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Vittorio Emiliani
Antonio Cederna urbanista di natura
26 Agosto 2006
Scritti su Cederna
Le mille battaglie, le proposte, le vittorie e le amarezze di un uomo cui l’Italia deve molto. Da l’Unità del 26 agosto 2006

Adesso, a dieci anni dalla scomparsa, tutti diranno che l’amavano, che ne condividevano le battaglie, che si identificavano in lui, eccetera eccetera. Non credeteci. Per anni, per decenni, Antonio Cederna, animatore di tante campagne per la salvezza del Bel Paese, è stato un personaggio isolato quando non detestato come una sorta di «bestia nera» dello sviluppo e delle sue magnifiche sorti. Anche nei giornali conobbe, essenzialmente, due bellissime stagioni: quella del settimanale il Mondo di Mario Pannunzio del quale divenne, dal 1950, debuttandovi come pubblicista, una colonna portante, e l’altra dell’ultimo Corriere della Sera (anni ’70) di Giulia Maria Crespi e di Piero Ottone, sul quale ebbe finalmente il grande spazio e il risalto che meritava scrivendovi in piena libertà. Gli ultimi anni a Repubblica non furono fra i più felici, si riteneva confinato alle cronache romane, misurava con amarezza crescente i giorni e le settimane che passavano dalla consegna di un articolo alla sua pubblicazione.

Chi, come me, lo ha frequentato quasi quotidianamente negli ultimi vent’anni di vita, anche professionale, dopo averlo avuto compagno, e maestro, nella ristretta compagnia di giro (lui, Mario Fazio, Alfonso Testa, Vito Raponi, Salvatore Rea e pochissimi altri) che seguiva le vicende urbanistiche e ambientali del tempo conosce bene i rovelli di un personaggio scomodo e anticipatore, del quale oggi si coglie meglio il rilievo e la novità.

Vezio De Lucia ed Edoardo Salzano (l’animatore di Eddyburg), entrambi apprezzati urbanisti, ne parlano oggi come di un grande urbanista. In effetti riesce difficile incasellare Antonio in una categoria precisa: saggista, giornalista, polemista, sta bene, ma certamente di più, difensore della natura e del paesaggio, propugnatore di progetti innovativi di conservazione (ovunque ve ne fossero, nei musei come nei parchi, tanto contestati, era presente, con la fatica di scrivere, e soprattutto di vedere poi pubblicato il proprio lavoro), estensore di un argomentato progetto di legge speciale per Roma che resta forse il suo sforzo più organico partendo dal discorso del grande parco urbano, dai Fori all’Appia.

Antonio Cederna rimane, con la sorella Camilla, formidabile giornalista di costume e non solo, col cognato Leonardo Borgese, come lui archeologo di formazione e poi critico d’arte, che lo anticipò di qualche anno nel raccontare L’Italia rovinata dagli Italiani (Rcs, 2005), uno degli esponenti più veri di una borghesia lombarda, milanese, che non c’è quasi più: laica con venature di severo giansenismo, impregnata di forti spiriti riformatori e quindi pronta a spendersi, con coraggio, per un Paese finalmente sensibile ai valori della bellezza, della storia, della cultura, insomma della civiltà più piena e praticata.

Antonio si era formato alla scuola di archeologia dell’Ateneo Ticinese di Pavia e a Roma era arrivato per esercitare quel mestiere. Forse non pensava affatto di intraprenderne un altro, quello che era già, con coraggio e successo, della sorella maggiore Camilla, punta acuta e acuminata dell’Europeo di Arrigo Benedetti. Scrisse anzi un saggio sul suo primo scavo, a Carsoli, sulla Tiburtina. Poi l’ingresso nella cerchia degli amici del Mondo, in via della Colonna Antonina, composta da ex azionisti, repubblicani, socialisti liberali, radicali soprattutto, e l’esordio in un giornalismo di battaglia: sull’orrenda, piacentiniana via della Conciliazione e sull’ultimo mega-sventramento proposto per tutta l’area storica fra piazza di Spagna e piazza del Popolo. Subito dopo la campagna in difesa della regina viarum, I gangsters dell’Appia, centinaia di articoli, come per La Città Eternit. Campagne conclusesi, sovente, con successi pieni o parziali. Per esempio, col vincolo dei primi 2.500 ettari dell’Appia Antica decretato dal ministro dei Lavori Pubblici, Giacomo Mancini, esattamente mezzo secolo fa.

