Credo che sia arrivato il momento di descrivervi, per sommi capi e senza pretese di completezza o sintesi, come Nairobi sia sorta – è una città di fondazione – ed evidenziare alcune dinamiche che hanno influito più di altre nel processo di traformazione. Senza questo quadro di riferimento diventa difficile comprendere alcuni meccanismi che regolano la vita urbana della città, apprezzare lo sforzo e la capacità di migliaia di persone nel affrontare una vita quotidiana in cui anche l’acqua potabile è praticamente un bene di lusso, e cogliere appieno la profonda inequità nell’allocazione e nella gestione delle risorse che da sempre, anche dopo l’indipendenza, si perpetua e ha sancito il benessere e il malessere dei Kenioti.
La città coloniale
Fin dall’inizio, da quando la città fu fondata dagli Inglesi nel 1899 come deposito degli approvvigionamenti per la ferrovia (l’Uganda Railway che doveva collegare Mombasa al lago Vittoria) ci sono state più Nairobi. Da una parte, la città pianificata (secondo le regole europee) e debitamente servita da infrastrutture che teneva conto solo delle esigenze della popolazione europea (impiegati della ferrovia e amministratori della colonia) e dei commercianti, sia Europei che Asiatici. Parallelamente, cominciava a crescere un altra città, né pianificata nè dotata di servizi, abbandonata a se stessa, occupata dai lavoratori Africani, impiegati nei lavori più umili o in economie informali di pura sussistenza.
La divisione era allo stesso tempo spaziale e razziale, divideva la città in quattro settori distinti: a nord e a est il settore asiatico (quartieri di Parklands, Pangani and Eastleigh); a est e sud-est il settore africano (quartieri di Pumwani, Kariokor, Donholm); tra sud-est e sud c’era un’altra piccola enclave asiatica; nel settore a nord e a ovest c’erano le aree europee. (Vedi Fig.2). Vorrei qui mettere in evidenza un primo elemento di questa particolare suddivisione, e questo richiede una precisazione di carattere geografico.
Il Kenya si estende a cavallo dell’equatore sulla costa orientale dell’Africa e Nairobi si trova nella parte meridionale, ai margini del cuore agricolo del paese. L’altitudine di Nairobi varia notevolmente: tra i 1460 mt e i 1920 mt sul livello del mare, e quindi con notevoli differenze climatiche e ambientali. L’altitudine minore si registra nei pressi dell’Athi River lungo il confine sud-orientale della città, quella maggiore sul confine occidentale.
Percorrendo la città circolarmente, si incontrano paesaggi tra loro molto diversi. Ad occidente, laddove gli Europei si erano insediati, il clima è fresco, ventilato e la zona è ricca di vegetazione, addirittura ci sono parchi e foreste. Ad oriente, la temperatura si alza, stare al sole può diventare insopportabile, la terra è arida o semi-arida, ci sono pochi alberi e la coltivazione è pressochè impossibile, se non sussidiata dall’irrigazione meccanica. E qui che agli Africani fu in un qualche modo consentito di accamparsi.
Ma torniamo alle regole coloniali vigenti nella città di Nairobi nella prima metà del XX secolo. Attraverso l’emanazione di decreti reali, gli Africani furono spostati nelle aree meno appetibili - sia da un punto di vista di vivibilità ambientale che di produzione agricola - mentre il Vagrancy Act - una legge che limitava i movimenti degli indigeni al di fuori delle riserve – e altri decreti, ivi compresi quelli relativi alla demolizione di strutture non autorizzate e alla segregazione residenziale, consentivano invece di regolare e controllare il centro urbano.
Siccome nella città coloniale non vi erano stati inseriti quartieri residenziali per gli Africani, se non in pochissime quantità e generalmente riservati a coloro che lavoravano nelle case degli europei e più tardi ai civil servant, gli altri dovettero a loro modo farsi posto nella città, andando a formare quelli che verranno poi definiti quartieri informali o slum.
