«La ragione degli apparenti paradossi non è misteriosa. E’ nella propaganda con la quale l’autorità portuale e l’agenzia che gestisce le crociere (la Vtp) difendono l’indifendibile: le crociere creerebbero cinquemila posti di lavoro. Di fronte ai “posti di lavoro” tutti s’inchinano. Perfino il senatore Casson». Italianostravenezia.org, 23 settembre 2015 (m.p.r.)
Ecco l’opinione del vostro redattore sulla faccenda delle grandi navi da crociera dentro e fuori della Laguna.
Da una parte tutti sono d’accordo sul fatto che Venezia sta scoppiando sotto il peso di un turismo di massa che non è più ragionevole. Le proposte di modi per “gestire i flussi” si accumulano: tornelli a San Marco, tasse altissime per chi non prenota, sette “hub” per fermare gli arrivi in eccesso. Tutti lamentano la scomparsa dei negozi di vicinato, la chiusura di aziende artigiane, la trasformazione degli appartamenti in alberghi, l’intasamento di vaporetti, calli e campielli.
Dall’altra parte, nessuno, proprio nessuno, dei candidati al Consiglio comunale ha avuto il coraggio di inserire nel proprio programma il divieto di fermata a Venezia per le grandi navi da crociera. Se trenta milioni di turisti l’anno sono decisamente troppi (venti milioni di troppo secondo il professor van der Borg), non si vede perché si debba scavare un canale di cinque chilometri e allargarne uno di sedici per far entrare altri due milioni e mezzo di turisti. Non si vede perché si debba tollerare l’inquinamento atmosferico, acqueo, acustico, estetico oltre che di esseri umani che ne deriva. L’associazione Ambiente Venezia da una parte pubblica un prezioso “libro bianco” nel quale denuncia i mali provocati dalle grandi navi e dall’altra sostiene la creazione di un porto d’ormeggio per loro, di fronte alla riva del Cavallino, tra l’orrore degli abitanti di quel luogo.
La ragione degli apparenti paradossi non è misteriosa. E’ nella propaganda con la quale l’autorità portuale e l’agenzia che gestisce le crociere (la Vtp) difendono l’indifendibile: le crociere creerebbero cinquemila posti di lavoro. Di fronte ai “posti di lavoro” tutti s’inchinano. Perfino il senatore Casson, che pure vede bene i danni connessi alle crociere, non osa mettersi contro i portuali, i portabagagli, le agenzie turistiche che forniscono le hostess. Le considerazioni elettorali hanno la meglio su tutto. Si parla di un sano “realismo” che costringerebbe ad accettare i “compromessi”.
La politica, si ripete, deve saper mediare. Il risultato è che non si ha il coraggio di guardare in faccia la realtà. I “posti di lavoro” sono pochi e mal pagati: interinali, stagionali, a tempo parziale e molto meno numerosi di quanto si dica (forse cinquecento invece che cinquemila). Inoltre essi impediscono la creazione di altri posti, più duraturi e più specializzati, che non possono nascere in un ambiente tutto dedicato al turismo mordi e fuggi: dove c’è il turismo di massa non sorgono le start up né le aziende di ricerca e sviluppo. Dove si vendono mascherine a cinque euro spariscono gli indoradori, i remèri e i rilegatori di libri antichi. Dove arrivano i gruppi organizzati spariscono i residenti.
Accettare le crociere in nome dei posti di lavoro corrisponde a un suicidio a lungo termine. Corrisponde all’accettazione, una volta per tutte, del fatto che Venezia è destinata a diventare un parco turistico. L’arrivo delle grandi navi, sia in Marittima o a Marghera o al Cavallino, sigilla questa visione e la perpetua anche agli occhi dei media mondiali.
Ma in città rimane un gruppetto di abitanti, forse esiguo ma non estinto, che ancora combatte contro quella trasformazione. I residenti della Venezia insulare sono in gran parte con quel gruppetto. Sono persone che vedono lontano e che amano la loro città più di quanto amino il successo elettorale o la reputazione di essere “realistici” e di saper accettare i “compromessi”. La semplicità e la bellezza della loro visione sono evidenti e toccano il cuore di ognuno, a Venezia e nel mondo. Se riusciranno a emergere e a farsi ascoltare forse non tutto sarà perduto.
Il sindaco Brugnaro, che possiede anche una laurea in architettura, non ha dubbi sulle qualità estetiche dell’albergo- “il bianco sposa il materiale del ponte di Calatrava”, ma è sdegnato, perché la burocrazia ha rallentato la realizzazione di “un pezzo di storia di Venezia fatto tutto con soldi di privati” . Non ha chiarito se, a suo giudizio, anche la costruzione dell’edificio (l’unico costo rimasto a carico dei proprietari, ai quali ormai regaliamo terreni, permessi, agevolazioni fiscali, concessioni, condoni) dovrebbe esser pagata dai contribuenti, ma ha invitato ad aver pazienza “l’opera va capita… e per il gusto, bisogna dargli tempo”.
L’albergo non piace, invece, a Vittorio Sgarbi che vorrebbe ricoprirlo d’edera. Non piace neppure al rettore dell’Università IUAV, Amerigo Restucci, che suggerisce alla Biennale di indire un concorso fra giovani progettisti per trovare il modo di “mimetizzarlo”. Non è escluso che, con un rivestimento vegetale, l’edificio potrebbe essere spacciato come capolavoro green ed ecosostenibile, ma a prescindere dall’opportunità di camuffare un manufatto che si addice perfettamente al modello di città a cui si ispira il sistema di potere che domina Venezia, il rettore dimentica che già nei primi anni 90’, quando il direttore era Francesco Dal Co, la Biennale di Architettura indisse un concorso internazionale per la sistemazione di piazzale Roma. E l’unico concreto risultato fu l’idea, fortemente sostenuta da Dal Co e da lui caldeggiata presso l’amministrazione comunale allora retta dal sindaco Cacciari, e quindi inserita nel piano regolatore del 1995, di costruire un ponte nella esatta posizione in cui è stato messo il Calatrava.
Da allora ha preso avvio la trasformazione di piazzale Roma, in cui si inserisce l’albergo Santa Chiara. Ha ragione, in questo senso, Elio Dazzo, il proprietario, nonché presidente dell’associazione pubblici esercizi di Venezia, quando dice “piazzale Roma, con la nuova Cittadella della Giustizia, la nuova pensilina, il people-mover, l’arrivo del tram e il ponte di Calatrava sta già cambiando volto. Non capisco perché il mio albergo, in questo contesto, non possa starci”. Ci sta, infatti, e ci sta anche F 30, il locale che Dazzo possiede sull’altra sponda del Calatrava, all'interno della stazione ferroviaria, e che viene così pubblicizzato: “con ampia metratura, si affaccia su piazzale Roma e sul ponte di Calatrava. Dispone di un ampio dehors sulla parte terminale del Canal Grande… offre servizio di bar, ristorante, pizzeria e pasticceria ed è aperto tutto il giorno. Cucina italiana con piatti di carne e pesce con cucina a vista. Musica live in serate dedicate”. Forse, queste non sono le priorità per chi va in stazione, sperando di salire su un treno regionale che non c’è più, ma sono sicuramente funzioni e attività coerenti con il contesto a cui fa riferimento il proprietario dell’albergo. Contesto, il cui progetto avrebbe dovuto essere discusso pubblicamente nella sua interezza, e che viene invece esibito un pezzo alla volta, ed ogni volta avendo cura di attirare l’attenzione su aspetti marginali, e comunque inerenti solo l’immagine dei singoli episodi architettonici.
La cittadella della Giustizia
Nello stesso periodo in cui si tesseva l’operazione Calatrava, il demanio trasferì il vicino compendio della Manifattura Tabacchi (attività sospesa nel 1997) al comune di Venezia che decise di collocarvi tutti gli uffici giudiziari della città. È stata cosi realizzata la cosiddetta cittadella della Giustizia, in parte all’interno degli edifici della Manifattura- “un’occasione per restituire alla città un’area inaccessibile”- in parte con una nuova costruzione incastrata di fianco al garage san Marco, subito insignita del premio medaglia d’oro dell’architettura italiana per la committenza pubblica, riconoscimento con il quale il Ministero dei Beni Culturali e del Turismo, assieme alla Triennale di Milano e a MadeExpo intende promuovere l’architettura contemporanea come “costruttrice di qualità ambientale e civile”. Tra le sue “qualità ambientali” c’è quella che i fanghi ed i materiali ricavati dagli scavi sono stati usati per imbonire un pezzo di laguna (intervento esplicitamente vietato dalla legge speciale) ed ampliare il cimitero affidato alle cure progettuali di una archistar. Tra le peculiarità formali, invece, il palazzo di Giustizia si fregia del fatto di avere un’apertura in linea con il ponte di Calatrava, che è stato scelto come “fuoco del cannocchiale prospettico!”. L’edificio “in bilico tra storia e contemporaneità” è stato pubblicato su prestigiose riviste di architettura e Fulvio Irace l’ha definito “un’agopuntura di architettura contemporanea in quel terrain vague che segna il confine tra città storica e terraferma” .
Nel 2013, la giunta del sindaco Orsoni inserì nell’elenco dei suoi progetti strategici nuovi edifici per la cittadella della Giustizia, il cui ampliamento consentirebbe di raggiungere due obiettivi importanti, ancorché non esplicitamente dichiarati: quello di fornire la “giustificazione” per la costruzione di ulteriori parcheggi e quello di liberare i palazzi storici vicino al ponte di Rialto e al Fontego dei Tedeschi, nei quali gli uffici giudiziari erano situati, in modo da poterli adeguatamente “valorizzare” (ad esempio trasformandoli in alberghi per i clienti del centro commerciale del Fontego del Tedeschi). Ovviamente, l’intervento dovrebbe essere realizzato “grazie” ad investimenti privati, secondo le regole del project financing. Per “invogliare” i privati ad aiutare la città, il comune si dichiarò disposto ad offrire una concessione di lunga durata per tutti i servizi all’interno del complesso giudiziario (bar, pulizie, riscaldamento, condizionamento, sicurezza e sistemi di sorveglianza), nonché sui parcheggi a tempo che si affacciano su piazzale Roma.
Contemporaneamente l’amministrazione comunale si attivò per accelerare la costruzione di parcheggi. La cittadella della giustizia “esige” un nuovo parcheggio, spiegò nel 2014 l’assessore alla mobilità Ugo Bergamo, con riferimento alla decisione di raddoppiare il garage san Marco con nuovi 1000 posti auto. Come è noto, nello stesso 2014, la Giustizia che lavora nella cittadella ha mandato a casa la giunta del sindaco Orsoni, ma non per questo i piani per la moltiplicazione dei parcheggi si sono fermati; anzi molti ostacoli sono stati superati.
Innanzitutto, la sopraintendenza ha tolto il vincolo sulla torre piezometrica di Sant’Andrea, eretta alla fine dell’Ottocento quando fu costruito l’acquedotto a Venezia, una delle poche testimonianze di un’epoca di modernizzazione della città non ancora distrutte o convertite in albergo. Così la torre, che si trova a pochi metri dal garage san Marco potrà essere demolita e si libererà l’area destinata alla nuova costruzione. Il commissario Zappalorto, poi, pochi giorni prima della conclusione della sua gestione, ha approvato il progetto preliminare e una apposita variante urbanistica per consentire il raddoppio del garage.
Potrebbe sembrare un’incongruenza che, con questa conclamata fame di parcheggi, si sia contestualmente deciso di demolire il garage Venezia, dal 1957 in funzione a pochi metri della cittadella. Forse era troppo piccolo, o forse i suoi gestori non hanno amici potenti.
Il garage ed il terreno su cui sorgeva fanno parte del dono fatto dal demanio al comune con il conferimento della Manifattura Tabacchi. Il comune l’ha poi ceduto, insieme ad altri terreni ed immobili al fondo immobiliare Est Capital, di proprietà di una società presieduta da Giancarlo Mossetto, ex assessore della giunta Cacciari. Dalle poche informazioni apparse sulla stampa locale, si evince che il comune non ha informato i gestori del garage del cambio di proprietà, cosicché questi hanno continuato per anni a pagare l’affitto al comune. Dopo di che Est Capital li ha sfrattati; e solo allora il comune ha trasferito i soldi regolarmente incassati. Troppo tardi, però, per salvare il garage. Non tutto è andato male, però, perché nel passaggio dal comune a Est Capital è provvidenzialmente “sparito” il vincolo sull’area che ne prevedeva un uso pubblico, per l’appunto parcheggio. Beneficata dall’inaspettato regalo, Est Capital ha quindi rivenduto l’area, senza alcun vincolo di destinazione, ad un gruppo di investitori francesi che intendono costruirvi un albergo di 50, camere, con parcheggio.
La sopraintendenza.
