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Vtp non batte in ritirata, un nuovo progetto Numeri da record. E una crescita che non si ferma. Dal 1997, anno di fondazione della società Vtp, popuplink http://www.vtp.it/azienda/ Venezia terminal passeggeri

Una nuova Stazione Marittima a Dogaletto, in cassa di colmata A. Partnership a Ravenna, Cagliari, Catania e Brindisi. E 26 milioni da investire nel prossimo triennio. Altro che ritirata sotto la protesta anti grandi navi. Venezia Terminal Passeggeri, la società delle crociere, raddoppia e rilancia. «Abbiamo pronto uno studio di fattibilità per una nuova Stazione Marittima nel Bacino Sant’Angelo, tra i canali Avesa e Dogaletto», annuncia il presidente di Vtp, l’avvocato mestrino Sandro Trevisanato, «Un luogo ideale, perché ben servito dai collegamenti stradali e vicino al canale dei Petroli, senza rischi ambientali». Una nuova città delle crociere che potrebbe essere pronta fra tre anni. «Aggiuntiva» e non certo alternativa alla Marittima. Che, sottolinea Trevisanato, «è per noi irrinunciabile». Dunque, in laguna centrale è pronto a partire un nuovo grande progetto. Banchine lunghe 400 metri e larghe 20, per ospitare le navi di ultimissima generazione (lunghe fino a 360 metri), troppo grandi anche per i sostenitori del traffico davanti a San Marco. E poi una Stazione marittima di due piani, 10 mila metri quadrati con un parcheggio da 5 ettari. Costo previsto, 100 milioni di euro, di cui almeno 60 per scavere canali e darsena. Un’ipotesi avversata dagli ambientalisti.

Ma, spiega Trevisanato, «quel sito è stato valutato positivamente dalla Regione, che lo ha inserito nel nuovo Piano territoriale, dall’Autorità portuale e dal Magistrato alle Acque. Per noi è un luogo ideale». Non se ne parla, insomma, di estromettere le grandi navi da Venezia, come richiesto da più parti e previsto dal decreto del governo. «Siamo anche stufi di ripeterlo», scandisce Trevisanato, «il porto di Venezia è il più sicuro del mondo. Non ci sono scogli, le misure di sicurezza sono altissime. Davanti a San Marco le navi passano trainate da due rimorchiatori con a bordo un nostro pilota, viaggiano all’interno di un binario, non potrebbero deviare dalla loro rotta per via delle sponde sabbiose». E gli incidenti avvenuti nelle ultime settimane a causa del vento e dei tornado? «Non sono un ingegnere, ma dubito che una nave di quelle dimensioni si possa spostare», dice il presidente. Si rilancia, dunque. In attesa di vedere che fine farà il progetto per il nuovo canale Contorta-Sant’Angelo, che il Porto vorrebbe scavato e allargato per farci passare le grandi navi. L’idea della Vtp è che in realtà le navi stanno bene dove sono. «Siamo passati in pochi anni dal sesto al primo home port del Mediterraneo», spiega l’avvocato, «e la Marittima deve essere raggiungibile. In prospettiva si può pensare a un senso unico, per ridurre il numero dei passaggi». Ma l’attività economica che sta dietro alle crociere, insiste Trevisanato, ha bisogno della Marittima. Poco importa se per arrivarci si deve attraversare il Bacino a passare davanti a San Marco. «Le navi moderne», dice, «inquinano meno. Applicando il decreto faremmo entrare in laguna solo le vecchie carrette, anche se più piccole. E’ ridicolo». Il presidente, da 11 anni al vertice della società, illustra i brillanti risultati raggiunti. «Negli ultimi mesi», dice, «abbiamo vinto le gare per la gestione dei porti mediterranei di Ravenna, Brindisi, Cagliari e Catania. E adesso puntiamo a Istanbul. Grandi navi ancora a San Marco? «E’ un must. Noi vogliamo aiutare la città, abbiamo concluso con il Comune un accordo per un contributo volontario. Ma le navi devono restare».

Il Rinascimento del Lido tramonta ad Est (Capital). Scelgono l’ironia i comitati dell’isola per commentare la clamorosa notizia, pubblicata dalla Nuova e ieri confermata dagli interessati, della rottura del contratto tra Est Capital (attraverso la sua società Real Venice 2, i cui azionisti sono le imprese del Mose) e il Comune. Lettera dei privati, risposta del Comune che ha chiesto l’intervento del giudice civile. Le imprese contestano due inadempienze a Ca’ Farsetti (il progetto delle bonifiche e il permesso di costruire il nuovo centro dei servizi sanitari) e vogliono risolvere il contratto e rientrare dell’anticipo già versato di 31 milioni di euro. «Non firmeremo il rogito», conferma il presidente della Mantovani Piergiorgio Baita. Il Comune replica che la responsabilità è dei privati. Adesso il giudice, che già ha respinto la prima richiesta delle imprese, si dovrà pronunciare il 4 luglio.

Rottura e vie legali, dopo un idillio durato qualche anno. Ma soprattutto il rischio concreto che il grande progetto di rilancio del Lido finisca adesso nel nulla e che il bilancio del Comune – che ha già impegnato i 61 milioni della vendita dell’ospedale al Mare – possa andare in default. I comitati si sono riuniti in assemblea dopo aver saputo della notizia, e hanno deciso di passare all’attacco. «A pagare il conto stavolta potrebbe non essere soltanto l’ambiente o il territorio», si legge in un comunicato di AltroLido, «ma anche il bilancio e dunque tutti i cittadini veneziani».

«Est Capital ha le sue ragioni», continuano ironici i comitati, «perché l’origine dei guai di oggi sta nel contratto preliminare di vendita sottoscritto fra Est Capital e il commissario straordinario Vincenzo Spaziante il 30 dicembre 2010». L’abbattimento del Monoblocco, che ospita i servizi sanitari dell’isola, è stato definito «condizione essenziale». Ma è irrealizzabile se il corrispettivi a carico di Est Capital è di 9 milioni di euro e il suo costo è invece di 18. Quali i motivi dell’improvvisa retromarcia dei privati, decisi oggi più che mai ad abbandonare la partita? L’evoluzione negativa del mercato immobiliare, prima di tutto. Anche se, fanno notari i comitati, nelle clausole del contratto è già previsto un risarcimento danni fino a 3 milioni e mezzo di euro, oltre al rimborso delle spese. «Forse», ipotizzano, «Est Capital punta a una nuova contrattazione più adeguata ai suoi interessi. Non sarebbe un fatto nuovo, è già successo due volte. Perché all’inizio il prezzo era di 81,5 milioni di euro, e ancora non c’era la possibilità di realizzare a San Nicolò una darsena da mille posti barca su aree demaniali. Che fare adesso? secondo i comitati è necessario riscrivere il progetto di rilancio del Lido, in trasparenza e ascoltando la città, liberandosi delle «mani forti». «Gli obiettivi su cui si basava l’intera operazione», ricorda il portavoce Salvatore Lihard, «sono tutti falliti: la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, ma anche il miglioramento dei servizi sanitari e la riquailiicazione dell’isola».

Dunque, addio progetto. Un’ipotesi che però al Comune non piace. Se il giudice civile dovesse dar ragione a Est Capital il 4 luglio, i privati potrebbero pretendere la restituzione delle somme versate. E il bilancio comunale andrebbe in rosso, con un rischio concreto di comnmissariamento. Ipotesi che il sindaco Giorgio Orsoni esclude. «Noi siamo in regola, abbiamo rispettato il contratto», dice. La partita continua. E stavolta, vista la sede giudiziaria dove si giocherà, il rischio che salti tutto è molto concreto.

Postilla

Il progetto bipartisan di sfruttamento immobiliare del Lido di Venezia, nato con l’avallo culturale, politico, amministrativo e patrimoniale del comune, dello Stato e della regione incontra difficoltà interne, oltre a quelle costituita dalla vigorosa opposizione dei comitati del coordinamento Per un altro Lido. Il buon senso non ha impedito il nascere e il consolidarsi della perversa intenzione di svillettare e commercializzare un forte ottocentesco, di progettare una gigantesco porticciolo turistico, di distruggere un ospedale eccellente sotto il profilo sanitario e quello architettonico, di distruggere aree verdi e spazi pubblici, calpestando leggi, statuti e regole d’ogni ordine e grado. L’argomento è ampiamente trattato in questa stessa cartella di eddyburg (vedi tra l’altro uno scandalo bipartisan,e nel sito unaltrolido.com.

Il progetto del Fontego dei Tedeschi "spacca" anche l'Iuav, l'Università di Architettura di Venezia,che ha organizzato l'affollatissimo incontro dedicato alle relazioni pericolose tra antico e nuovo che ha avuto al centro l'intervento di Rem Koolhaas, il famoso architetto olandese che ha progettato per il gruppo Benetton la trasformazione dell'edificio di origine cinquecentesca - ristrutturato negli anni Trenta dalle Poste - in un centro commerciale. L'incontro, organizzato dal professor Giancarlo Carnevale, già preside della Facoltà di Architettura, è stato infatti disertato, e non casualmente, dal rettore dell'Iuav Amerigo Restucci, in polemica con la decisione di ospitarlo, "legittimando" così un progetto a cui si dichiara fortemente contrario. «Ho trovato del tutto inopportuno - spiega il professor Restucci - un dibattito "schierato" sul progetto di Koolhaas da parte dell'Iuav su scelte urbanistiche e architettoniche che competono alla città di Venezia e ai suoi cittadini e che riguardano la trasformazione in centro commerciale di un edificio dell'importanza storico e architettonico come il Fontego dei Tedeschi. Un progetto in cui si sono già espressi con chiarezza in senso negativo gli organi di tutela, a cominciare dal Comitato per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Ministero dei Beni Culturali, ma anche studiosi come Salvatore Settis e,per restare all'Iuav, un autorevole docente di Restauro come Mario Piana. Non si tratta, come ha fatto Koolhaas a Palazzo Badoer l'altro giorno, di fare un elogio dei centri commerciali nella società odierna, che siano la Galene Lafayette a Parigi o La Rinascente a Milano, per giustificare le sue scelte progettuali. Qui siamo a Venezia, parliamo di un edificio di straordinaria importanza per la città come il Fontego, sul quale, come ha rilevato il Comitato per i Beni Architettonici, non è stata compiuta alcuna seria analisi storica e archeologica prima di stilare il progetto e che si vuole realizzare a tutti i costi per la forza del capitale, in questo caso quello del gruppo Benetton, con radicali trasformazioni, dalle scale mobili inserite all'interno, alla terrazza panoramica ottenuta demolendo il tetto, a una enorme struttura galleggiante di fronte ad esso in un punto critico e delicatissimo della città come quello adiacente al ponte di Rialto, creando tra l'altro un pericoloso precedente per altri interventi di questo tipo in città, a cui sarà poi arduo dire di no. Per questo il dibattito dell'altro giorno con Koolhaas, rischia di far apparire l'Iuav come un "fiancheggiatore" improprio di un progetto di trasformazione di un edificio storico che nessuno vuole lasciare abbandonato o in disuso, ma le cui scelte competono alla Soprintendenza, al Comune, ai cittadini di Venezia». Prende le distanze dall'iniziativa anche il professor Giuseppe Cristinelli, fino a pochi anni fa ordinario di Restauro Architettonico all' Iuav e che tra pochi giorni, sarà uno dei protagonisti dell'incontro pubblico che Italia Nostra - il 22 maggio - organizzerà all' Ateneo Veneto, dal titolo provocatorio "Venezia patrimonio dell'umanità", che avrà al centro proprio il progetto "targato" Benetton per il Fontego dei Tedeschi e la vendita da parte del Comune di Ca' Corner della Regina alla Fondazione Prada, due casi su cui l'associazione di tutela ha suscitato una campagna nazionale, rivolgendosi anche alla magistratura. «Il dibattito con Koolhaas - spiega il professor Cristinelli - è la plastica dimostrazione che ormai l'Iuav non si occupa più di restauro e la contrapposizione tra antico e nuovo è ormai un fatto anacronistico, visto che lo sollevava già Bruno Zevi nel 1965, sostenendo la prevalenza dei "nuovisti". Nel caso del Fontego, Koolhaas non dà di fatto alcuna importanza alle strutture cinquecentesche che ancora esistono, sulla base degli interventi compiuti successivamente dalle Poste negli anni Trenta, ma se invece avesse pensato di recuperarne la spazialità originaria e i percorsi che queste trascurate strutture determinavano, non avrebbe certamente alterato violentemente il senso dell'insieme con soluzioni come le scale mobili, la terrazza, la super-altana, la trasformazione totale della copertura, la demolizione dei parapetti e così via». La trasformazione del Fontego dei Tedeschi secondo il progetto di Rem Koolhaas, insomma, resta in laguna materia incandescente, che divide la città e i suoi protagonisti e dietro al quale c'è anche quello sull' idea di Venezia e sul suo tormentato rapporto con la modernità.

