Pechino - L’autostrada urbana a dieci corsie è tappezzata di cartelloni pubblicitari che sfacciatamente fanno il verso all’iconografia della Cina comunista. I personaggi scimmiottano le pose eroiche in voga sotto Mao Zedong. Vent’anni fa il paese era ancora pieno di manifesti e monumenti con statue titaniche di gruppi di operai e contadini uniti nella lotta. Qualcuno impugnava la bandiera rossa, altri falce e martello, piccone e badile, lo sguardo proteso verso il sol dell’avvenire e la costruzione del socialismo. Nei manifesti di questa campagna invece i soggetti sono top model e giovani attori, signorine in minigonna con scollature e ombelico al vento, teenager in jeans e bandana. Falce e martello sono sostituiti da borse e accessori di lusso. Verso il sol dell’avvenire una ragazza sospinge il carrello del supermercato stracolmo di roba, un’altra brandisce una flûte di champagne. La terza top model agita davvero una bandiera rossa, ma sopra c’è il logo del costruttore edile che in questo quartiere vende appartamenti a schiera attorno alla nuova attrazione di Pechino: il più grande shopping mall del mondo.
Se credete di aver già visto i King Kong urbanistici del consumismo moderno negli Stati Uniti, patria dei giganteschi centri commerciali, vi sbagliate. Gli shopping mall americani scompaiono in confronto a questa Cosa che è sorta dal nulla nella zona nord-ovest di Pechino: è Jin Yuan, il Mall delle Risorse d’oro, la madre di tutti gli shopping center del pianeta. Soprannominato anche The Great Mall of China perché le sue dimensioni inaudite evocano The Great Wall, la grande muraglia. Per definire questo colosso gli architetti hanno dovuto coniare il nuovo termine di shopping city. In effetti la scala di grandezza è proprio quella di una città: nelle giornate di maggiore affluenza vi fanno la spesa 400mila consumatori, più degli abitanti di Bologna o Firenze.
Con 650mila metri quadrati di superficie coperta, il centro Jin Yuan ha polverizzato i record storici che appartenevano al West Edmonton Mall di Alberta (Canada) e al Mall of America del Minnesota. L’edificio-mostro di Pechino occupa lo spazio di sessanta campi di calcio, copre oltre cinque volte il Pentagono di Washington, finora la più larga costruzione del mondo. L’altezza media varia dai dieci ai cinque piani, e sono piani molto alti per via dei grandi magazzini e delle sale cinematografiche. Contiene mille fra ipermercati, supermercati, negozi e boutique, duecento ristoranti, cinema multiplex da 1.300 posti, club privati con night club, discoteche, karaoke-bar, sale per fitness e massaggi, molti esercizi aperti sette giorni su sette fino alle dieci di sera o anche giorno e notte, 365 giorni all’anno vacanze incluse. Il parking sotterraneo da diecimila posti auto è annesso a un’altra città invisibile e interrata: lo stadio del ghiaccio dove i genitori possono lasciare i figli a pattinare mentre vanno a fare la spesa.
In questo tempio faraonico del nuovo consumismo cinese lavorano ventimila dipendenti a tempo pieno più un esercito di avventizi delle ditte di pulizie, manutenzione, vigilanza, trasporti e consegne. Tutto intorno il costruttore continua ad allargare il complesso: ha comprato 1.800.000 metri quadrati dove innalza 110 grattacieli di appartamenti residenziali, uffici e scuole. Il terreno va a ruba perché questa non si può più definire periferia. È la zona hi-tech di Pechino, dove hanno sede i campus universitari, fra il terzo e il quarto anello dei "raccordi anulari interni". In tutto i 17 milioni di abitanti della capitale si estendono entro il perimetro di sei tangenziali urbane, grande quanto l’intero Belgio. Il solo "quartiere" che gravita nelle vicinanze dello shopping mall Jin Yuan ha un milione di abitanti.
