Nota: questo testo è la versione pubblicata nel volume collettivo La Grande Ricostruzione, Donzelli 2001, a cura di Paola Di Biagi. Una versione più lunga, che copre anche alcuni temi del secondo settennio del Piano, è stata pubblicata su Storia Urbana, n. 90, 2000. Qui, per ovvi motivi di spazio, ho omesso note e riferimenti bibliografici (f.b.)
Origini
Nel 1930 un gruppo di studenti di economia dell’Università Cattolica di Milano sta sperimentando un curioso metodo di ricerca sul campo, che coniuga felicemente carità cristiana e rigore scientifico. Coordinati da un assistente poco più anziano di loro, i giovani visitano le abitazioni dei poveri assistiti dall’opera San Vincenzo De’ Paoli, e oltre ad offrire aiuto chiedono informazioni sulla famiglia, il reddito, la salute, lo stato dell’abitazione, l’affollamento delle stanze. E’ un’indagine questionaria accurata, e i dati raccolti ed elaborati saranno presentati l’anno successivo come relazione al Congresso internazionale di demografia di Roma. Il relatore è l’appena ventitreenne assistente della Cattolica che aveva coordinato la ricerca: Amintore Fanfani. I risultati dello studio indicano che “causa precipua dell'affollamento è la miseria, la quale deriva dalla sproporzione fra entrate familiari - sia pure integrate dal periodico soccorso delle Opere di Carità - ed uscite, sulle quali non poco gravano la pigione di casa e le malattie”.
Studi come questo si collocano coerentemente nel dibattito degli anni trenta sulla casa economica e le politiche sociali. Anche se la produzione di case è ben al di sotto del fabbisogno, si sta instaurando un circolo virtuoso tra la cultura degli architetti e l’azione degli Istituti case popolari, presieduti spesso da personalità di grande rilievo politico e culturale, come Giuseppe Gorla a Milano, o Alberto Calza Bini a Roma. Sarà proprio Calza Bini, dopo l’approvazione del Testo Unico sull’edilizia popolare del 1938, a proporre una sostanziale innovazione nel settore, considerando “ormai maturo l’intervento delle classi lavoratrici e dei datori di lavoro per il finanziamento della casa popolare”. E’, in nuce, il principio alla base del piano Ina-Casa.
Ormai affermato professore di economia, nel 1942 Amintore Fanfani pubblica un volumetto di riflessioni sul problema della povertà, dove torna la centralità della questione abitativa: come momento di riconoscibilità del nucleo familiare, come potenziale luogo di letizia e fede, pronto però a trasformarsi in focolaio di malattie e immoralità quando la miseria irrompe nella vita quotidiana. Che fare? Fanfani non ha dubbi: la carità cristiana dovrà sempre essere alla base di qualunque azione, individuale o sociale, ma può essere molto aiutata da grandi piani di azione, che sappiano ad esempio coniugare interventi sul reddito, sulla salute, sulla casa: “Quando osservo le belle case moderne tutte dotate di servizi meravigliosi, spesso doppi e tripli [...] vedo in ciò un progresso che mi piacerebbe universalizzato; ma non posso restare dal domandarmi se chi ha pensato tanto bene ai propri comodi ha in parte provveduto [[...]] alle necessità di chi non ha casa”.
Il tema della casa popolare è, ancora al centro del dibattito al Convegno nazionale sulla ricostruzione edilizia nel 1945 come intreccio di: carenza di vani pregressa; arretratezza del settore edilizio; stasi della produzione; edifici distrutti dai bombardamenti; carenza di materie prime; crisi economica. Un piano di edilizia sociale dovrebbe programmare la costruzione di 18.000.000 di vani all’interno di un piano economico, urbanistico e in definitiva di una grande scelta di mutamento politico, che comprenda decisioni ad esempio sulla questione dei suoli, o della politica industriale.