NOTA

Su eddyburg trovate quinumerosi articoli e documenti sulla vicenda del Fontego dei tedeschi e, più in generale sulla vera e falsa “modernità” di Venezia anche qui. Sull’”idea di città” dei governanti che si sono succeduti dagli anni Novanta a oggi vedi anche i piccoli saggi della Collana Occhi aperti su Venezia, in particolare Benettown e Imbonimenti di Paola Somma, Tessera city di Stefano Boato, Lo scandalo del Lido e La Laguna di Venezia, di Edoardo Salzano. Alla legittimazione culturale dell’intervento devastatore Koolhaas-Benetton al Fontego dei Tedeschi, dalla quale il Rettore dell’Iuav prende le distanze, avevano partecipato, tra gli altri, Giancarlo Carnevale, Bernardo Secchi, Tonci Foscari, esprimendosi ovviamente con diverse modulazioni, (ma tutte suonate sul piffero dell’ideologia dominante della “modernità”).

Alla domanda, retorica, se «sia lecito stuprare Venezia lasciando che venga penetrata da immense navi Disneyland» ogni persona di buon senso non può rispondere altro che no. Lo stesso buon senso che deve guidarci nel trovare una soluzione che, retorica per retorica, non butti il bambino con l’acqua sporca. Il bambino – l’eccellenza crocieristica veneziana – del quale vale la pena preoccuparsi non è l’aggiunta di turisti, molto modesta anche se molto qualificata, che le crociere portano a Venezia, ma il ruolo speciale di porto capolinea che Venezia oggi svolge. Nel porto capolinea la nave viene sottopost a regolari manutenzioni e rifornita di tutto per l’intero viaggio. Questo attiva un’economia di fornitura del valore di svariate centinaia di milioni di euro l’anno che coinvolge imprese sparse in tutto l’hinterland veneziano ed oltre.

È questa l’economia di fornitura che verrebbe cancellata qualora il mondo delle crociere fosse costretto a spostare da Venezia il capolinea del Mediterraneo orientale, ricollocandolo in uno degli altri capisaldi storici, Atene o Istanbul. Oggi l’accoppiata aeroporto internazionale-Stazione Marittima (gioiello di efficienza ottenuto dalla trasformazione del vecchio porto commerciale) Per fortuna per raggiungere la Stazione Marittima non è necessario passare davanti San Marco. Fatto che non mi esime dal correggere dati non veri: le navi passeggeri non attraccano già più in riva dei Sette Martiri; l’inquinamento da fumi è già stato reso insignificante in navigazione fin dalla bocca di Lido e sarà reso nullo durante la sosta con l’alimentazione energetica da terra; le onde provocate dalle grandi navi sono comparabili ai movimenti di marea, al contrario delle sberle rifilate giorno e notte da motoscafi, vaporetti, ecc.; lo Schettino di turno avrebbe difficoltà a far danni perché a Venezia la nave è controllata anche da due piloti e da due rimorchiatori; il canale davanti San Marco è una rotaia sottomarina larga solo 80 m. che impedisce qualsiasi avvicinamento alle rive.

Tutti fatti che ci rendono tranquilli per le navi più piccole, quelle di stazza lorda inferiore alle 40.000 tonn, le sole autorizzate dal decreto Clini-Passera a passare davanti San Marco. Le navi più grandi, quelle che oggi ci turbano, potranno raggiungere la Stazione Marittima solo entrando dalla bocca di Malamocco. Qui, per non mettere in crisi il porto commerciale — il secondo bambino da non buttare con l’acqua sporca — che, grazie al cielo, ha ripreso suo ruolo di base portuale per la logistica del Nord Est, occorre approfondire con un intervento di ricostruzione ambientale un tratto di canale, il Contorta-Sant'Angelo, scelto perché, trovandosi nella zona di partiacque lagunare, ha effetti nulli sullo scambio d'acqua laguna-mare.

Paolo Costa - Presidente dell’Autorità Portuale di Venezia

Che «per raggiungere la Stazione Marittima non è necessario passare davanti San Marco» ci renderebbe più sereni se non si dovesse precisare che questo «sarebbe» possibile solo scavando quel nuovo canale contestato. Fino ad allora, a dispetto delle rassicurazioni, continueranno a passare davanti a San Marco anche bestioni come la Divina che supera di 97.000 tonnellate il tetto massimo di 40.000 fissato dal decreto Clini-Passera. Capiamo tutte le ragioni del presidente del porto Paolo Costa, ma la pensiamo come il sindaco di Venezia del 2004 che dopo l'incidente della «Mona Lisa» incagliatasi nel bacino di San Marco disse: «È la goccia che fa traboccare il vaso. Va impedito il passaggio di queste navi da crociera nel tratto d'acqua la tra piazza San Marco e l'isola di San Giorgio». Sono passati da allora, inutilmente, otto anni. Quel sindaco, che plaudiamo, era Paolo Costa.

Gian Antonio Stella

qui l'articolo di G.A. Stella a cui fa riferimento la lettera di Costa

Èlecito stuprare la fragile bellezza di Venezia lasciando che venga penetrata da immense navi Disneyland quattro volte più grandi del Palazzo Ducale?

È ora di fissare delle regole, contro questa violenza. Tanto più dopo aver visto l'arrivo, ieri, della gigantesca «Divina». Un lussuoso grand hotel viaggiante lungo 333 metri: il doppio di piazza San Marco.

Conosciamo l'obiezione: più le navi sono grandi, più passeggeri portano. E dunque più turisti fanno shopping in giro per la città lasciando giù soldi. Ossigeno, in questi anni di crisi. Vero. Nel 2009, spiega nel libro E le chiamano naviSilvio Testa, «i passeggeri che si sono imbarcati a Venezia per le crociere sono stati 1.420.490 e nel 2010 1.598.616 con un incremento del 12%». Saliti l'anno scorso a 1.786.416, con un altro 10,5% di aumento.

Fatti i conti, sono sfilate avanti e indietro di fronte a San Marco 654 grandi navi da crociera, cui vanno aggiunti 341 traghetti di collegamento con la Grecia per un totale di 995 bestioni. Pari a quasi sei passaggi al giorno nella media annuale, con impennate in certi weekend dalla primavera all'autunno da brivido.

Prendiamo il Gazzettinodel 24 luglio 2011. Titolo: «Venezia, lo sbarco dei 35 mila». Occhiello: «Invasione. In un solo giorno da undici navi scesi tanti crocieristi come mezza città». Una sintesi addirittura meno terrificante della realtà: la serenissima città (il «pesce» senza Murano, il Lido, Burano e Mestre) è ormai scesa in realtà sotto i 59 mila abitanti. E l'orda allegra, chiassosa e accalcata di turisti che sbarcano dagli enormi «vacanzifici» galleggianti non si sparpaglia da Dorsoduro a Sant'Elena. Vanno tutti ad allagare in massa le calli fra Rialto e San Marco.

Portano soldi? Sicuro. Come racconta Testa, il presidente della Venezia Terminal Passeggeri Sandro Trevisanato sostiene «che le navi da crociera arricchiscono tutta la città, che il porto garantisce un indotto diretto (230 milioni di euro spesi in città dai passeggeri) e indiretto (il complesso delle attività economiche innescate dal crocierismo) di quasi 500 milioni di euro l'anno».

Denaro benedetto, con l'aria che tira. Va da sé che appena il consigliere comunale Beppe Caccia ha proposto di imporre una «city tax» sottolineando mesi fa che il passaggio di navi in un certo giorno di gran traffico aveva prodotto «l'equivalente in emissioni di 20 mila auto nel canale della Giudecca», il presidente di Vtp è scattato come una molla: «Non sono contrario in via di principio a un contributo anche per i passeggeri delle navi, ma il Comune deve agire con prudenza o invece di mungere la vacca, la ammazza».

Il fatto è che questa vacca spropositata, mentre offre qualche consolazione all'Italia in crisi che certo non ci sogniamo di mettere a rischio, sta diventando sempre più invadente in un ambiente fragile come la laguna dove l'acqua ha una profondità media di un metro e 10 centimetri. Al punto che, siccome certi giorni gli immensi grand hotel galleggianti non riescono a starci tutti sulle banchine della «Marittima» alla fine delle Zattere, qualcuna è costretta ad attraccare in Riva dei Sette Martiri, «a un tiro di sasso dalle case, i motori accesi giorno e notte: vibrazione, fumi, un rumore incessante, inquinamento elettromagnetico che dirada sempre in funzione, televisioni oscurate, una delle passeggiate più belle del mondo chiusa da immense muraglie di ferro».

Di più: il business della crociera è talmente cresciuto negli anni che anche dopo il trasloco previsto nel 2013 dei traghetti in un nuovo terminal a Fusina, gli operatori chiedono ancora banchine e banchine e banchine. In un accumulo di progetti che prevede tra l'altro lo scavo di un nuovo canale, drittissimo, larghissimo, profondissimo, capace di accogliere quei bestioni sempre più grandi, più grandi, più grandi. A costo di creare un altro canalone che porterebbe dentro ancora più acqua dal mare.

Di più ancora: se anche i numeri restassero quelli di oggi (magari!) nei prossimi venti anni ci sarebbero nel bacino di San Marco 26.160 passaggi avanti e indietro di navi da crociera sempre più smisurate. Mettiamo anche che per 26.160 volte non ci sia mai un Francesco Schettino che voglia farsi bello sfiorando la riva più celebre del pianeta fino a schiantarsi. Mettiamo che per 26.160 volte non ci sia un errore di manovra come quello capitato alla nave passeggeri tedesca Mona Lisa (200 metri di lunghezza) che il 12 maggio 2004 si incagliò a pochi metri dalla Riva degli Schiavoni. Mettiamo che per 26.160 volte non ci sia un'avaria ai motori come quella che il 23 giugno dell'anno scorso fece finire la nave granaria turca Haci Emine Ana contro i cantieri del Mose alla bocca di Malamocco. Mettiamo insomma che vada tutto sempre bene: ne vale la pena?

Per niente, risponde il comitato «No grandi navi» che contesta il peso schiacciante di un certo tipo di turismo sulla città del Canaletto e di Vivaldi. Per niente, concordano tutti gli ambientalisti. Per niente, accusa il Fai che per bocca di Giulia Maria Mozzoni Crespi ha pronunciato ieri parole durissime contro «un tale crescendo di devastazione, che sfida in modo protervo le sorti di Venezia e della sua laguna, quando si potrebbe mantenere un crocierismo che rispettasse livelli di sostenibilità con navi non inquinanti, dalle stazze, pescaggi e dislocamenti compatibili con la delicatezza dell'ambiente lagunare».

Parole di fuoco, parole d'oro: davvero «tutti» hanno il «diritto» di alluvionare Venezia? Senza alcun limite? Anche se sono troppi? Anche se arrivano su navi esageratamente grandi? La città che da sempre tocca il cuore di ogni ospite («Scivolammo dolcemente dentro il Canal Grande e sotto i morbidi raggi della luna la Venezia della poesia e dei tanti racconti riapparve e ne fummo ammaliati...», scrisse Goethe) è fragile e delicata come un merletto. Che senso ha entrarci su terrificanti bestioni lunghi il doppio delle Procuratie Vecchie e più alti del Leone che svetta sulla colonna che domina il molo? Che senso ha per i visitatori guardare dai ponti più alti di quei bastimenti una città nata per andare a piedi o scivolando sull'acqua?

Nessuno al mondo si sogna di pretendere che centomila persone abbiano il «diritto», neppure pagando, di sedersi insieme per un concerto alla Scala: non ci stanno, punto. Né che un milione di tifosi abbiano il «diritto», neppure pagando, di assistere insieme dentro a uno stadio alla finale dei mondiali di calcio: non ci stanno, punto. Allora perché Venezia dovrebbe rassegnarsi a essere invasa, così, a capriccio, senza un tetto invalicabile, da milioni di turisti?

Quanto al terrore che «scappino da altre parti», ma per favore! Può andarsene in Cina un calzaturificio, andarsene in Romania una vetreria industriale, andarsene in India un'impresa metalmeccanica. Ma c'è una sola Venezia, al mondo. Una. E l'abbiamo noi. Anche se, forse, immeritatamente.

«Completamente genuflessi al commercio, basta che arrivi un obolo di 30 denari e tutto diventa lecito». Parole pesanti, come nel suo stile. Dopo aver scatenato un polemica sui giornali nazionali tre mesi fa, l'ex direttore della Normale di Pisa e archeologo di fama internazionale Salvatore Settis, ieri alla Scuola grande di San Rocco per la presentazione del volume «John Ruskin e Venezia», ha rincarato la dose, prendendo di mira sia la questione del Fontego dei tedeschi (e del progetto firmato da Koolhaas per Edizioni Property) che le grandi navi in Bacino San Marco. «Le grandi navi? Quando è stato dato l'annuncio che sarebbe stata presa una posizione in merito da parte del Ministero tutti si aspettavano una legge che si muovesse in direzione opposta - dice Settis - che salvaguardasse cioè tutte le coste italiane impedendo alle grandi navi di avvicinarsi e tutelando ancora più delle altre quella veneziana.

Che non avesse deroghe, insomma, ma al massimo un inasprimento delle regole a fronte di un patrimonio così importante e invece...». Una condanna ferma, la sua, che in giorni caldi come questi (è di giovedì la riapertura del dibattito con la nascita di un possibile tavolo di confronto tra le associazioni cittadine, l'autorità portuale, il ministero e le compagnie) suona come una condanna senza se e senza ma. «Questa è una città piena di transatlantici che passano senza nemmeno sapere cosa c'è davvero a Venezia - ha sottolineato - c'è una disneyficazione diffusa ed è per questo che l'impegno civile deve aumentare. Sono i cittadini però a doversi muovere per primi». Il riferimento è giuridico: una sentenza della Corte costituzionale del 1986, in cui si è stabilito che il valore culturale ed estetico di un bene non può essere subordinato agli aspetti economici. «Con queste scelte è chiaro dunque che la classe politica sta violando la Costituzione italiana e dobbiamo ricordarglielo noi per primi - continua Settis - chi fa passare le navi in Bacino San Marco, chi svende gli spazi lo sta facendo e la giustizia non vuole questo».