Se questo è il contesto, il motel al casello di Benettown è la cosa giusta al posto giusto e appaiono poco eleganti i tentativi di incolpare la Sopraintendenza per averne approvato il progetto.
L’opera è stata autorizzata dalla sopraintendenza, dice il proprietario dell’albergo, anzi ” noi lo volevamo diverso, ma abbiamo soddisfatto le richieste della sopraintendenza”. Anche Alessandro Maggioni, assessore ai lavori pubblici della giunta Orsoni, non ha dubbi “il cubo fa schifo”, ma “il comune non ha colpe, è la sopraintendenza che l’ha autorizzato”.
Finora la stampa non ha riportato eventuali reazioni di Renata Codello, la sopraintendente in questione, nel frattempo promossa a Roma, sulla quale tutti cercano di scaricare le responsabilità per la “bruttezza” del Santa Chiara. Tutte persone che nulla ebbero da ridire quando, nel 2013, durante un convegno organizzato dall’Università IUAV sul rapporto tra Venezia e l’architettura contemporanea, Renata Codello, quasi anticipando la visione renziana del ruolo delle sopraintendenze, si dichiarò favorevole a una “deregulation urbanistica a Venezia per favorire l’arrivo dell’architettura contemporanea - in una città che la vede ancora con ostilità - abolendo il sistema di norme fissate dai piani regolatori, ma stabilendo caso per caso, con le autorità competenti, Soprintendenza e Comune in prima fila - cosa è ammissibile e cosa no”. Tutti zitti, allineati e coperti, allora, ognuno pensando che forse ci avrebbe cavato qualcosa, e tutti a caccia dell’unica colpevole, adesso. Ingrati.
In mezzo a tante schifezze, spicca la visione lungimirante, la capacità di vedere come nelle grandi opere di architettura “la forma segue la funzione”, dimostrata dai quattro giovani di Jesolo che, nel 2011, hanno percorso in automobile il ponte di Calatrava e hanno poi tranquillamente parcheggiato in campo san Geremia. L’allora sindaco Orsoni decise di collocare dei “dissuasori” all’imbocco del ponte, involontariamente confermando che esso non solo sembra, ma è la bretella di collegamento tra il ponte della Libertà e i centri commerciali che la società Grandi Stazioni si è fatta, dopo essersi impadronita della stazione ferroviaria e degli edifici adiacenti, acquistati nel 1999. Centri commerciali che, nel 2009, l’ex sindaco Cacciari presentò con queste parole: “con questi interventi attesi e necessari si ribadisce la centralità di un’area che di fatto è anche collegata al terminal automobilistico di piazzale Roma grazie al ponte ideato da Calatrava “. I quattro giovinastri vennero “puniti” con il divieto di ingresso a Venezia per tre anni. Ormai i tre anni sono passati e sarebbe gentile invitarli a tornare sul luogo del delitto ed offrir loro un pernottamento omaggio al motel Santa Chiara, come premio per aver saputo captare prima di tutti la “vocazione” del luogo e lo spirito dei tempi.
I colpi di coda dello scorpione: il Commissario prepara le carte per privatizzare il trasporto pubblico, l'uso delle spiagge, e quant'altro. Sarebbe bello se i candidati sindaco ci dicessero subito che cosa faranno se saranno eletti Sindaco. La Nuova Venezia, 7 giugno 2015
VENEZIA. Da quaranta a diciannove. È la «cura dimagrante» sulle aziende partecipate del Comune che il commissario Vittorio Zappalorto e il subcommissario Vito Tatò affidano - per essere realizzato - al nuovo sindaco della città (Felice Casson o Luigi Brugnaro), contenuto nel piano di razionalizzazione delle società comunali che hanno già predisposto, secondo quanto richiesto anche dal Governo e di cui si conoscono ora i dettagli. Il Piano - che se attuato dovrebbe comportare risparmi significativi per la “macchina” comunale, prevede appunto gli accorpamenti di società comunali che svolgono funzioni analoghe, la dismissione di quelle che non svolgono funzioni indispensabili per i fini di Ca’ Farsetti, il mantenimento delle partecipazioni di controllo di quelle invece essenziali, aprendone però il capitale anche ai Comuni che entreranno a far parte della Città Metropolitana. In più, coordinamento tra le varie partecipate e contenimento dei loro costi di funzionamento.
Tra le novità più importanti, la fusione di Actv nella sua capogruppo Avm, l’Azienda veneziana per la mobilità, il cui capitale, ora al 100 per cento del Comune, verrebbe aperto ai soci attuali di Actv, a cominciare dalla Provincia e dal Comune di Chioggia, che hanno chiesto di uscire da Pmv - la società patrimoniale di Actv - e riceverebbero in cambio non soldi, ma azioni della «nuova» Avm, fino a una quota del 20 per cento della società. Avm svolgerebbe così direttamente il servizio di trasporto pubblico locale per Venezia e Chioggia e nell’area extraurbana della provincia centromeridionale. L’Azienda veneziana della mobilità resterebbe anche il socio di maggioranza di Vela, la società degli eventi e del marketing del Comune.
Resterebbero invece sotto il controllo del Comune - ma aperta anche ai Comuni metropolitani, Ames (mense e farmacie), Insula (manutenzione urbana), Venis (informatica) e appunto Vela. Il Comune invece uscirà dal tutto da una controlata come Venezia Spiagge - di cui ha il 51 per cento del capitale - lasciando spazio ai privati, non appena sarà concluso l’iter di autorizzazioni per la proroga delle attuali concessioni balneari marittime sulle spiagge. Cedute anche le quote di minoranza, di abate Zanetti srl 8la scuola del vetro di Murano), Nicelli spa (l’aeroporto del Lido) e anche Promovenezia, Residenza Veneziana e Interporto di Venezia. Ive srl, l’Immobiliare veneziana diventerà l’unica società immobiliare del Comune, assumendo anche il controllo di Vega scarl (la società del Parco scientifico di Marghera).
Per Veritas si seguirà il piano di razionalizzazione già approvato dalla società multiservizi ambientali, che prevede la riduzione delle sue attuali partecipazioni societarie da 21 a 11. Per il Casinò, Zappalorto e Tatò rimandano al piano di riorganizzazione della società in discussione tra azienda e sindacati e indicano - sulla base dei primi risultati di esso - tre strade possibili al nuovo sindaco. Riprendere il progetto della cessione ai privati della gestione del Casinò. Proseguire con la gestione diretta sotto una società interamente controllata dal Comune, Oppure scegliere una strada intermedia: mantere il controllo pubblico del Casinò, ma far entrare nella società un operatore
privato in grado di rilanciarlo a livello internazionale. Per la sopravvivenza della Cmv spa, la società patrimoniale del Casinò, è invece fondamentale, per alleggerire il suo pesante indebitamento, vendere alcune delle sue proprietà immobiliari. Cominciando, forse, dai terreni di Tessera.
«Per non morire, la Serenissima si sta consegnando ai privati ed è sempre più simile a uno showroom. L’arte deve essere accessibile agli sponsor, e lo sponsor è talmente accessibile all’arte che fa come se fosse a casa sua». Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2015
Venezia. Se un pomeriggio d’estate un Visitatore entrasse alle Gallerie dell’Accademia per visitare le nuove sale appena inaugurate, potrebbe fare delle belle scoperte, la più strabiliante che il Tiepolo si è fatto lo smartphone, e ha scelto un Samsung. Ma non anticipiamo troppo. Il Visitatore ha grandi aspettative, e un po’ gli rode, visto che ha appena pagato 15 euro per il biglietto di entrata, più un euro di caparra per poter usufruire di uno dei cinquanta armadietti da palestra di periferia che sono il solo guardaroba disponibile di una delle più prestigiose raccolte d’arte al mondo. Anche l’ingresso è uno dei più cari al mondo; ma di certo ne varrà la pena, pensa il Visitatore, per farsi un’idea di questo primo assaggio del rilancio in grande stile di cui si favoleggia da anni.
Ebbene, la prima sala della nuova Accademia è davvero sbalorditiva, per un museo d’arte. Nemmeno un dipinto, solo enormi megaschermi marchiati Samsung. Che poi, spiegano i depliant, chiamarli schermi è riduttivo: si tratta piuttosto (citiamo) “di totem multimediali grazie ai quali è possibile agevolare la costruzione di un percorso di visita”. Agevoliamoci, pensa il Visitatore sentendosi un po’ capo pellerossa, e al primo sfioramento il totem lo ripaga con la visione di James Ivory, il regista di Quel che resta del giorno, che si mette a raccontare di come girò il suo primo cortometraggio proprio a Venezia, tra le sale dell’Accademia. Ci fa piacere per lui, pensa il Visitatore, ma che c’entra? Poi però Ivory viene al dunque: “L’arte deve essere accessibile a tutti”, osserva; e per questo ringrazia di cuore la Samsung per avere partecipato alla ristrutturazione dell’Accademia con un suo generoso contributo. Dopo la prima sala, che è di fatto uno showroom del leader mondiale dei media digitali, il visitatore passa alle altre quattro; si comincia a vedere qualche dipinto, e qui arriva la sorpresona: ogni quadro ha il suo tablet personale, in modo che, mentre si è davanti ai veri Hayez, Veronese o Tiepolo, si possa smanettare in santa pace sul relativo Samsung piazzato a fianco dell’opera.
A questo punto il Visitatore ha le idee un po’ confuse ma con un punto fermo; l’arte deve essere accessibile a tutti, ma soprattutto deve essere accessibile agli sponsor. Scopre che queste cinque sale costate dieci anni di riunioni, autorizzazioni, progetti e lavori (una media di due anni a sala), non si sarebbero mai potute aprire senza i 600 mila euro offerti dalla Samsung. Bel gesto, ma in cambio di cosa? Il Visitatore scopre anche che nell’allestimento degli spazi, per misteriosi “nuclei tematici”, non si è partiti dalla selezione dei dipinti ma dalle scelte dagli architetti, dai vincoli della burocrazia e forse – ma questo è solo un sospetto – dagli interessi dello sponsor. Di certo, sia questi ambienti totemici, sia l’area espositiva dell’ex Chiesa della Carità dove è allestita una brutta mostra di Mario Merz fanno letteralmente a pugni con le gloriose sale del piano nobile, dove da sempre tutto procede non per “nuclei tematici” ma semplicemente per ordine cronologico; e dove ora Cima da Conegliano, Giovanni Bellini e Giorgione creperanno di invidia. Perché Tiepolo ha il tablet, e noi no?
Finita la visita e salutati i totem, il Visitatore si sposta al ponte di Rialto; e lo trova incoronato da un enorme cartellone che pubblicizza la mostra celebrativa dei 20 anni della linea di moda Marni (socio di maggioranza, Renzo Rosso); una maniera non delle più sobrie per informarlo che il restauro appena iniziato si deve alla generosità dello stesso Rosso a seguito di un accordo firmato dall’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni. Certo che questa città rigurgita di mecenati, pensa il Visitatore; il magnate del lusso Francois Pinault che ha rimesso a nuovo Palazzo Grassi e Punta della Dogana e poi ci ha piazzato le sue collezioni d’arte private; Prada che si è presa Ca’ Corner della Regina collocando la Fondazione al primo piano e gli appartamenti privati al secondo, e ora anche lo storico patron della Diesel...
Ma forse c’è tempo per rimediare. Forse bisogna aspettare che il Fontego dei Tedeschi, sventrato delle strutture cinquecentesche, venga trasformato dalla Benetton in un centro commerciale perfino più sontuoso di quello aperto di recente nei pressi del Ponte di Calatrava; solo allora potremo godere dell’effetto sistema dell’intera zona di Rialto.
Imbarcandosi sul vaporetto nero pece brandizzato DIESELREBOOT, il Visitatore ripensa alle Gallerie dell’Accademia, e conclude che quelle nuove sale sono un’eccellente metafora di quanto sta accadendo in tutta Venezia. Per non morire, la Serenissima si sta consegnando ai privati ed è sempre più simile a uno showroom. L’arte deve essere accessibile agli sponsor, e lo sponsor è talmente accessibile all’arte che fa come se fosse a casa sua. Il privato fa il suo mestiere: se gli dai il dito lui non si ferma più, mette i telefonini nella pinacoteca e i manifesti sul Canal Grande; sta al pubblico tenere la barra dritta, vedere la differenza tra un mecenate e uno sponsor, e stabilire i limiti. Per riuscirci però ci vogliono regole certe, istituzioni sane, e soprattutto uno Stato degno di questo nome; la Samsung, la Diesel o qualcun altro si offre per ristrutturarlo?
