Interazionale online, 19 giugno 2017 (c.m.c)
«Io ero nella stanza accanto a fare scuola. Arrivò un ragazzino con una paginetta che diceva ‘Cara professoressa, lei è una poco di buono’ o cose simili. Io mi alzai e andai da don Lorenzo e gli dissi: ‘È una porcheria! È il foglio di un ragazzo arrabbiato!’. Il priore mi domandò: ‘La vuoi più bella? E noi la faremo più bella!’. Parlava sorridendo come uno a cui è venuta un’idea geniale; l’idea lo divertiva».
Così Adele Corradi racconta la scintilla che diede vita alla lettera più famosa della storia della pedagogia, scaturita dalla rabbia di un ragazzo che il suo maestro colse al volo, trasformandola nel cuore pulsante del suo laboratorio educativo per nove mesi, nel suo ultimo anno di vita.
Verso la fine di Lettera a una professoressa troviamo scritto: «Così abbiamo capito cos’è un’opera d’arte. È voler male a qualcuno o a qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. Per Pier Paolo Pasolini è “una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia».
Non si può certo dire che il cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani e dell’uscita di Lettera a una professoressa sia passato sotto silenzio. La meritoria pubblicazione delle opere complete – insieme a celebrazioni, articoli, polemiche talvolta pretestuose e perfino un pellegrinaggio riparatore di papa Francesco – ci ricorda che la figura del priore di Barbiana ancora brucia, nonostante i numerosi tentativi di neutralizzare gli spigoli più aspri e contundenti della sua testimonianza.
Provo a elencare cinque ragioni per cui tornare a quella esperienza è necessario a chi insegna e può aiutare a ragionare sui compiti dell’educare oggi.
Oltre l’individualismo
Spesso la pedagogia, per assumere la portata radicale della sua funzione sociale, ha bisogno di sguardi che vengano da altri mondi. È stato così con Maria Montessori, Ovide Decroly e Janus Korczak, tre medici che l’hanno profondamente messa in discussione all’inizio del novecento, mentre nell’Italia del dopoguerra c’è voluta la sensibilità e la determinazione di un prete per denunciare la feroce selezione di classe a danno dei figli degli operai e dei contadini. In questo caso, tuttavia, quella denuncia circostanziata non fu la presa di posizione di un singolo ma l’opera di una comunità e qui sta il primo aspetto straordinariamente attuale dell’esperienza educativa promossa da don Milani.
Lettera a una professoressa fu il frutto di una scrittura collettiva e rappresenta ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, una delle espressioni più alte di una pratica purtroppo assai rara nella scuola, luogo privilegiato di incontro, in cui maestro e allievi si mettono in gioco insieme creando cultura. La scrittura collettiva ha una lunga storia e Milani ebbe modo d’incrociarla nell’estate del 1963 grazie a Mario Lodi, che salì a trovarlo a Barbiana e condivise con lui la ricerca condotta da anni nel Movimento di cooperazione educativa, non solo in Italia.
«La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne son trovato bene», scrive Milani a Lodi nell’autunno successivo. «È successo un fenomeno curioso che non avevo previsto, ma che dopo il fatto mi spiego molto bene: la collaborazione e il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo assolutamente opera di questi ragazzi e nemmeno più dei maggiori che dei minori è risultata alla fine d’una maturità che è molto superiore a quella di ognuno dei singoli autori. Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi, ma che non gli verrebbero alla bocca facilmente. Quando si leggono ad alta voce le venticinque proposte dei singoli ragazzi accade sempre che o l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti (che pure non l’avevano saputo trovare nel momento in cui scrivevano) capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo unificato. Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel rigore da adulto (direi anzi da adulto che misura le parole! animale purtroppo molto raro)».
Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica
La lettera di cui scrive Milani è quella che i ragazzi di Barbiana scrissero nel novembre 1963 ai bambini di Piadena, riportata in un prezioso libro appena uscito: L’arte dello scrivere, curato da Francesco Tonucci e Cosetta Lodi.
Quell’incontro fu così significativo che Adele Corradi, nel ricostruire il metodo seguito per la stesura di Lettera a una professoressa quattro anni dopo, scrive: «Lo stile mi pare proprio che glielo abbiano dato i ragazzi. Ma certo nessuno di loro avrebbe saputo scrivere in quel modo senza l’aiuto degli altri. E anche a don Lorenzo non gli sarebbero certo nate in testa tante idee senza parlare con i ragazzi, senza ascoltarli, senza confessarli, senza discutere con loro (…). Per questo è giusto che di quegli otto che per nove mesi, tutte le mattine, hanno lavorato a quel libro, non si sappiano i nomi».