Quello di Settis è stato dunque un appello diretto all'impegno civile, un'invocazione a continuare il lavoro iniziato dalle associazioni che, con metodi diversi, dalla protesta pubblica alle azioni legali, si stanno opponendo alle scelte. «Si tratta del futuro dei nostri figli - dice Settis - di rispettare quello che abbiamo ricevuto in eredità dal passato e consegnarlo al futuro: non è questo il modo».

Bocciata. La ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi secondo il progetto predisposto per Benetton non si farà più, almeno nella forma concepita dall’archistar olandese Rem Koolhaas per il suo committente. Il no più pesante e definitivo - dopo i rilievi già sollevati dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e dalla Direzione regionale dei Beni Culturali - è arrivato ieri da Roma, dal Comitato tecnico-scientifico per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Ministero dei Beni Culturali presieduto dall'architetto Giovanni Carbonara, che si è riunito, pur in regime di proroga, proprio per esaminare il progetto Benetton - con la controllata Edizione Property - inviato dagli organi periferici veneziani per l’ultima parola sulla questione. È lo stesso organismo che alcuni mesi fa ha bocciato il progetto del nuovo ponte dell'Accademia. E il giudizio è stato in questo caso, appunto, quello di una bocciatura senza appello, che sarà ufficializzata tra qualche giorno dallo stesso Ministero.

Concordando con i rilievi di Direzione Regionale e Soprintendenza, la Commissione ha detto no ai cardini del progetto di Koolhaas, nato per favorire la trasformazione del cinquecentesco Fontego dei Tedeschi in un centro commerciale. No quindi alla contestatissima terrazza apribile sul tetto, demolendone una parte, con vista Rialto e no anche alle due scale mobili - colorate o no - previste nell’atrio, con demolizione di parti murarie originali. Parere contrario anche all’inserimento nella corte interna del Fontego di strutture che ne limiterebbero la spazialità e la luminosità. Pollice verso anche all’uso di materiali non consoni al complesso monumentale come plexiglass o lamiere perforate e parere negativo anche al maxipontone galleggiante in Canal Grande, di 25 metri per 5, che Benetton voleva far installare.

A questi rilievi condivisi il Comitato ha aggiunto di suo, la mancanza di un’analisi storica dell’immobile allegata al progetto, che doveva essere basilare per un’edificio della valenza storica e architettonica del Fontego dei Tedeschi, anche per tutelarne l’integrità, a cominciare dai graffiti storici sulle colonne e sui paramenti murari e per evidenziare possibili, nuovi ritrovamenti. Di tutto questo, la Benetton, che sul Fontego voleva procedere a passo di carica - vista anche l’atteggiamento collaborativo del Comune sulle trasformazioni - non si è curata e ora arriva uno stop che fa male, perché il parere negativo del Comitato, anche se formalmente consultivo, verrà certamente recepito da Soprintendenza e Direzione Regionale per trasformarlo in un no ufficiale.

Si apre, a questo punto, una fase di grande incertezza che coinvolge anche il Comune, che si era fermato ad aspettare il giudizio dei Beni Culturali sul progetto prima di portare in Consiglio comunale la convenzione sul Fontego sottoscritta con il gruppo Benetton. Se l’azienda di Ponzano vorrà riutilizzare il Fontego, di sua proprietà, dovrà evidentemente pensare a un nuovo progetto e probabilmente anche a un nuovo progettista. In ques’ipotesi presumibilmente salterebbero anche - se c’erano già - gli accordi con gruppi come La Rinascente che avrebbero dovuto gestire il futuro centro commerciale. E strascichi legali e contenziosi, a questo punto, che potrebbero coinvolgere anche Ca’ Farsetti, sembrano dietro l’angolo

Ora l'ultima parola spetterà al Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma il "giudizio" della Soprintendenza ai Beni artistici e della Direzione regionale dei Beni culturali è più di un "parere" proprio per le prescrizioni e le richieste inserite nell'atto formale inviato nella Capitale. E se comunque bisognerà attendere l'opinione del ministero sulla relazione Codello-Soragni, non c'è dubbio che il dibattito sul futuro del Fontego dei Tedeschi non potrà prescindere da quanto riportato nella nota dei due enti periferici del Ministero per i Beni culturali e di cui li Gazzettino ha dato alcune anticipazioni. E difficilmente il Comitato ministeriale arriverà a "smentire" o a modificare la posizione dei propri organi periferici. Ma la partita è ancora tutta da giocare, almeno a livello ministeriale, in attesa che Edizione Property e le parti ministeriali possano o vengano convocate a Roma per una audizione sul progetto.

Nel frattempo sulla questione Fontego è intervenuta Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale di Italia Nostra, che recentemente in un incontro con il ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi aveva sottoposto una serie di critiche, e lanciato serie preoccupazioni non solo sul progetto Fontego, ma anche su altre questioni aperte riguardanti Venezia (seconda pista a Tessera, grandi navi, sublagunare, infrastrutture, reindustrializzazione, etc). «Purtroppo - dice la numero uno di Italia Nostra - fin troppo spesso le grandi aziende si nascondono dietro le "archistar" per mettere in atto i loro programmi. E fin qui non c'è nulla di male. Diverso è quando si intende far passare progetti che stravolgono un centro storico come quello che riguarda il Fontego dei Tedeschi. Diciamolo: l'architetto Koohlaas ha sempre disprezzato i centri storici. E in questo caso la Soprintendenza e la Direzione regionale gli hanno dato una vera e propria lezione. Siamo fieri di quanto hanno fatto e di come hanno lavorato per mettere nero su bianco tutte le perplessità del caso, e che nello specifico avevamo sollevato come Italia Nostra. E stato ribadito un concetto: gli architetti devono rispettare i centri storici e non devono stravolgerli. Modernizzare un centro storico significa offrire una visione antistorica». E il sindaco che ha contestato in passato le posizioni di Italia Nostra? «Nessuna polemica. Dico solo che è necessario avere uno sguardo lungo sui progetti che riguardano una città delicata come Venezia

LE PRESCRIZIONI

No alla terrazza "apribile" sul tetto e niente scale mobili nell'atrio Un piano "sezionato" e sul quale pesa una parola durissima: "progetto sovversivo". II diktat della Soprintendenza ai Beni Artistici e Architettonici e della Direzione regionale dei Beni culturali è di quelle da "antologia". E in questo caso tante sono le prescrizioni o meglio le "bocciature".Tra raccomandazioni e precisazioni se ne possono contare ben sette. I "no" più pesanti sono questi: il più importante e senz'altro quello che riguarda la discussa "terrazza" apribile verso la quale Soprintendenza e Direzione regionale oppongono una dura critica; di seguito ci sono il "no" alla trasformazione del cortile interno con opere che limiterebbero la luminosità e lo spazio; il divieto di demolizione dei bancali del 1500; la bocciatura dell'ipotesi delle due scale mobili interne; la proibizione nell'uso di materiali "moderni" come plexiglass o lamiere perforate fino all'ultima prescizione quella di non realizzare una sorta di mega approdo nell'ansa del Canal Grande all'altezza di Rialto. A queste indicazioni di principio vanno aggiunte alcune considerazioni elaborate dagli enti periferici del ministero che hanno contestato l'assenza di un progetto complessivo per la tutela delle facciate e la mancata definizione delle opere di tutela di graffiti.

Santiago Calatrava sotto inchiesta della Corte dei Conti, con altri sei tecnici, per la costruzione del quarto ponte sul Canal Grande. L´ipotesi è un danno di 3,4 milioni per la lievitazione dei costi e dei tempi, nonché per gli errori commessi nella realizzazione dell´opera.

Non c´è pace sul ponte di Calatrava, costruito tra mille polemiche, venuto alla luce dopo un interminabile cantiere durato oltre un decennio ed oggi attraversato quotidianamente da migliaia di pendolari che arrivano in città. Le indagini della Corte dei Conti sono durate quasi come il cantiere: sette anni. Alla fine il procuratore regionale Carmine Scarano ha quantificato un danno complessivo di 3 milioni e 467 mila euro che si è tradotto in un "invito a dedurre", l´equivalente di un avviso di garanzia, spedito a New York nella casa dell´archistar spagnolo e ai sei tecnici (Roberto Scibilia, Salvatore Vento, Roberto Casarin, Franco Bonzio, Luigi Licciardo e Hermes Redi) coinvolti a vario titolo nell´inchiesta. Gli "indagati" avranno 90 giorni di tempo per rispondere con una memoria difensiva. Dopo di che la procura contabile deciderà se rinviare a giudizio Calatrava e gli altri tecnici, oppure archiviare.

A supporto dell´accusa Scarano cita quattro consulenze tecniche, una dell´Autorità di vigilanza sui contratti pubblici e le altre firmate da Paolo Leggeri, Gianfranco Roccataglia e la perizia di Massimo Majowiecki, il quale ha definito il ponte «un´opera in prognosi riservata». I pareri arrivano comunque tutti alla stessa conclusione consentendo alla procura di scrivere che «la realizzazione del ponte ha comportato un oggettivo e sconsiderato aumento dei costi rispetto agli oneri inizialmente preventivati - di fatto totalmente disattesi - e comporterà per il futuro un costante e spropositato esborso economico da parte dell´amministrazione» per la manutenzione straordinaria. E ancora: «Dalla documentazione emerge una macroscopica approssimazione e diffusa incapacità sfociata in un imbarazzante, quanto stupefacente insieme di errori. Un´incapacità tecnica e una leggerezza nell´uso del denaro pubblico».

La storia del ponte di Calatrava parte dal 1996, quando l´architetto spagnolo dona al Comune lo studio di fattibilità del ponte. Nel 1999 si passa all´incarico ufficiale per la progettazione definitiva, quindi nel 2001 arriva la gara. Nel frattempo si passa dai 3,8 milioni preventivati ai 6,7 del progetto esecutivo, fino ad arrivare agli 11,7 milioni finali nel 2008. Di fronte alla richiesta di danni della Corte dei Conti l´ex sindaco Massimo Cacciari, che ha seguito per buona parte il progetto, è polemico: «Ma dove vive la Corte dei Conti? Si sapeva fin dall´inizio che i conti non potevano reggere. Con questa normativa le opere pubbliche in Italia non si possono fare». Più cauto l´attuale sindaco Giorgio Orsoni: «I giudici useranno tutta la prudenza del caso per una vicenda così complessa. Dei tecnici bisogna comunque fidarsi, ma se sbagliano è giusto che paghino».

INCANTESIMI ALL’INCANTO

UNA SHOWROOM CHIAMATA VENEZIA

Pinault, Prada, Benetton. Così i marchi della moda si spartiscono la città

di Tomaso Montanari

Venezia 2014. Su proposta del ministro per i Beni culturali Roberto Cecchi, il governo Alfano sdemanializza Palazzo Ducale e ne passa la piena proprietà al Comune di Venezia, per compensarlo degli ulteriori, inevitabili tagli al bilancio degli enti locali. Pochi mesi dopo, il sindaco (naturalmente di centrosinistra) vende il palazzo dei dogi a un magnate arabo che desidera restare anonimo e che si impegna graziosamente a lasciarne una parte in uso ai Musei Civici Veneziani. Pochi giorni dopo, il Domenicale del Sole 24 Ore dedica una copertina all’esotico mecenate.

Fantapolitica? No, solo il prevedibile culmine simbolico del processo di privatizzazione di Venezia, teorizzato in un volume pubblicato da Marsilio nel 1995 (Privatizzare Venezia. Il progettista imprenditore) e oggi in avanzato stato di realizzazione. Come nota lucidamente Paola Somma nell’illuminante Benettown (Corte del Fontego 2011), nel 1995 il rappresentante della Benetton Group poteva ancora dichiarare che “nell’acquistare immobili a Venezia, la società ha fatto un puro e semplice calcolo di investimento, dal quale si aspetta un ritorno, un beneficio”, in un’operazione che “certamente non rientra in una logica di puro restauro, ma in una logica imprenditoriale più ampia”.

Oggi la nuova retorica del connubio pubblico-privato preferisce parlare di ‘mecenatismo’. Prada che compra Ca’ Corner dal Comune, Pinault che trasforma Punta della Dogana in una show-room della propria collezione, Benetton che acquista un teatro e lo trasforma in ristorante d’albergo (contro il parere del consiglio di quartiere), realizza un centro commerciale nella Stazione Santa Lucia e ora progetta di annullare l’identità architettonica e storica di un palazzo-simbolo come il Fondaco dei Tedeschi: ecco i nuovi mecenati di un nuovo rinascimento. Qualcosa, tuttavia, non quadra: i mecenati del Rinascimento impiegavano i loro capitali (che avvertivano di aver in qualche modo sottratto alla collettività) in grandi imprese edilizie e artistiche a vantaggio del pubblico. Gli imprenditori del 2012, al contrario, si sono decisamente emancipati dal senso di colpa e usano le loro ricchezze per privatizzare pezzi di città, cavalcando a proprio vantaggio lo sfascio delle finanze e dell’etica pubbliche. Più che di un rinascimento, si tratta di un nuovo, e stavolta davvero oscuro, medioevo che vede andare in frantumi un patrimonio comune a vantaggio di nuovi, e spietati, feudatari.