Qualche anno fa (14 agosto 2009) avevamo pubblicato su eddyburg un antico scritto di Luigi Scano che ripresentiamo adesso per la sua sconvolgente attualità. In calce, una postilla
Dall’Egitto a Venezia, proposte vecchie e nuove per governare il turismo, un fenomeno sempre più devastante
Assai recentemente, Paolo Rumiz raccontava (“Egitto, le tombe proibite”, in la Repubblica, 3 dicembre 2006) di avere visitato alcune magnifiche tombe, precluse all’accesso da molti anni, o da molti decenni, nelle Valli dei Re, delle Regine e dei Nobili, nella zona di Luxor, in concomitanza con alcune operazioni attuative di un imponente progetto di riproduzione fotografica ad altissima definizione degli interni, e soprattutto delle pitture murali, della totalità delle tombe delle suddette necropoli. Tale progetto, riferiva il giornalista essergli stato spiegato da Zahi Hawass, segretario generale del Supreme Council of Antiquities del Cairo (una specie di soprintendente archeologico nazionale, a quel che è dato capire), è parte essenziale di un più complessivo programma di riproduzione, monitoraggio, messa in sicurezza (anche attraverso la sottrazione alla fruizione turistica, e comunque generalizzata), di tutte le tombe costituenti il patrimonio archeologico egiziano.
Ciò in un Paese, l’Egitto, che, a differenza di buona parte degli altri Paesi della stessa area geografica, non possiede rilevanti risorse naturali (quali innanzitutto il petrolio), e per il quale “il turismo” costituisce non soltanto la prima “industria”, ovvero la prima (con colossali distanze da tutte le altre) fonte di valore aggiunto, e di reddito, ma addirittura l’attività decisiva allo scopo di mantenere le grandi masse popolari ivi abitanti (appena) al di sopra della soglia della più nera povertà e della fame.
Evidentemente, Zahi Hawass, e i dirigenti politici e istituzionali egiziani che gli forniscono supporto, e autorità, hanno ben inteso la “radicalità” che sarebbe pretesa da una coerente interpretazione, e applicazione, di quel principio della “sostenibilità dello sviluppo” che, al contrario, fornisce mera occasione di vaniloqui retorici, e di gargarismi demagogici, a tanta parte dei dirigenti politici e istituzionali italiani (non mi pronuncio su quelli degli altri Paesi dell’opulento Occidente), vale a dire di uno degli otto Paesi maggiormente “industrializzati” (checché ciò voglia dire) del mondo.
Per fare un esempio (tutt’altro che casuale, ma intenzionalmente e faziosamente prescelto, epperaltro, ahimé, nient’affatto connotato da eccezionalità, o da semplice rarità, neppure rispetto all’universo dagli enti locali amministrati dal “centrosinistra”) a Venezia si discetta, oramai, da qualche mese, circa le migliori soluzioni tecniche idonee a porre a carico dei fruitori turistici della città storica lagunare (direttamente, o attraverso l’incremento di talune esazioni gravanti sugli operatori del settore) una quota, più o meno consistente, dell’aumento, addebitabile ai medesimi fruitori turistici, delle spese correnti che devono essere sostenute, dal Comune e dalle aziende strumentali che a esso fanno riferimento, per l’erogazione dei più diversi servizi, e per la manutenzione urbana (per non dire di quelle riconducibili alla cosiddetta “promozione”, nell’accezione più ampia, del turismo, e pertanto interamente finalizzate a vantaggio dei turisti, o, meglio, degli appartenenti alla cosiddetta “filiera turistica”, cioè di tutti coloro che dal fenomeno turistico ricavano profitto, e senza neppure prendere in considerazione il fatto che almeno una parte delle spese per investimenti è condizionata, nella qualità e nella quantità delle opere da realizzare e dei beni da acquistare, e quindi nei costi, dall’esistenza e dall’entità del fenomeno turistico).
Ma tutto il dibattito è stato rivolto all’individuazione delle soluzioni (ritenute) più efficaci, quanto a celerità e a certezza, allo scopo di “fare cassa”, assumendo il duplice vincolo da un lato di non fare gravare troppo gli extracosti generati dal fenomeno turistico sui redditi, non derivanti dallo stesso fenomeno, di quella che, comunque e per ora, resta la larga maggioranza dei residenti nell’intero Comune di Venezia, dall’altro lato di non ledere, se non marginalmente e inavvertibilmente, gli arroccatissimi e fortificatissimi interessi delle categorie, delle sotto-categorie, dei gruppi, dei soggetti, individuali e societari, che, per lucrare sulla fruzione turistica della città storica di Venezia e della sua laguna, da anni e da decenni stanno, come locuste predatorie e voraci, sfregiando, sconciando, divorando, consumando l’una e l’altra.
Mentre si è scartata a priori la scelta di riprendere, e di approfondire, le soluzioni funzionali piuttosto (pur se comportanti anche introiti alle esangui -??? - casse pubbliche locali) a costruire un complesso sistema di regolazione della fruizione turistica della città storica e della laguna (nel cui contesto un elemento irrinunciabile sia la regolazione programmata dell’entità dei flussi turistici, basata innanzitutto sulla possibilità/obbligo di prenotare la fruizione).
Eppure non soltanto gli ora richiamati obiettivi, ma anche le molteplici azioni, e i plurimi interventi, finalizzati al loro perseguimento, erano già, rispettivamente, proclamati e motivati (sotto il profilo dei principi universali, e sotto quello della lettura delle situazioni locali), ed esposti e specificati, nel progetto di “piano comprensoriale” della laguna e dell’entroterra di Venezia varato all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, e integrato dalle osservazioni del Comune di Venezia votate circa un biennio appresso, nonché, con ulteriori specificazioni, nel “piano programma 82/85” dello stesso Comune di Venezia, fortissimamente voluto, e capillarmente curato, dall’allora vice-sindaco Gianni Pellicani (che gli attuali amministratori comunali tanto più trasformano in quel “santino” ch’egli assolutamente non era, quanto più ne tradiscono gli ideali, i principi, le convinzioni).
Eppure, dopo di allora, l’entità e la tipologia della fruizione turistica della città storica e della laguna si sono, rispettivamente, ingigantite e pervertite oltre le più pessimistiche previsioni, sicché, tanto per dirne una, il numero medio giornaliero di presenze nella città storica è oramai poco meno che doppio rispetto a quello che era stato stimato rappresentare il limite di soglia della “sostenibilità socio-economica” negli studi commissionati dal Comune di Venezia all’Università di Ca’ Foscari, alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, per valutare gli impatti prevedibili dell’ipotesi di realizzare nell’area veneziana l’”Expò 2000”.
Eppure le opzioni da assumere, e le politiche (di lunga lena, certamente) da attuare, per preservare, nell’interesse dell’intera umanità, presente e futura, il patrimonio costituito dall’integrità fisica e dall’identità culturale della laguna veneziana e dei suoi insediamenti umani, urbani ed extraurbani, sarebbero (per ora) estremamente meno drastiche di quelle che si accingono a intraprendere i responsabili tecnici e i decisori politici egiziani. A Venezia, infatti, nessun sito dovrebbe essere totalmente precluso, mentre di molti (e quindi della città nel suo complesso) si dovrebbe “prenotare” la fruizione: avendone, in contraccambio, la possibilità di fruire dei suoi autentici valori di “bene posizionale”, e non del loro squallido surrogato (con un potenziale slogan pubblicitario: la possibilità di fruire di Venezia e della sua laguna, se non proprio come Johann Wolfgang Goethe, almeno come il Gustav von Aschembach di Thomas Mann).
Ciononostante: nulla. Un intero gruppo dirigente comunale, appecoronato davanti agli interessi delle locuste, predica (e, quel che è peggio, pratica) la crescita illimitata della fruizione turistica. Cioè la distruzione, prima o poi anche materiale, del capitale fisso sociale su cui si basa una rilevantissima attività economica (la riduzione, e quindi l’annullamento, dei valori su cui si fonda la produttività del medesimo capitale interverrebbe assai prima). Si tratta del cieco inseguimento di un necessario suicidio di massa, come nel modello comportamentale dei lemming scandinavi? ma vogliamo scommettere che, alla fine, le locuste non si getteranno nel mare?
P.S. Poiché, parlando delle locuste, ho fatto d’ogni erba un fascio, mi sembra doveroso ricordare, con immenso rimpianto, l’albergatore, e per molti anni presidente degli albergatori veneziani, Ugo Samueli, che perorava le mie stesse finalità di razionamento programmato della fruizione turistica di Venezia, e che funere mersit. Per il vero, ricordo la condivisione delle medesime posizioni anche da parte di qualche altro soggetto, ma poiché si tratta di viventi, non vorrei esporli alle ritorsioni dei predetti appartenenti alla famiglia degli acrididi.
postilla
Non sappiamo se questo testo sia stato pubblicato o no. L'avevamo trovato, qualche anno fa, nell'archivio personale di Gigi, ma senza indicazioni sulla sua pubblicazione cartacea. Neppure abbiamo trovato testi suoi che illustrino la sua proposta, cui fa cenno nel suo scritto del 2006, che definiva "razionamento programmato dell'offerta turistica".
Da qualche giorno, sul cancello dei giardini della Marinaressa, uno splendido spazio alberato di circa 2200 metri quadrati di fronte al bacino di San Marco...>>>
Da qualche giorno, sul cancello dei giardini della Marinaressa, uno splendido spazio alberato di circa 2200 metri quadrati di fronte al bacino di San Marco, sono affissi due cartelli: uno con la scritta “chiuso per restauro”, l’altro con l’annuncio che saranno riaperti in occasione della Biennale d’Arte, che vi allestirà uno dei suoi eventi collaterali.
L’area, di proprietà dell’autorità portuale, è da alcuni anni in concessione al comune, che dopo aver ripristinato percorsi e panchine, sistemato e reimpiantato alberi, nel 2010 l’ha riaperta al pubblico con una grande festa popolare. Ora, a causa del federalismo demaniale, il comune ne diviene proprietario a pieno titolo. Ma non si tratta di una buona notizia. Dal momento che il federalismo demaniale consiste, in realtà, nell’attribuzione ai comuni del ruolo di intermediario nello smantellamento del patrimonio statale, il passaggio di proprietà coincide quasi sempre nella sottrazione di un bene pubblico ai cittadini.
E questo sembra il destino dei giardini della Marinaressa che, situati in una posizione di grande pregio, lungo la riva dei Sette Martiri di fronte alla quale parcheggiano grandi alberghi galleggianti e maxi yachts, sono un’occasione imperdibile per i tanti mecenati a caccia di buoni affari.
Giustamente, lo Yorkshire Sculpture Park, l’associazione inglese che ne è entrata in possesso, ha espresso grande soddisfazione per “l’unica ed eccitante opportunità” di esibire sei grandi sculture in bronzo, legno di cedro e resina poliuretana di Ursula von Rydingsvard in «un parco pubblico con veduta mozzafiato sul bacino e San Giorgio Maggiore». Nell’ottobre del 2014, ha anche reso noto di essersi messa d’accordo con il comune per far ridisegnare il giardino da un progettista di fiducia della stessa associazione.
Poche notizie sono trapelate, invece, dal comune durante la gestione del commissario straordinario Vittorio Zappalorto, che ogni giorno cede ai privati qualche bene pubblico. Quello che si sa è che l’autorità portuale ha chiesto e concordato 5.731 euro per l’occupazione del suolo per i sei mesi di durata della Biennale, pari a 955 euro mensili, e concesso alla società inglese un diritto di prelazione per il futuro.
Qualche cittadino ha protestato, ma in attesa del “garden designer” il giardino è stato devastato. Sono stati tolti alberi senza le necessarie autorizzazioni, nessun progetto è stato discusso e approvato e il commento del dirigente del settore Verde Pubblico è stato: «capisco le proteste dei cittadini che si sono preoccupati, infatti per legge bisogna giustificare la rimozione degli alberi… ma tra poco il giardino sarà bellissimo». Inutili sono state anche le richieste di rispettare le norme del piano regolatore che destina l’area a “parco ad uso pubblico” e non prevede possibilità di concessione ai privati.
Ma ormai, a Venezia, le destinazioni del piano regolatore vengono modificate a nostra insaputa e norme e vincoli vengono cancellate in cambio di quattro soldi o per far piacere agli amici. Pochi mesi fa, una variante urbanistica è stata allegata anche alla convenzione con la quale il commissario ha concesso i Giardinetti Reali a San Marco alla Venice Gardens Foundations.
In un primo momento, il comune aveva individuato il mecenate di turno in Renzo Rosso, il quale però ha preferito sponsorizzare il ponte di Rialto. Così il commissario, senza neppure lanciare il bando per una manifestazione di interesse, ha affidato direttamente la gestione dei Giardinetti alla Venice Gardens, che si è appositamente costituita.
L’accordo prevede che la fondazione, presieduta da Adele Re Rebaudengo spenda 3 milioni e 800 mila euro per interventi che prevedono, oltre alla demolizione di un bunker e alla costruzione di una nuova serra, l’apertura di un collegamento tra i giardini e piazza San Marco, attraverso il museo Archeologico e il Correr.