Piero Bottoni presenta un piano per dare La casa a chi lavora, superando la logica degli Istituti delle case popolari di epoca fascista, in un quadro di nazionalizzazione e collettivizzazione: “come i lavoratori tendono a diventare compartecipi degli utili, ma non comproprietari delle aziende nazionalizzate, così essi devono divenire utenti, ma non proprietari delle case socializzate”. Dal punto di vista economico, il piano dovrebbe poggiare su un Istituto di Assicurazione sociale per la casa; ogni lavoratore vedrebbe costituita una assicurazione per la casa, con un contributo analogo a quella per gli infortuni; organizzativamente, la struttura dovrebbe basarsi su una entità centrale gestore dei fondi, e su strutture tecniche decentrate per la progettazione e realizzazione.
Oltre la questione edilizia, emerge anche quella urbanistica. Francesco Vito, economista cattolico, maestro e collega all’Università di Amintore Fanfani, interviene sul tema della demanializzazione delle aree fabbricabili. In dissenso con alcune ipotesi “di sinistra”, Vito si propone però come possibile mediatore verso le posizioni più radicalmente liberiste: “la demanializzazione di tutte le aree fabbricabili deve essere eliminata, anzi deve al più presto essere assicurato il pubblico che a piani di questo genere non si vuole pensare, d’altra parte [...] Io vorrei invitare i sostenitori dell’iniziativa privata [...] a non voler irrigidirsi nella loro posizione, ed a voler riconoscere la necessità dell’orientamento sociale”.
Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Amintore Fanfani è confermato Ministro del lavoro nel terzo governo De Gasperi. Le elezioni non erano state vinte con un programma semplicemente conservatore, e “le riforme rimasero un momento fondamentale del dibattito politico”. Per Fanfani questo clima è ideale per lanciare il suo piano: “non una politica del lavoro di ampio respiro, [...] ma perlomeno una iniziativa concreta: un piano per la costruzione di case per i lavoratori”. A poche settimane dalla vittoria elettorale si avviano parallelamente l’ iter parlamentare di quello che è già il più visibile dei progetti governativi.
Nella seduta del 12 luglio alla Camera, Fanfani presenta i Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori, un programma settennale in cui si legano interventi atti a una politica di piena occupazione, interventi tesi ad alleviare la crisi degli alloggi, e contemporaneamente a rivitalizzare per un certo periodo e con continuità l’intero sistema economico nazionale. Dato che solo una piccola parte dei lavoratori beneficerà degli alloggi così realizzati, si prevede allo scadere del settennio un piano venticinquennale di restituzione dei buoni-casa ai non assegnatari. All’articolo 10 il disegno di legge recita “Le estrazioni avranno luogo [...] nella ricorrenza della festa del lavoro. La consegna degli alloggi avverrà normalmente nella ricorrenza della festa della Repubblica”.
Proprio sul criterio di sorteggio, si focalizza subito il dibattito in Commissione, con il relatore di maggioranza Mariano Rumor favorevole, contrapposto al relatore di minoranza, Giuseppe Di Vittorio. L’opposizione ritiene anche che debbano essere cercate fonti di finanziamento alternative a quella della trattenuta obbligatoria, ma soprattutto chiede una assegnazione “ secondo criteri valutativi delle condizioni del bisogno familiare”. Nel passaggio al Senato, dicembre 1948, sarà abolita la logica del sorteggio, e si ridurrà al 50% la quota degli alloggi da assegnare in proprietà.
Parallelamente all’ iter istituzionale, sul Piano Fanfani si sviluppa un ampio dibattito. Favorevole naturalmente il mondo vicino alla Democrazia cristiana, come “Operare”, rivista dei quadri dirigenti e imprenditoriali cattolici, che sostiene l’inserimento del piano in un più vasto programma di rilancio industriale, e curiosamente suggerisce di “iniziare la costruzione delle case prima della raccolta dei contributi, per creare in anticipo una atmosfera di maggior consenso e fiducia”. Emerge, evidente, la questione dell’immagine, del consenso, del forte ruolo di azione dimostrativa già assunto dal piano in fase di elaborazione. Del resto anche dai commenti favorevoli emerge l’obiettiva inadeguatezza del programma ad avviare davvero a soluzione i problemi dell’occupazione e della casa: bene il piano Fanfani, ma “non si devono ad oggi escludere altre forme di intervento statale dirette ad affrontare il problema della casa con visione realistica e con mezzi adeguati”.