Qui va detto che Antonio Cederna, a smentita di tanti avversari e denigratori, fu uomo di proposta. Non era affatto contrario all’architettura contemporanea, purché all’esterno delle città storiche, rigorosamente. Fu tra i primi a visitare le New Towns britanniche per proporle come possibile modello per le nostre nuove periferie (che definiva, invece, «per murati vivi»). Oppure a dar conto agli italiani dell’urbanistica olandese o svedese. Compiendo così, con altri (penso alla rivista Comunità di Adriano Olivetti), un’opera di positiva divulgazione di modelli avanzati, di cui sentiamo anche oggi la mancanza. Sostenne a fondo l’esperienza bolognese del piano Fanti-Cervellati per il recupero e il restauro delle case popolari antiche del centro antico ad uso dei residenti, documentandola a fondo, con scrupolo, e portandola come esempio, in modo felicemente pragmatico. Quando ebbe, abbastanza tardi, nel 1987, la possibilità di dare il proprio contributo quale parlamentare eletto da indipendente nelle liste del Pci alla Camera, fra il 1987 e il 1992, stupì molti colleghi - che lo pensavano un «signor No» e basta - con la sua grande capacità di proporre e di fare, in positivo, secondo una cultura lombarda che risaliva a Carlo Cattaneo. Ne colsi ancora un’eco ammirata, anni dopo, all’interno della Commissione parlamentare Ambiente, Territorio e Infrastrutture di Montecitorio.

Ma, come dicevo all’inizio, non fu certo amato da tutti. Ebbe subito nel Pci un duro scontro con Lucio Libertini il quale, da responsabile della Casa, appoggiava le rivendicazioni «sociali» degli abusivi guidati dal sindaco Monello di Vittoria, nel Ragusano. Su questo e su altro Antonio fu giustamente intransigente. Oggi sorriderebbe amaro dell’«ambientalismo ragionevole» di cui qualcuno discorre mentre scempi e abusi imperversano. Sapeva dire sì e no con uguale rigore. Nel 1987 fu una sorta di candidato-bandiera in otto o nove collegi della Camera. Nel 1992 non venne ripresentato. Stava comunque dando il proprio umile e fattivo contributo nel Consiglio comunale di Roma, dove era già stato, da radicale eletto nel Psi, ai tempi della battaglia durissima, ahinoi perduta, sull’Hotel Hilton a Monte Mario, voluto dal sindaco dc Urbano Cioccetti coi voti del Msi. Contributo che risultò stavolta decisivo, con un memorabile discorso notturno («Avevo bevuto un paio di fernet…», si schermì dopo), per scegliere l’area del Flaminio per il nuovo Auditorium di Roma. Che quindi si deve, in parte, anche a lui. Nel 1993 ebbe la presidenza del Parco regionale dell’Appia, tutto da costruire. Fu la sua ultima commovente fatica, sessant’anni dopo la indignata campagna sul Mondo, consegnata con altre ai suoi libri, da I vandali in casa a Mirabilia Urbis, a La distruzione della natura in Italia, a Mussolini urbanista, all’ultimo Brandelli d’Italia. Sono opere-manifesto, col progetto per Roma, per una sinistra che voglia essere ancora tale.

Nel privato, voglio dirlo, era, come Camilla del resto, persona piacevolissima, pieno di humour, di voglia di mutare in scherzo l’invettiva. Recitava a memoria Dante, Shakespeare e Manzoni. Ma era pure un grandissimo appassionato di calcio, tifoso interista dai tempi del Pepìn Meazza e dell’Arena. Per i Mondiali di Argentina vedemmo insieme a casa sua, accuditi con dolce ironia dalla moglie Maria Grazia, quattro partite di fila, dalle quattro del pomeriggio a mezzanotte. Antonio, il Tonino per i famigliari, era anche questo. Il suo nome non figura fra i fondatori ufficiali di Italia Nostra, nel 1955. «Ero timido», raccontava, fra il serio e l’ironico.

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