Quel metodo rese possibile, nell’Italia del boom economico, un incontro tra due culture che nulla avevano in comune: la millenaria cultura materiale dei contadini di montagna, in quegli anni già in via d’estinzione, e la vasta cultura borghese e cosmopolita, di radice ebraica, incarnata da Lorenzo Milani, figlio di un ricco possidente fiorentino.
Quell’incontro tra figli di analfabeti e un cultore quasi maniacale della parola precisa, capace di indagare e denunciare i mali del mondo, ha portato alla scrittura di un testo straordinariamente efficace che diventò, dal 1968 in poi, il più letto e discusso manifesto contro la scuola di classe in diversi paesi europei. Ciò che stava più a cuore al priore di Barbiana, nelle sei settimane che separarono l’uscita della Lettera dalla sua morte, fu che fosse riconosciuta come un’opera collettiva perché, in questo caso, il mezzo era davvero il messaggio. O, meglio, il modo in cui era stato forgiato il mezzo era il messaggio.
È importante ribadire con forza tutto ciò, in un tempo in cui ogni esperienza collettiva è guardata con sospetto e supponenza, mentre non c’è azione educativa degna di questo nome che non contempli il sincero e autentico tentativo di realizzare una impresa condivisa e plurale, capace di dare senso e sostanza a una comunità. A maggior ragione nelle scuole di oggi, in cui ogni comunità è sempre più, necessariamente, multiculturale.
Non è lecito parlare di Lorenzo Milani senza ricordare la tenacia e la coerenza con cui, per tutta la vita, ha costruito comunità per dare voce a chi non l’aveva e far sì che, a denunciare le malefatte di una scuola fatta su misura per i borghesi, fossero i figli dei contadini. «Dopo che si è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: ‘Questa lettera ha uno stile personalissimo’».
Contro la scuola di classe
Sulla montagna in cui il cardinale Florit provò a isolare e mettere a tacere il prete scomodo, si creò un gruppo di ricerca sociale capace di elaborare una denuncia circostanziata e stringente sul tradimento della costituzione, costituito dalla sistematica cacciata dei poveri dalla scuola: su dieci figli di operai, cinque venivano bocciati; su dieci figli di contadini, ne venivano bocciati otto!
Per raccogliere i dati che compaiono nelle ultime venti pagine della Lettera, i ragazzi guidati dal priore non esitarono a chiedere informazioni al ministero della pubblica istruzione, all’Istat, ai direttori didattici della zona e a chiunque potesse fornirgli conferme attendibili per circostanziare la loro denuncia.
Ora che abbiamo a disposizione Tutte le opere, è appassionante seguire, attraverso le lettere spedite da Barbiana, ogni dettaglio di quella lunga fatica, fino al bigliettino spedito ad Adele: «Venga a godersi lo spettacolo di Tranquillo che si mangia gli statistici come panini». Tranquillo era uno dei ragazzi che abitava quel microcosmo in cui stava avvenendo quella singolare rivoluzione culturale. Per una volta, infatti, gli esclusi dalla scuola non solo prendevano la parola, ma acquisivano gli elementi necessari per denunciare uno dei fondamenti dell’ingiustizia di classe, che consiste nel negare ai più deboli gli strumenti basilari della loro emancipazione.
E così, mentre alcuni ragazzi lavoravano con righe e squadre per rendere leggibili dati complessi, tutti insieme, ogni giorno, s’impegnavano a trovare parole all’altezza del compito. Un paziente lavoro di cesello che portò alla formulazione di frasi lapidarie indimenticabili, come quella che definisce la scuola come «un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
«Lavoriamo sodo alla lettera», scrive l’8 dicembre Milani a sua madre. «La facciamo anche leggere a tutti quelli che vengono, specialmente a gente di poca istruzione per controllare se capiscono tutto. (…) Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza”. E, poche righe dopo, con efficace semplicità, nella Lettera si afferma che “l’arte è il contrario della pigrizia».