Ci si chiede anche quale possa essere la reazione di un lavoratore che vede il proprio magro salario sottoposto a prelievo forzoso, con la prospettiva nel migliore dei casi “di riscuoterne il cumulo forsanche a sessantatre anni o dal miraggio di diventare, tra sessantatre e settanta anni, proprietario d’un ignoto alloggio a Girgenti mentr’egli vive a Torino”. Continuerà, questo lavoratore, a sostenere il governo e le sue politiche? Forse sarebbe meglio lasciare la costruzione di case all’iniziativa privata, con un risparmio non più forzoso ma volontario, tenendo conto anche del fatto che alla nuova occupazione creata dalle trattenute, si contrapporrebbe comunque la nuova disoccupazione generata dalla conseguente contrazione dei consumi. In definitiva “non è col piano Fanfani che viene risolta la suprema esigenza postulata da milioni e milioni di italiani, che anelano quattro mura proprie per sottrarsi a speculazioni ignobili e ritrovare la pace e la serenità domestica”, ma attraverso un intervento dello Stato che metta in condizione la libera impresa e il libero risparmio di realizzare abitazioni a prezzo accessibile. In conclusione “ognuno dovrebbe sentire la dignità e l’orgoglio di provvedere alla costruzione della propria casa [...] senza pretendere a aspettare interventi governativi, che applicati alla generalità sarebbero disastrosi per le finanze dello Stato”.
Padre Agostino Gemelli invita a pregare per la riuscita del piano, e Francesco Vito più concretamente liquida le proposte alternative della sinistra, per una ricostruzione programmata: “piuttosto che baloccarsi con progetti utopistici, meglio valeva affrontare subito il problema, incoraggiando in tutti i modi le costruzioni”.
Sarcastico il commento dell’opposizione comunista di fronte all’“incredibile parto della fantasia del prof. Fanfani”. Fingere di promuovere l’occupazione e la costruzione di case è operazione “socialdemagogica”, che produrrà al massimo un “grosso e dispendiosissimo carrozzone parastatale finanziato dal risparmio forzoso dei lavoratori”.
Nel febbraio del 1949 il piano conclude l’ iter parlamentare, con tre importanti modifiche rispetto al progetto originario: la quota del 50% di alloggi in affitto; il criterio di assegnazione non più a sorteggio ma secondo graduatorie di merito; il piano di finanziamento e le relative quote di contributi. L’opposizione riconosce i miglioramenti, ma richiede alcune modifiche strutturali, comunque respinte. Il tono del dibattito è ben riassunto da una battuta: “Questo disegno di legge [...] è controproducente; viene ad interferire come un corpo estraneo in tutto il problema delle costruzioni edilizie [...] Di rospi ve ne sono di due categorie: vi sono quelli che si mettono verticalmente - e sono facili ad ingoiare - e vi sono quelli che si mettono di traverso nell’esofago, sicché diventa una cosa impossibile trangugiarli. Il piano in esame è di questa seconda categoria: è un rospo difficilmente trangugiabile! Una voce al centro. Ma noi abbiamo lo stomaco buono!”. Il relatore di maggioranza, Mariano Rumor, ricorda a chi non se ne fosse accorto che la fine di febbraio è anche la fine dell’inverno: “Ormai la stagione delle costruzioni è alle porte, il bisogno c’è [[...]] E’ per questo che noi invitiamo l’opposizione a farsi comprensiva e ad aiutarci a fare di questa legge uno strumento di lavoro per i lavoratori italiani ( applausi al centro e a destra)”.