La sera di martedì grasso, per esempio, il campanile di San Marco appariva espropriato e umiliato da una gigantesca proiezione del marchio dell’Hard Rock Café, ma i media leggevano la cosa molto diversamente: “La catena mondiale di locali ormai considerata un tempio della musica regala a Venezia il finale del suo straordinario Carnevale... con uno show totalmente gratuito” (così l’Adn Kronos). Il messaggio è chiarissimo: i nuovi feudatari non solo si prendono la città, ma si aspettano anche la gratitudine dei cittadini. E tutto questo non comporta solo la progressiva privatizzazione del bene comune che è Venezia, ma determina la sistematica perdita dell’identità storica a favore di una omologazione ricreativa. La disneyficazione entusiasticamente profetizzata nel 1981 dall’architetto Marco Romano (“la trasformazione di Venezia in una Disneyland potrebbe segnare il passaggio a un modo di vivere più creativo, più allegro, più festoso”) è oggi compiuta: la città storica (abitata ormai da non più di 60.000 maltollerati veneziani) è percorsa ogni giorno da 50.000 turisti. Insomma, “un paese dei balocchi per i signori del cemento”, come scrive Raffaele Liucci in un durissimo pamphlet (che circola sulle mail in attesa di trovare un editore abbastanza coraggioso da pubblicarlo) dedicato al “politico della domenica” Massimo Cacciari.

Come accade alle stelle morte, la luce di Venezia brilla ancora solo a distanza. Lo si capisce bene in questi giorni a Roma, dove alla mostra di Tintoretto curata da Vittorio Sgarbi, si trovano (tra le altre moltissime opere che hanno lasciato la Laguna) due tele asportate dalla Scuola Grande di San Rocco. La temporanea mutilazione di uno dei complessi figurativi più importanti della città non è il risultato di un’imposizione: il modello dello scambio tra elargizioni ‘liberali’ e noleggio (o vendita) del patrimonio storico e artistico è ormai così introiettato che è stata la stessa Arciconfraternita a offrirsi di prestare i quadri in cambio di una banale pulitura.

E questo modello viene applicato a tutta Venezia, e a qualunque costo. Giovedì scorso il governo Monti ha vietato gli ‘inchini’ delle grandi navi da crociera: ovunque, ma non a Venezia, dove il business impone di far transitare questi pericolosi colossi a pochi metri dal Palazzo Ducale e dalla Biblioteca Marciana “finché le autorità marittime avranno individuato vie alternative di transito” (vie che, naturalmente, sono ben lungi dall’essere cercate). Sono parole che il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha pronunciato mentre quello dei Beni culturali, Lorenzo Ornaghi, tanto per cambiare, taceva.

Del resto, il ministro dei Beni culturali ha competenza su Venezia, e Venezia non esiste più. Ora al suo posto sorge Benettown.

CA’ FARSETTI

GIORGIO ORSONI, IL SINDACO-AVVOCATO SERVITORE DI TROPPI PADRONI

di Erminia Della Frattina


 

Venezia come l’Arlecchino servitore di due padroni, che grida correndo da una parte all’altra: comandi! me diga sior. Così tra casse comunali a secco dopo che la Legge speciale ha chiuso i rubinetti e il Casinò che non rende più gli utili di un tempo, la città è divisa tra millenarie tradizioni, vocazione turistica, arie di presidio culturale e tentazione di vendersi un pezzo alla volta al miglior offerente. Un atteggiamento schizofrenico: come si fa a riempirsi di turisti con le tasche piene senza svuotarsi dei propri abitanti? Equilibri difficili come ponti tibetani sospesi nel vuoto. Come il ruolo complicato del primo cittadino della città Giorgio Orsoni, 66 anni, docente universitario a Ca’ Foscari e grande avvocato amministrativista in uno degli studi più importanti del Nord-est, difensore dei privati, ma anche della cosa pubblica.

Il sindaco Orsoni ha ereditato lo studio di Feliciano Benvenuti, una roccaforte dove oltre a difendere gli interessi delle amministrazioni pubbliche si rivolgono a lui anche gli imprenditori e le famiglie più importanti della zona, Benetton, Coin per dirne alcuni. Insomma il sindaco si destreggia tra ricorsi pubblici e ricorsi di privati contro i comuni come quello che lui amministra. Un discreto conflitto di interessi, che esplode quando i clienti diventano acquirenti di pezzi della cosa pubblica: come quando i Benetton acquistano il Fontego dei Tedeschi dalle Poste italiane, un magnifico palazzone alla base del Ponte di Rialto, e cominciano a trattare con il Comune per la grande “terrazza a vasca” a cielo aperto sul panorama più bello del mondo, vasca da realizzare tagliando il tetto, o la scala mobile levatoia che si alza per liberare il chiostro in caso di eventi, o i 6.800 metri di negozi; tutto secondo il volere dell’archistar più cool del momento, Rem Koolhaas, giornalista e designer olandese. Benetton che versano, a parte rispetto ai 53 milioni per l’acquisto, 6 milioni alle magre casse comunali come sovratassa per il valore che l’immobile acquista con il cambio di destinazione d’uso. Soldi con i quali il Comune ha sistemato il bilancio 2011; non a caso nella convenzione Comune-Edizione Property (Benetton) la somma viene classificata “a titolo di beneficio pubblico”.

Niente male per un sindaco che ha affrontato la sua campagna elettorale con lo slogan: “Ogni giorno per Venezia” – mentre secondo gli impiegati del Comune sta molto in studio e pochissimo a Ca’ Farsetti – e che ha vinto le elezioni contro Renato Brunetta facendo leva sul fatto che quello era ministro, e quindi avrebbe avuto un doppio incarico difficile da gestire. Orsoni però di incarichi ne ha ben 19. Diciannove cariche tra le più varie ma tutte di una certa rilevanza: si va dal Rotary (cosa che ha fatto storcere il naso a molta sinistra che lo ha votato tappandosi il naso) alla presidenza della Compagnia della vela, al “pesante” ruolo di Primo procuratore di San Marco. Un ruolo di potere sopravvissuto alla caduta della Serenissima che risale al nono secolo, quando il Doge in persona – e in seguito il Maggior Consiglio – sceglieva il procuratore per curare i beni della fabbrica e l’amministrazione dei territori della basilica di San Marco. Oggi il Primo procuratore si occupa della gestione e dell’amministrazione del patrimonio e della basilica di San Marco per conto del Patriarcato di Venezia, organismo con cui Orsoni ha un solido legame, rafforzato anche dall’amicizia personale con Angelo Scola ora Arcivescovo di Milano. “È un posto delicato che richiede impegno e tempo perché interessa il simbolo più conosciuto della città” sbotta un consigliere.

Ma non è finita: l’avvocato dei vip veneti è presente anche nel cda di nove società di capitali, dove lo slalom per tenere lontani gli intrecci pubblici si fa davvero impegnativo.

Il multiforme Orsoni, che in passato è stato anche nel cda della Biennale, presidente della Save (società dell’aeroporto di Venezia), presidente dell’Ordine degli avvocati e presidente dell’Unione triveneta consigli dell’Ordine, attualmente è componente del Consiglio nazionale forense, vicepresidente della Fondazione Cini, robusto motore culturale della città, presidente della Finanziaria Coin spa e consigliere della Fondazione lirica di Venezia. Suggeriamo al sindaco di procurarsi delle controfigure.

Lido, prosciolti dal gip Lihard, Antinori, Pinarello e Salzano Non hanno diffamato Est Capital ma espresso giudizi

Progetti miliardari, polemiche e battaglie anche legali. La «cementificazione» del Lido ha trovato spazio in questi anni sui principali media nazionali ed esteri. Nel mirino i progetti affidati con i poteri del commissario straordinario alla finanziaria Est Capital. Deserto il primo bando, il secondo bando dell’orttobre 2010 era stato vinto proprio dalla società presieduta da Mossetto. Non più soltanto l’ospedale al Mare, ma anche la darsena e gli stabilimenti balneari (cordata con le società Mantovani, Condotte e Fincosit) e poi gli appartamenti nell’ex Forte di Malamocco, il restauro di Des Bains ed Excelsior. Progetti approvati ma per il momento non ancora decollati.

«E’ sicuramente diritto dei cittadini e delle associazioni ambientaliste in cui si riconoscono, esprimere valutazioni critiche, anche pesantemente critiche, in ordine all’operato della Pubblica amministrazione, specie quando coinvolgono il diritto alla salute e alla tutela dell’ambiente». Con questa motivazione il giudice per le indagini preliminari del Tribunale Giuliana Galasso ha disposto l’archiviazione della denuncia-querela per diffamazione intentata dalla società finanziaria Est Capital contro le associazioni ambientaliste del Lido e i loro portavoce Federico Antinori, Salvatore Lihard e William Pinarello e contro l’urbanista Edoardo Salzano autore del pamphlet «Lo scandalo del Lido».

La società presieduta da Gianfranco Mossetto, che ha vinto la gara per i progetti del nuovo Ospedale al Mare, si era sentita diffamata da alcune espressioni usate dai comitati e riportate dai giornali. In particolare aveva offeso gli imprenditori l’uso dell’aggettivo «anomala» riferito alla procedura utilizzata per la gara. Alla busta principale – quella per l’ex Ospedale – erano state aggiunte due buste supplementari, riguardanti le offerte per la darsena e il nuovo stabilimento balneare. Il giudice cita nell’ordinanza di archiviazione le dichiarazioni rese a verbale da Luigi Bassetto, vicedirettore generale del Comune che aveva condotto la trattativa. «Era la prima volta che accadeva», ha ammesso Bassetto. Dunque, l’utilizzo del termine «procedura anomala» non può essere considerato diffamatorio. «Una prassi che dunque ben può apparire anomala», scrive il giudice nel suo provvedimento, «e comunque in lingua italiana tra i sinonimi di anomalo non vi è illecito». Dunque, libertà di critica. E un principio che provoca soddisfazione tra i comitati.

«Non si poteva certo dire che quella procedura fosse normale», dice Lihard, «ma è singolare come il bando seguente sia stato riformulato non più come vendita dell’Ospedale ma con tre interventi. Comunque è stata riconoscita la libertà di critica. E questa la consideriamo una vittoria». L’attività del coordinamento, hanno precisato i legali della difesa, non è mai stata volta alla denigrazione della società Est Capital ma al merito dei problemi. «Continueremo con questo spirito», dice Lihard, «sperando non arrivino altre denunce. Si tratterebbe in tal caso di veri atti di intimidazione».

In merito alla vicenda del Fondaco dei Tedeschi si legge che la società Edizione del gruppo Benetton “ha dato mandato ai propri legali di valutare se iniziative, dichiarazioni e affermazioni (...) possano essere ritenute lesive della propria onorabilità e immagine, così come foriere di danni anche in relazione alle negoziazioni in corso con partners per l’iniziativa imprenditoriale che s’intende riservare al progetto”. Se la citazione del passo riportato dalla stampa è letterale – ma nessuna smentita finora è apparsa – il comunicato della proprietà si configura come un tentativo di intimidazione di chiunque osi avanzare una qualsivoglia critica al progetto, col malcelato intento, di manzoniana memoria, di “sopire, troncare ... troncare, sopire” il dibattito in corso.

È invece giusto e legittimo – oltre che, a questo punto, doveroso – esprimere opinioni e critiche su un’ipotesi progettuale che, sia pure valutabile sulla scorta delle poche informazioni e dello scarno materiale grafico reperibile in rete e sui giornali, presenta drastiche criticità. A tal proposito, sia detto per inciso, il nostro primo cittadino non ha tutti i torti quando lamenta che della questione si parla spesso senza conoscerne termini e vicende. A questo, però, è facile rimediare. Qualche ora di lavoro di un impiegato comunale dovrebbe essere sufficiente per scansionare e pubblicare sul sito del Comune un apposito dossier, che ovviamente non si pretende completo: basterebbero le relazioni progettuali e i grafici dello stato di fatto e di progetto, anche a scala non dettagliata, con le relative tavole di confronto delle demolizioni/nuove opere, accompagnati dalle convenzioni e pareri in merito emessi dall’amministrazione comunale e dall’ufficio di tutela.

Le criticità del progetto, in aperto contrasto con le vigenti leggi e regolamenti in materia edilizia, sono di evidenza palmare: la demolizione di un’intera falda del tetto per ricavare una terrazza affacciata sul Canal Grande, ad esempio, accompagnata dall’innalzamento di qualche metro del tetto centrale in metallo e vetro di fattura ottocentesca e delle falde rivolte sul cortile, trasformate in superfici piane (forse per ricavare un’ulteriore ampia area praticabile di affaccio sulla città?). O la collocazione di scale mobili nel cortile interno, che violerebbero, stravolgendoli, spazialità e valori formali dello straordinaria architettura, oltre che comportare la demolizione di membrature laterizie cinquecentesche e di bancali lapidei colmi (se ne sono accorti i progettisti?) di graffiti: nomi, sigle, segni distintivi di mercatura, simboli religiosi, scacchiere per il gioco, ecc., incisi nel corso dei secoli dai mercanti della nazione tedesca. O ancora l’eliminazione del velario presente nel cortile, sostituito da un nuovo solaio praticabile ad uso pubblico, che comporterebbe un aggravio di carico tale da produrre dissesti certi sulle esili membrature dei loggiati sovrapposti e sicuramente foriero – in questo si è facili profeti – di opere di rafforzamento delle fondazioni tanto imponenti quanto invasive.