In cambio, Venice Gardens gestirà, per 19 anni, la coffee house e la nuova serra. Inoltre potrà organizzare all’interno dei giardini, che hanno una dimensione di circa 6 mila metri quadrati, attività di studio e di ricerca, e creerà “una linea di articoli da giardino”. Il commissario ha detto che si tratta di «un miracolo, nato da una volontà comune di restituire alla città i suoi Giardini Reali». Il subcommissario Natalino Manno ha aggiunto «non sono veneziani, ma sono persone di elevata cultura» e la sopraintendente Renata Codello ha definito l’accordo «quasi un regalo di Natale alla città».
Tanto a proposito dei Giardini della Marinaressa che dei Giardinetti Reali, la stampa si è profusa in elogi riconoscenti alla munificenza dei mecenati. “Nuove piante ai Giardini della Marinaressa”, “Mecenati adottano i giardinetti” “ I giardinetti torneranno a splendere” sono alcuni dei titoli con i quali si racconta al cittadino derubato che gli è stato fatto un regalo.
Continua inarrestabile la trasformazione della città volta a «diventare parco divertimenti a disposizioni delle multinazionali del tempo libero». Nuovavenezia.it, 7 gennaio 2015 (m.p.r.)
L'isola è di proprietà di una società finanziaria tedesca e il progetto del complesso era stato avviato una decina di anni fa ma mai completato. Il progetto contempla anche la ristrutturazione della chiesetta dell'isola per i matrimoni. Sacca Sessola è un'isola artificiale, formata nel 1860 dall'accumulo dei fanghi dragati nei canali che è stata sede di ospedali nei due secoli scorsi; è una delle più grandi della laguna veneziana e occupa una superficie di circa 40 ettari, con monumenti e palazzi finemente decorati. È raggiungibile con 15 minuti di barca da piazza San Marco e una navetta sempre in funzione collegherà l'isola con il centro storico. L'albergo avrà 266 camere e suites progettate dallo studio milanese Matteo Thun & Partners. Il centro congressi, che si proporrà al mercato internazionale degli eventi, disporrà di spazi e sale di varie dimensioni e funzionalità, per una superficie totale di circa 1.200 metri quadrati.
Un resort che punterà molto anche sulla tranquillità e gli spazi verdi dell'isola interamente recuperati. Il centro benessere sarà il più grande di quelli presenti a Venezia, sviluppato su tre edifici, con tre piscine, di cui una coperta. Ma anche diverse stanze potranno contare su giardino e piscina privata». L'albergo avrà un'apertura stagionale - da marzo a ottobre - proprio per sfruttare al meglio sul piano meteorologico le caratteristiche di Sacca Sessola. Prevista anche una scuola di cucina riservata ai clienti dell'albergo, ma anche semplicemente agli appassionati.
Verrà inaugurato invece ad aprile sull'isola di San Clemente, il nuovo hotel San Clemente dopo la firma tra Starwood e la turca Permak Group, con un altro brand di lusso, il St. Regis e avrà 174 camere dopo una ristrutturazione del valore complessivo di 25 milioni di euro. Il gruppo turco Permak ha acquistato un'area di 62 mila metri quadrati sull'isola di San Clemente, nella Laguna di Venezia, che comprende l'hotel a cinque stelle San Clemente Palace Resort (205 camere) che lì sorge. Il gruppo Permak, attivo dei settori delle costruzioni, macchinari, turismo, tecnologia, prodotti chimici e vendita al dettaglio. Il complesso alberghiero darà lavoro a 600 persone, dotato di nuove attrezzature per lo sport, ristoranti, una piscina e un centro benessere. I lavori di restauro hanno rispettato l'originale impianto edilizio del complesso.
La strana presenza del ministro Corrado Clini all'allucinante evento organizzato a Porto Marghera per pubblicizzare la cosiddetta Torre Cardin, rappresenta una scorciatoia verso un modo di fare politica e di ciò che s'intende ancora per senso dello Stato che va oltre l'inverosimile. E tutto questo ad un punto tale da diffondere, dentro e fuori quell'evento assolutamente privato, una babelica oscurità, rendendo indistinguibili i doveri e i limiti propri di un così alto ruolo istituzionale, qual è quello ricoperto da chi agisce con la responsabilità di un ministro. Non è questa l'occasione per richiamare all'attenzione le molte autorevoli proteste sollevate contro la cosiddetta Torre Cardin da noti e stimati architetti e intellettuali, nonché dal Coordinamento delle Associazioni Ambientaliste del Lido e da Italia Nostra. Ciò che conta è la dolorosa sorpresa causata da un Ministro dell'Ambiente che, nel "fare pressing" sull'Enac affinché questo si sbrighi nel dire se quel Coso alto ben più di 250 metri possa rappresentare un pericolo per i voli da e per l'aeroporto intercontinentale di Tessera, indossa i panni, imprudentemente, di una sorta di promotore immobiliare.
Mi auguro sinceramente che il ministro Clini non abbia in realtà fatto alcun pressing, né abbia per davvero "spinto" a favore della Torre Cardin, al contrario di come narrano le cronache giornalistiche. E a proposito di ambiente, il Ministro dell'Ambiente, ma che lo è anche della Tutela del Territorio e del Mare, invece di dare per scontato il parere dell'Enac, potrebbe informarsi piuttosto su a che punto stanno le procedure richieste dal Coordinamento delle Associazioni Ambientaliste del Lido interessato a sapere se il progetto Cardin vada sottoposto o meno a VIA e VAS. Per concludere, qui c'è chi pensa che la "tutela di Venezia non giunga a Marghera". Eccome se vi giunge e lo si vedrà ben presto. Ma c'è anche chi parla di "sviluppo sostenibile" a proposito della cosiddetta Torre Cardin e tra questi sembra esserci Corrado Clini.
Uno "sviluppo", in questo caso, tutto declinato secondo l'inciviltà e gli interessi di una ancor più incontrollabile e perenne alluvione turistica. Ma, Signor Ministro, cosa c'è di "sostenibile" in una Venezia devastata da un turismo apocalittico e che sarebbe reso sempre più apocalittico da "sviluppi" modellati sull'immaginata Cardinia? Dunque, è assai preoccupante che il nostro Ministro dell'Ambiente pubblicizzi entusiasticamente un progetto privato, immobiliare e commerciale al contempo. E questo prima che lo "show room del fare" abbia percorso tutte le tappe autorizzative previste nel caso di colossali opere destinate, se costruite, a modificare definitivamente l'immagine e il senso stesso di Venezia e della sua laguna. Evidentemente non è bastato il dover sopportare quanto è accaduto con l'ex Nuovo Palazzo del Cinema. E lo dice uno, cioè il sottoscritto, che quel progetto aveva sostenuto.
L’autore è Consigliere del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali
La Nuova lancia un appello al Parlamento affinché il monumento simbolo della storia di Venezia sia restituito al Comune dopo lo «scippo» attuato con il decreto Innovazione. Un appello affinché i parlamentari di ogni colore politico si impegnino a far sì che il bene demaniale sia mantenuto nella sua unitarietà, come più volte votato all’unanimità dal Consiglio comunale. E la proprietà sia consegnata al Comune, che ne gestirà le attività nelle aree non più occupate dalla Marina Militare. La sottoscrizione è aperta. E i primi ad appoggiare l’iniziativa sono ovviamente i protagonisti di una battaglia cominciata qualche settimana fa.
Il sindaco Giorgio Orsoni, il presidente della società Arsenale spa Roberto D’Agostino, il segretario dell’associazione artigiani Gianni De Checchi. Ma anche lo scrittore Gianfranco Bettin e l’ex assessore Luana Zanella, l’urbanista Edoardo Salzano e il rettore dell’Iuav Amerigo Restucci. Ma tanti sono coloro che sostengono l’inziativa, pur non avendo ancora sottoscritto l’appello. Comitati e associazioni, personaggi della cultura veneziana, politici. La partita adesso si sposta in Parlamento. Perché il decreto sull’Innovazione presentato dal ministro delle Infrastrutture Corrado Passera è stato firmato dal Presidente della Repubblica e dovrà essere convertito in legge entro sessanta giorni.
Il sindaco Orsoni ha inviato al ministro una memoria scritta, chiedendo che le proposte del Comune siano inserite nel maxiemendamento del governo. Proposte che si possono riassumere così: al Comune passa la proprietà di tutto l’Arsenale, ad eccezione delle aree occupate dalla Marina militare per fini sitituzionali. L’area nord – i Bacini di carenaggio e la Novissima - sarà ridata in concessione al Consorzio Venezia Nuova – che già ha una concessione dal Demanio fino al 2026 – per completare il progetto Mose. L’area monumentale a sud (Gaggiandre e Corderie) sarà data alla Biennale, mentre la Marina resterà nella parte sud, dalla Porta dei Leoni agli Squadratori.
Il resto, compresa la Darsena Grande, potrà essere utilizzato dal Comune per attività culturali e manifestazioni, sul modello della Coppa America. In questo modo, spiega il sindaco Orsoni, l’Arsenale resterà alla città, e i canoni che il Comune incasserà dall’affitto dei capannoni e delle Tese potranno essere reinvestiti per la gestione dell’area. E soprattutto, per garantirne l’apertura e la fruibilità ai cittadini. Un tema su cui associazioni e comitati si stanno spendendo. Raccogliendo firme e chiedendo al sindaco Giorgio Orsoni di farsi carico della proposta.
«Vogliamo anche discutere nel merito, di quali progetti si possano fare nell’Arsenale restituito alla città», dicono. Per far questo ci si potrà avvalere ora della società Arsenale spa, di proprietà del 51 per cento del Demanio e del 49 per cento del Comune. La spa si è installata nella restaurata Tesa 105, che diventerà il nuovo ingresso da nord dell’Arsenale. Nella Teza del Bucintoro, costruita dal Sansovino, si progetta la ricostruzione dell’ammiraglia distrutta da Napoleone. Per la Darsena recuperata alla città – che prima Agnelli el’Aga Kahn, poi il presidente della Regione Galan volevano trasformare in porticciolo per gli yacht – i progetti sono tanti. Così come per le nuove attività previste nei capannoni, di recente restaurati dal Magistrato alle Acque. Che insiste per mantenere la proprietà dell’area nord. «In caso contrario», dice il presidente Ciriaco D’Alessio, «sarebbe a rischio la prosecuzione del Mose e noi non potremmo intervenire per i restauri con fondi dello Stato»
Postilla
Caro Alberto,
se tu avessi letto l'articolo pubblicato su eddyburg il 19 ottobre scorso, “Dietro l’Arsenale di Venezia”, che ho a suo tempo segnalato a te e agli altri destinatari di questo messaggio, sapresti che non avrei firmato il manifesto in difesa dei progetto del Comune per l'Arsenale.
Progetto che, per quanto è comprensibile, prevede la massiccia "valorizzazione" lungo la direttrice Tessera city- subblagunare - Arsenale -Lido. Come anche sai, sono stato sempre contrario all'impadronimento di Venezia e della sua Laguna da parte del Consorzio (e di altri gruppi d'interesse , e quindi non è a difesa di questo che mi schiero.
Ma mi rifiuto di essere strumentalizzato in un conflitto di gruppi di potere in nessuno dei quali mi riconosco, e ciascuno dei quali è oggettivamente portatore di interessi immobiliari che a me paiono perniciosi per la città.
«Alle domande che ho già precedentemente sollevato (sul rapporto tra Demanio, Consorzio e organi istituzionali del Comune, avvolto da veli che mi piacerebbe venissero sollevati) mi permetto di aggiungerne un'altra: chi ti ha detto che avrei aderito a quell'appello? Non è certo una tua invenzione, e neppure hai firmato un articolo scritto da un altro. Forse saperlo aiuterebbe a comprendere altre cose». (e.s.)
Grido d’allarme dei presidenti delle associazioni, riuniti all’interno del complesso monumentale
di Arsenale «occupato» dalle associazioni. Assemblea pubblica, ieri pomeriggio, per la prima volta all’interno del complesso monumentale. Una sessantina di presidenti e rappresentanti di comitati e associazioni si sono confrontati sulla strategia da seguire per «riportare l’Arsenale alla città». Battaglia che ricomincia, dopo l’avvio dell’iter parlamentare per approvare (con modifiche) il decreto del ministero delle Infrastrutture. E che prevede adesso l’invio di una petizione a tutti i parlamentari e di un forum permanente per tenere accesi i riflettori sulla vicenda. L’assemblea ha proposto al sindaco di convocare i parlamentari veneti per concordare insieme un testo bypartisan.