Molti Africani approdavano in città dopo essere stati depradati delle loro terre dagli Europei che volevano fare del Kenya una nuova Australia: “a white man land”. La costruzione della ferrovia, che serviva per trasportare materie prime dall’interno dell’Africa orientale alla costa, si era rivelata più costosa del previsto e occorreva compensare la spesa con altri servizi: il trasporto di merci kenyote. Ma quali merci, visto che il Kenya non era provvisto di ricche materie prime come metalli o petrolio? Il Kenya era stato colonizzato per poter accedere e collegare l’entroterra ugandese al mare, più che per sfruttare le sue risorse, ma poi si rivelò una terra molto fertile, sfruttabile per colture da esportazione (te e caffe), e così fu incentivata da parte dei colonizzatori britannici l’insediamento degli europei nelle “White Highlands” the terre più fertili del Kenya, che originariamente appartenavano soprattutto alla nazionalità dei Kikuio. Migliaia di persone che vivevano nelle aree della Rift Valley, e nelle aree appena fuori Nairobi, per esempio in Kiambu, Limuru, Ruiru, Kikuyo si trovarono senza terra e quindi senza alcun mezzo di sussistenza.
Alcuni migrano a nord, per poi essere nuovamente cacciati all’indomani delle due guerre mondiali, quando agli ex militari britannici vennero regalate delle terre, mentre altri raggiunsero la città di Nairobi. Alla fine della Prima Guerra mondiale, i primi otto quartieri informali, tra cui Kibera, Kangemi, e Kileleshwa, si andavano consolidando, e quella che diventerà una caratteristica saliente di Nairobi - una divisione socio-spaziale della città - prendeva forma.
Al settore europeo di Nairobi era assegnata una gran quantità di terra, l’ottanta per cento del suolo residenziale urbano a cui corrispondeva il 10% della popolazione, e quindi aveva la più bassa densità abitativa per ettaro; alle aree degli indigeni africani, corrispondeva invece un’ altissima densità abitativa. Alla fine del 1926 gli Europei possedevano 2,700 acri di terra, gli asiatici, prevalentemente originari dell’India, circa 300 acri, mentre gli Africani ufficialmente nulla se non le case che erano state assegnate loro.
Intanto il centro della città si arricchiva di nuovi edifici pubblici, compresa la Town Hall e il tribunale. Un nuovo piano, “The Plan for a settler capital”, veniva elaborato nel 1927: si basava sugli esempi delle città coloniali sudafricane rafforzando la suddivisione spaziale per etnie e mirava a normare gli usi, controllare l’accesso alla città, demolire gli insediamenti considerati insani.
Ma la produzione di spazio, nonostante i decreti e la forza impiegata dal regime coloniale, rimaneva alquanto contestata. La concezione africana dello spazio e della sua utilizzazione riusciva in qualche modo ad affermarsi in aree come quella di Pumwani.
All’indomani della seconda Guerra mondiale a Nairobi c’erano circa 77,000 persone, un notevole aumento rispetto alle 40,000 che c’erano nel 1938. Di nuovo, l’aumento di popolazione era dovuto in gran parte al fatto che un’ ulteriore massa di africani si ritrovava espropriata della terra e in condizioni di indigenza.
Nel 1948 veniva elaborato un nuovo piano per Nairobi, il “Masteplan for a Colonial Capital” che mirava a consolidare i confini della città, piuttosto che ad allargarli, ad arricchire il centro per trasformarlo, anche simbolicamente, in una capitale coloniale, a individuare aree industriali e attraverso le “Neighbourhood Unit Planning” a creare aree residenziali, distinguendole di nuovo in base all’etnia.
Nel periodo coloniale, il nuovo ordine imposto dagli Europei – in termini di concezioni e modelli spazio-temporali e di ordine politico e sociale, - aveva creato nuove identità (l’Europeo-ricco da una parte e l’Africano-povero all’altra estremità, con gli Asiatici nel mezzo) e si affermava come dominante. Il modello di urbanità imposto dal regime coloniale diventava la norma ed espressione della città formale, ovvero della città “autentica”. L’altra parte, la città costruita dagli Africani in maniera spontanea senza piani, si affermava come la città informale, cioè al di fuori della norma. A questo modello eurocentrico corrispondenva non solo una discriminazione su base etnica, che certamente era alla base della separazione, ma anche una discriminazione su base economica: i bianchi erano ricchi e i neri poveri.
