Scontiamo le prevaricazioni di urbanisti, politici e pseudoambientalisti
Nel dibattito sulle periferie – che va considerato propedeutico a quello sulle condizioni e le responsabilità che hanno condotto all’abusivismo e ai vari interventi in sanatoria - emergono da un po’ di tempo a questa parte ammissioni che collimano sorprendentemente con quanto andiamo dicendo da anni. Inserendosi in questo dibattito si rende tuttavia opportuno fare riferimento anche alle idee degli altri, com’è il caso di un articolo di questa estate de “La Repubblica” (E alla fine vinse la città di villette), in cui l’architetto Paolo Desideri afferma ad esempio che «dentro il dibattito autoreferenziale degli addetti ai lavori, irrompe talvolta il punto di vista di chi specialista non è, e forse proprio per questo finisce per vedere quello che sfugge agli esperti».
L’argomentazione nasce dalla constatazione dello iato esistente tra la gente comune da una parte, - che da almeno trent’anni si pone la domanda se è possibile o meno vivere nel degradato clima sociale delle periferie - e gli architetti, gli urbanisti e i politici/amministratori dall’altra, che hanno continuato imperterriti a concepire progetti insani come quelli di Corviale, Zen, Tor Bella Monaca, Laurentino 38 etc. Tale iato fornisce la prova inconfutabile che la nostra società «non è più in grado di condividere i valori e la cultura abitativa proposta dalla città pianificata». Per gli architetti e gli urbanisti si possono forse individuare delle scusanti, tutt’uno con la natura di una formazione culturale legata alla ricerca tipologico/abitativa del Movimento Moderno, ma anche coerente con una economia non più attuale, fondata sulla produzione industriale, e con un pensiero modernista troppo inquinato da una visione deterministica della storia e dal mito ormai insostenibile del progresso.
Strettamente collegato, ripeto, al disastro delle periferie è il fenomeno dell’abusivismo; fenomeno alla cui base si può senz’altro individuare il rifiuto del quartiere costituito da case multipiano, o meglio, da un impianto urbanistico con tipologie abitative ad alta densità, oltre al fatto di non aver applicato la lezione dei centri storici, complice l’equivoco funzionalista, cioè la lezione dell’integrazione delle funzioni del vivere (a fronte del moderno, monofunzionale quartiere dormitorio), unitamente all’incapacità degli architetti contemporanei di conferire qualità all’ambiente urbano.
Travisata la funzione del mercato delle aree
Per capire a fondo il fenomeno dell’abusivismo non si può tuttavia non riferirsi alle condizioni del mercato delle aree fabbricabili e alle responsabilità della classe politica nell’inquinare e alterare questo mercato, sia accettando le indicazioni degli urbanisti, tendenti ad intaccare alla base il principio stesso della proprietà fondiaria (fortunatamente tamponate dalla Corte Costituzionale), sia insinuandosi nei meccanismi di mercato con leggi come la 167, sulle aree per l’edilizia economica e popolare, e come l’equo canone, con le disastrose ripercussioni sugli investimenti privati per l’edilizia abitativa che sono all’origine della carenza odierna di nuove abitazioni nelle grandi città.
L’individuazione nel mercato come sede di una delle condizioni fondamentali di prosperità di una società civile moderna è stata assolutamente travisata dalla classe politica italiana a partire dal dopoguerra. La nostra classe politica ha portato avanti una nozione ideologica dell’interesse pubblico in opposizione totale all’interesse privato. Ora, che questa concezione fosse connaturale alla sinistra, allo statalismo dirigista e alla discriminazione delle classi sociali, non vuol dire che dovesse essere ritenuta accettabile anche dal partito allora di maggioranza relativa e dalle formazioni politiche di ispirazione liberale, ideologicamente più inclini a comprendere le ragioni del mercato.
D’altra parte gli urbanisti, applicando un concetto di pianificazione che, cristallizzando il territorio con una destinazione d’uso vincolante delle aree, stabilita secondo presunti criteri di razionalità e funzionalità dell’espansione urbana, escludevano ogni possibilità di un’offerta indifferenziata di aree fabbricabili in libero mercato, laddove peraltro il privato non poteva arrogarsi il diritto di pretendere che i servizi urbani arrivassero fino a lui, comunque e dovunque.
Il segnale incompreso della Bucalossi
Gli urbanisti hanno dunque per certi aspetti avuto ragione, ma soltanto sino a quando un liberale non sancì il sacrosanto principio, con la legge 28 gennaio 1977, n. 10 ( Norme per la edificabilità dei suoli ), che i costi dei servizi di urbanizzazione il privato se li dovesse pagare. La Bucalossi dava infatti, per chi lo volesse intendere, il segnale della crisi della mano pubblica, nonché della necessità di capovolgere le strategie autoritaristiche della pianificazione, ricorrendo al privato e prestando orecchio alle domande che, dal territorio, provenivano dal basso.