Tutti interventi (e forse altri ancora, ma rimaniamo in attesa di conoscere meglio il progetto) che condurrebbero ad alterazioni e trasformazioni inaccettabili di una delle più importanti e significative architetture del Rinascimento veneziano, eretta con il contributo progettuale del grande trattatista e architetto fra’ Giocondo. La variante ‘riduttiva’ di progetto che pare essere stata presentata nei giorni scorsi all’esame degli uffici competenti non attenua minimamente tali criticità: la diminuzione dell’ampiezza della terrazza, con l’installazione di una falda mobile (peraltro rimpiazzata, pare, dall’improvvisa apparizione di un “pontile” sull’acqua di vastissime dimensioni destinato ad accogliere i tavolini di un bar) sarebbe comunque stravolgente e il rendere sollevabile una delle scale mobili non attenuerebbe minimamente il loro impatto sul cortile. E tutto il resto?

“Riteniamo che il progetto non può essere ulteriormente modificato. Non è possibile sconvolgere il piano dell’architetto Rem Koolhas che invece va valorizzato” ha dichiarato la proprietà alla stampa. Si è forse sparato cento per ottenere cinquanta (o, meglio, novantanove)? Non lo crediamo: sarebbe un atteggiamento più confacente allo stile di un magliaro levantino che a quello di un grande gruppo industriale che si è finora distinto nella promozione di lodevoli iniziative culturali.

Per fortuna, è proprio il caso di dirlo, che c’è la Soprintendenza. L’ente di tutela non potrà certo autorizzare opere confliggenti innanzitutto con i dettami della Carta del Restauro di Venezia, che possono anche essere ignorati dai progettisti e dai committenti, ma che dal Ministero sono stati a suo tempo resi prescrittivi per i funzionari dei Beni Culturali. Carta che all’art. 6 recita: “la conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile, ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio. Gli adattamenti pretesi dalla evoluzione degli usi e costumi devono dunque essere contenuti entro questi limiti”, o che all’art. 13 ricorda che “le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio del suo complesso ed i rapporti con l’ambiente circostante”.

Opere, oltretutto, in conflitto – e una legge dello stato dovrebbe valere anche per l’amministrazione locale – con le disposizioni della Legge Speciale per Venezia, che nel suo Decreto d’attuazione n° 791 del 1973 all’art. 2 prescrive che gli interventi di restauro debbono garantire “la conservazione della totalità degli assetti costruttivi tipologici e formali” delle fabbriche, assicurare la conservazione “delle coperture a tetto ed a terrazza che debbono restare alla stessa quota”, ed essere tra l’altro volti al ripristino del “sistema degli spazi liberi esterni ed interni che formano parte integrante dell’edificio”. Nessuno, si crede, invoca la liberazione del cortile del Fondaco dall’attuale copertura per restituirlo alla sua primitiva condizione, ma è difficile riconoscere nel solaio proposto sulla sua sommità una sia pur tenue aderenza alle norme. Norme che non possono in alcun caso derogarsi in cambio dei benefici pubblici che si otterrebbero se il progetto venisse realizzato.

Benefici dubbi, peraltro, se è vero quanto riportato dalla stampa. Vantaggi che non possono che considerarsi risibili se posti in termini di garanzia di accesso per il pubblico agli spazi del Fondaco (dato che è presupposto ovvio per ogni destinazione di carattere commerciale), di minima utilità, se intesi come possibilità d’uso concessa al Comune per propri eventi o iniziative (poiché per tali attività non mancano certo altri luoghi in città; quali spazi, oltretutto, e per quanti giorni?), deprimenti se constano nella concessione all’uso di qualche bagno anche a chi non farà alcun acquisto, umilianti infine, se consistenti in una somma di denaro, qualunque ne sia l’importo, che in ogni caso verrebbe incassata dalla municipalità in conseguenza del cambio di destinazione d’uso. Aumenti delle superfici utili, scale mobili, terrazze panoramiche sui tetti e sull’acqua (tutte dotazioni che di certo produrrebbero vantaggi non trascurabili per un centro commerciale collocato nel cuore di una città come Venezia, ma di sicuro effetto dirompente per l’edificio del Fondaco) non potranno essere realizzate? Proprietà e progettista se ne facciano una ragione: la legge non lo consente.

L'autore, docente di Restauro all'Università IUAV di Venezia, è stato per molti anni funzionario e dirigente della Sovrintendenza veneziana.

Decreto contro le grandi navi in dirittura d’arrivo. Ma il rischio è che «in assenza di alternative» la situazione rimanga quella di oggi. Il decreto annunciato nelle ore successive alla tragedia dal ministro per l’Ambiente Corrado Clini è stato «congelato» in attesa del concerto del ministro per le Infrastrutture Corrado Passera. Dal testo originario è sparito il limite di passaggio per le navi troppo grandi. O meglio, si pensa a una deroga senza limiti di tempo «finché non saranno previsti percorsi alternativi». Un’ipotesi che ha mobilitato i comitati. «Occorre mettere una data», dicono, «altrimenti si rischia che tutto rimanga com’è». Polemica aperta, anche perché il disegno di legge messo a punto dal senatore Felice Casson prevede invece l’esclusione dalle rotte delle navi da crociera dei siti ambientali pregiati. Venezia naturalmente è uno di questi.

Intanto fa discutere l’uscita del professor Luigi D’Alpaos, ingegnere idraulico di chiara fama, che l’altra sera in sala San Leonardo, davanti a una folla straripante, ha bocciato come «pericolosa per la sopravvivenza della laguna» l’idea di di scavare un nuovo canale, il Contorta Sant’Angelo, per far arrivare le grandi navi alla Marittima da Malamocco e non più dal Lido. Un’ipotesi invece già avviata dall’Autorità portuale, dal Magistrato alle Acque con il consenso del Comune e del governo.

«La straordinaria partecipazione dell’altra sera», dice il portavoce del Comitato Silvio Testa, «dimostra che i veneziani vogliono decidere sulle scelte che riguardano il loro futuro. Le autorità svolgono un servizio pro tempore al servizio del popolo, non sono boiardi svincolati da ogni dovere di trasparenza». «Ci dica dunque il Magistrato alle Acque», continua il rappresentante del Comitato, «a chi è stato affidato lo studio per il nuovo canale, quanto costerà e quali sono le domande poste. E come sia possibile escludere riflessi negativi sulla laguna dopo le pesanti parole sentite l’altra sera da uno dei massimi esperti di idrodinamnica lagunare, l’ingegnere Luigi D’Alpaos». Le alternative vanno trovate, dunque. Ma il canale, secondo il Comitato, sarebbe un rimedio peggiore del male.

I veneziani. La vicenda del Fontego ha risvegliato la voglia di partecipazione della città nelle decisioni - Il confronto. E’ nell’interesse di tutti trovare un accordo ma bisogna mettere nel conto qualche rinuncia

Ci sono occasioni, a volte inaspettate, in cui un’intera città – anche se impoverita nel suo tessuto sociale e provata da anni di «assalti» speculativi – si risveglia di colpo. E’ il caso del progetto per il nuovo Fontego dei Tedeschi, edificio cinquecentesco sotto il ponte di Rialto. Sono sempre di più i comitati, le associazioni, gli intellettuali, gli esponenti della società, della politica e della cultura che prendono posizione sulla vicenda diventata ormai un simbolo.

Al di là delle questioni tecniche, della terrazza bella o brutta, la questione è una sola: si può concedere all’imprenditore di turno – stavolta tocca a Benetton – di andare in deroga a qualunque regolamento vigente soltanto perché ha messo sul piatto un po’ di soldi? Fino a che punto le deroghe possono diciamo così essere «acquistate», approfittando del fatto che il Comune è all’asciutto, e per far quadrare i conti avrà bisogno di trovare nel 2012 cento milioni di euro? Come spesso succede in questa città il dibattito sta prendendo la via della contrapposizione armata. Da una parte i favorevoli, dall’altra i contrari. In realtà la situazione è molto più fluida, le maggioranze composite e bipartisan. Sarebbe sciocco schierarsi a priori per il mantenimento dello status quo. Il Fondaco dei Tedeschi, un tempo affrescato da Giorgione e Tiziano, è rimasto nell’immaginario dei veneziani come «il palazzo delle Poste». Luogo sociale di incontro nel cuore della città. I veneziani non hanno gradito che le Poste lo abbiano venduto a un privato, trasferendo in sedi molto più scomode i loro servizi. Ma oggi il Fontego è vuoto, ha bisogno di cure e restauri. Se non lo fa il privato, rischia il degrado. Dunque, ben venga l’intervento. E se necessario anche un cambio d’uso. «Per una volta», ha detto fiero Gilberto Benetton, «un grande palazzo non diventerà un albergo». Vero, se pensiamo che negli ultimi 5-6 anni sono quasi un centinaio i palazzi e gli edifici diventati hotel.

Ma c’è un limite. Non si possono concedere per questo «deroghe» che ai comuni mortali sono precluse. Nemmeno se la firma del progetto è quella prestigiosa dell’archistar olandese Rem Koolhaas. E’ l’opinione espressa più volte dall’associazione degli architetti veneziani, da associazioni come i 40X Venezia, Venessia.com, singoli intellettuali e professionisti, lo storico dell’arte Salvatore Settis, il rettore dell’Iuav Amerigo Restucci, l’architetto Mario Piana, per anni vice-soprintendente di Venezia. Nè vale invocare come ha fatto il sindaco Giorgio Orsoni, la polemica contro i «passatisti» che sono contro ogni cambiamento e nulla vogliono innovare.

Il Fontego non sarà mai un edificio «privato», anche se Benetton lo ha acquistato sborsando 53 milioni di euro, prezzo inferiore al valore di mercato proprio perché fino ad oggi il palazzo è vincolato ad uso pubblico. Non si deve certo scoraggiare l’innovazione e l’iniziativa privata. Anche se molte operazioni recenti firmate Benetton – la trasformazione del teatro del Ridotto in ristorante dell’hotel Monaco e del cinema San Marco in negozi, lo sventramento dell’ex Banco di Sicilia a San Salvador per ricavare vetrine anche qui in deroga al regolamento edilizio – hanno provocato negli anni furiose polemiche. Ma un imprenditore che vuole investire – soprattutto se non veneziano come in questo caso – dovrebbe capire che la sensibilità e le richieste di una città vanno rispettate. Che l’operazione potrebbe avere un grande successo – e Benetton acquistare maggiore popolarità – anche con qualche rinuncia agli aspetti più clamorosi come la terrazza, la scala mobile, gli sventramenti. Invece di agitare contratti e far lavorare gli avvocati, gli imprenditori dovrebbero mettersi di nuovo al tavolo per confrontarsi serenamente con una città che in larga parte – non solo le «pseudocontesse» – pretende rispetto anche se mancano i soldi pubblici.

Al sindaco, eletto dalla maggioranza dei veneziani, l’onore e l’onere di ascoltare e di trattare con gli imprenditori – chiunque essi siano – con la forza e la serenità di chi rappresenta il pubblico interesse.

Avvocatura civica al lavoro. L’associazione: «Ci sono cose che non si vendono». Lunedì il parere sul progetto e la terrazza

Il sindaco Orsoni querela Italia Nostra. Non siamo ancora in Tribunale, ma poco ci manca. Perché ieri mattina il primo cittadino ha dato mandato all’avvocatura civica di valutare se «esistano gli estremi» per presentare una querela per diffamazione ai danni dell’associazione per la tutela del territorio. Al sindaco non sono piaciute le critiche di Italia Nostra sull’operazione Fontego. E il fatto che l’associazione abbia presentato alla Procura un esposto firmato dalla presidente nazionale Alessandra Mottola Molfino.

Un atto che ha provocato l’apertura di un’inchiesta conoscitiva da parte della Procura. Da qui l’irritata reazione del sindaco: «Sono stanco delle pseudo contesse che hanno una visione passatista della città», aveva dichiarato poche ore prima. Ieri la presidente nazionale di Italia Nostra gli ha replicato per le rime. «Non sono una contessa ma una storica dell’arte e museologa», ha detto, «e forse il passatista è lui, sindaco pro tempore che rincorre progetti vecchi perché come negli anni Sessanta vede nella modernizzazione la salvezza di Venezia senza vedere la sua modernità. Vuole essere ricordato come il sindaco che ha venduto palazzi e rilasciato permessi edilizi in cambio di donazioni? Nessuno le ha mai detto che ci sono cose che non si vendono mai e per nessuna ragione?»