Il tempo della scuola e quello della vita
La battaglia contro ogni pigrizia fu uno dei cardini di quella scuola. Con precisione puntigliosa, insieme ai suoi ragazzi Milani calcolò che, se si considerano tutti i giorni dell’anno, lo stato offre appena due ore di scuola al giorno. Troppe poche per colmare un divario linguistico antico e stratificato, perché i ricchi la lingua erudita la praticano altre 14 ore al giorno e così non sarà mai possibile raggiungerli.
Ad Alexander Langer, che salì più volte a Barbiana e tradurrà poi la Lettera in tedesco, Milani disse:«Dovete abbandonare l’università! Voi non fate altro che aumentare la distanza che c’è tra voi e la grande massa della gente non istruita. Fate piuttosto qualcosa per colmare quella distanza. Portate gli altri al livello in cui voi vi trovate oggi, e poi tutti insieme si farà un passo in avanti, e poi un altro ancora e così via. Altrimenti sarete al servizio solo del vostro privilegio».
«Non lasciammo l’università», racconta Langer in un articolo ora raccolto nel libro Il viaggiatore leggero, «ma demmo inizio ad un doposcuola a Vingone, presso Scandicci, basato sul volontariato di parecchi universitari, e frequentato prevalentemente da figli di immigrati meridionali».
A Barbiana la scuola funzionava dieci ore al giorno, 365 giorni all’anno. Il priore poteva pretendere una scuola senza feste né ricreazioni, perché l’alternativa per i ragazzi montanari era badare tutto il tempo agli animali e come disse Lucio, che aveva 36 mucche nella stalla, «la scuola sarà sempre meglio della merda». Nel 1963 si era finalmente arrivati in Italia alla scuola media unica aperta a tutti, ma il tempo limitato e le troppe bocciature compromisero la piena realizzazione di quella riforma, che pure permise un notevole miglioramento dell’istruzione di base nel nostro paese.
Molte cose sono cambiate da allora e le bocciature nella scuola elementare e media sono drasticamente diminuite. Rimangono tuttavia fortissime le disparità e le espulsioni, ora chiamate dispersione scolastica. Sopravvive, soprattutto, una forma più sottile ma non meno infame di emarginazione e discriminazione, che consiste nella creazione, in quasi la metà delle scuole del nostro paese, di sezioni ghetto in cui sono messi “a pascolare” – come s’usa dire a Napoli – i ragazzi che la scuola dà per persi prima ancora di accoglierli. Quei ragazzi sono separati dai più ricchi e privilegiati e spesso affidati a insegnanti di passaggio, precari, che cambiano in continuazione.
Si è dovuto attendere il 1971 perché fosse istituito il tempo pieno previsto dalla fondazione della scuola media unica, ma ancora oggi resiste l’assurda disparità per cui, tra i 917mila studenti che usufruiscono di questo necessario prolungamento del tempo a scuola, il 58 per cento frequenta scuole del nord, il 26 per cento quelle dell’Italia centrale e solo il 15 per cento quelle del sud e delle isole, cioè le regioni in cui ci sarebbe maggiore bisogno d’istruzione.
Una disuguaglianza che chiunque nomini Lorenzo Milani dovrebbe denunciare e contribuire a sanare, a partire dalla ministra dell’istruzione Valeria Fedeli, che ha dedicato una giornata al prete di Barbiana. In verità, la questione del tempo evocata da Milani non riguardava solo il tempo di studio, ma un’idea della vita che gli fece affermare, nella Lettera, «ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».
Educazione, lavoro, viaggi
Personalmente m’inquieta l’idea di un maestro presente in ogni frangente della vita dei suoi allievi e che arriva anche a confessarli. Una sorta di “monarca assoluto” – per usare una sua espressione – che guarda con apprensione al tempo della crescita: «Le mode gli hanno detto che i 12-21 anni sono l’età dei giochi sportivi e sessuali, dell’odio per lo studio. Gli hanno nascosto che i 12-15 anni sono l’età adatta per impadronirsi della parola. I 15-21 per usarla nei sindacati e nei partiti. A 21 si avvicina l’età dei pensieri privati: fidanzamento, matrimonio, figlioli, benessere. Allora non avrà più il tempo per le riunioni, avrà paura di esporsi, non potrà certo donarsi tutto».