E’ da quel momento che la pianificazione urbana e territoriale doveva cambiare, modificando i criteri dirigistici sino allora seguiti e ampliando la nozione di governo del territorio ponendo l’accento sull’unitarietà organica degli interventi, cioè facendo proprie sia le esigenze di difesa del suolo che dei valori ambientali, che invece furono regolate da leggi specifiche, slegate dal contesto generale. Purtroppo l’opportunità offerta dalla svolta “Bucalossi”, che poteva dare luogo ad una positiva riaffermazione del primato della politica anche in questo settore, non venne afferrata da una classe politica in gran parte dedita all’affarismo e alla lottizzazione del potere, quindi incapace di cogliere il cambiamento epocale che si celava, già negli anni ’70, dietro il decentramento industriale e l’esaurimento del fenomeno dell’urbanesimo. Anche molti urbanisti non percepirono il cambiamento, proseguendo sulla strada ormai invalidata di una pianificazione prescrittiva da considerarsi quantomeno illiberale. Altri concepirono invece una via “riformista”, guardando in realtà ai modelli che venivano sperimentati in alcuni paesi europei.
La guerra alla tipologia unifamiliare
Peraltro, il perdurare di una costituzione impositiva della pianificazione urbana, ha comportato il mantenimento di tipologie abitative ad alta densità, individuate in ragione di scelte tecniche sull’uso del suolo, ma in gran parte estranee alla domanda, per di più spesso estremizzate da convinzioni ideologiche contrarie all’abitazione unifamiliare. A parte i formicai di abitazioni popolari già citati, chi ha potuto seguire le vicende del PRG della Capitale, a partire dal piano del ’62, non può non avere rilevato, ad esempio, la progressiva compressione dell’offerta della tipologia unifamiliare G4, una tipologia ormai confinata nell’Agro romano, con un lotto minimo di 100.000 mq!
Tutto questo mentre, per tornare all’articolo di Paolo Desideri, una ricerca Censis dell’83 proponeva un’interpretazione dell’abusivismo edilizio come risposta alla deludente qualità della vita che gli ambienti urbani della città pianificata moderna sapevano garantire ai loro abitanti: «l’alloggio abusivo rappresenta quindi, per la maggioranza degli intervistati, la conquista di un miglioramento sostanziale del comfort abitativo. Accanto all’incremento della superficie abitabile e del numero medio delle stanze si può rilevare un pronunciatissimo incremento delle superfici accessorie dell’alloggio e delle superfici scoperte di pertinenza dell’abitazione, specialmente costituite dai giardini e dalle aree libere».
D’accordo con Desideri anche quando, pur riconoscendo le tipologie autocostruite della città non pianificata, cioè abusiva, «più consone alle attese e alla cultura abitativa dell’uomo contemporaneo» aggiunge opportunamente che queste tipologie, «le casette della città diffusa, rappresentano la mediocre utopia liberista di un soggetto che in quelle architetture senza architetti realizza il suo contraddittorio paradiso individualista…».
Convincente la conclusione a cui perviene Desideri. Vale la pena citarla, anche se non può considerarsi esaustiva delle problematiche in discussione: «Tutto questo mi sembra converga verso un limite: la cultura urbana espressa dal moderno, che è alla base della formazione di noi architetti, che è tuttora la struttura principale dell’insegnamento di architettura, è ampiamente superata nei fatti e dalla cultura materiale della gente comune. Solo partendo da questa definitiva consapevolezza potremo, e dobbiamo con urgenza e passione, rifondare un rapporto accettabile tra urbs (cioè città fisica) e civitas (cioè società civile)».
I nostri tradizionali lettori ricorderanno sicuramente i nostri annosi e reiterati inviti ai “professori” a fare “una passo indietro”, tuttavia, se non li citassimo, faremmo torto a coloro tra questi che hanno sviluppato nel tempo una vigorosa autocritica, specialmente riferita all’autoreferenzialità del dibattito disciplinare, tale da consentire nel tempo l’assunzione reale degli elementi di crisi, come lo stesso articolo di Desideri sta a dimostrare.
Perchè non esaustiva la conclusione di Desideri? Perché fra le altre cose non coinvolge le responsabilità di certo pseudoambientalismo nostrano, che inquina il dibattito limitandosi a valutare la dimensione naturalistica dell’ambiente, dimenticandosi di quella culturale e ignorando le radici antropizzate del paesaggio naturale italiano. Per questa gente ogni ulteriore riduzione delle “volumetrie” abitative rappresenta una vittoria contro la “cementificazione”, laddove il diritto alla casa va considerato quantomeno elemento prioritario nei confronti di chi la casa non ce l’ha. Il fatto che si sia fatto scempio del territorio non può costituire un alibi per alienare questo diritto, né si può accettare l’affermazione, sintomo di ignoranza letale, secondo la quale la costruzione edilizia turba l’ambiente, perché non è la casa dell’uomo che turba l’ambiente naturale come quello urbano, lo turba, certamente, la cattiva architettura.