Operatività
La “macchina” del piano Fanfani inizia subito a marciare a pieno regime. In poche settimane, dopo l’approvazione, si costituiscono i due enti deliberante ed operativo - Il Comitato di attuazione e la Gestione Ina-Casa - si emanano i regolamenti, si articolano i rapporti con le stazioni appaltanti e con il mondo professionale preposto alla redazione dei progetti. Il primo cartello segnalante l’apertura di un cantiere Ina-Casa, con un investimento di 36 milioni per 18 alloggi, è alzato a Colleferro, in provincia di Roma, già nel luglio 1949: è solo la punta di un iceberg programmatorio e attuativo, che a partire da una struttura centrale leggera riesce a coordinare il sistema a rete decentrato, sfruttando al meglio le peculiarità italiane dell’impresa artigianale, dello studio professionale, anziché creare ex novo grandi apparati. Riemergono elementi alla base delle riflessioni di Fanfani nei Colloqui sui poveri: piani tecnicamente ineccepibili, ma nello stesso tempo in grado di dialogare personalmente con tutti i soggetti coinvolti. Gli architetti chiamati a redigere i progetti dovranno soddisfare i “bisogni spirituali e materiali dell’uomo, dell’uomo reale e non di un essere astratto: dell’uomo, cioè, che non ama e non comprende le ripetizioni infinite e monotone dello stesso tipo di abitazione fra le quali non distingue la propria”. E’ l’esatto opposto di quanto l’immaginario collettivo identifica nell’accezione di “casa popolare”: un oggetto d’uso, un servizio, ma sempre molto lontano da qualcosa in cui la famiglia italiana, di radice e cultura contadina, possa identificarsi. Nemmeno le opinioni correnti dei ceti medi e della borghesia (il cui consenso pure è ricercato da Fanfani) sembrano scostarsi molto da questa idea. Ne L’Orologio di Carlo Levi, il quartiere Garbatella è descritto come “architettura [...] fatta con boria e disprezzo, per un popolo considerato inferiore [[...] perché ci viva dentro tutte le sue povere ore, nel modo più scomodo e doloroso”. A ricomporre questa frattura tra architetti e immaginario collettivo, i progettisti dell’Ina-Casa sono invitati implicitamente ad un approccio, per dirla con il Fanfani del 1942, di Colloquio con la committenza.
I critici individuano abbastanza chiaramente come il piano somigli molto ad un puro programma di creazione del consenso, di cui l’enorme aspettativa di proprietà della casa costituiscono il cuore, e l’incremento occupazionale, e la costruzione di case, solo la facciata. Di più. Il governo si sta creando con il denaro di tutti i contribuenti una base di piccoli proprietari: “ La metà del piano Fanfani, così come stato approvato, costituisce un fortissimo regalo non necessario fatto a una minoranza, e non la più bisognosa, coi denari di tutti, e quindi con danno della generalità”.