All’indomani dell’indipendenza
Non erano mancati momenti di opposizione al regime coloniale: il movimento dei Nandi (1905-1907) e poi quello dei Mau Mau (1952-1960) furono quelli più importanti e violenti, ma nel 1963, repentinamente e pacificamente, fu raggiunta l’indipendenza grazie alla forza combinata dei nazionalisti, che raggruppava partiti politici, sindacati e associazioni etniche.
Nel frattempo la struttura della società era cambiata e un’altra classe di Africani, tra quella dei si stava formando. Il regime coloniale aveva avuto bisogno dei vari leader delle comunità per governare il paese, così come era stata necessaria la formazione di un esercito di civil servant Africani (dai maestri agli impiegati dell’amminitrazione coloniale) per la gestione quotidiana e capillare del paese. Questa “piccola borghesia”, andava pian pianino acquisendo una sua posizione economica e politica e sarà questa che formerà il governo della Republica del Kenya.
Con l’indipendenza gli Europei se ne ritornano in Europa e le loro terre venivano acquisite dalla “piccola borghesia” o dallo stesso governo. Attraverso il cosidetto “Million Acre Scheme”, finanziato con l’aiuto del governo Britannico e della Banca Mondiale, 1200 milioni di acri furono distribuiti a 35,000 famiglie. Altri programmi simili avrebbero dovuto redistribuire il resto delle ex terre agricole europee; invece oltre metà delle terre furono comprate direttamente dagli Africani più abbienti.
E così la stratificazione della ricchezza su base etnica si trasforma in una stratificazione su base puramente economica. Il Kenya diventò una classica “società neopatrimoniale” in cui i gruppi etnici o nazionalità –entità abbastanza flessibili nell’epoca pre-coloniale - si rafforzavano e si trasformavano i vere e proprie “tribù politiche” in competizione tra loro per l’accaparramento delle risorse disponili.
Il rapporto tra gruppi etnici e politica è assai complesso e molto legato a questioni di “identità”, “essere” e “appartenenza” come Patrick Chabal fa notare (consiglio l’interessante libro Africa: The politics of suffering and smiling, 2009). Il regime d’ordine che si instaura all’indipendenza e che previlegia di volta in volta il gruppo etnico a cui appartiene il capo dello stato e si tradurrà in una conduzione della stato volta a promuovere il benessere individuale e del clan dell’elite al potere, non può essere descritto solo attraverso il significato moderno di “corruzione”.
Mi riprometto di ritornare su questo aspetto e di spiegare meglio quello che Chabal intende, in un altra pagina di questo diario, riprendendo anche la questione della terra e quello che essa rappresenta nell’immaginario dei kenioti e di come questa sia il contenzioso più importante anche nelle trasformazioni urbane di Nairobi.
Quello che mi preme ora mettere in evidenza è che la nuova elite africana, per una lunga serie di ragioni – tra cui l’eredità coloniale, la smania per la modernità e la difficoltà di conciliare l’interesse locale della propria comunità di origine e l’interesse generale della nazione - optò per la continuità delle strutture governative coloniali e per una accentuata stratificazione di classe. Nel Kenya indipendente, così come nel Kenya di oggi, l’esclusione sociale su base etnica, perpetuata dal regime coloniale, si trasforma in un esclusione sociale su base socio-economica. La smania dell’elite di arricchirsi e di previligiare la propria comunità di origine, piuttosto che dell’equità sociale e dell’interesse generale a scala nazionale, diventerà il motore del modello segregativo della città.
Volendo riassumere in cosa consiste l’eredità coloniale nel processo delle trasformazione urbane nominerei subito il modello segregativo, di cui ho già parlato. Ma si eredita anche l’incapacità di gestire la crescita urbana e gli slum, delle politiche territoriali volte ad evitare il coinvolgimento/partecipazione della popolazione povera della vita urbana; insediamenti a bassa densità e destinati ad una minoranza; e la mercificazione della casa e dei suoi componenti.