«Lo Stato ci ha scippato l’Arsenale», hanno detto i presidenti. Al tavolo Michela Scibilia, Flavio Franceschet, Pierandrea Gagliardi. Diapositive e grafici, documenti e studi. Si è deciso alla fine di dar vita a un forum permanente, che anche sul web possa tenere alta la mobilitazione e fare proposte «operative» sull’utilizzo compatibile dell’Arsenale «bene comune». Decine i comitati presenti. No Grandi Navi, 40XVenezia, Ambiente Venezia, Italia Nostra, Comitato Arsenale, Laboratorio Morion, Vela al Terzo, Arzanà e molti altri. Ma l’obiettivo, ha detto nella conclusione il coordinatore Pierandrea Gagliardi, «è adesso quello di allargare adesso la protesta alle associazioni di categoria, a cominciare dagli artigiani, alle forze politiche ei cittadini». Foto ricordo dei presidenti con lo sfondo della Darsena e delle Gaggiandre. E una petizione che adesso sarà consegnata ai parlamentari. «Il nostro comitato è sorto quando nel 2010 arrivò l’annuncio che il ministero della Difesa voleva vendere una parte di Arsenale per farne un albergo», ha spiegato Gagliardi, «un pericolo forse non ancora sventato». Roberto D’Agostino, presidente dell’Arsenale spa, ha risposto alle domande dei comitati. «Prima di questa società, istituita dieci anni fa», ha detto, «l’Arsenale era gestito interamente dal suo proprietario, il Demanio. Adesso ogni decisione sull’utilizzo delle parti dismesse dalla Marina, titolare del 70 per cento della superficie complessiva, devono passare per il Comune, che ne fa parte al 49 per cento». Obiettivo della Spa – che è una società strumentale del Comune e non può agire di sua iniziativa, ha ricordato D’Agostino – è quello di unificare la gestione dell’area. E di introitare i canoni di concessione oggi versati allo Stato da Cnr e Consorzio Venezia Nuova – circa 3 milioni di euro – per fare i primi investimenti. Manutenzione e guardiania, e dunque primo passo per l’apertura al pubblico dell’intero Arsenale, com’era stato nel maggio scorso con la Coppa America. Domande anche critiche da parte dei comitati. «Qual è il Piano industriale della società?», ha chiesto Silvio Testa di No Grandi Navi, «la protesta adesso va rienmpita di contenuti» Non basta dunque che l’Arsenale cambi padrone, è stato ossservato, ma la città dovrà discutere di come utilizzarne gli spazi. Attività compatibili, legate alla cantieristica, negli spazi che si potrebbero ottenere dala Marina. A cominciare dalla storica Teza del Bucintoro, opera del Sansovino, dove si prevede di ricostruire la grande ammiraglia della flotta Serenissima distrutta da Napoleone. Ma anche barche tipiche nella Darsena, oggi utilizzata unicamente dai mezzi militari e del Consorzio Venezia Nuova. Progetti di valorizzare il museo navale, di aprire la restaurata Torre di Porta Nuova alla città. Ma anche feste, concerti, seminari. E, soprattutto rendere permanente l’entrata da nord, con fermata Actv ai Bacini e dunque la fruizione da parte dei veneziani di una parte importante della loro città. Ieri l’assemblea si è tenuta nella restaurata Tesa 105, dove l’Arsenale spa ha spostato i suoi uffici. Edificio restaurato in chiave moderna, nel rispetto del monumento. secondo il sindaco Giorgio Orsoni e il direttore del Demanio, si trattava «del primo passo per aprire l’intero Arsenale ai Veneziani». Un’illusione poi concretizzata con la Spendig review e il decreto che ne assegnava la proprietà al Comune. Poi con il decreto Innovazione del ministero il brusco risveglio. l’Arsenale torna allo Stato. La battaglia continua.
Napolitano firma il decreto che contiene il comma dello “scippo” della parte dedicata al Mose Presto un emendamento “bipartisan” per restituirlo alla città che avrebbe i numeri per passare
La battaglia contro lo “scippo” dell’Arsenale alla città, si deciderà in Parlamento. Alla fine, infatti, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo averlo tenuto diversi giorni sul suo tavolo, ha firmato il decreto sull’agenda digitale che prevede anche il comma inserito dal ministro delle Infrastrutture Corrado Passera, che modifica quello già approvato all’interno del decreto sulla spending review, sottraendo al Comune - mantenendolo così allo Stato - circa il 70 per cento dell’Arsenale nord, quello dove sono previste le lavorazioni e le manutenzioni del Mose eseguite dal Consorzio Venezia Nuova d’intesa con il Magistrato alle Acque. Non erano molte in verità le possibilità che Napolitano, con un atto d’imperio, cancellasse o modificasse quel comma e si sperava da parte dal Comune e del sindaco Orsoni che a farlo fosse invece proprio il ministro Passera.
Ma nonostante contatti e invìi di memorie da Venezia a Roma, ciò non è avvenuto e lo scontro si sposta ora al Senato - dove il decreto sull’agenda digitale con Arsenale incorporato approderà per primo - dove sarà certamente presentato un emendamento, sperabilmente bipartisan, che chiederà l’abolizione del comma pro-Consorzio e la restituzione dell’Arsenale a Venezia. I numeri per farlo passare ci sono, perché oltre al Partito Democratico, anche l’Udc e la Lega - con i chiari pronunciamenti del presidente della Regione Luca Zaia e di quello della Provincia Francesca Zaccariotto - sono per la rfestituzione dell’Arsenale alla città. Ma anche l’Italia dei Valori dovrebbe votare a favore e lo stesso Pdl - che ha tenuto finora un atteggiamento molto prudente sulla vicenda dello “scippo” dell’Arsenale – avrà i suoi problemi a votare contro un emendamento di questo tipo. Prudente - ma per altre ragioni - è nelle sue dichiarazioni sul via libera al comma dello “scippo” anche il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni. «Aspetto di vedere il testo del decreto - commenta - perché credevo sinceramente ci fosse spazio per modificarlo e attendo gli ulteriori sviluppi, ma è chiaro che se la situazione rimarrà questa, speriamo che sia il Parlamento a rimediare con un emendamento che restituisca l’Arsenale a Venezia». La speranza dello stesso sindaco è che possa essere lo stesso Governo, con Passera protagonista, a rimediare alla situazione, con un proprio emendamento al decreto , seguendo la strada indicata al ministro delle Infrastrutture dallo stesso Orsoni: quello di un emendamento che pur riconoscendo la proprietà del Comune sulla parte dell’Arsenale nord occupata dal Consorzio e il suo diritto quindi ad esigere i canoni di concessione, specifichi che l’attività del pool di imprese e del Magistrato alle Acque legata al Mose, non subirà variazioni fino alla sua scadenza, nel 2026. Poi però dovrebbe tornare al Comune. Ma è anche il diverso “padrone” di casa” - al di là delle garanzie sul mancato “sfratto” - a non garbare a Magistrato e Consorzio. «Che il Governo presenti o no un proprio emendamento correttivo - annuncia il parlamentare veneziano del Pd Andrea Martella - noi comunque ne presenteremo uno nostro, cercando di raccogliere intorno ad esso il massimo del consenso, concordandolo, visto che in questo caso non si tratta della battaglia di una forza politica, ma dall’intera città. Ci sono certamente le condizioni perché esso possa essere approvato ed evitare questo colpo di mano».
Due frasi che lo ridanno al Magistrato e al Consorzio
Un comma di due frasi - inserite all’interno dell’emendamento già approvato nel decreto sulla spending review - che però restituisce l’Arsenale dal Comune allo Stato, come chiedono Magistrato alle Acque e Consorzio Venezia Nuova. Nel testo precedente si leggeva. «Il compendio costituente l’Arsenale di Venezia, con esclusione delle porzioni utilizzate dal Ministero della Difesa per i suoi specifici compiti istituzionali, in ragione delle caratteristiche storiche e ambientali, è trasferito in proprietà al Comune, che ne assicura l’inalienabilità, l’indivisibilità e la valorizzazione attraverso l’affidamento della gestione e dello sviluppo alla società Arsenale di Venezia spa». Ora dopo le parole «dal Ministero della Difesa per i suoi specifici compiti istituzionali» sono inserite le parole «e di quelle destinate alla finalità del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti- Magistrato alle Acque di Venezia». E più avanti l’emendamento precedente recitava: «L’Agenzia del Demanio, d’intesa con il Ministero della Difesa, procede alla perimetrazione e delimitazione del compendio e alla consegna dello stesso alla Società Arsenale di Venezia spa». Ora, dopo le parole «d’intesa con il Ministero della Difesa», sono inserite le seguenti: «e con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti». Il tavolo di trattativa per la cessione delle aree dell’Arsenale dunque si allarga e dopo Comune, Demanio e Difesa, il quarto “convitato” sarà appunto il Ministero di Passera. Vista la contrarietà al passaggio al Comune di molte aree del sottosegretario alla Difesa Filippo Milone - in odore di conflitto di interessi, secondo anche l’interrogazione parlamentare del senatore del Pd Felice Casson, per i molti interessi nel settore immobiliare - e l’atteggiamento del Magistrato alle Acque, se tutto restasse così, per il Comune si farebbe dura mantenere una porzione significativa di Arsenale alla città.(e.t.)
vedi ancheDietro l'Arsenali di Venezia
Ogni grande manifestazione di popolo che avviene a Venezia ha un carattere pittoresco e festoso, soprattutto quando utilizza il fascino dell'acqua e delle barche imbandierate. Non sempre questi eventi sono ripresi dai media nazionali. Così è stato per esempio per le manifestazioni contro le grandi navi in Laguna, che ha goduto del silenzio dei media nazionali. Un inaspettato successo ha avuto invece la manifestazione contro l'ulteriore privatizzazione dell'Arsenale di Venezia operata dal governo Monti. Questo ultimo infatti ha inserito nel provvedimento alla firma del Presidente della Repubblica una norma che concederebbe al Consorzio Venezia Nuova, concessionario dello Stato per le opere di salvaguardia fisica della Laguna, un'ulteriore cospicua porzione del complesso demaniale dell'Arsenale, da decenni promessa al Comune.
Mi hanno colpito alcuni elementi: innanzitutto il grande rilievo dato dai media nazionali all'evento. E poi, l’insorgere della città – e non solo della sua componente più sensibile alla tutela degi spazi pubblici e dei beni comuni , i comitati) contro un uso dell’Arsenale che ne aumentava ancora il carattere di porzione murata e recintata della città. Sarebbe bello se l’attenzione dei media significasse che parole d'ordine controcorrente ( come «salvaguardare la città e i suoi spazi dalla privatizzazione» fossero il segno di una diffusa maturazione culturale. E se l’unanimità dimostrata dalla società veneziana significasse che essa nel suo insieme dice “basta” alla politica di privatizzazione di ciò che è pubblico
Il successo della manifestazione e l’unanime consenso mediatico che essa ha suscitato mi hanno posto alcune domande: come mai nessuno si era indignato, nemmeno in città, quando il governo, qualche mese fa, aveva assegnato in concessione al Consorzio Venezia Nuova tutta l'area nord dell'Arsenale? Possibile che nessuno in città ne sapesse nulla, neppure il Comune e le aziende di cui è il principale azionista, come l'azienda di trasporti e la spa Arsenale di Venezia? E come mai una persona come l'attuale sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che non ha mai contrastato le privatizzazioni di spazi ed edifici pubblici al Lido di Venezia e in tutti i complessi immobiliari recentemente passati dalla mano pubblica a quella privata (come quelle che oggi portano il marchio Benetton, Cardin e Trussardi e via griffando), appare oggi come il leader della protesta ed esprime la sua indignazione protestando la sua indignazione perché l'iniziativa del governo «favorisce gli interessi privati contro quelli della città?».
Due strategie
Può aiutare a comprendere l'apparente contraddizione il fatto che per l'Arsenale di Venezia ci sono due diverse strategie, entrambe interessate a promuovere interessi immobiliari e chiusura dei suoi spazi all'utilizzo da parte dei cittadini.
La prima strategia è indubbiamente quella che ha come suo principale attore il Consorzio Venezia Nuova e il gruppo di imprese edili che ne è il proprietario. Questo indubbiamente ha oggi il dominio della parte più consistente dell'Arsenale, concessagli dall’attuale proprietario, il Demanio statale, e l'interesse a estenderlo ulteriormente. Fino a diventarne l’utilizzatore finale per tutte le esigenze, industriali e di “valorizzazione immobiliare”, dei suoi soci.