Questo passaggio della Lettera mette in luce un tema molto delicato, presente in ogni atto della vita del priore. Donarsi tutto era il suo imperativo. Ma poiché Lorenzo Milani teneva sempre tutto insieme, diventò necessariamente anche il suo credo pedagogico. La sua personale ricerca di assoluto diventò necessariamente anche pressante richiesta di assoluto proposta ai suoi allievi, e questo gli provocò inevitabilmente forti delusioni.
Ora, mentre credo sia necessario per chi insegna essere consapevole di quanto il corpo, il comportamento e l’esempio educhino assai di più delle parole, pensare di essere depositari di verità assolute pone non poche questioni.
Lorenzo Milani non esitò a vietare ai ragazzi di guardare la televisione quando tornavano a casa la sera, si offese quando scoprì che alcuni di loro andavano a ballare il sabato e arrivò a scrivere una lettera che rivendicava senza remore il diritto del maestro di comandare fin nell’intimo l’allievo. A Francuccio, a cui aveva dato l’opportunità di andare a lavorare in Algeria, scrisse infatti:
«Io non cambio stile per i ragazzi che sono fuori di casa, nel senso che qui comando io e fuori lascio comandare loro. Il problema è solo di informazione. È evidente che comando anche a Algeri, solo incarico i due occhi e le due orecchie che ho a Algeri (cioè le tue) di informare il cervello che ho a Algeri (cioè il tuo) perché prenda delle decisioni per me».
Come spesso succede, tuttavia, le cose sono più complesse di come appaiono. Così, quando ho espresso a Edoardo Martinelli, uno degli otto ragazzi che parteciparono alla redazione della Lettera, i miei dubbi sugli integralismi e gli eccessi di controllo del priore sulla loro vita, si è messo a ridere e mi ha raccontato che per lui, partire per Londra a 15 anni avendo l’occasione di lavorare, ma anche di conoscere Bertrand Russell, andare ai concerti e incontrare ragazze, fu un’esperienza chiave.
A Barbiana non ci fu mai contrapposizione tra lavoro manuale e intellettuale. I ragazzi realizzarono da sé i banchi su cui studiare e un astrolabio di precisione, e contribuirono alla costruzione di un ponte che rendeva più agevole l’accesso alla canonica di un ragazzo. Questa particolarissima educazione al lavoro, offerta dal prete ai ragazzi del Mugello, che passava anche attraverso viaggi in Inghilterra, Francia, Germania e perfino nell’Algeria appena liberata dal colonialismo, fu un’esperienza formativa fondamentale a cui è utile tornare.
Mi ha fatto pensare a iniziative simili proposte a Napoli ai ragazzi del progetto Chance. Pratiche di didattica itinerante, necessarie per uscire dalla gabbia antropologica di un’emarginazione capace solo di moltiplicare la violenza, ben raccontate da Carla Melazzini in Insegnare al principe di Danimarca. Per Andrea Canevaro, il più sensibile ricercatore nel campo della disabilità, l’eredità più attuale dell’esperienza di Barbiana va rintracciata proprio nella relazione tra scuola e lavoro, di cui si torna a discutere oggi e a cui andrebbe dedicata una riflessione più attenta e radicale.
Educare alla disobbedienza
L’ultimo punto, forse il più necessario e dimenticato, riguarda il rapporto con la legge e dunque con la storia. Sulla necessità di educare alla disobbedienza, Milani usa parole inequivocabili nella Lettera ai giudici:
«Non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (…) E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede».
Lorenzo Milani fu accusato e condannato e per arrivare alla legge che permise l’obiezione di coscienza al servizio militare ci vollero anni. Ma quella conquista la dobbiamo a lui e a testimoni convinti come lui. È figlia di un maestro capace d’insegnare con l’esempio ad avere coraggio, persuaso che i ragazzi «bisogna che si sentano ognuno responsabile di tutto».
Sentirsi responsabili di tutto è l’eredità di Barbiana più difficile da raccogliere. In un tempo in cui è venuta meno l’adesione a grandi organizzazioni collettive, torna con forza la necessità di educare alla responsabilità, sapendo compiere scelte coerenti per il futuro del pianeta e per la convivenza tra gli esseri umani. C’è una grande quantità di leggi ingiuste che perpetuano disuguaglianze e discriminazioni. Per dare spazio a un futuro più aperto, abbiamo bisogno del coraggio di testimoni che con le loro scelte e azioni diano corpo all’affermazione di Albert Camus: «Mi ribello, dunque siamo».