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Ida Dominijanni
Come il candidato imparò a vendersi
17 Agosto 2005
Articoli del 2004
Da il manifesto del 24 ottobre 2004, riflessioni sulla democrazia negli Usa (e altrove). "Il marketing politico si rivela non solo un'industria potente e pervasiva, ma una vera e propria alternativa, elitaria e manipolatrice, alla democrazia di massa"

Come il candidato imparò a vendersi

IDA DOMINIJANNI

«Condurre una campagna elettorale ormai è solo un modo politico per fare della pubblicità»: parola del New York Times, non di oggi ma di un secolo fa. Elezioni americane del 1904, quelle vinte da Theodore Roosvelt, il quale a sua volta, otto anni prima, aveva commentato la vittoria del suo compagno di partito Mc Kinley osservando che era stato «pubblicizzato come un medicinale». Destino e successo del marketing politico erano dunque già scritti ai tempi della belle époque?

Che cosa è cambiato da allora a oggi, lungo il secolo della democrazia di massa, e in che rapporto stanno le vicissitudini di quest'ultima e quelle della comunicazione commerciale? Se lo chiede Ferdinando Fasce nel suo contributo al numero - Fahrenheit America - che la rivista di studi nordamericani Acoma dedica alle elezioni presidenziali e al panorama politico, sociale e culturale in cui esse cadono. La risposta non è facile, scrive Fasce, perché la questione, che pure è considerata centrale da tutti gli osservatori della politica americana (e ormai anche di quella europea e italiana soprattutto), resta ancora «largamente inesplorata» negli Stati uniti stessi. Senza riandare all'epoca del New Deal, quando l'agenzia pubblicitaria Barton tentò invano di combattere il peso dei «discorsi dal caminetto» radiofonici di Franklin Delano Roosevelt con una intensa attività di pubblicità istituzionale per le grandi imprese, o al salto provocato dall'avvento della tv nel fare accettare la comunicazione commerciale in sede politica, bastano gli ultimi decenni a fornire i materiali per una storia della democrazia del marketing politico ormai imprescindibile per chiunque si interroghi sulle della democrazia tout-court.

1960, confronto Nixon-Kennedy: si tocca un punto dinon ritorno nelle strategie comunicative della campagna elettorale. I dibattiti politici risultano già «un esempio clinico di pseudo-evento, di come lo si costruisce, del perché ha successo»; gli spot a pagamento assumono un peso dirimente nella vittoria di Kennedy; e per la prima volta la strategia dello stesso Kennedy, che si serviva non di una ma di due agenzie pubblicitarie, punta non più sulla conquista di un pubblico di massa indifferenziato, ma sulla segmentazione dell'audience politica su base etnica e religiosa. 1968, vittoria di Nixon: per la prima volta compare l'ufficio comunicazione per i rapporti fra la presidenza e i media, e un comunicatore commerciale, H. R. Hadelman, entra nello staff presidenziale; comincia l'epoca dei political consultants e conseguenti campagne negative sull'avversario, polemiche costruite ad personam, chiacchiericci scandalistici montati per condizionare e depistare l'agenda politica. E' certo comunque che dagli anni Venti e soprattutto dagli anni Cinquanta in poi, l'affermarsi di una comunicazione politica «sempre più indirizzata alle viscere dei cittadini-spettatori e sempre più lontana dalle questioni sostanziali della gestione e distribuzione del potere» va di pari passo con la crisi dei partiti di massa e di una sfera pubblica intesa come sede di elaborazione e discussione delle opinioni.

La trasformazione dei cittadini in audience segmentata si completa, negli ultimi trent'anni, con le strategie di targeting non più solo nella «vendita», ma nella stessa definizione della linea politica dei candidati. E infine con la sempre più forte sovrapposizione fra politica e intrattenimento nei talk-show televisivi, frequentati con particolare abilità da Bill Clinton. Conclusione: rivisitato lungo le vicissitudini del secolo, il marketing politico si rivela non solo un'industria potente e pervasiva, ma una vera e propria alternativa, elitaria e manipoatrice, alla democrazia di massa, sì che risulta oggi difficile, se non impossibile, pensare a un rilancio di quest'ultima senza fare i conti con il modo in cui lo sponsorship l'ha ormai contaminata e forse definitivamente snaturata, su una e forse anche su quest'altra sponda dell'Atlantico.Non è questa, del resto, l'unica via attraverso cui gli Stati uniti di oggi ci rimandano la centralità decisiva della dimensione linguistico-comunicativa della politica. Nello stesso numero di Acoma, Marilyn B. Young conduce un'analisi sottile del modo in cui la lingua dell'imperialismo - «immediata, diretta, monosillabica, imperativa»- e la lingua dell'impero -«benevola, materna, polisillabica, condizionale»- si stiano intrecciando nel costruire «la ricreazione nostalgica di un passato angloamericano colonizzatore e guerriero» e nell'imporre «una visione di guerra permanente, perseguita in nome di una pace permanente». Ed è ancora il linguaggio a rivelarsi centrale nella costruzione dello «stile paranoico» che ha antiche radici nella società americana, ma ha peculiarmente caratterizzato il primo mandato di George W. Bush. Ne scrive Bruno Cartosio: costruzione e imitazione speculare del nemico, negazione al nemico medesimo di ogni qualità degna di rispetto, ossessione per il suo sadismo, ritorsione di pari misura, secondo un gioco proiettivo in cui all'altro vengono attribuiti i peggiori aspetti di sé. Un gioco che altro non è se non la storia degli ultimi quattro anni: dalla «confrontation» fra Bush e bin Laden alla costruzione bugiarda delle «prove» contro Saddam Hussein alla specularità degli orrori e delle torture in Iraq.

Nelle elezioni del 2 novembre è in gioco anche e soprattutto questo: non la terapia definitiva, ma quantomeno la cura sintomatica della deriva paranoica della politica e della società americane.

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