L’enorme disparità in densità e utilizzo del suolo di oggi è una manifestazione di questa segmentazione sociale: i nuclei ad alto reddito, che rappresentano il 10% della popolazione di Nairobi occupano oggi il 64% della superficie residenziale mentre i nuclei a basso reddito, che rappresentano il 55% della popolazione occupano solo il 6% della superficie.
Alla città regolare, pianificata, infrastrutturata e in un qualche modo controllata, luogo del potere, delle classi agiate e dei cosiddetti espatriati, delle banche internazionali, degli alberghi di lusso, dei mall e degli uffici, si contrappone “la città degli slum” costituita da agglomerazioni spontanee e per natura dei materiali “temporanee”, dove vivono migliaia di persone che di fatto sono esclusi dai beni e i servizi urbani di base come l’acqua, le fognature, i trasporti, le strutture sanitarie, le scuole e gli asili. E’ un spesso anche l’esclusione da un lavoro regolare e adeguatamente retribuito, dalla rappresentanza politica e dai processi decisionali.
Nel mezzo, c’è una middle class che certamente cresce e che lascia una traccia sempre più marcata nella città. Occupa quartieri di palazzine in cemento armato construite in varie epoche, ma che negli ultimi dieci anni si sono diffusi a macchia d’olio, occupa le case costruite dal governo e poi vendute o affittate ai suoi civil servants, occupa quartieri che dovevano essere di edilizia popolare ma che per i prezzi troppo alti non sono accessibili alla lower class. Assomigliano a quelle palazzine che vi ho decritto nel diario 3, dove io stessa ho vissuto per un paio di settimane.
Ma ora voglio parlarvi degli slum i quartieri dove metà della popolazione urbana del Kenya vive, facendo una premessa. Possiamo identificare una serie di caratteristiche comuni agli slum di tutto il mondo: possesso della terra molto incerto e non sancito da leggi; abitazioni precarie, costruite con materiali di fortuna e non rispondenti a standard abitativi minimi; altissima densità; una distribuzione sul territorio complessa, ma spesso in aree marginali e non ancora richieste dal mercato; assenza o scarsità di servizi (luce, acqua potabile, fognature, raccolta rifiuti); tassi di mortalità più alti che in altre zone. Ma ogni città, ogni slum ha delle caratteristiche peculiari, che dipendono dal processo di formazione dello slum stesso (qual’era il nucleo originario, le motivazioni dell’insediamento, le trasformazioni successive), i gruppi etnici prevalenti (ogni gruppo etnico ha una sua cultura, concezioni peculiari dello spazio e della vita sociale); l’età media degli abitanti; la permanenza media degli abitanti nello slum; il rapporto tra proprietari e affittuari, ecc.
Quello che io mi accingo a descrivere è la realtà di Nairobi, e in particolare faccio riferimento a due slum: Mathare (Fig. 6) e Kibera (Fig.7)
Gli slum di Nairobi
Cosa sono gli slum
Slums, favelas, barrios, baraccopoli, insediamenti informali, sono parole che indicano dei quartieri costituti perlopiù da baracche addossate le une alle altre, costruite con vari materiali di fortuna (generalmente di scarto o di scarsa qualità) in assenza di un piano di lottizazione o simile, senza allacciamenti alla rete fognaria, elettrica e dell’acqua potabile. A Nairobi la densità abitatita negli slum varia da 15.000 a 85.000 persone per Km quadrato (vedi Fig.9).
Questi quartieri crescono per aggiunte progressive di unità, non comprendono scuole, servizi pubblici, strade o quant’altro ci si aspetterebbe da un quartiere ben pianificato e costruito. Può succedere che con il tempo, una serie di attività collettive e di servizio – dispensari farmaceutici, scuole, cliniche, servizi igienici, vengano costruiti. Spesso con l’aiuto di associazioni e la collaborazione degli abitanti, più raramente, con l’aiuto del governo o dell’amministrazione locale.
