loader
menu
© 2024 Eddyburg
Massimo Giannini
Cofferati: "Dalle riforme ai licenziamenti ci aspettano mesi drammatici"
21 Maggio 2004
Articoli del 2002
Un’intervista di Massimo Giannini a Sergio Cofferati su Repubblica del 23 dicembre 2002. L’allarme dell’ex leader Cgil per il sommarsi di "forzature istituzionali" e crisi economica. "Può finire peggio che negli anni '70", Cofferati: "governo inaffidabile, il dialogo resta impossibile"

ROMA - «Questo governo, con i suoi errori e le sue improvvisazioni, ci prepara un inverno e una primavera che non esito a definire drammatiche. Alle forzature destabilizzanti sul versante della politica istituzionale si accompagnerà un drastico aggravamento della crisi economica e delle condizioni materiali di migliaia e migliaia di cittadini. Rischiamo una stagione di licenziamenti di massa, una cosa che non si è vista neanche durante le crisi degli anni '70. Con questa maggioranza inaffidabile non esistono margini per un dialogo bipartisan: l’opposizione deve prepararsi a stare in campo, con tutta la forza delle sue proposte alternative».

Sergio Cofferati, perché un giudizio così severo e preoccupato? La congiuntura va male dappertutto, non solo in Italia.

«Ma in Italia, al contrario del resto d’Europa, stiamo assistendo ad una novità che colpisce, e della quale non si ha memoria nella storia di questi ultimi anni: una distruzione programmata e quasi sistematica di valore economico. Che precipita in tutta la sua gravità in due vicende emblematiche: da una parte la Legge Finanziaria, dall’altra la crisi del sistema produttivo e soprattutto della Fiat».

Partiamo dalla Finanziaria. Cosa c’è che non va?

«La totale improvvisazione, accompagnata dall’erraticità degli interventi. Ci sono aspetti specifici, in questa manovra, che appaiono intollerabili: i condoni, messaggio terribile ai cittadini ai quali si insegna che la virtù civica non è necessaria, e poi la finanza creativa. Ma poi, più in generale, è l’impianto complessivo della Finanziaria che preoccupa. Gli obiettivi macroeconomici non si realizzeranno mai. L’aumento del Pil previsto per il 2003, al 2,3%, è chiaramente irraggiungibile. La Confindustria stima l’1,4%. Siamo a uno scostamento del 45%. Ora la coerenza è un problema loro. Ma gli effetti materiali di questo fallimento previsionale lo pagheranno i cittadini. Il Parlamento sta per dare via libera a una Finanziaria destituita di ogni fondamento. Dunque non solo inefficace, ma oggettivamente pericolosa, perché avrà effetti potenzialmente disastrosi sull’economia e sulla società italiana».

Dopo il caos nel voto al Senato l’Ulivo chiede le dimissioni di Tremonti. Lei condivide?

«Non c’è il problema del singolo ministro del Tesoro. Io vedo una responsabilità collegiale di tutto il governo. C’è un’intera coalizione che con le sue azioni o le sue omissioni sta procurando un danno rilevante al Paese. L’anno prossimo la crisi economica si avviterà paurosamente. Già in queste ultime settimane c’è stato un ulteriore peggioramento della congiuntura. Dal mese di gennaio si scaricheranno sul ciclo gli effetti disastrosi delle crisi industriali, a partire dalla Fiat, e delle enormi difficoltà in cui si dibatte il terziario. Queste dinamiche non sarebbero dovute sfuggire al governo, che invece continua ad occultarle, o peggio a rimuoverle».

Possibile che tutto è sempre colpa di Berlusconi?

«Queste crisi erano tutte scontate. Quando vaste aree del settore dei servizi escono dalla franchigia del monopolio e affrontano il mare aperto del mercato, è fisiologico che si creino difficoltà competitive, soprattutto per un sistema di imprese di scarsa qualità e di insufficiente dimensione, come quello italiano. Ma ancora più scontato era il crollo della Fiat. Un gruppo che soffre da tempo una crisi di prodotto e di qualità. I dati sul mercato di luglio spiegano tutto: i costruttori di auto europei hanno accresciuto in media le loro quote del 3,5%, la Fiat ha ridotto la sua del 7,7%. Un divario di 11 punti: il gruppo fa prodotti che il mercato non apprezza. Stiamo parlando di luglio: la Cgil ha denunciato per mesi la gravità del caso Fiat, il governo non ha visto e non ha capito nulla di quello che stava accadendo?».

Sta di fatto che i lavoratori di Termini Imerese passeranno il Natale a casa, e altre migliaia di lavoratori rischiano di fare la stessa fine.

«E’ un dramma sociale di enormi proporzioni. L’anno scorso la Ue aveva chiesto ai governi di predisporre insieme alle parti sociali tutti gli strumenti necessari per garantire piena sopportabilità sociale ai processi di ristrutturazione produttiva, evitando il ricorso ai licenziamenti collettivi. Al vertice di Bilbao se n’è discusso, ma il governo italiano ha mostrato assoluta indifferenza. Ma i costi di quell’indifferenza, oggi, li scarica sulla pelle dei lavoratori. Affronta la crisi industriale senza strumenti specifici. Gli ammortizzatori sociali esistenti, prepensionamenti, mobilità e cassa integrazione, attenuano l’impatto della crisi per l’azienda, ma distruggono saperi e conoscenze accompagnando fuori dal ciclo produttivo lavoratori qualificati e ancora giovani. E solo l’ottimo Cavaliere poteva invitarli a trovarsi un lavoretto "alternativo": la verità è che quelle persone rischiano di non rientrare mai più nel mondo del lavoro».

Che si doveva fare, allora?