Anche commentatori non pregiudizialmente critici iniziano a porsi alcune questioni sulla sua natura e i suoi obiettivi reali: ha al centro l’occupazione, oppure la costruzione di case? “combattere la disoccupazione costruendo case là dove queste sono meno necessarie [...] avrebbe sì risolto la crisi delle abitazioni in alcuni comuni, ma avrebbe ritardato la risoluzione del problema in tutto il paese. La lotta quindi alla disoccupazione [...] non costituisce il motivo principale del piano ma piuttosto una sua conseguenza. Se così è, la finalità principale del piano è la costruzione di case”. Si stigmatizza come la portata del piano sia stata gonfiata nel periodo antecedente l’approvazione, sia sul versante dei posti di lavoro che su quello della costruzione di case, mettendo in ombra l’attività del Ministero dei Lavori pubblici, sede competente per gli interventi nel settore. Dal canto suo l’opposizione di sinistra, ottenendo il 50% degli alloggi in locazione, non riesce a modificare l’idea di fondo della legge, e la sua capacità di entrare in sinergia con le aspettative della maggioranza dei lavoratori italiani, e men che meno “ad inquadrare l’intervento dell’Ina-Casa in un processo di programmazione dell’offerta pubblica e di controllo dell’espansione urbana”. Il piano si inserisce nei programmi governativi: riforma agraria, provvedimenti per il Mezzogiorno, vari interventi di tipo sociale “per la verità assai frammentari, ma legati ad una dimensione ben presente nell’ideologia democratico-cristiana - il solidarismo - che ispirò quei provvedimenti e altri presi successivamente”. L’Ina-Casa, coinvolge ampi strati di borghesia legata alle professioni. Inizia, soprattutto al sud, l’epoca in cui all’ombra degli investimenti pubblici “Ingegneri, architetti, avvocati e ragionieri, purchè collegati ai nuovi padrini delle città, poterono guardare con gioia ad anni di attività lucrose e di posizioni influenti [...] Per la classe operaia la storia fu naturalmente abbastanza diversa”. Inizia, anche, il “miracolo” italiano, con i suoi costi in termini di migrazioni, squilibri, crisi dell’agricoltura, congestione, sottrazione di risorse ai servizi per investimenti in autostrade. In questo complesso, il piano Fanfani si inserisce senza problemi, con le sue dichiarazioni di praticato localismo, centralità della famiglia e della comunità, di valorizzazione dell’impresa artigiana e dello studio professionale contro la tipizzazione dell’industria e dei think tanks.
Amintore Fanfani, anche se ha quasi subito abbandonato il Ministero del lavoro per altri incarichi, continua a pensare al piano come ad una propria creatura, foriera di immagine pubblica e di consenso. Per la Pasqua dell’Anno Santo 1950, gli viene affidata una “conversazione” radiofonica sul tema quaresimale Opere di misericordia corporale, e ci si può immaginare che molti dei possessori di apparecchi radiofonici, quella sera siano in ascolto, se non altro in assenza di meglio. Il tema scelto da Fanfani è Alloggiare i pellegrini, e dopo qualche divagazione storica, quasi fatalmente, il ministro proponente il piano Ina-Casa si chiede davanti alla vasta platea: chi sono, i pellegrini di oggi? Risposta: i senza casa, le vittime del sovraffollamento, delle distruzioni belliche, della promiscuità forzata. Opera di misericordia corporale, nella società contemporanea, è di conseguenza contribuire all’attuazione del piano Ina-Casa, la cui “idea ispiratrice [...] ed il modo con il quale da tutti sono versati i fondi [...] consente di dire che esso fa accogliere dalla comunità italiana nel suo complesso l’invito cristiano di alloggiare i pellegrini”. Si ricordino allora, che “son [...] avvisati del merito soprannaturale ed aggiuntivo che possono procurarsi ideatori, amministratori, architetti, ingegneri, operai, contribuenti che collaborano alla riuscita di questo piano”. Non è la certezza del Paradiso, ma ci manca poco.
Ancora nel 1950 Fanfani tratta su Operare il tema del rapporto fra disoccupazione, stabilità sociale, intervento pubblico nell’economia. Emerge, l’idea che la lotta alla disoccupazione non possa essere affrontata con politiche di lavori pubblici tradizionali, se essi non sono tesi a ricostruire un tessuto senza il quale “il disoccupato fatalmente è candidato alla sovversione. Fatalmente”. Tra i vari rimedi citati a questo proposito dal professor Fanfani, quello sperimentato in una impresa privata, che con incentivi economici convince le lavoratrici a tornare casalinghe, liberando posti di lavoro che saranno occupati da capifamiglia maschi. Come non paragonare, questo singolare esempio di incremento occupazione operaia maschile e rafforzamento del focolare domestico, con il circuito virtuoso lavoro-casa-famiglia-società alla base del piano Ina-Casa?