Gli slum si insediano su terre “libere”, generalmente alla periferia delle città, dove esiste meno “pressione” e dove il mercato immobiliare non si è ancora organizzato, ma possono anche svilupparsi in zone centralissime (un esempio è Kibera), vicino a fabbriche, in aree alluvionabili o a rischio, dove la pianificazione non prevede l’insediamento umano.
Le terre occupate possono essere pubbliche o private, e l’occupazione può essere illegale (squattering) oppure legale, nel senso che il proprietario ha concesso il permesso a queste persone di insediarsi (dietro pagamento di un affitto). Si può anche essere in presenza di una lottizzazione regolare, ma poi i lotti possono essere a loro volta frazionati e affittati o venduti, e poi edificati in assenza di un permesso a costruire.
Insomma la casistica è assai ampia e le condizione di occupazione del suolo, delle baracche e delle relazioni economico-sociali tra abitanti e possessori della terra e delle strutture dipende molto dalle condizioni socio-politiche locali. Questo fattore incide moltissimo sulla composizione sociale dello slum, e rappresenta un elemento chiave per capire le dinamiche di sviluppo del quartiere e delle variabili da considerare qualora si volesse intervenire per migliorare le condizioni abitative.
Vivere negli slum non è gratis
Vorrei specificare, che praticamente nessuno degli abitanti vive in queste baracche gratis. E’ da non credere, ma anche vivere in una baracca costa! Non solo ma alcuni servizi, l’acqua potabile in particolare, costa di più che in un quartire formale o addirittura in un quartire della high class dove i servizi pubblici sono arrivati. Negli slum infatti la fornitura d’acqua è lasciata completamente al servizio privato, che se ne approfitta.
La stragrande maggioranza degli slum dweller è in affitto, e paga la pigione al “proprietario della baracca”, che spesso è un “absentee landlord” cioè qualcuno che vive altrove (in una casa vera e propria) e che possiede ben più di una baracca. Spesso questo absentee landlord ha ottenuto la terra – originariamente pubblica o common land - come “dono” da un politico, che spesso gli ha anche rilasciato un certificato che ne attesta la proprietà. Ovviamente questa allocazione di terra ad un privato e per usi privati è illegale, la Costituzione non permetterebbe l’uso di terra pubblica per fini privati, ma è successo. Questa pratica, di dispensare terre pubbliche ai propri parenti, e agli appartnenti al proprio gruppo etnico, si chiama land grabbing ed è stata praticata fin dai primi anni dell’indipendenza e non è per niente scomparsa. E’ una delle forme più diffuse di corruzione insieme a quella dell’appropriazione indebita di fondi pubblici attraverso contratti fraudolenti.
Praticamente questi absentee landlord si fanno un sacco di soldi: la terra non l’hanno pagata, ma percepiscono settimanalmente una rendita, su cui ovviamente non pagano le tasse. Non c’è quindi da stupirsi che ci siano persone che hanno interesse a mantenere gli slum così come sono!
Chi sono le persone che vivono in questi quartieri
Per lo più persone normali che non hanno trovato altrove un alloggio adeguato alle loro possibilità di spesa. Sono persone che non hanno un impiego stabile e retribuito adeguatamente, oppure famiglie numerose che devono sopravvivere con un solo stipendio, donne con prole che non hanno altro aiuto al di fuori di se stesse. Tanti giovani provenienti dalle zone rurali in cerca di lavoro, di un opportunità nella vita che sia qualcosa di più della mera sussistanza che ti offre la campagna (sempre che non si siano ondate di siccità o altre calamità naturali). Talvolta, come mi è capitato di conoscere, persone con uno stipendio che potrebbe consentirli una sistemazione migliore, ma che per risparmiare (in genere per l’educazione dei figli) vive qui.