Visitare interamente The Great Mall of China è un’impresa impossibile. Camminando a passo di gara, dalla mattina fino a notte fonda, si riesce a vederne solo una piccola parte. Le distanze sono tali che si possono affittare macchinine elettriche a due posti per spostarsi con anziani e bambini piccoli. Gli adolescenti per recarsi da un punto all’altro sfrecciano nei corridoi coperti su pattini a rotelle o skateboard. La zona dei grandi magazzini eleganti è una divertente mescolanza di vero lusso per ricchi - reparti Fendi, Gucci, Geox, Dupont, Dunhill, Pierre Cardin, Guy Laroche - e di "quasi vero" che è l’alternativa legale alla pirateria, cioè la moltitudine di marche cinesi che adottano nomi italianeggianti dal suono evocativo come Galace e Versino.
Nei boulevard coperti che ospitano le centinaia di boutique sono strapiene di pubblico le gioiellerie - i cinesi fanno incetta di oro e diademi -, le agenzie di viaggi che cavalcano il boom del turismo all’estero, i rivenditori telecom dove anche le bisnonne vanno a comprarsi il cellulare. La zona casa è un’altra città nella città, centinaia di negozi di cucine design ed elettrodomestici, compresa la Ariston, per arredare gli appartamenti in stile occidentale della middle class urbana. Una vasca da idromassaggio made in Germany arriva a 169.000 yuan, 17.000 euro, lo stipendio di un anno di un impiegato di medio livello.
Dove i prezzi sono così cari non c’è gran folla. La calca raggiunge il suo massimo nell’altra shopping-city semi-interrata che è il regno degli ipermercati alimentari. Lì la folla invade i corridoi dei prodotti di largo consumo. Assalto gioioso ai reparti gastronomici dei cibi freschi, montagne di anatre pechinesi alla faccia della febbre aviaria, ogni sorta di leccornia come i ravioloni dim-sum ripieni, fritti o bolliti, le focacce le frittelle gli spaghetti, i tè pregiati, i funghi preziosi in vasi di porcellana, le uova nere macerate e stagionate: un pezzo della vecchia Cina dei mercati rionali si è impadronito delle viscere dello shopping-moloch.
Il cibo domina anche un altro settore della città-satellite. All’ultimo piano del centro commerciale ci sono vialoni coperti destinati ai ristoranti. Ogni locale esibisce insegne al neon dai colori accecanti, cameriere in abito lungo attirano i clienti alla porta. Sono strapieni e offrono il patrimonio umano della cucina, asiatica e non: da Canton al Sichuan, dalla marmitta tartara alla grigliata coreana, dal sushi all’Australia alla Russia. In mezzo alle file infinite di ristoranti i corridoi del mall ospitano bancarelle di libri e dvd, una caotica accozzaglia di corsi di inglese, di management e yoga, fianco a fianco film porno e documentari su Mao e Deng Xiaoping. I club di sauna fitness e massaggi chiedono una tassa d’iscrizione minima di mille euro, diecimila euro per il trattamento vip (chiedendo spiegazioni sulla differenza ottengo sorrisi radiosi dalle impiegate). Nei cinema multisala straripa Hollywood ma curiosamente si proietta anche una storia dell’Opera di Pechino. Se mi spingessi più avanti, sempre più lontano, forse raggiungerei in futuro quell’altra ala della città coperta, sperduta laggiù all’orizzonte, dove cominciano i concessionari di automobili. Ma la giornata sta per finire.
Geng Kai e Yu Jie tirano il fiato dopo cinque ore di shopping, sono seduti a mangiare spaghetti di riso comprati da un fast food. Fidanzati, lui ha 28 anni e lavora per una tv via cavo, lei 26 ed è impiegata in un’assicurazione: «Da quando hanno inaugurato Jin Yuan ci veniamo molto spesso, almeno tutti i weekend, e qui incontriamo anche la maggior parte dei nostri amici. Compriamo da mangiare, i vestiti, le Nike e le Adidas, andiamo al cinema. Come minimo spendiamo 200 yuan (20 euro) ogni volta che veniamo, senza contare i vestiti. È il posto ideale, c’è tutto quello che ci serve: cibo, moda, divertimenti, elettronica. Questa zona di Pechino ha cambiato volto, ora Jin Yuan è il centro della vita del quartiere».