«Occorreva una politica industriale, ma quando la nomini ormai ti guardano con fastidio e sospetto: sembra che alludi alla pianificazione sovietica. Occorreva rispondere in modo socialmente equo alle sollecitazioni della Ue, mentre si è preferito sprecare un intero anno a cercare di distruggere i diritti di chi lavora. Occorreva una Finanziaria che programmasse politiche espansive dal lato dei consumi, che rilanciasse le infrastrutture, volano di vera occupazione, che rafforzasse la ricerca scientifica e l’economia della conoscenza. E invece si è preferita una manovra di condoni e di cartolarizzazioni».

Lei non può addossare tutta la colpa del dissesto Fiat al governo, trascurando le responsabilità degli altri. La famiglia Agnelli non ha commesso errori?

«Il nostro sistema industriale soffre vizi antichi. Primo tra tutti un rapporto strettissimo e carico di pericoli con il mondo delle banche. Nel caso della Fiat, questo ha prodotto un indebitamento enorme e il pericolo che, per reintegrarlo, si imponga al gruppo un ridimensionamento dell’auto, con conseguenze sociali inaccettabili. Il fatto che il piano industriale della Fiat debba passare al vaglio positivo o negativo di quattro grandi istituti di credito è una patologia del sistema. Ed è ancora più patologico che tutto questo sia accaduto nel silenzio della Banca d’Italia, che invece scende in campo oggi, tardivamente, debordando chiaramente dai suoi compiti. Dall’altra parte c’è Mediobanca, che d’accordo con il governo propone un rimedio peggiore del male. Certo, anche la famiglia Agnelli ha commesso errori: non è chiaro quali siano i suoi scopi. La stessa cessione della Fidis e della quota in Gm si prestano a interpretazioni molto dubbie. C’è un indebitamento altissimo da ridurre. Ma disimpegnare la partecipazione in Gm sembra alludere chiaramente a un allontanamento dell’azionista dal settore auto».

Lei sarebbe d’accordo con l’ingresso dello Stato nel capitale Fiat?

«E’ buona norma, di fronte a un dramma del genere, non escludere nulla. Detto questo, io credo che la soluzione più efficace possa essere non la partecipazione diretta dell’azionista pubblico nel capitale dell’azienda, ma la messa a disposizione, anche in forme nuove da sperimentare come le Agenzie, di risorse e strumenti dello Stato a sostegno delle attività di ricerca in un settore strategico come quello dell’auto. L’obiettivo di fondo deve essere chiaro: nessun posto di lavoro deve essere perso. Io ho visto Stati e governi svolgere funzioni attive per risolvere questi problemi. Quello che non ho mai visto, invece, è un governo che prima convoca i manager ad Arcore, poi di fronte ai tagli si limita a svolgere compiti puramente notarili. Ma alla fine tutto torna: c’è una drammatica coerenza nelle vicende della Fiat e della Finanziaria».

Cofferati, tiriamo le fila del ragionamento. Di fronte a tutto questo cosa deve fare l’opposizione, oltre ai girotondi?

«Il centrosinistra dovrà presidiare al meglio il versante della politica istituzionale, per porlo al riparo dalle aggressioni annunciate: l’ipotesi del presidenzialismo, l’attacco al principio dell’unità nazionale, alle forme di democrazia partecipata e alla giustizia. Poi il centrosinistra si deve preparare a una primavera durissima, in cui l’iniziativa dell’opposizione sui temi della politica economica e sociale dovrà essere molto forte. A questo punto, spero che a sinistra nessuno si lasci più affascinare dall’idea di una competizione da raggiungere dal lato dei costi: è un terreno che va lasciato al centrodestra, con i risultati rovinosi che sta producendo».

Non vede margini per un dialogo sulle riforme tra i due Poli?

«No, nessun margine. L’interlocutore è totalmente inaffidabile, su tutti i fronti. E di nuovo, spero che a sinistra se ne sia convinto anche chi pensava di poter riaprire un dialogo bipartisan con il centrodestra: spero che nessuno nutra più dubbi, sulle reali intenzioni di questa maggioranza».

Che tuttavia governa, e governerà fino alla fine della legislatura.

«Hanno una maggioranza numerica forte. Sono spaccati su tutto, ma alla fine si ricompattano sempre. Non ho mai creduto alla "spallata" e non vedo rischi di rottura nella Casa delle libertà. Vedo invece un crescente conflitto, che si risolve con continue mediazioni dannose per il Paese. Per questo l’Ulivo si deve attrezzare, per costruire un vasto consenso sulle sue ipotesi alternative, raccogliendo tutte le energie e aprendosi ai movimenti, indispensabili a fronteggiare una situazione così delicata».

Lei ha già detto sì alle primarie per la scelta del leader.

«Purchè votino tutti gli elettori: ogni altra ipotesi riproporrebbe l’idea che sia il ceto politico a decidere. In questo momento devono decidere gli elettori, la società».

Prodi è un buon candidato?

«Non parlo di nomi. Il mio elenco delle priorità è noto: prima il programma, poi le regole e alla fine il candidato con le primarie, nel 2005».

Lei è in pista, anche se Fassino dice che non bastano «i leader che riscaldano il cuore».

«Io ho il mio impegno professionale, e nel tempo libero mi dedico alla Fondazione Di Vittorio. Questo è tutto. Quanto a Fassino, ho sempre pensato che occorra parlare al cervello, ma che serva anche saper parlare al cuore. I processi di emancipazione sociale nascono dal miglioramento delle condizioni di vita della gente, che ha bisogno di riconoscersi in un sistema di valori vissuti e condivisi. Guai a pensare che nei grandi movimenti il cuore sia irrilevante. Io che sono stato tanti anni in Cgil ve lo posso garantire: il cuore è fondamentale».

ARTICOLI CORRELATI
21 Maggio 2004

© 2024 Eddyburg