Un circuito virtuoso che, anche cifre alla mano, sembra funzionare: nel dicembre 1949, a soli sei mesi dall’approvazione della legge, inizia a scendere il numero dei disoccupati, da 2.226.290 a 2.055.606. Una variazione lieve, ma a parere di alcuni commentatori significativa dell’inversione di tendenza indotta.
Di diverso avviso l’opposizione di sinistra, che con il Piano del lavoro proposto nel 1950 dalla Cgil indica di nuovo i limiti “strategici” del Piano incremento occupazione operaia: essere un’azione in qualche modo positiva, ma non commisurata alla portata dei problemi aperti, e votata più alla visibilità che alla sostanza. La relazione sul tema specifico della casa nel quadro del Piano del lavoro, è affidata a Irenio Diotallevi e Franco Marescotti, che sin dagli anni trenta con Ordine e destino della casa popolare, si erano imposti come punta avanzata della ricerca e della divulgazione in materia di edilizia economica. L’architettura della loro proposta prende il via dalle considerazioni statistiche di un dei più benevoli critici dell’Ina-Casa, e inquadra i temi del fabbisogno generale, pregresso e futuro definendo una struttura organizzativa entro cui “vengono chiamati direttamente in causa lo Stato, per l’impegno finanziario, la Regione, come specifico organo direttivo, e l’Ente locale come proprietario ed esecutore dei lavori: organismi che per la loro natura ed importanza, si possono considerare come i più atti ad impossessarsi del problema ed a risolverlo, a dare cioè ad ogni famiglia italiana una casa conforme ai suoi bisogni ed al suo libero e pacifico sviluppo”.
E’, quello della Cgil, un ambizioso programma di politica economica per conseguire la piena occupazione, lasciando i ricchi un po’ meno ricchi ma ancora decisamente ricchi, come conclude tra le risate dei presenti Giuseppe Di Vittorio: tanto più ambizioso quanto irrealizzabile, portatore di un progetto di società ben diverso da quello incarnato da Fanfani. Più che un “contropiano”, dunque, un manifesto, un tentativo della sinistra di uscire dall’isolamento politico dopo la sconfitta del 1948.
Alle grandi affermazioni di principio del Piano del lavoro, si contrappone la concretezza e visibilità dell’ormai avviatissimo piano Fanfani: alloggi consegnati, quartieri terminati, e avvio della riflessione da parte degli architetti. Il giudizio dei progettisti in questa prima fase sembra orientato all’ottimismo, e Renato Bonelli si fa portavoce di questo clima sostenendo la scelta del Comitato di attuazione di evitare la progettazione d’ufficio, rivolgendosi alla libera professione, più attenta alle particolarità locali e ai bisogni delle famiglie: “ciò rappresenta [...] rivalutazione della loro figura professionale sotto l’aspetto sociale e tecnico”. Saverio Muratori sottolinea invece la capacità del piano di utilizzare al meglio le potenzialità della cultura architettonica italiana, sia dal punto di vista tecnico-progettuale che nell’organizzazione produttiva e articolazione territoriale. Da un lato, quindi, la Gestione Ina-Casa come organo di coordinamento, garanzia, controllo, stimolo e divulgazione. Dall’altra la rete della libera professione, con la sua capacità di fungere da tramite fra bisogni reali della società e organi istituzionali. In più, “è merito della Gestione avere, contro il malinteso industrialismo del nostro tempo esaltante l’aspetto quantitativo su quello qualitativo”. In definitiva, il ricorso ai liberi professionisti ha portato nei progetti Ina-Casa “elementi che sono essenziali del nostro spirito latino, ossia l’impronta personale del progettista in ogni fabbricato e il carattere ambientale”.
