradossalmente ridurne così il capitale simbolico e danneggiarne la rendita monopolistica. FICO, come il fenomeno di Eataly, non intrattiene solidi rapporti con il territorio, ma rappresenta l’occasione per una stucchevole parata del culto del buon cibo.
La pedana per selfie all’entrata di FICO assume, allora, i contorni di una schietta metafora: la possibilità di fotografare un marchio che comunica solo se stesso. La visita di questo complesso non trasmette nulla della città che lo ospita, né della cultura che dovrebbe rappresentare. Si tratta solo di una gigantesca vetrina per i prodotti di un brand che vuole facogitare ogni altra declinazione del concetto di Made in Italy enogastronomico, come se sotto i riflettori dovesse esserci un solo attore, a scapito del contesto che lo ha generato. Progetti come questo, vere e proprie cattedrali nel deserto, non aggiungono nulla alla comunità a cui si appoggiano, capitalizzando il patrimonio simbolico per uso privato; e falliscono anche nel valorizzare l’originalità che rappresenta la vera attrazione turistica.
Un territorio fiorente dal punto di vista enogastronomico non ha bisogno di un centro commerciale che svolga una funzione omologante, necessita di politiche mirate che spostino l’attenzione sulla biodiversità delle proprie risorse.
Su eddyburg.it potete leggere diversi articoli su FICO e le 'pericolose relazioni' tra gastronomia e affari, che caratterizzano questa disneyland del cibo e del divertimento. Per saperne di più sugli investitori e Oscar Farinetti, il patron di Eataly, vi consigliamo "Fico, la Disneyland del cibo pronta al debutto", che contiene una spassosa postilla. Per rimanere sul tema dei poteri forti coinvolti leggete "Un giro dentro Fico, la Disneyland del cibo a Bologna". Inoltre: "Fico, la Disneyland del cibo pronta al debutto" di Mara Monti, "Un tram chiamato Farinetti.Gli fanno una linea ad hoc” di Ferruccio Sansa, "Qui si mangia" di Carlo Tecce. Sul fronte della cultura si veda di Tomaso Montanari "Carta e bellezza non fanno rima, Santa Lucia Farinetti, incinta tra le mortadelle, Milano e Firenze, chiese a uso privato"