Polemica rovente, che interessa sempre di più gli avvocati. Anche Fondazione property, la Finanziaria del gruppo Benetton che ha acquistato il Fontego dalle Poste italiane spa e ora vuole trasformarlo in centro commerciale minaccia querele. Ma le critiche non si placano. Giornali di mezzo mondo parlano della trasformazione del cinquecentesco palazzo dello Scarpagnino, un tempo affrescato da Giorgione e Tiziano, in centro commerciale con terrazza sul tetto, scale mobili e ristorante panoramico nel lucernario. Progetto dell’arcgistar olandese Rem Koolhaas, presentato alla Biennale del 2010. Benetton ha versato sei milioni di euro in cambio della Variante urbanistica che trasforma la destinazione d’uso dello storico edificio da pubblico a commerciale. I primi atti sono già stati avviati. Ma adesso il progetto, se otterrà i pareri favorevoli, dovrà andare al voto del Consiglio comunale.

E la polemica non si placa. Nei prossimi giorni, probabilmente lunedì, la Soprintendenza consegnerà il suo parere alla Direzione regionale dei Beni ambientali e poi al Comune. Come annunciato è possibile anche che il parere debba passare per il ministero. Nulla si sa sul contenuto della relazione che sarà firmata dalla soprintendente Renata Codello. Ma su alcuni punti del nuovo progetto, depositato nei giorni scorsi negli uffici di palazzo Ducale e dell’Edilizia privata, le perplessità aumentano.

La nuova versione del progetto prevede sempre la terrazza «a vasca», anche se le sue dimensioni sono più contenute rispetto ai disegni originali. La soluzione adottata è quella di realizzare la terrazza con copertura «semovente», ripristinando di notte o in caso di pioggia, la conformazione originaria del coperto. Resta la scala mobile, anche questa nel mirino di Italia Nostra perché per realizzarla dovrebbero essere demolite alcune parti interne di edificio. E la copertura con pavimento trasparente del lucernario, rialzato per ricavarne ristorante e spazi panoramici, anche qui demolendo il tetto rifatto negli anni Trenta. L’iter è appena all’inizio, nonostante nella convenzione firmata da Comune e Benetton sia scritto che «i pareri dovranno arrivare entro la fine di febbraio». Ma la situazione a questo punto, si complica. E il progetto per essere approvato dovrà con ogni probabilità essere ancora modificato.

La Soprintendenza sta completando l’istruttoria, il parere è in arrivo ma crescono le perplessità sulle demolizioni interne ed esterne dell’edificio

Fontego dei Tedeschi, è in arrivo una profonda revisione al progetto che l’architetto olandese Rem Koolhaas ha elaborato per il gruppo Benetton che dovrebbe portare a una sua ampia modifica, con alcuni stop. E’ infatti in corso in questi giorni l’istruttoria negli uffici della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia che sta esaminando la mole di materiali inviati dallo Studio Oma si Koolhaas, da cui dovrà poi scaturire il “verdetto” firmato dall’architetto Renata Codello.

Il parere non è stato ancora emesso, ma già dalla fase istruttoria sarebbero emerse perplessità soprattutto per ciò che riguarda le demolizioni a parti della struttura dell’edificio cinquecentesco, non solo per ciò che riguarda l’abbattimento di una porzione del tetto e dei solai per realizzare la famosa maxiterrazza con vista Rialto, ma anche all’interno, per la realizzazione delle scale mobili legate al centro commerciale che dovrebbe impiantare la Rinascente. Anche la scala mobile prevista nell'atrio, con la possibilità di «spostarla» quando ci saranno eventi, va comunque agganciata alla struttura in muratura, comportando comunque una serie di demolizioni.

Per quanto riguarda invece la sommità dell’edificio, la terrazza «a vasca» non c'è più, modificata con un belvedere sul tetto e la copertura in vetro semovente. Soluzione meno rivoluzionaria rispetto a quella iniziale, ma comunque impattante rispetto alla forma originaria dell’edificio. Lo stesso progetto prevede anche la realizzazione di un nuovo piano nel sottotetto con pavimento in cristallo e sul Canal Grande un pontile di 25 metri per 5 da utilizzare come plateatico per i clienti del bar, in un punto tra l’altro delicato per l’intenso passaggio di vaporetti e imbarcazioni, a due passi da Rialto.

Su tutto questo la Soprintendenza sta ragionando per un parere che dovrebbe essere emesso nel giro di pochi giorni e sono pertanto presumibili, a questo punto, sulla base dell’istruttoria in corso, che esso possa contenere sostanziali prescrizioni che lo modifichino in modo sensibile, prima dell’invio al direttore regionale dei Beni Culturali Ugo Soragni, che ha già annunciato che esso verrà comunque inviato all Ministero dei Beni Culturali perché lo giudichi anche il Comitato tecnico-scientifico per i Beni Architettonici e Paesaggistici, accompagnato anche da una sua relazione.

Si tratta di un elemento non trascurabile nel giudizio finale, perché l’architetto Soragni ora ha avocato a sé la delega sulle demolizioni per edifici vincolati - prima concessa al soprintendente Codello - e proprio la parte che riguarda gli abbattimenti è di fatto diventata centrale nel nuovo progetto di ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi.

Questo intervento è ormai del resto diventato un caso nazionale, dopo la dura presa di posizione contro di esso dello storico dell’arte Salvatore Settis, l’esposto su di esso presentato da Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Venezia e la forte reazione del gruppo Benetton, che attraverso la controllata Edizione minaccia azioni legali per il possibile danno d’immagine e anche i problemi che uno stop al progetto nella forma attuale potrebbe creargli con il partner già designato per realizzare un centro commerciale all’interno del Fontego dei Tedeschi: il gruppo Rinascente. Difficile approvarlo come se niente fosse.

Comune «ostaggio» di Prada per Ca’ Corner della Regina e di Benetton per il Fontego dei Tedeschi, visto che 8 milioni di euro della vendita dell’ex sede dell’Asac (l’Archivio storico della Biennale) e 6 milioni di indennizzo per i cambi di destinazione d’uso dell’ex sede delle Poste centrali di Rialto sono «congelati» dai privati in un fondo vincolato in attesa di sapere se i progetti di trasformazione saranno approvati da Ca’ Farsetti e dalle altre autorità competenti. A sollevare il caso è il presidente della Commissione consiliare Bilancio Renato Boraso che ha convocato per giovedì nell’organismo l’assessore competente Sandro Simionato per un’«informativa sui riflessi sul patto di stabilità 2012 in relazione ai procedimenti amministrativi riguardanti Ca’ Corner della Regina e Fondaco dei Tedeschi». «Vogliamo chiarezza e trasparenza dal Comune - attacca Boraso - perché i 40 milioni di euro della vendita di Ca’Corner della Regina e i 6 della valorizzazione del Fontego sono già stati inseriti in bilancio ai fini del patto di Stabilità.

Ma di quei 46 milioni, 14 in realtà non ci sono, perché vincolati al fatto che Prada e Benetton restino poi soddisfatti dell’approvazione effettiva dei relativi progetti. E’ una situazione assurda e assai poco trasparente, vogliamo capire se possiamo realmente contare su quegli 8 milioni per Ca’ Corner della Regina e sui sei per il Fontego o se il bilancio del Comune e il rispetto del Patto di stabilità possono essere messi in crisi dai “capricci” dei loro nuovi proprietari, lasciando l’Amministrazione alla loro mercè».

Effettivamente, nel contratto di compravendita che il Comune ha stipulato con la Petranera srl - una controllata del Gruppo Prada - si legge che «qualora, decorsi due anni dalla data di sottoscrizione del presente contratto, non sia approvata da tutte le competenti autorità la summenzionata destinazione d’uso del piano secondo dell’immobile, la parte acquirente avrà diritto ad una riduzione del prezzo per un importo pari a 8 milioni di euro». E, come è ormai noto, nella convenzione che lo stesso Comune ha stipulato con Edizione Property - la società immobiliare del gruppo Benetton - i 6 milioni di euro di indennizzo sono a loro volta vincolati al rilascio di tutte le autorizzazioni necessari ai cambi di destinazione d’uso da parte dell’Amministrazione, ma anche al sostanziale rispetto del progetto dell’architetto olandese Rem Koolhas, che prevede anche la maxiterrazza sul tetto con vista Rialto di cui si continua a discutere, in attesa dell’ultima parola del Ministero dei Beni Culturali.

Prova a gettare acqua sul fuoco proprio l’assessore Simionato: «Per il Comune e il rispetto del patto di stabilità non c’è alcun problema con gli accordi con Prada e Benetton per Ca’ Corner della Regina e Fontego dei Tedeschi. Quei soldi li abbiamo incassati e anche se in parte su un fondo vincolato, valgono comunque ai fini del rispetto dei nostri vincoli di bilancio. Se poi tra due anni, nel caso di Ca’ Corner della Regina, Prada non dovesse ritenersi soddisfatto della progettazione che gli sarà consentita all’interno dell’edificio, vorrà dire che gli restituiremo quegli 8 milioni di euro». E l’incertezza resta.

postilla

Come se dicesse: “Io Comune ha venduto a Benetton e a Prada qualcosa che non era nella mia disponibilità, quindi so che (a meno di non passare sulle regole della tutela come un bulldozer e concedendoti di fare gli scempi che ti servono per mercificare i beni che ti ho donato) dovrò restituirti quello che hai fatto finta di regalarmi, ma intanto ho messo in bilancio quello che provvisoriamente ho incassato, quindi sono a posto con il patto di stabilità”. Ma questi amministratori li abbiamo scelti o ce li hanno imposti?

Ecco la nuova terrazza sul tetto del Fontego. La modifica al progetto è stata depositata all’Edilizia privata, firmata dall’archistar olandese Rem Koolhaas. La terrazza «a vasca» non è sparita, anzi. Occupa una buona metà del tetto lato Canal Grande con la possibilità – questa è la novità – di richiudere il tetto di notte o in caso di maltempo. Al centro il lucernario dell’edificio sarà «coperto» con un pavimento di cristallo e rinforzato con travi di metallo. Sarà uno spazio aperto, adibito a bar e ristorante. Proposta adesso all’esame dell’Edilizia privata, che però per il via libera definitivo aspetta l’ok della Soprintendenza.

Ma non è l’unico punto contestato del grande progetto. In Canal Grande spunterà un grande pontile da 25 metri per cinque di profondità. Sarà installato davanti alle arcate del Fontego e servirà per lo scarico delle merci e anche come plateatico. C’è già chi solleva questioni di viabilità acquea, perché quello è il punto dove il Canal Grande fa la curva e i vaporetti si incrociano. Prima c’erano due pontiletti delle Poste italiane.

Il via libera è arrivato il 7 febbraio, al termine della conferenza dei servizi convocata dal dirigente dell’Edilizia provata Lucio Celant sul permesso di costruire. Pareri tutti favorevoli, con il dirigente dell’Edilizia privata Franco Gazzarri che si limita a raccomandare la percorribilità pubblica interna e l’accessibilità diretta alla Corte interna dai tre ingressi del Fontego e l’uso dei gabinetti. «Per quanto riguarda l’uso pubblico del manufatto», scrive l’architetto, «si propone che i servizi igienici al piano terra siano di uso pubblico, secondo orari e modalità da concordare con il Comune e di rivedere l’organizzazione distributiva dei gabinetti». Flavio Gastaldi, delegato dal comandante dei vbigili urbani Luciano Marini, esprime «parere favorevole sulla viabilità», raccomandando di predisporre «idonea segnaletica» vista la destinazione commerciale del’immobile, ex palazzo delle Poste venduto a Benetton. Loris Sartorti, dirigente della Mobilità acquea, esprime infine «parere favorevole» al pontile. Ma accogliendo i dubbi espressi dagli uffici definisce lo stesso pontile «sovradimensionato» e poco funzionale rispetto al carico scarico, vista anche la dimensione dei mezzi».

L’iter va avanti, e l’istruttoria degli uffici comunali sul progetto è quasi conclusa. Si attende adesso il parere della Soprintendenza. La polemica resta alta, rilanciata anche dai media internazionali. Fa notizia la trasformazione di un palazzo del Cinquecento in centro commerciale, proprio sotto il ponte di Rialto, con scale mobili all’interno, terrazza sul tetto. Appelli e dure critiche al progetto vengono da storici dell’arte come Salvatore Settis e dal rettore dell’Iuav Amerigo Restucci.

Ma il sindaco Giorgio Orsoni difende l’operazione. «Occorre modernità», ha ribadito, «se no diventeremo una città di osti e albergatori in costume». Non si è fatta attendere la risposta dell’associazione albergatori. «Immaginiamo l’imbarazzo estremo nel cedere a Parrucconi imprenditori dell’ospitalità o di altri imprenditori parte del patrimonio pubblico con cambio di destinazione d’uso incluso, giunti in soccorso delle esangui casse comunali». Polemica che approderà presto in Consiglio comunale. L’ultima parola sulla licenza edilizia ai Benetton toccherà infatti proprio a Ca’ Loredan, che dovrà votare la Variante urbanistica

Dopo le navi-grattacielo, nuove delizie sono in arrivo a Venezia per gli amanti dello snobismo low cost di guardare, ed essere guardati, da una sommità. Basterà salire sulla neo-terrazza in cima al Fondaco dei Tedeschi, passando dal neo-centro commerciale Benetton, per guardare dall´alto il ponte di Rialto e il Canal Grande. Una "vista mozzafiato", pazienza se a scapito della legalità e della storia. E questo mentre il governo, inspiegabilmente, ha bloccato (lo denuncia Italia Nostra) il decreto che vieta l´ingresso delle imbarcazioni oltre le 30mila tonnellate, con legioni di vacanzieri intenti a guardare dall´alto in basso il Palazzo Ducale.