Al 1951 è stata avviata la costruzione di 96.000 alloggi, di cui il 30% terminati, e la metà di questi già abitati, distribuiti in quasi 2.500 comuni, molti di piccole dimensioni, con una capillarità di presenza mai riscontrata in Italia. Questa diluizione territoriale delle realizzazioni, insieme al loro essere un “manifesto” del nuovo modo di abitare, ne enfatizza la visibilità: tutti iniziano a conoscere e riconoscere le "case Fanfani", il loro modo di “offrire ai lavoratori le condizioni per sentirsi veramente a casa propria”. Anche gli emigrati in Europa o in America, sul periodico a loro dedicato, “Italiani nel mondo”, possono leggere di una nazione molto diversa da quella che hanno forzatamente abbandonato, dove ora si può vivere in abitazioni “con caratteristiche architettoniche e funzionali di tono elevato, tali da favorire un elevamento del livello sociale dei locatari”. Oltre le celebrazioni, parlano comunque le cifre. Solo nel 1950-51 cantieri Ina-Casa hanno assorbito 10 milioni di giornate lavorative, corrispondenti in media all’occupazione continuativa di 50.000 operai. Ancora più ragguardevole, anche se difficile da stimare, l’effetto sull’occupazione delle industrie correlate.
Ma ci sono altre cifre. Al 1951 risultano in Italia 10.630.000 abitazioni, occupate da 11.374.000 famiglie, di cui 219.000 “improprie”: grotte, baracche, barche, botteghe e magazzini. Con questi presupposti, si chiede qualcuno, ha senso investire risorse in direzione della casa da cedere in proprietà, come nel caso del Piano Fanfani? L’investimento pubblico in questa direzione “congela” risorse edilizie, anziché metterle a disposizione di chi è effettivamente bisognoso. In altre parole alla cessazione dello stato di bisogno dovrebbe cessare il beneficio della casa a buon mercato, e ciò non è certo possibile cedendo in proprietà gli alloggi. Un altro fronte aperto è la riduzione dei costi attraverso studi e ricerche che dovranno comprendere tutto il ciclo dall’identificazione dei bisogni, alla progettazione urbanistica e reperimento delle aree, alla sperimentazione di nuove tecniche costruttive, di organizzazione del cantiere e degli studi di progettazione. Si indica il prototipo di questa sperimentazione nel QT8 di Milano e in parte, a livello nazionale, negli alti standards residenziali perseguiti dalle case Fanfani, con tipologie che “hanno incontrato il favore del pubblico e si vanno ora diffondendo ad opera dell’iniziativa privata”.
Un’occasione per riflettere sui temi sociali e progettuali del piano, è il volume in occasione del Congresso dell'Istituto nazionale di urbanistica di Venezia del 1952, che ne presenta le realizzazioni. Adriano Olivetti nella prefazione loda la scelta di realizzare quartieri, anziché interventi singoli. Bruno Zevi ne ripercorre le vicende, a partire dal febbraio 1949, in cui con l’approvazione della legge finiva “un inverno duro per gli architetti e nebbioso per le prospettive edilizie. [...] Gli architetti, nella nuova società democratica che emergeva dalle immani distruzioni belliche [...] erano alla ricerca di una nuova clientela, più vasta della precedente che era allora economicamente sconfitta”. Ancora il ruolo chiave della libera professione, dunque, che però Zevi declina secondo modalità nuove, indicando nell’Ina-Casa il trait d‘union fra i lavoratori e gli architetti, forze sociali vive, complementari, ma sinora estranee. Per mantenere e rinsaldare questo nuovo patto occorre mantenere vivo lo spirito iniziale, evitando la burocratizzazione organizzativa e l’appiattimento tecnico, per realizzare “nuove abitazioni veramente capaci di contribuire ad elevare il tono di vita materiale e morale della classi lavoratrici”.