La città in Kenya, come in tutta l’Africa più generalmente, costrituisce ancora una forte attrattiva. Non sempre per le reali possibilità che questa offre, ma più per le potenziali opportunità che possono rappresentare. Le condizioni abitative nella casa di origine nei villaggi sono spesse migliori, o sembrano meno degradanti, di quelle che si ottengano trasferendosi in città e soprattutto a Nairobi. Ma qui, in città, ci sono tutta una serie di servizi, soprattutto la possibilità di studiare, di incontrare persone, di trovare un lavoro – per quanto precario sia – che in campagna.
Raramente i migranti rispondono allo stereotipo dell’abitante povero, analfabeta, e mal adattato. Essi provengono da tutte le classi sociali, e tendenzialmente con lo stesso livello di formazione scolastica, reddito e lavoro di quelli che da sempre hanno vissuto in città, anzi sono spesso quelli ad avere un educazione superiore alla media a lasciare il villaggio per andare in città, quelli meno ‘educati’ tendono a muoversi, in altri villaggi.
Il fatto di vivere in uno slum è uno step accettabile, il primo gradino della scala sociale, l’accesso alla città, in attesa di trovare un posto migliore, magari di studiare, farsi una posizione e quindi poi muoversi in un quartiere appena meglio.
La baracca: non più capanna e non ancora appartamento
La diversità degli slum di manifesta nelle risposte diverse alle necessità (dormire, mangiare, guadagnare, etc.) in una società in trasformazione. Il risultato è spesso di una contaminazione tra ancestrali tradizioni locali e modernità che passa attraverso l’uso generalizzato di beni di consumo e di tecnologie d’importazione (il cellulare primo fra tutti). Il legame con il mondo rurale di origine, è molto forte, e solo a livello di relazioni sociali, ma persiste nell’organizzazione spaziale città degli slum. La dimensione del villaggio e della casa rurale non scompare del tutto come riferimento culturale, comunitario e spaziale. Questo legame a livello di organizzazione spaziale e ambientale non è così evidente a prima vista perchè l’esportazione e l’adattamento della casa rurale nel contesto denso della città trasfigura i connotati e le qualità del modello originario.
La casa nello slum, come quella del villaggio, è fatta di materiali poveri reperibili sul luogo terra prima di tutto; nel caso della città sono soprattutto materiali di scarto come terra, cartone, lamiera, stoffa, pezzi di plastica, e quant’altro di recuperabile si trova nelle discariche. Non è certamente dotata di tutti i comfort di una casa “adeguata”, come d’altronde non lo è una casa rurale. Nello slum ogni nucleo familiare ha generalmente una sola stanza che serve un pò a tutto: l’ambiente è flessibile e c’è spesso commistione tra esseri umani e animali, la vista si svolge soprattutto all’esterno. Dove si trova il focolare. In campagna, il focolare trova spesso riparo in un altra capanna, per riparasi dalle piogge.
Il problema di questo modello abitativo “rurale” è che nella sua trasportazione e adattamento all’ambiente urbano si densifica, aumentando il carico antropico che diventa insostenibile per la terra e l’ambiente.
Che si è fatto per gli slum?
Con l’indipendenza il progetto era quello di eliminare tutti gli slum e di sostituirli con case adeguate, immaginate nella forma di palazzine moderne in cemento. Il governo aveva piani ambiziosi: assicurare ad ogni famiglia un’ unità abitativa accettabile che corrispondeva a due stanze, una cucina separata e un bagno. Le strutture che non corrispondevano a questi standard erano da demolire, con il risultato che molti abitanti furono espulsi dal centro urbano per andare ad ingrossare le periferie informali
La Banca Mondiale aveva cominciato a promuovere i primi progetti di site and services e di upgrading. Alla base c’era l’applicazione del principio del self-help, ovvero “aiutare i poveri ad aiutare se stessi”. Site and service significa che agli abitanti viene concesso un appezzamento attrezzato con I servizi minimi: allacciamento alle fognature, all’acqua corrente e all’eletricità, mentre è lasciato a ciscun individuo la responsabilità di costruirsi l’abitazione. Questa concessione non era gratuita, ma prevedeva un cifra da pagare a rate per andare a “recuperare i costi” e rendere il processo replicabile.