Contrastare questa strategia è certamente necessario. Ma c’è una strategia alternativa? Nei fatti ne vedo agire una soltanto, e non la giudico positiva. E’ quella perseguita dalle forze e gli interessi che attualmente (diciamo dai tempi del sindaco Cacciari) governa la città ? Questa strategia, nel quadro di una visione immobiliaristica e mercantilistica dell'uso della città ha tra i suoi progetti più significativi quella di realizzare uno sviluppo particolarmente fruttuoso dal punto di vista della rendita immobiliare lungo l'asse, per ora meramente simbolico, domani costituito dalla “sublagunare”), che collega la nuova città di Tessera (2 milioni di mc sul margine della Laguna), il grande complesso dell'Arsenale e le aree già di proprietà pubblica del Lido di Venezia (si vedano in proposito i libretti Tessera City di Stefano Boato, Lo scandalo del Lido di Edoardo Salzano). Questo progetto urbanistico si integra perfettamente con le iniziative immobiliari in gran parte già realizzate lungo la direttrice Piazzale Roma - ponte di Calatrava - stazione ferroviaria - Rialto - San Marco (vedi il libretto Benettown di Paola Somma) e ha, quali ulteriori elementi della strategia che lo sorregge, la tolleranza nei confronti delle grandi navi e la mercificazione delle facciate dei palazzi veneziani.
Nell’ambito di questa strategia l’Arsenale ha indubbiamente un ruolo centrale: Per la sua posizione strategica, per l’entità degli spazi, per il prestigio, per i cespiti finanziari che già i suoi gestori ottengono dallo Stato e dai suoi concessionari.
A proposito: chi sono i gestori degli spazi dell’Arsenale dei veneziani, tutti ancora di proprietà pubblica? Non istituzioni pubbliche, statali o comunali, ma una struttura privatistica, realizzata ad hoc: la “Arsenale s.p.a”, di proprietà paritaria dei due unici soci, Il demanio statale e il comune di Venezia, Una struttura, presieduta e diretta dall’ax assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino, che ha la piena potestà di operare, progettare i suoi “programmi industriali", i suoi progetti, le sue decisioni operative con tutta la discrezionalità propria dell’istituzione di diritto privato.
C’è un'altra strategia?
Fino ad oggi l'impressione prevalente era che tra quelle due differenti strategie (quella del Consorzio Venezia nuova e quella dell’attuale maggioranza comunale)non vi fosse contrasto, ma anzi complicità o esplicita collaborazione. La frattura apertasi tra il Comune e il Consorzio Venezia Nuova a proposito delle aree dell'Arsenale può avere più significati. E’ probabile (o almeno possibile) che il conflitto sorto tra le due strategie stia nel nel problema sollevato dal sindaco Orsoni a proposito dell’ammontare del contributo che il Consorzio versa l’Arsenale s.p.a, per l’utilizzazione dell’area di cui gli è stato concesso l’uso. Lo confermerebbe la dichiarazione di Orsoni che la decisione governativa «non consentirebbe ad Arsenale Venezia spa - la società che dovrebbe occuparsi della gestione del complesso - di fare il proprio piano industriale» (Enrico Tantucci, La Nuova Venezia. 12 0ttobre 2012).
Se così fosse, è facile prevedere che la buriana cesserà presto e si troverà un nuovo compromesso, finanziario o immobiliare, tra gi interessi oggi divergenti. MaPer comprendere meglio sarebbe utile conoscere i rapporti funzionali e finanziari che legano tra loro i diversi attori della gestione dell'Arsenale e ciò che il colpo di mano del governo cambia in questi rapporti, e sarebbe utile sapere quale sia il piano industriale della Arsenale spa cui allude il sindaco, quale organo elettivo lo abbia approvato (o almeno conosciuto e discusso).
Più utile ancora sarebbe utile sapere se, se oltre alle due strategie che si contendono il destino dell'Arsenale (e che facilmente troveranno una nuova composizione) ve ne sia una diversa e capace di assegnare all'Arzanà dei viniziani il ruolo più utile alla città e ai cittadini di oggi e di domani. Sarebbe utile, ma non è facile costruirla, finche le informazioni su ciò che c’è dietro il recinto dell’Arsenale resterà così poco trasparente a chi vuol conoscere per partecipare criticamente al governo della città, bene comune.
«Entro il mese troveremo una soluzione». A quasi un anno dal naufragio della Costa Concordia, il decreto Passera- Clini sui limiti alle rotte delle grandi navi a Venezia non trova ancora applicazione. Non dovrebbero entrare a San Marco quelle superiori alle 40 mila tonnellate. Ma in mancanza di alternative il decreto è stato sospeso. Davanti a San Marco passano ogni giorno in stagione quattro o cinque navi di stazza superiore alle 100 mila tonnellate. «Speriamo entro ottobre di poter dare una soluzione concreta», dice il ministro per l’Ambiente Corrado Clini, «è davvero difficile continuare ad assistere a questo spettacolo a San Marco». Anche il Porto, in una prima fase piuttosto restìo alla protesta, apre uno spiraglio. «Per le grandi navi occorre un’alternativa», ripete il presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa. Le stesse compagnie Costa e Msc hanno offerto al sindaco Giorgio Orsoni la loro disponibilità. E Orsoni ha deciso per la linea dura: «Se ne devono andare da San Marco». Ma le alternative sono diverse. Perché il Porto insiste sul progetto di scavo di un nuovo canale, il Contorta-Sant’Angelo, che permetterebbe di arrivare all’attuale Marittima passando da Malamocco e non più da San Nicolò (e dunque da San Marco). Il sindaco invece preferirebbe Marghera: banchina già pronta, lavori minimi e tempi stretti (al contrario del Contorta, che costa 50 milioni e secondo esperti idraulici potrebbe aumentare l’erosione della laguna trasformando un piccolo canale in una vera sutostrada del mare. La Vtp (Venezia Terminal passeggeri) non intende mollare, ricorda che «le navi portano ricchezza». E pensa di raddoppiare la Marittima. Costruendo una mega stazione nelle casse di colmata in territorio di Mira per le navi superiori alle 300 mila tonnellate. Il comitato «No navi» incassa le aperture di Costa e Orsoni, anche se non si fida: «Andiamo a vedere se si fa sul serio», dicono. E rilancia: «Le grandi navi di quelle dimensioni devono stare fuori della laguna». Soluzioni possibili, Punta Sabbioni (con il vecchio progetto De Piccoli, depositato anni fa tra le alternative al Mose; oppure Santa Maria del Mare, sulle babnchine oggi utilizzate per il Mose dal Consorzio Venezia Nuova che dovrebbero essere smantellate nel 2014. Clini si dice fiducioso. «Il sindaco e il presidente dell’Autorità portuale hanno messo a punto soluzioni rapide che potranno essere realizzate in tempi molto brevi», dice. Un vertice a tre è previsto per il 24 ottobre. E allora toccherà decidere. Intanto le navi, alte più dei campanili, continuano a fare l’«inchino» a San Marco.
TORRE La settimana prossima incontro tra il gruppo di Cardin e i vertici dell'ente aeronautico Palais,l'Enac ora e pronto a dire si Basilicati: «Chiederanno approfondimenti, entro e settimana dovremo ottenere via libera» Passi avanti anche sulle trattative per le aree Elisio Trevisan MESTRE Da Roma giungono segnali positivi per il Palais Lumière veneziano. L'aveva annunciato l'altro ieri l'amministratore delegato dello studio di progettazione Altieri nel corso di un incontro pubblico a Spinea: Guido Zanovello ha detto che già la prossima settimana Enac, l'Ente nazionale aviazione civile, darà il suo parere positivo alla deroga per l'altezza della torre di Pierre Cardin (250 metri). Ne abbiamo chiesto conferma all'ingegner Rodrigo Basilicati, amministratore delegato di Concept Creatif International, il gruppo dello stilista italo francese.
«Ho appuntamento con i vertici di Enac a Roma la prossima settimana. Sappiamo che hanno prodotto già due o tre documenti con i quali formalmente ci chiederanno ulteriori approfondimenti e alcuni ne faranno loro».
La settimana prossima, dunque, non sarà quella decisiva. «Non penso che tutto si risolverà in quella sede, ci vorranno ancora alcune settimane per l'approvazione definitiva ma i commenti che ci hanno inviato in questi ultimi giorni sono molto positivi».
D'altro canto non avreste firmato il preliminare per le due aree più grosse senza avere almeno un segnale in tal senso da Roma.
«Già, e contiamo di risolvere anche la questione dei terreni mancanti in contemporanea con l'arrivo dell'approvazione di Fino ad ora vi siete impegnati ad acquistare una decina di ettari, della famiglia Zanardo e del fondo Lucrezio dei Mevorach, ve ne mancano altri otto per completare l'area sulla quale costruire il Palais Lumière.
«Per il Palais sono già sufficienti i primi dieci ettari, poi però ci sono le aree di espansione del progetto. Parte sono del Comune al quale abbiamo già inviato richiesta d'acquisto, parte delle ferrovie, altre sono occupate da strade, rimangono cinque o sei ettari di privati vari con i quali stiamo trattando». Privati che vogliono tirare sul prezzo, a quanto pare. «Non tutti, con la maggior parte abbiamo avviato trattative proficue. Alcuni addirittura potranno essere integrati dentro il progetto con le loro attività. Ce ne sono solo due o tre che vogliono alzare il prezzo. Vedremo, certo che non possiamo pagare cifre improponibili; se le trattative non dovessero andare in porto vorrà dire che, trattandosi di piccoli terreni ai margini dell'intera area, cambieremo il disegno escludendo quegli spazi. Siamo partiti due anni fa per questo progetto e vogliamo far partire i cantieri il più presto possibile».
Il ponte di Calatrava colpisce ancora. Dopo una storia infinita di costi ballerini (lievitati da 2 a 23 milioni di euro), di varianti in corso d’opera, di costosissime manutenzioni, il quarto ponte sul Canal Grande è diventato il passaporto per un nuovo intruso nel cuore di Venezia: l’indecente alberghetto in vetro, ferro e cemento già in costruzione a un passo dal ponte. Per soprammercato, un garage a due piani, sotterraneo come a Venezia proprio non si fa. Dopo un contenzioso durato cinquant’anni, il proprietario dell’albergo Santa Chiara (su piazzale Roma) ha ottenuto il permesso di edificare in cambio di una piccola area verde che serviva per la base del nuovo ponte. Unponte di debole Costituzione:così lo ha chiamato la storica veneziana Nelli-Elena Vanzan Marchini, in un prezioso libretto della collanaOcchi aperti su Venezia (editore Corte del Fontego).
Calatrava è un celebrato architetto, che però ha calato sul Canal Grande un ponte pensato senza alcun rapporto, né stilistico né statico, con le caratteristiche del luogo: unsignature bridge chepotrebbe stare a Brasilia o a Shanghai. Ma Venezia non è una città qualsiasi: bello o brutto che sia, il ponte è inadatto alla città, al punto che la Corte dei Conti ha chiesto a Calatrava e ai responsabili del progetto 3,4 milioni di danni «in quanto l’opera è affetta da una patologia cronica caratterizzata dalla necessità di un costante monitoraggio e dal continuo ricorso a interventi non riconducibili alla ordinaria manutenzione».Riconosciamo in questa vicenda un virus che appesta le nostre città: il pregiudizio che una firma prestigiosa basti a giustificare qualsiasi inserzione di nuove architetture nelle città storiche (così Benetton ricorre a un grande architetto, Rem Koolhaas, per legittimare un’operazione speculativa sul cinquecentesco Fondaco dei Tedeschi:Repubblica,13 febbraio).
Viene in mente l’amara riflessione di Giancarlo De Carlo sul “fenomeno della copertura professionale” di grandi architetti, assoldati per coprire col loro nome guasti d’ogni sorta. Nessun luogo al mondo è più sensibile di Venezia a tali manovre. Occhi aperti su Venezia, dunque, ma anche sull’Italia: perché quel che si è messo in movimento è una sorta di missile a tre stadi. Prima fase, si manda avanti, come un rompighiaccio, il progetto di una qualche Grande Firma. Se, in nome della fama dell’archistar di turno, si riesce a farlo passare in barba alla storia e alla legalità, si può passare alla Fase Due: qualsiasi architetto, anche se ignoto ai più, potrà seminare per Venezia le sue piccole o grandi infamie. Segue, inevitabile, la Fase Tre: se tutto questo può accadere nel centro storico più delicato e più famoso del mondo, a maggior ragione le altre città italiane potranno popolarsi di intrusi in nome della modernità. È sotto quest’insegna, infatti, che una casta di costruttori senza fantasia, dopo aver deturpato le città italiane con architetture di pessima qua-lità, ha ora l’arroganza di proporre l’invasione dei centri storici. Ma anziché desertificare quel che resta delle nostre città, perché non usare le vere o presunte architetture di qualità per riscattare lo squallore delle nostre deformi periferie?