Evoluzione
Con il consolidamento e l’inizio di evoluzione del piano nei primi anni cinquanta, si dileguano definitivamente le perplessità sul prelievo forzoso, che nelle discussioni parlamentari aveva suscitato tante polemiche: l’avvio della ripresa economica rende accettabile l’idea di perdere lo 0,6% del proprio stipendio. Risolta la questione del prelievo obbligatorio, ne restano aperte molte altre, tra cui quella dei criteri di assegnazione: situazioni di emergenza abitativa create ad hoc per guadagnare punti, corrispondente esclusione di famiglie aventi diritto, ed infine collocazione “fuori mercato” dei fitti e delle quote di riscatto (anche rispetto all’edilizia popolare non Ina-Casa), rendono improcrastinabile una riforma dei criteri di assegnazione. Mentre si intravede la certezza di proroga dell’Ina-Casa per un secondo settennio, le proposte di riforma riguardano un maggior legame con il territorio (più lunga presenza in loco del lavoratore contribuente/assegnatario), e con il piano (più lunga serie di trattenute, invece dell’unica mensilità richiesta dal programma originario). Altro miglioramento auspicato, è quello del rapporto tra Ina-Casa ed enti locali, che l’evoluzione materiale del programma in direzione della “politica dei quartieri” aveva di fatto reso molto più stretto: “Il piano [...] ha dovuto riconoscere il quartiere come elemento ultimo per il suo investimento: non la casa singola. Ed è per questo che il piano ha avuto bisogno del comune, per concretarsi, e ha finito per potenziarne la funzione urbanistica. E’ probabilmente lungo questa direttrice che bisognerà progredire”.
Al tema del quartiere si lega strettamente l’indagine campionaria sulle preferenze degli assegnatari, con l’esordio degli assistenti/animatori sociali. Recuperando lo spirito con cui nel 1930 il giovane Fanfani entrava nelle case dei poveri, ora i nuovi operatori verificano quanto il trait d’union teorizzato da Bruno Zevi sia effettivamente operante. Il rapporto finale della ricerca si focalizza su due punti: il piano dove è collocato l’alloggio, e il ruolo della cucina nel contesto dell’abitazione. In sintesi, l’insieme delle risposte si riassume in un atteggiamento ostile alla maggior parte delle innovazioni introdotte dai progettisti, e delinea aspirazioni a una vita familiare vicina nell’immaginario collettivo a quella borghese, quanto lontana dalle promiscuità popolaresche dei quartieri storici e dell’edilizia rurale che avevano influenzato parte della ricerca progettuale. Un conservatorismo degli assegnatari che ben si coniuga con l’idea - forte e vincente - del piano come veicolo di graduale modernizzazione senza fratture della società italiana, in grado di mettere in comunicazione l’ambiente culturale delle città e delle professioni, con quello diffuso delle campagne e dei notabili locali. Il tutto, con un’attenzione particolare alla massima attenuazione dei conflitti: da quelli sull’entità del prelievo forzoso, a quelli sull’inaccettabilità socio-familiare dell’alloggio.
Non è certo un caso se, alla vigilia di scadenza del primo settennio, viene attivato il Servizio sociale, a riempire un vuoto che la politica in tema di case popolari del fascismo aveva totalmente trascurato: l’enorme iato tra individuo/famiglia di tradizione contadina e società complessa nel quadro dell’insediamento urbano. L’attivazione del servizio sociale, di fatto, sanziona il passaggio dal progetto al processo: gli spazi di alloggio e di quartiere non saranno più terreno di caccia esclusivo per architetti e/o burocrati, ma luogo di interazione e partecipazione. Il percorso è lungo, e di fatto attraverserà un importante periodo della storia italiana recente, ma un dato è incontestabile: la creazione dei nuovi alloggi e quartieri finanziati dal piano Ina-Casa, con il coinvolgimento di molte forze sociali e professionali, rappresenta un percorso di modernizzazione organico.
In questo, oltre le idee di società solidale cattolica alla base del piano, sta la forza di un programma i cui risultati sono ancora visibili ed eloquenti. Anche al turista più distratto appena uscito dal centro storico.