Lo slum upgrading è invece quel processo di recupero degli slum mediante la graduale sostituzione delle baracche con insediamenti umani più vivibili, dove i residenti abbiano possesso sicuro della terra, infrastrutture e servizi primari, e abitazioni adeguate. Si andava affermando una nuova ortodossia: dall’edilizia pubblica popolare ( e sussidiata) si passava ad un edilizia popolare nelle mani del mercato, sollevando l’impegno ‘storico’ degli stati a provvedere per la popolazione più disagiata. Si preparava così la strada al ritiro massiccio del governo statale e locale nella fornitura di servizi che sarebbe avvenuta negli anni seguenti.
Il governo kenyota, nell’impossibilità di provvedere alle abitazioni necessarie e diventando il problema dei quartieri informali sempre più pressante, tenta strade alternative. Sulla scia del nuovo approccio promosso dalla Banca Mondiale, passa anch’esso all’ approccio più ‘pragmatico’ dell’upgrading e del site&service. Il primo progetto di questa generazione fu quello di Dandora che si prefiggeva di creare 6,000 lotti dotati di infrastrutture destinati a famiglie a basso reddito. Dati i costi, queste unità, andarono però a beneficiare le classi medie e alte e non i poveri per cui erano state inizialmente costruite.
A metà anni ’80 avviene un altro cambiamento, nell’approccio ai problemi degli insediamenti da parte della Banca Mondiale e di conseguenza alle altre agenzie e giù sino ai governi. Il mancato recupero dei costi dei progetti precedenti di upgrading (ritenuti quindi degli insuccessi prima di tutto finanziari), i programmi di aggiustamento strutturale - che spingevano alla privatizzazione dei servizi pubblici, delle risorse naturali, decentramento amministrativo e deregolazione del mercato (spesso in cambio della rinegoziazione del debito che i paesi via via accumulavano nei confronti dell’IMF) – e il ruolo strategico riconosciuto alla città come motore della crescita economica, fanno si che si individua un modello di intervento orientato ad un impegno minore dello stato verso il fare, e un impegno maggiore verso il far fare, ovvero verso le enabling strategies che significa “mobilitare risorse e capacità imprenditoriali per incrementare la produzione di abitazioni e infrastrutture”.
Negli anni ’90, di nuovo, il governo Keniota, sulla nuovo sulla scia delle raccomandazioni della Banca Mondiale, cambia approccio: anzichè assumersi il ruolo di fornitore principale di alloggi, crea incentivi che possano facilitare il recupero dei quartieri informali da parte sia di privati che di ONG. Il Mathare 4A Development a Nairobi, che è anch’esso un progetto di slum upgrading, rappresenta l’applicazione di questo approccio. Seppur una qualche infrastruttura fu fornita e qualche miglioramento ottenuto, che questo metodo di intervento fu fallimentare; soprattutto perchè non compresero nè i bisogni primari degli abitanti, né il fatto che la maggior parte degli abitanti erano affittuari e non proprietari delle baracche esistenti.
Le cose da allora non sono cambiate molto, ci sono certamente più progetti, ma gli slum continuano ad esistere e la maggior parte dei progetti, seppur riuscendo a migliorae le condizioni di un certo numero di abitanti, rimangono una goccia in mezzo al mare.
Sia i programmi del passato che anche i più recenti progetti, pur nella diversità delle soluzioni proposte, sono simili nella rappresentazione del problema. Il modo in cui il problema è posto riflette una lettura univoca della realtà, che assume la città come un fenomeno sociale ed economico sostanzialmente omogeneo, e paragonabile a quello dei paesi occidentali. Il modello implicito di riferimento, perchè è sulla base del distanziamento della realtà dal modello, che un fenomeno viene considerato un problema, è una città in cui tutti si muovono con lo stesso tipo di razionalità, in cui le regole del mercato valgono per tutti e sono condivise, e che vi sia uno stato in grado di applicare le norme del diritto moderno, e che le esigenze e le aspirazioni individuali non possono che passare attraverso un’abitazione adeguata che consiste in una struttura di cemento (o simile) dotata di acqua corrente (possibilmente potabile), bagno collegato alle fognature, ed elettricità
Perchè, nell’era dell’abbondanza esistono ancora gli slum?