Il Fondaco dei Tedeschi fu costruito ai primi del Cinquecento per «la Nazione Germanica, che concorreva a Venezia con le sue merci e le conservava in questo luogo. Le galee Viniziane, portando le speziarie di Levante, le diffondevano per tutte le parti di Ponente [l´Europa del Nord], e i Tedeschi ci portavano ori, argenti, rami e altre robe da le lor terre»: così Francesco Sansovino (1581). Le facciate esterne «furono dipinte da´ primi uomini d´Italia, vi lavorò Tiziano con sua grandissima lode, e Giorgione da Castelfranco, ambedue principalissimi in queste parti» (sopravvivono pochi frammenti). Dopo esser stato sede delle Poste, il Fondaco è stato acquistato dal gruppo Benetton nel 2008 per 53 milioni, per trasformarlo in un «megastore di forte impatto simbolico». Il progetto prevede non solo l´inserimento di incongrue scale mobili, ma anche la sostituzione del tetto con una terrazza panoramica: l´equivalente, appunto, di una mega-nave piombata nel cuore di Venezia. Lo firma Rem Koolhaas: come ha scritto Giancarlo De Carlo, le operazioni speculative cercano spesso la copertura professionale di grandi architetti (per esempio Norman Forster progettò a Milano il quartiere di Santa Giulia, che doveva sorgere sopra un immenso deposito illegale di scorie nocive).

Nuova "terrazza a vasca", rifacimento del lucernario per ricavare un altro piano, demolizione di parti del ballatoio: questi i pesanti interventi del progetto, esposto alla Biennale prima di presentarlo in Comune, con l´aria di voler forzare la mano. Il sindaco Orsoni allora fu "allibito" di tanta arroganza, ma si è ridotto a più miti consigli e ha docilmente firmato, il 28 dicembre, una convenzione con Benetton. Che cosa mai avrà piegato il fiero erede dei Dogi?

Benetton, dice la convenzione, creerà nel Fondaco «una superficie di vendita non inferiore a mq 6.800», e perciò presenterà svariate domande di autorizzazione edilizia e commerciale, anche in deroga al vigente piano regolatore. Per parte sua, il Comune si impegna a elargire ogni permesso «con la massima diligenza e celerità», e in modo da «non pregiudicare la realizzazione integrale del progetto». La chiave di questa resa incondizionata è nell´articolo 5: il gruppo Benetton si impegna a versare al Comune entro il 30 dicembre 2012 «un contributo in denaro a titolo di beneficio pubblico di sei milioni di euro», ma solo a condizione che il Comune rilasci tutti i permessi necessari entro 12 mesi e che tutti i lavori si concludano in 48 mesi, senza di che l´intero importo dovrà essere restituito, e con gli interessi. In altri termini, per assicurarsi piena e veloce ubbidienza, Benetton versa nelle esauste tasche del Comune una sostanziosa mancia. Se questo esempio sarà seguito, c´è da scommettere che le autorizzazioni edilizie verranno ormai bloccate finché il proprietario interessato non versi "a titolo di beneficio pubblico" una congrua regalia. Se i meno abbienti non possono permetterselo, peggio per loro. Per il Fondaco, gli uffici comunali hanno completato in meno di una settimana l´istruttoria sulle pratiche: quali sarebbero stati i tempi per un cittadino normale?

Sei milioni sono tanti? Sono pochi, se servono ad aggirare le leggi. Secondo la denuncia di Italia Nostra alla Procura della Repubblica e al ministero dei Beni Culturali, alcuni degli interventi previsti «violano le inderogabili prescrizioni conservative» di legge, al punto che possono ricadere sotto le sanzioni non solo del Codice dei beni culturali (art. 170), ma anche del Codice penale (art. 635). Tale è la neo-terrazza «per futili ambizioni di belvedere», «alterazione gravissima che offende la fabbrica», con «stravolgimento strutturale dell´edificio e danno gravissimo alla sua integrità fisica e alla sua identità storica». L´uso commerciale dell´edificio di per sé non è incongruo con la sua originaria destinazione d´uso: Sansovino ricorda che «di fuori lo circondano 22 botteghe, dalle quali si trae grossa entrata», e anche nei piani alti si vendevano mercanzie. Ma la legge prescrive di preservare rigorosamente l´integrità dell´edificio, mentre il progetto Koolhaas la deforma. La Fondazione Benetton da anni coinvolge i cittadini della provincia di Treviso nella conservazione dei Luoghi di valore, un progetto di qualità. Stupisce che nell´adiacente provincia di Venezia un´operazione edilizia dello stesso marchio voglia stravolgere un luogo di altissimo valore come il Fondaco dei Tedeschi. Che Benetton lo stia facendo, secondo la moda dei nostri tempi, a sua insaputa?

postilla

Trova sempre nuove conferme la tesi secondo la quale il gruppo Benetton è diventatoil vero padrone di Venezia: per responsabilità non tanto del gruppo economico trevigiano (che segue le tradizioni e le rinnovate aggressive prassi della “borghesia compradora” di tutto il mondo), quanto di un personale politico-amministrativo succube dei poteri economici. Il termine che esprime questa tesi (“Benettown”) è quello dell’omonimo saggio scritto da Paola Somma per la fortunata collana “Occhi aperti su Venezia”, dell’editore corte del Fòntego (che col Fontego dei tedeschi non ha nulla a che fare).

Sull’intervento al Fontego dei tedeschi altri numerosi articoli sono raccolti in questa stessa cartella “Vivere a Venezia”.

L’Edilizia privata dà il parere in sette giorni. «Il tetto degli anni Venti, si può demolire». Manca l’ok della Soprintendenza

Via libera alla terrazza sul tetto del Fontego in tempo di record. Decisione che farà discutere, quella del Comune. Gli uffici dell’Edilizia privata hanno completato in tempi rapidissimi – meno di una settimana – l’istruttoria sulla pratica del Fontego dei Tedeschi. L’indicazione dell’amministrazione è quella di concedere le autorizzazioni in deroga alla normativa vigente [nostro corsivo – n.d.r.]. Non soltanto per il cambio d’uso da pubblico a commerciale, ma anche per le nuove strutture interne richieste da Edizione Property, la Finanziara di Benetton, e messe in progetto dall’archistar olandese Rem Koolhaas.

Dopo giorni di incertezze e voci sussurrate ecco dunque il primo «sì». alla trasformazione dello storico edificio delle Poste centrali in centro commerciale. Sarà realizzata la scala mobile nell’atrio, con la possibilità di «spostarla» quando ci saranno eventi. Ma anche demolito il solaio con buona parte delle capriate. Per realizzare un sottotetto calpestabile – con un nuovo pavimento in vetro antisfondamento – dove sarà aperto un grande ristorante panoramico. E la nuova terrazza sul lato Canal Grande. Struttura che fa discutere e che ha provocato le proteste degli architetti veneziani perchè vietata dal regolamento edilizio.

Ma dopo la firma della convenzione tra Comune e Benetton, il sindaco e l’assessore Micelli hanno dato indicazioni precise. La deroga è possibile, perché si tratta di pubblica utilità [sic! - n.d.r], anche per via dei 6 milioni – non direttamente vincolati alla terrazza – che Benetton verserà per la modifica degli standard pubblici. Ai tecnici dell’Edilizia privata è arrivato anche un parere favorevole della «commissione scientifica» del Comune di cui fanno parte quattro dirigenti comunali. Si certifica che il tetto era stato quasi completamente rifatto negli anni Venti, con l’impegno anche di materiali non originali come il calcestruzzo. Dunque, si può demolire. Resta l’altro problema. E’ compatibile lo stravolgimento di un edificio - pur in parte rifatto – che risale al Cinquecento, sotto il ponte di Rialto? «Se paghiamo lo facciamo anche in palazzo Ducale?» si chiedono gli architetti. Protestano i comitati. Il Comune risponde che «più di così non si poteva ottenere» e che quello è il prezzo per riutilizzare un grande edificio ormai abbandonato e riaprirlo al pubblico.

La convenzione prevede infatti che le parti al piano terra e gli scoperti al primo piano siano accessibili al pubblico, come il ristorante e la terrazza [difficile immaginare ristoranti e shopping center chiusi al pubblico – n.d.r.]. Dieci giorni l’anno il Comune ci potrà organizzare le sue attività.

Tra le proteste il progetto va avanti. Il Fontego è stato acquistato da Benetton tre anni fa per 53 milioni di euro,. Un valore che sarà più che raddoppiato alla fine con la trasformazione dei 9 mila metri quadrati in centro commerciale. Il progetto presentato il 31 gennaio è già stato istruito, valutato e votato con parere favorevole dai tecnici istruttori di Ca’ Farsetti. Non proprio quello che succede ai comuni mortali, che per un bagno possono aspettare anche otto mesi. Ma l’operazione è avviata. Adesso il nuovo restauro del Fontego dovrà ottenere il parere favorevole della Soprintendenza anche dal punto di vista dell’impatto paesaggistico. In Comune alzano le mani: «Non dipende da noi: l’ultima parola spetta alla Soprintendenza». Intanto l’ok del’Edilizia è già protocollato. In tempo di record.

Niente decreto del governo per togliere le Grandi navi dalla laguna. Il testo già firmato dal ministro per l’Ambiente Corrado Clini è fermo al ministero delle Infrastrutture guidato dall’ex ad di BancaIntesa Corrado Passera. E a quanto pare non sarà approvato in tempi brevi. Diversità di vedute tra i due ministeri. Con il titolare delle Infrastrutture e Trasporti (ma anche Sviluppo economico) contrario a imporre divieti.

La proposta di Clini prevede lo stop al passaggio dele navi al di sopra delle 40 mila ronnellate di stazza. Cioè in pratica quasi tutte le navi da crociera che oggi attraversano San Marco. Il problema è che l’alternativa in tempi brevi non c’è. E dunque la situazione, alla faccia delle indignazioni dopo la tragedia della Costa Conordia, rischia di restare com’è. Ieri il ministro Clini era atteso a un convegno in laguna. Ma non è venuto, bloccato dal Consiglio dei ministri e dalla neve. Ha mandato un messaggio ribadendo il suo «no» alle estrazioni di petrolio in Adriatico. E confermando la sua posizione sulle navi fuori dalla laguna.

Il progetto alternativo che il ministero «condivide, fatto salvo la compatibilità ambientale», è quello messo nero su bianco dal presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa. Scavo del canale Contorta Sant’Angelo da 2 a 10 metri per collegare il canale Malamocco Marghera da Fusina alla Marittima. E nel 2017 spostamento della Stazione passeggeri dove adesso è il cantiere del Mose a Santa Maria del Mare. Progetti che sollevano dubbi di carattere e ambientale e idraulico. Le alternative proposte sono. Quella di Cesare De Piccoli, progetto già depositato e condiviso all’epoca dal sindaco Cacciari come alternativo al Mose per spostare la Marittima a Punta Sabbioni. Pontili galleggianti, trasferimento dei passeggeri con le motonavi, fondali che potrebbero essere rialzati rendendo quasi inutile il Mose. C’è anche chi rilancia l’off shore, già proposto dal Porto come terminale in mare per i petroli e le grandi navi merci portacontainer. Uno studio olandese (Tec consulting) propone di realizzare da lì un oleodotto verso Marghera e un tunnel verso la terraferma per trasportare merci e passeggeri. «Così saremmo competitivi, senza rotture di carico», dice l’architetto Fernando De Simone. Un terminale al Lido è anche la proposta di Ferruccio Falconi, ex capo dei piloti del porto. Banchina in superficie dietro all’isola artificiale, sul bacàn di Sant’Erasmo, che potrebbe ospitare fino a nove grandi navi. Ma il Porto non ci sta. Con due stazioni marittime appena costruite, le alternative sono tutte in salita.

Il progetto che Benetton intende realizzare al Fontego dei Tedeschi è improntato -e non poteva essere diversamente- all’ideologia di mercato. Come è noto questa ideologia ha come fine massimizzare il profitto e come strumenti un vasto armamentario, nel quale spiccano l’appeal o lo share, o l’audience, o come cavolo volete chiamarlo e, in sinergia con esso, la corruzione economica ma soprattutto morale. Quest’ultima, la più pericolosa, si attua insinuando surrettiziamente consumi smodati quanto non necessari, assecondando la moda o, come si usa dire, i trend del gusto comune che, si sa bene, non è mai buon gusto ma è il più appagante sul piano economico. Ne sono valida conferma i programmi trash della televisione, i più seguiti, o i fenomeni della moda, come i blue-jeans lisi e strappati.