Moltiplicata per la scala demografica cinese, questa è la ricetta americana: lo shopping mall come calamita della vita quotidiana, luogo d’incontro nella città moderna, centro di gravità del tempo libero e delle relazioni sociali. In questo posto sono ben visibili le tracce dell’evoluzione dei costumi nella Cina contemporanea. I consumi status symbol dei nuovi ricchi sono qui: negozi di articoli da golf, supermercati di elettronica con i televisori ultrapiatti al plasma, tapis roulant per la fitness, un’orgia di prodotti cosmetici L’Oréal e Shisheido. Giovani coppie entrano a far compere in negozi di biancheria intima sexy stile Victoria’s Secret, ed è un paese dove vent’anni fa un bacio in pubblico era scostumato. Ma il più grande shopping mall del mondo non è soltanto il paradiso della middle class benestante. Ci sono signore di mezza età che si accontentano di stare sedute sulle panchine a guardare la gente che passa, nonni che portano i nipotini come fosse lo zoo. L’ambiente moderno, i grandi spazi, la pulizia, le luci potenti, le vetrine sfavillanti: tutto trasuda modernità e comfort. Passeggiare a Jin Yuan è già uno status symbol. Un modo di affermare la propria appartenenza sociale. Farsi vedere in un luogo di lusso. Assomigliare un po’ a quella Cina pop e postmoderna dei cartelloni pubblicitari, delle top model miliardarie che spandono ironia sui padri maoisti.
Jin Yuan è solo la punta dell’iceberg. In tutta la Cina dilaga la febbre degli shopping mall. Ne sono stati costruiti quattrocento in pochi anni, la dimensione media è sei-sette volte superiore rispetto a quelli che si costruiscono oggi negli Stati Uniti. Entro il 2010 la Cina avrà sette dei dieci shopping mall più grandi del pianeta. A Dongguan, nella Cina meridionale, ne hanno inaugurato uno che include una sorta di Disneyland con repliche di Parigi, Hollywood e Amsterdam. Nel business si sono lanciati anche colossi stranieri come la banca americana Morgan Stanley, alleata con gli ipermercati Wal-Mart e i cinema Warner, e il gruppo alberghiero Raffles di Singapore. C’è chi teme che sia una bolla speculativa destinata a scoppiare malamente, perché centri di queste dimensioni hanno bisogno come minimo di un’affluenza quotidiana di 70mila visitatori, al di sotto rischiano il fallimento. Ma i cinesi hanno una formula per "spalmare" il rischio: tutti gli spazi vengono affittati a miriadi di commercianti, se gli affari vanno male sono in molti a perderci, non è il crac di un singolo colosso.
Per il momento la dinamica del consumo rimane forte. In quattro anni le spese dei cinesi sono cresciute del cinquanta per cento. Il capodanno lunare 2006 (fine gennaio) ha registrato il quindici per cento di aumento dei consumi rispetto all’anno scorso. «Entro cinque anni», prevede l’economista Jonathan Garner del Crédit Suisse First Boston, «questo paese avrà superato gli Stati Uniti per gli acquisti di personal computer». Per i beni di lusso secondo la Goldman Sachs la Cina è già il terzo mercato mondiale. Radha Chadha, studioso di psicologia dei consumi, ha diviso i ceti medioalti cinesi in tre categorie. I veri ricchi che possono permettersi tutto. I colletti bianchi in ascesa sociale che sono disposti a fare sacrifici per esibire status symbol costosi. Infine la terza categoria è quella che si combina meglio con la cultura made in Usa dello shopping mall: sono gli scatenati giovani sotto i venticinque anni che non badano a spese perché hanno già scoperto l’altra grande invenzione su cui si fonda l’America: i debiti.