Ad oggi i dati quantitative sugli slum di Nairobi rimangono incerti, non solo perchè la popolazione negli slum cambia velocemente (una percentuale di abitatante è certamente transitoria) ma anche perchè la stessa quantificazione ha una sua “ragione politica” a seconda degli interessi dei diversi attori. Rivelare numeri alti permette di presentare il problema dello slum come “drammatico”, un caso eccezionale, degno di attenzione e quindi di fondi. Viceversa, ridurre la quantità al ribasso permette di considerare il problema sia “trascurabile” che affrontabile, non impossibile da risolvere.
Quindi da una parte abbiamo i numeri che le varie agenzie di sviluppo e ONG fanno circolare, strumentali per il reperimento dei fondi e il finanziamento dei progetti, che sono tantissimi, soprattutto nello slum di kibera, dove pare che ci sia una associazione attiva per ogni 50 abitanti. Dall’altra abbiamo i numeri presentati dal governo, che hanno convenienza a ridurre il problema.
Certamente l’aspetto “quantitativo” ha il suo peso, ma credo che occorra riflettere sull’aspetto qualitativo del problema, e ancora prima ragionare non tanto nè solo su quale sia il problema, ma su quail basi definiamo che un fenomeno sociale un problema.
I dati del Nairobi Urban Sector Profile (Un-Habitat, 2006) riferiscono che a Nairobi oltre il 60% della popolazione vive negli slum, quindi a fronte di una popolazione urbana stimata intorno ai 3 milioni di abitanti, oltre il milione e mezzo vive in uno dei tanti quartieri informali che costellano la città e ne riempono gli interstizi. Secondo lo stesso documento è inoltre previsto che la popolazione che vivrà negli slum raddoppierà nei prossimi 15 anni. Pensare che nei prossimi 15 anni non saremo capaci di trovare una risposta a questo problema è assai deprimente!
Quello che è preoccupante invece, dal mio punto di vista, è rappresentare il dilagare degli slum come se fosse un problema “naturale”, una calamità, qualcosa al di fuori del sistema, sul quale non possiamo interagire. Non solo e tanto perchè ci rende inermi, ma soprattutto perchè riflette uno schema mentale e una posizione ideologica per cui i fenomeni non sono considerati i prodotti di quello stessa sistema socio-politico ed economico nel quale viviamo. Come possiamo essere arrendevoli e semplicemente anche solo pensare che il numero di persone che vivranno in queste condizioni duplicherà nel giro di 15 anni. Solo i barbari accetterebbero questo sistema!
Certamente il problema, non è semplice, soprattutto se questo assume valori quantitativi come quelli di Nairobi, e se calato all’interno di una realtà di paese non ricco, e di uno stato che denuncia carenze di risorse.
Quello che mi chiedo ogni volta che leggo un articolo, un libro su questo argomento e ogni volta che entro in uno di questi quartieri è: perchè oggi nell’età dell’abbondanza, della democrazia, dei diritti, della tecnologia, ci sono ancora persone che vivono nell’indigenza e sono soggette a uno stile di vita che da un punto di vista della lunghezza della vita e della salute, certamente è di una categoria infinitamente inferiore.
Ma credo che, per quanto banale possa essere, il problema principale sia quello di una volontà politica capace di fare accettare al popolo Keniota (e a tutte le agenzie e associazioni che intendono adoperarsi per dare una mano) che occorre individuare un modo per redistribuire più equamente le ricchezze e i benefici, che non si può accettare di far vivere migliaia e migliaia di persone senza un minimo di servizi, quando dall’altra parte si investono risorse per costruire una “world class city” fatta di superstrade, aeroporti, centri commerciali ricchissimi e via di seguito. Perchè è questo che sta succedendo a Nairobi. Nelle prossime pagine del mio diario vi racconterò di alcune opere in corso, dei progetti del governo, ma anche delle micro-imprese che si stanno portando avanti in tanti slum per migliorare le condizioni degli abitanti.