Venezia è oggi il laboratorio e la cartina di tornasole di un processo nazionale di accelerato degrado della tutela dei centri storici. Il peggiore insulto degli ultimi mesi alla città, l’improvvisato grattacielo che Pierre Cardin vorrebbe innalzare a Marghera, non hanemmenopro forma lacopertura di un’archistar: il progetto è la tesi di laurea di un nipote dello stilista, sostenuta a Padova nel 2011 (Corriere del Veneto,28 agosto): quanto basta per assicurarsi l’entusiasmo del ministro dell’ambiente Clini, che nello sgangherato palazzaccio vede a colpo sicuro l’alba di un Nuovo Rinascimento, e garantisce (dice lui) il pieno appoggio del governo. Pazienza se, coi suoi 250 metri di altezza, il mausoleo Cardin sfregerà per sempre loskylinedi Venezia, e violerà di oltre 110 metri l’altezza massima consentita nelle vicinanze dell’aeroporto (Repubblica,31 luglio).
L’impropria espansione dell’albergo di Piazzale Roma può parere al confronto una piccola cosa, ma non è così. Sarebbe (anzi è, perché la costruzione è in corso) il primo nuovo edificio sulle sponde del Canal Grande da un secolo a questa parte, un precedente pericolosissimo per nuove intrusioni. Quanto al garage interrato, non è quel che ci si aspetta a Venezia; e se poi, come alcuni temono, dovesse accrescere l’instabilità del vicinissimo ponte di Calatrava? Gian Antonio Stella ha raccontato da par suo la catena di garbugli e cavilli con cui questo progetto, anche qui senza bisogno di archistar, ha preso forma (Corriere della Sera,22 settembre). Ma davvero la sorte di Venezia e della sua bellezza dev’essere decisa da cavilli burocratici, e non dalla fedeltà ai principi della tutela e all’immagine della città? Chi può mai prendere una decisione come questa in barba al buon senso? Circola in merito una strana leggenda: responsabile unica e ultima della decisione sarebbe la Commissione di Salvaguardia, istituita con la legge speciale su Venezia del 1973. Questo pletorico organismo, presieduto dal presidente della Regione, è composto da venti membri, prevalentemente di nomina politica (4 della Regione, uno della Provincia, 3 del Comune, 2 dei comuni di gronda...), e si presta dunque al consueto scaricabarile. Non giova alla trasparenza il fatto che il progettista dell’alberghetto-intruso sia Antonio Gatto, membro della Salvaguardia in rappresentanza del Comune.
Ma la Commissione non è l’ultima istanza, dato che ne fanno parte due soprintendenti, quello ai monumenti e quello alle gallerie, e la legge prevede espressamente che, quando vi sia il parere contrario di uno dei due soprintendenti, “le determinazioni della Commissione sono sospese e il presidente della Regione, entro venti giorni, rimette gli atti al parere del Consiglio superiore dei Beni culturali” (artt. 5 e 6). La domanda è dunque: ammesso che (si spera) il progettista sia almeno uscito dalla stanza quando la Commissione, il 27 luglio 2010, approvava il suo progetto, i Soprintendenti hanno espresso, come dovrebbero, parere negativo? E il presidente della Regione? Il ministro Ornaghi, ora che con soli dieci mesi di ritardo si è dimesso da rettore della Cattolica, troverà il tempo di rompere il suo ostinato mutismo per dirci quel che pensa in proposito? Vorrà convocare il Consiglio superiore, da lui nominato da poco, peraltro con netta prevalenza di psicologi, politologi e altri inesperti? Quali che siano i cavilli amministrativi, l’intruso va scacciato dal Canal Grande. Ma un vantaggio in questa storia c’è: sarà facile capire chi ha più a cuore Venezia, se il ministero dei Beni culturali, la Regione o il Comune: sarà chi per primo avvierà le procedure di demolizione, prima che sia troppo tardi.
A chi appartiene Venezia? A tutti, direte. No: per il Tar un pezzo della città appartiene solo al suo padrone. Che dopo un conflitto burocratico-giudiziario di 55 anni ha cominciato a costruire un edificio per raddoppiare il suo albergo vicino al ponte di Calatrava. Risultato: il colpo d'occhio sul Canal Grande per chi arriva oggi a piazzale Roma è mozzato dallo scheletro di un palazzo moderno che potrebbe sorgere a Kansas City.
Il protagonista dell'estenuante battaglia di carte bollate, ricorsi, controricorsi, intimazioni, condotta per costruire quello che, a memoria dello storico Alvise Zorzi, è il primo edificio moderno tirato su lungo il Canal Grande dai tempi del Ventennio in cui fu rifatta la stazione di Santa Lucia realizzata dagli austriaci, si chiama Elio Dazzo ed è proprietario dell'Hotel Santa Chiara, un convento di monache che ha più di cinquecento anni e fu trasformato in un hotel diversi decenni fa. Chi è stato a Venezia lo ricorderà senz'altro: è l'unico, come dice lo stesso sito web, dove si può arrivare in macchina: il retro è su piazzale Roma, la facciata sul Canal Grande.
La contesa buro-giudiziaria in realtà, essendo durata il doppio della Guerra dei Trent'anni che sconvolse l'Europa nel Seicento, non fu cominciata dall'attuale proprietario. Iniziò infatti nell'aprile del 1957, quando sulla Sierra Maestra Fidel Castro organizzava la guerriglia, a Roma nasceva la Comunità economica europea e l'Unione Sovietica lanciava lo Sputnik. Un mucchio di tempo fa.
La città era in mano a una classe dirigente in preda alla fregola di modernizzare tutto e giravano idee folli come quelle di superstrade trans-lagunari, grattacieli a San Sebastiano, tangenziali sotterranee con mega-parcheggi sotto San Marco. Anni in cui il sindaco Giovanni Favaretto Fisca perorava a Roma il progetto di una monorotaia di cemento armato stesa su migliaia di tralicci a reggere vagoni come cabine di una funivia e davanti al raccapriccio dei puristi un cronista lacché arrivò a scrivere che quei piloni alti 35 metri non avrebbero avuto alcun impatto visivo: «Basterà dipingerli coi colori della laguna». Deliri.
In quel contesto, che faceva uscire pazzo Indro Montanelli, furente di quel genere di megalomanie che trascuravano la manutenzione quotidiana, l'amministrazione del sindaco Roberto Tognazzi firmò un accordo coi padroni dell'Hotel Santa Chiara su certe particelle catastali di piazzale Roma: tu dai un pezzo di terra a me, io do un pezzo di terra a te. Restava inteso che si trattava di terreni edificabili.
Per decenni, quell'accordo mai perfezionato fino all'ultima marca da bollo, restò lì, a galleggiare nel nulla. Finché una ventina d'anni fa i nuovi proprietari, che usavano quel terreno in riva al Canal Grande come parcheggio (chi vuole può vedere in Google Earth come era fino a poco fa la situazione) decisero di passare all'incasso di quell'antico accordo rimasto in un cassetto a coprirsi di polvere.
L'amministrazione comunale dice oggi che tentò di guadagnare tempo, anno dopo anno, approvando nel 1997 una convenzione che finalmente perfezionava i passaggi di proprietà del vecchio accordo (anche in funzione del futuro ponte di Calatrava) e consentiva una nuova volumetria per 9.885 metri cubi su una superficie di 659 metri quadrati, lasciando però un po' tutto in sospeso...
Due anni dopo, il proprietario chiedeva una licenza edilizia per ampliare l'albergo in attuazione dell'accordo del '57 e il Comune respingeva la richiesta legando la possibilità di costruire alla stesura del Piano particolareggiato. Come dire: campa cavallo... Altri quattro anni d'attesa e il Tar dava ragione al privato: il contratto del '57 faceva testo, quindi erano nulli sia il rifiuto della licenza sia la condizione posta sul Piano particolareggiato. A quel punto, sostiene l'amministrazione attuale, il Comune tentava l'ultima carta per fermare il cantiere prendendo atto del verdetto del Tar ma mettendo dei paletti perché l'edificio si armonizzasse ad alcuni criteri. Nuovo ricorso al Tar e nuova sentenza: quei paletti non li poteva mettere. «A quel punto», spiega l'assessore all'Urbanistica Ezio Micelli, «il municipio era con le spalle al muro. Non poteva più fare niente. L'ultima parola spettava alla commissione di salvaguardia e alla sovrintendenza».
In origine, in realtà, pareva che Elio Dazzo, oggi presidente dell'Aepe (l'Associazione pubblici esercizi) e dell'Apt veneziana nonché tra i promotori dell'associazione «Sì Grandi Navi» a favore della navigazione in bacino degli immensi bastimenti da crociera lunghi il doppio di piazza San Marco, volesse solo fare un garage sotterraneo. O così avevano capito in tanti. Tanto che La nuova Venezia di due anni fa pubblicò un pezzo dove diceva che l'assessore ai Lavori pubblici Alessandro Maggioni era intenzionato a mettersi di traverso al «garage» perché preoccupato, dopo uno studio fatto dal Politecnico di Torino, per la stabilità del ponte di Calatrava che è lì accanto.
Fatto sta che di sentenza in sentenza le cose sono andate avanti ed è oggi in costruzione, in riva al Canal Grande, un edificio molto vistoso di due piani di garage interrati più altri tre (diciamo tre e mezzo) di una nuova ala dell'hotel. Tutto di cemento ricoperto, pare di capire, di una avveniristica superficie a vetro.
La sovrintendente Renata Codello, già al centro di altre polemiche per aver detto a una tv austriaca (vedi YouTube) di non esser poi preoccupata per le grandi navi da crociera, sbotta: «Avremo bocciato venti progetti! A un certo punto cosa potevamo fare?». Invita a non guardare i rendering che fanno immaginare un lucente parallelepipedo che starebbe benissimo in Qatar o nel Nebraska: «Son solo figurine. Aspettate a vedere i lavori finiti. L'architetto ha lavorato con Renzo Piano». E guai a parlare, nel contesto veneziano, di una bruttura: «Lei è architetto? Non faccia l'architetto». A proposito, il progetto è firmato da Antonio Gatto, presidente dell'Ordine degli architetti e (pura coincidenza) storico membro della commissione di Salvaguardia, cioè l'organismo che avrebbe potuto bloccare tutto o comunque imporre regole rigidissime.
E torniamo al tema iniziale: ammesso che tutte le leggi siano state applicate in modo cristallino, davvero il legittimo interesse economico di un privato viene prima dell'interesse di tutti i cittadini del mondo ai quali viene imposta una prospettiva di quel tratto del Canal Grande che non sarà mai più quella di prima? E non sarà questo parallelepipedo di cemento e di vetro il grimaldello per scardinare le difese di altri pezzi di Venezia?
La Costituzione italiana, all'articolo 9 dice che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». E gli articoli 41 e 42 spiegano chiaramente come l'interesse della proprietà privata abbia comunque dei limiti negli interessi superiori della collettività. C'è chi dirà che esiste anche un articolo 29 che sanciva solennemente: «Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili». Ma si trattava dello Statuto Albertino.
17 settembre 2012
Battaglia navale in Bacino
Msc e Costa bloccate per ore
di Manuela Pivato
Un carosello di spruzzi, fumogeni, virate, moto d’acqua, topette all’attacco e poi messe in fuga dalle sciabolate d’aria di un elicottero della polizia. Una quasi battaglia navale in bacino San Marco dove, ieri pomeriggio, le barche del comitato No Grandi Navi hanno tenuto in scacco tre città galleggianti costringendole a rinviare di quasi tre ore la partenza da San Basilio. Davide contro Golia, un centinaio di gusci di legno e resina contro i grattacieli di Costa e MSC Crociere, i megafoni e i cartelli contro le navi più alte del campanile di San Marco. A fine giornata, chi bagnato fradicio e chi furibondo, il Comitato non si può lamentare.