Quando si entra nel terreno dell’architettura risulta molto appagante rivolgersi ad un archistar. Archistar non vuol dire buon architetto: significa solamente “architetto alla moda”, con tutto ciò che di buono e di cattivo può contenere questa definizione. Nel caso del Fontego l’archistar avrà sicuramente fatto ampie ricerche storiche, approfondendo la conoscenza delle sue strutture, della sua conformazione, delle sue trasformazioni e delle sue utilizzazioni nel tempo, scoprendo così che all’origine aveva destinazione commerciale e che tale riavrà con l’attuazione del suo progetto. Bene: fin qui lo seguiamo. Dopo di che elabora un progetto che non solo non tiene conto delle “regole” (ahimè!, non è forse questo il vero dramma del nostro tempo?) ma che non si esprime con congruità nei confronti dell’oggetto che tende a modificare. E questo è il nodo architettonico. Già l’arch. Vittorio Gregotti, sulle pagine della Nuova Venezia, spiegava la posizione culturale dell’arch. Koolhaas, progettista d’avanguardia non amante della tradizione e, quindi, non rispettoso del contesto storico e architettonico che si trovava tra le mani, rilevando molto opportunamente anche le responsabilità della scelta da parte del committente, che di questo aspetto non ha tenuto conto. Ma, si sa, Benetton non è Olivetti e Koolhaas non è Carlo Scarpa. Il risultato è un progetto che stravolge uno dei più begli edifici della città, fregandosene di storia e di regole, disarmonico e totalmente incongruo. In una parola: brutto! Ora la parola è alle istituzioni, perché l’opinione pubblica, le associazioni che tutelano la città e la sua conservazione, gli esponenti della cultura si sono già espressi con una netta condanna. Alle istituzioni tocca far rispettare le regole valide per tutti, senza introdurre valutazioni estranee al merito del progetto. In caso contrario dovremmo amaramente prendere atto che quella corruzione morale della quale abbiamo parlato non solo è arrivata a lambire le istituzioni ma è persino riuscita a intaccarle e corroderle, marcando ancora una volta, e in modo grave, la loro separatezza rispetto al sentire della comunità civile.

L’autore è un architetto veneziano

La linea del Comitato “No Grandi Navi – Laguna Bene Comune – fuori le grandi navi dalla laguna!” si incardina in quasi cinquant'anni di riflessioni dell'ambientalismo veneziano, sorto negli anni Sessanta col Fronte per la difesa di Venezia sull'onda delle lotte per impedire la trasformazione della laguna in un'unica zona industriale (battaglia vinta) e l'apertura del Canale dei Petroli (battaglia persa). E tali elaborazioni hanno trovato ampio riscontro nella legislazione speciale per Venezia.

Liberare San Marco dalle grandi navi è imprescindibile, ma ciò non può avvenire dissestando ulteriormente la laguna: non lo dice il Comitato ma appunto l'intero corpus dei provvedimenti straordinari che il Parlamento ha votato per Venezia, a partire dalla legge speciale 171 del 1973 che all'articolo 1 si pone come obiettivo "l'equilibrio idraulico della laguna di Venezia" e passando per l'altro cardine, la legge speciale 798 del 1984, che all'art. 3 destina gran parte dei suoi finanziamenti agli "studi, progettazioni, sperimentazioni e opere volte al riequilibrio idrogeologico della laguna, all'arresto e all'inversione del processo di degrado del bacino lagunare e all'eliminazione delle cause che lo hanno provocato", e ciò nella esplicita convinzione che l'eliminazione dell'acqua alta non sia raggiungibile esclusivamente regolando con barriere fisse o mobili il rapporto tra il mare e la laguna.

Le cause del degrado, quelle da eliminare per legge, sono diverse, quasi tutte provocate dall'uomo, ma la prima, la più devastante - e su ciò c'è il consenso unanime dell'intera collettività scientifica, Consorzio Venezia Nuova compreso - è il Canale dei Petroli. Al riguardo, si legga Fatti e misfatti di idraulica lagunare (Istituto Veneto, Memorie, 2010) di quel prof. Luigi D'Alpaos che davvero paradossalmente il presidente dell'Autorità portuale, Paolo Costa, chiama sempre a testimone della sua idea di scavare il piccolo Contorta Sant'Angelo.

Sono passati quasi trent'anni dal 1984 e la laguna anzichè avviarsi alla rinascita è sulla soglia della morte: troppi gli interessi in gioco. Il Canale dei Petroli non è mai stato chiuso, il porto commerciale e le industrie hanno preteso il loro prezzo, ma oggi un modello economico è andato in crisi, Porto Marghera si sta spegnendo, la stessa Autorità Portuale ha avviato un percorso per creare fuori dalla laguna una piattaforma d'ormeggio per le petroliere, le portacontainer, le cerealicole. Non è certo un soprassalto di ambientalismo ma la consapevolezza che il Mose alle bocche di porto, nonostante la conca di navigazione, comprometterà la portualità, nonchè il tentativo di acquisire traffici ora impensabili per i massimi fondali ammissibili in laguna. Sia come sia, per la prima volta da un secolo a questa parte si apre la possibilità di iniziare a por mano davvero al riequilibrio della laguna, solo che si estromettano anche le grandi navi da crociera, che altrimenti imporrebbero il mantenimento degli attuali fondali, impedendone ogni ritocco al ribasso.

Queste sono le ragioni per le quali ci opponiamo allo scavo del Contorta Sant'Angelo, che significa solo due cose: mantenimento in eterno del Canale dei Petroli, e dunque del dissesto della laguna, e anzi suo ampliamento e allungamento fino al cuore della città, con tutti i rischi connessi. E' la reiterazione ossessiva delle scelte che hanno sconvolto la laguna, contro la logica e il dettato delle leggi speciali.

poi, sulla cosiddetta soluzione a breve termine:

- Non sarà questione di un anno, come dice il presidente dell'Autorità portuale, Paolo Costa, commissari o non commissari, perchè i problemi idraulici e ambientali sono enormi e le opposizioni a tutti i livelli saranno fortissime; serve anche l'interramento dell'elettrodotto Fusina - Sacca Fisola.

- Tolto l'inquinamento visivo, chiamiamolo così, tutte le criticità (fumi inquinanti, rumori, vibrazioni, dislocamento di milioni di tonnellate d'acqua, perdita di sedimenti) restano in laguna e segnatamente in Marittima; e permane il rischio di incidenti, che in mare non vengono provocati solo dagli scogli, come strumentalmente vuol far credere chi ricorda sempre che la laguna ha fondali morbidi, affermando che la tragedia del Giglio a Venezia non può succedere. Statisticamente la maggior fonte di rischio per le navi sono le esplosioni a bordo, con spillamento di carburanti: le navi da crociera che entrano in laguna non hanno il doppio scafo.

- La Marittima continuerà per sempre ad accogliere navi: non le sei di ora ma le nove di domani, quando i traghetti si trasferiranno a Fusina, e il progetto di cold ironing, che comunque non è finanziato, riguarderà solo quattro bastimenti. Dunque cinque navi - praticamente come oggi - resteranno coi motori sempre accesi, e le grandi navi inquinano all'ormeggio il doppio di quando non facciano in navigazione.

Quanto al nuovo porto a Malamocco, ammesso che non sia una bufala:

- Esso è chiaramente aggiuntivo e non sostitutivo della permanenza del crocerismo in Marittima: domani le grandi navi in arrivo anche contemporaneamente a Venezia non saranno nove come spiegato poco sopra ma fino a quattordici (cioè cinque in più a Santa Maria del Mare).

- Non potrà essere iniziato nel 2014 come si sostiene, perchè per quella data, se non ci saranno intoppi, saranno forse realizzati solo i cassoni per la semi - bocca di Treporti;

- Pellestrina è un'isola, e dunque i passeggeri sbarcati dovranno essere portati a terra esattamente come se fossero stati sbarcati in una piattaforma in mare aperto; davvero qualcuno crede che il tunnel sotto la bocca di porto di Malamocco (se ne parla da circa un decennio) o addirittura la metropolitana sublagunare (Paolo Costa ha evocato anche questo) siano soluzioni credibili, e in ogni caso a breve - medio termine?

- La piastra logistica di Malamocco, a suo tempo contestata dal Comune e dalle associazioni ambientaliste, sorge in area Sic, ed è stata autorizzata dal Tar solo perchè il Consorzio Venezia Nuova aveva garantito che era temporanea e che sarebbe stata rimossa alla fine dei lavori: un nuovo ricorso avrebbe poche chance?

- Pellestrina e il Lido insorgeranno, questo è matematico, perchè la proposta stravolge il delicato equilibrio di Pellestrina, tramuta il Lido in un'autostrrada (ammesso che ci si arrivi), compromette la pesca. Già sono scoppiate le prime polemiche.

- Non si vede dunque logica, salvo il regalo di 200 milioni di euro al Consorzio Venezia Nuova, tanto costerebbe lo smantellamento della piattaforma.

Per tutte queste ragioni, il Comitato continua a credere che si possano trovare soluzioni più pratiche, veloci, ambientalmente sostenibili, e perfino tali da garantire anche l'indotto croceristico, se davvero esiste. Non pensiamo che come Comitato spetti a noi indicare quali: noi poniamo un problema politico, chiediamo l'estromissione delle grandi navi dalla laguna, e sul come aspettiamo le proposte del Governo e del Comune, che per le ragioni che abbiamo elencato non possono essere quelle sul tappeto in questi giorni. Ne aspettiamo altre, che giudicheremo.

Può sembrare una posizione ambigua, codina, incerta, ma invece è chiarissima: dietro, infatti, c'è da fare un ultimo ragionamento che fin qui è mancato, e che va in piena rotta di collisione con la posizione del ministro Corrado Clini, di Costa, del sindaco Giorgio Orsoni: e' quello sul carico turistico complessivo che Venezia può sostenere mantenendo le caratteristiche di una città con residenti e servizi e non diventando un parco tematico, come ormai è quasi avvenuto. E' chiaro che per costoro – questo è il senso della loro intesa - le navi dovranno comunque diventare sempre di più e sempre più grandi, mentre per noi (e non solo per noi) serve determinare una soglia complessiva di turismo massimo sostenibile e all'interno di questa soglia assegnare una quota invalicabile anche per le grandi navi. Non sarà la stessa cosa trovare collocazione per una nave o collocazione per dieci: cioè non è possibile stabilire alcuna soluzione per l'ormeggio del crocerismo se prima non si dice quante e che navi devono arrivare.

Oltretutto non è neppure detto che debbano arrivare, perchè molti studi dimostrano che si tratta di un turismo povero, o meglio di un turismo che lascia poco alla città (le navi sono macchine progettate per far spendere ai croceristi il massimo possibile al loro interno) e se esistesse un vero studio che analizza i costi e i benefici siamo certi che salterebbero fuori diverse sorprese, al di là di quello che dice pro domo sua il presidente della Venice Terminal Passeggeri, SandroTrevisanato. Noi uno studio così lo pretendiamo.

Silvio Testa è portavoce del Comitato “No Grandi Navi – Laguna Bene Comune”, ed autore del piccolo saggio sull’argomento, E e chiamano navi, scritto per la collana “Occhi aperti su Venezia” dell’ Editore Corte del Fòntego

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Un canale da scavare in laguna, il porto nei cantieri Mose Nuovo tunnel per le auto. E rispunta l’idea di De Piccoli

Un nuovo canale in mezzo alla laguna. Un nuovo porto ai cantieri del Mose di Malamocco, l’off shore. Un tunnel subacqueo per portare le auto da Pellestrina al Lido e viceversa. Il Mose in avanzato stato di costruzione, i grandi progetti di edificazione al Lido. E sullo sfondo il cemento in gronda lagunare, Tessera city e la sublagunare. Tempo di crisi e di tagli, ma non per i grandi progetti in laguna.

La protesta contro le grandi navi ha prodotto una proposta del Porto che mette sul piatto alternative a breve e lungo termine. Come nel 2003 quando (sindaco era Paolo Costa, ex ministro e attuale presidente del Porto) il Mose venne approvato dal Consiglio comunale con i famosi 11 punti tra cui c’era la grande conca di Malamocco. La conca è quasi ultimata, ma alle navi non basta già più. Tanto che per i petroli e i container il Porto vuole realizzare una piattaforma in mare da un milione e mezzo di euro. Grandi progetti attesi all’esame della città. Le due proposte avanzate per iscritto dal Porto al governo – e condivise dal sindaco Orsoni – parlano di scavare il canale Sant’Angelo Contorta da due a 10 metri. Un anno di lavori, un milione e mezzo di metri cubi di fanghi da scavare, 30-40 milioni di euro di spesa. E poi di realizzare (nel 2017) la nuova Stazione passeggeri nel cantiere dei cassoni del Mose, a Santa Maria del Mare. Il ministro per l’Ambiente Corrado Clini prima della tragedia della Costa Concordia aveva lanciato l’idea di spostare in mare le grandi navi. Ora ha scritto al Porto. «Condivido questa soluzione, fatte salve le verifiche puntuali in merito alle compatibilità ambientali», scrive Clini, che rilancia anche l’idea di spostare in mare le petroliere. E sulla «compatibilità ambientale» dei nuovi lavori con l’equilibrio lagunare il dibattito è già aperto.

L’ingegnere idraulico Luigi D’Alpaos si dice convinto che scavare un canale del genere in mezzo alla laguna avrà «conseguenze idrauliche gravissime». Aumento di acque alte, perdita di sedimenti. Un canale dei Petroli bis. Quanto al porto passeggeri sul Mose, le obiezioni riguardano l’impatto della piattaforma in cemento del Mose (11 ettari) e la distanza da Venezia. I comitati protestano, i proponenti già pensano a un tunnel per le auto. Qualcuno ricorda che un progetto per il porto in mare (a Punta Sabbioni) c’è già, e non è mai stato preso in considerazione. E’ il «Perla» di Cesare De Piccoli: grandi navi al Lido e turisti portati a Venezia con la motonave. Ed è polemica.

Rinviamo alle nostre postille agli articoli di Enrico Tantucci (19 gennaio) e di Alberto Vitucci (21 gennaio)

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