«Ci sono stati momenti di tensione ma per fortuna non è successo niente di grave – spiega il portavoce del Comitato, Silvio Testa – Abbiamo ottenuto un grandissimo successo perchè queste immagini faranno il giro del mondo e tutto il mondo saprà il danno che ogni giorno subisce la città». Le immagini che stanno già facendo il giro del mondo sono quelle di un piccolo esercito arrivato nel primo pomeriggio a Punta della Dogana con ogni mezzo. Chi in bicicletta da Mira, chi in monopattino, chi in barca a remi, a vela o a motore. In trecento lungo le rive, un centinaio le imbarcazioni nel Canale della Giudecca dentro lo spazio delimitato dal nastro bianco e rosso della polizia che controlla chi è al timone e chi sta a bordo. Le forze dell’ordine non vogliono guai. Il Comitato No Grandi Navi vuole invece la massima visibilità possibile e la cerca in una domenica pomeriggio che prevede il passaggio di Costa Favolosa, Msc Opera e Msc Musica nell’arco di un paio d’ore. Inizia quasi come una scampagnata, con le magliette del Comitato infilate sui vestiti, la musica di Jovanotti, i cani, i palloncini. Arrivano i No Tav di Portogruaro, i No Dal Molin di Vicenza, quelli contro il rischio chimico di Marghera. Tanti No messi insieme che aspettano al varco navi le cui scialuppe sono dieci volte più grandi della barca più grande. La Costa Favolosa, che avrebbe dovuto passare in bacino San Marco alle 16.30, per prudenza resta agli ormeggi in Marittima. I crocieristi si consolano con un drink e il Comitato festeggia un risultato che sembrava insperato. Nell’euforia le prima barche iniziano a superare il nastro di delimitazione e la polizia stringe. La Questura manda una mezza dozzina di moto d’acqua che cerca di riportare le barche al loro posto lungo la riva ma la situazione è ingovernabile. Non appena, poco prima delle 19, si staglia la sagoma della Favolosa le barche del Comitato la circondano e partono i primi fumogeni. Da lassù, sull’ottavo ponte della Costa, il razzo dev’essere sembrato poco più di un moscerino ma quaranta metri più in basso, sul pelo dell’acqua, c’è chi se la vede brutta. Per disperdere la flotta arriva un elicottero della Polizia che scende a pochi metri d’altezza. Le pale appiattiscono la superficie del bacino, l’aria alza getti d’acqua che inondano le barche, volano insulti, qualcuno scappa, qualcuno insegue, i più coraggiosi restano per tentare il bis con l’arrivo della Msc Opera e magari poi con la Msc Musica. L’elicottero scende nuovamente e anche i più oltranzisti capiscono che tanto ormai è fatta. I 6 mila crocieristi torneranno a casa almeno con il dubbio. Il consigliere Beppe Caccia intanto annuncia un esposto alla Procura contro l’intervento dell’elicottero: «Una scelta criminale che ha messo a rischio l’incolumità di decine di persone oltre a quella dei monumenti della città».
18 settembre
GRANDI NAVI»LA PROTESTA FINISCE IN PROCURA
Decine di denunce tra i manifestanti
di Giorgio Cecchetti
Denunce e controdenunce. La manifestazione organizzata dal Comitato No Grandi Navi in bacino San Marco avrà una coda velenosa e toccherà alla Procura sbrogliare la matassa: il capo della Digos Ezio Gaetano ha preannunciato una quarantina di segnalazioni per interruzione di pubblico servizio, lesioni (quattro poliziotti sarebbero rimasti feriti con una prognosi di una decina di giorni ognuno), tentato naufragio e pericolo per la navigazione. Dall’altra parte il consigliere comunale Beppe Caccia ha annunciato che, oltre ad un’interrogazione urgente, presenterà un esposto «per le scelte estremamente pericolose compiute da Capitaneria di Porto, Autorità portuale e dalla Questura». E ci sono riprese tv, fotografie e testimonianze sulle spericolate manovre sia delle imbarcazioni della Polizia sia dell’elicottero. Le denunce della Digos devono essere ancora formalizzate e ancora non c’è il pm che dovrà occuparsene, comunque, ieri, il capo della Digos ha sostenuto che «è stata garantita la libertà di manifestare» e che le forze dell’ordine sono intervenute «per evitare che l’occupazione del canale potesse essere oltre che illegale anche pericolosa».
Stando alla ricostruzione della Polizia, sarebbero state poco più di una decina le barche che avrebbero sorpassato il limite prestabilito negli accordi tra Questura ed organizzatori della manifestazione, con la conseguenza che una trentina di persone verranno denunciate per interruzione di pubblico servizio e pericolo per la navigazione, mentre un’altra decina saranno segnalate anche per tentato naufragio e lesioni perché, a bordo di un topo, avrebbero speronato due volanti lagunari e ferito i quattro agenti a bordo. Caccia, invece, sostiene che sarebbero state le forze dell’ordine a tenere un atteggiamento di «incompetente arroganza, messa a servizio degli interessi di pochi padroni della crocieristica». Nell’esposto si legge che «per intimidire le imbarcazioni dei manifestanti hanno fatto volare un elicottero a pochi metri dalle teste delle persone e da monumenti patrimonio dell’umanità come la basilica di San Giorgio, e le lance della Polizia non hanno esitato a speronare sandoli e mascarete, mettendo a rischio l’incolumità di decine di cittadini». Tra i manifestanti non c’erano solo giovani ed esponenti dei Centro sociali, ma anche signori anziani e rappresentanti di Italia nostra. Uno di loro racconta: «Ero attraccato al pontile della Buncintoro con la mia barca e ho visto un gommone con due ragazzi che procedeva quasi sotto riva avvicinato a grande velocità da un’imbarcazione della Polizia, che ha girato intorno più volte, provocando onde piuttosto alte, le quali hanno rischiato di far ribaltare l’imbarcazione. Non contento, un poliziotto si è messo a urlare ai due giovani: «Mongoli, tornate a casa» . Un altro riferisce dell’elicottero che volava a meno di dieci metri sopra la sua testa e che sollevava colonne d’acqua, bagnando tutti. «Ci vorranno ore e ore di manutenzione, poi, per sistemare turbine e motori pieni di acqua salata e a pagare siamo noi», aggiunge.
C’è una nuova moda tra i potenti: profanare Venezia. In barba alle leggi e asservendo le istituzioni. Tre eventi in sequenza non lasciano dubbi in proposito. Atto primo: dopo l’incidente della Costa Concordia naufragata al Giglio con gravi perdite umane e disastro ambientale, da tutto il mondo venne la richiesta che si stabilissero :«Nuove regole per quei colossi».
Specialmente nel punto più prezioso e fragile, Venezia. E infatti il decreto è arrivato in marzo, e vieta “inchini” e passaggi a meno di due miglia nautiche dalla costa (quasi quattro chilometri). Con una sola eccezione: Venezia, dove enormi navi, da 40.000 tonnellate e oltre, sfiorano ogni giorno Palazzo Ducale, incombono sulla città, inquinano la laguna, oltraggiano lo skyline di Venezia e i suoi cittadini. Venezia dunque “fa eccezione”, ma non perché è più protetta, come il mondo si aspetta, bensì perché non lo è affatto (due incidenti evitati per pochi metri negli ultimi sei mesi).
Secondo atto: Benetton compra il Fondaco dei Tedeschi, prezioso edificio di primo Cinquecento ai piedi del ponte di Rialto, per farne «un megastore di forte impatto simbolico». Accettabile, vista l’antica destinazione commerciale di quella fabbrica illustre. Ma Rem Koolhaas, l’architetto incaricato della ristrutturazione, disegna un neo-Fondaco con sopraelevazione, mega-terrazza con vista su Rialto e scale mobili che violentano da lato a lato l’armonioso cortile. Dopo la denuncia di questo giornale (“Quel centro commerciale che ferisce Venezia”, 13 febbraio) e di molti altri, dopo il parere negativo della Soprintendenza, Koolhaas insiste: «Faremo il progetto, al diavolo il contesto, è quello che paralizza la nuova architettura». Profanare un edificio storico è dunque parte del “forte impatto simbolico” commissionato da Benetton.
Il terzo atto è di questi giorni: Pierre Cardin, memore delle sue origini venete, a 90 anni vuol lasciare un segno in Laguna. Costruendo a Marghera un Palais Lumière da un miliardo e mezzo, alto 250 metri, superficie totale 175mila metri quadrati. Tre torri intrecciate, 60 piani abitabili, un’università della moda e poi uffici negozi, alberghi, centri congressi, ristoranti, megastore, impianti sportivi. Una città verticale, un’occasione unica per il recupero di un’area industriale in degrado. Ma la Torre di Babele targata Cardin, coi suoi 250 metri di altezza, sarebbe alta 140 metri in più del campanile di San Marco, e svettando su Marghera segnerebbe duramente lo skyline di Venezia, in barba a tutte le norme urbanistiche: impossibile non vederla da piazza San Marco, anzi da tutta la città. Specialmente di notte, perché il mastodonte, illuminatissimo, meriti il nome di Palais Lumière.
Non solo: sarebbe sulla rotta degli aerei, e violerebbe di ben 110 metri i limiti di altezza imposti dall’Enac (Ente nazionale aviazione civile). Ma se l’Enac risponde picche, Cardin non demorde: o un sì integrale al progetto, o il suo palazzo emigrerà in Cina.
Che cos’hanno in comune questi tre episodi? Sono tre occasioni per Venezia. Ma perché, se vogliamo portare turisti a Venezia per mare, va fatto con meganavi superinquinanti che s’insinuano in città come altrettanti grattacieli? Perché, se vogliamo recuperare all’uso commerciale il Fondaco dei Tedeschi, dobbiamo violarne l’architettura? Perché Cardin non può, nei 250mila metri quadrati del parco che avrebbe a disposizione, edificare due, tre torri più basse, con la stessa superficie totale? C’è una sola risposta: in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del progetto. E’ essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce i sacerdoti della modernità quanto una vergine restia può irritare un dongiovanni che si crede irresistibile.
La profanazione, anzi la visibilità della profanazione, ha una forte carica simbolica, è uno statement di iper-modernità rampante e volgare, che si vuol prendere la rivincita sul passato, umiliare Venezia guardandola dall’alto di una mega-nave o di una superterrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo a Marghera. Pazienza se (lo ha scritto Italia Nostra) l’Unesco dovesse cancellare Venezia dalle sue liste, dato che nel 2009 lo ha fatto con Dresda, dopo la costruzione di un ponte visibile dalla città barocca.
Ma c’è un altro denominatore comune: i soldi. In tutti e tre i casi, il ricatto è lo stesso: senza le mega-navi calano i turisti; per avere la mega-torre di Marghera e la mega-terrazza del Fondaco bisogna ubbidire al committente senza fiatare. E le istituzioni? Prone ai voleri del dio Mercato, sono pronte a tutto: nel caso del Fondaco, il Comune ha accettato da Benetton una sorta di “bonus” di 6 milioni promettendo in cambio di permettere (e far permettere) tutto; il sindaco Orsoni dichiara che «è assurdo mettersi di traverso a Cardin».
Intanto il presidente della regione Zaia incensa lo stilista paragonandolo a Lorenzo il Magnifico (forse non ricordava il nome di nessun doge), e chiede «che il ministro Passera si metta una mano sul cuore» e induca l’Enac a chiudere un occhio: anche la sicurezza dei voli dovrà pur inchinarsi al Denaro. In questa squallida sceneggiata, due sono le vittime: non solo Venezia (e i veneziani), ma anche la legalità, sfrattata a suon di milioni.
E intanto Pierre Cardin ha già messo in vendita gli appartamenti del Palais Lumière, con un annuncio diffuso a Parigi, in cui lo si vede torreggiare sullo sfondo di una Venezia ridotta a miniatura. La legalità può aspettare, la Costituzione può andare in soffitta.
Le ragioni per le quali la cosiddetta Torre Cardin è un’offesa alle regole di una trasformazione corretta, culturalmente rispettosa e socialmente utile del territorio della laguna sono state espresse con grande chiarezza da numerosi osservatori. Voglio segnalare soprattutto l’articolo di Vittorio Gregotti sulla “Nuova” (6 settembre) e quelli di Paola Somma (25 luglio) e di Sergio Pascolo su “eddyburg.it” (29 agosto). Nulla voglio aggiungere al merito di quelle critiche, ma non posso mancare di esprimere due brevissime riflessioni.
1) Possibile che i massimi esponenti del potere democratico locale e nazionale abbiano rivelato, con i commenti e le decisioni, una visione così meschina e incolta della città e del suo governo? Le dichiarazioni e gli interventi del sindaco di Venezia e del presidente della Repubblica dimostrano un totale disprezzo delle regole sulle quali la convivenza tra interessi diversi si fonda.
2) Sia Gregotti che Somma colgono il carattere sistemico del degrado di cui la torre del “couturier” francese costituisce (insieme all’impero Benetton e ai grattacieli del mare) l’episodio più vistoso. Ma dove affonda le sue radici politiche e culturali il degrado che la torre Lumière riassume e illumina? È chiaramente in quella politica di abolizione dei “lacci e lacciuoli” della pianificazione urbanistica che fu avviata con la giunta Cacciari-D’Agostino e sistematicamente proseguita da quelle successive, in un clima sempre più bipartisan. Venezia è sempre stata una città di mercanti. Ma una volta essi, arricchendosi, rendevano la loro Repubblica più solida, bella e ricca, oggi la distruggono.
* Urbanista
Ora che si sono calmati i rumori intorno alle manifestazioni veneziane forse ci si può occupare anche dei guai di quella straordinaria città. Un'inchiesta sullo stato delle cose e delle prospettive della città di Venezia, patrimonio dell'umanità, pubblicato sul Nouvel Observateur qualche settimana fa, era intitolato Monstres flottants sur la lagune, ma oltre alla questione del passaggio dei colossali piroscafi turistici tra San Marco e le chiese di Palladio, e dei relativi possibili disastri, esso muoveva una serie di interrogativi intorno alle speculazioni che premono sulla città e sulle piccole isole della laguna, sino agli sconvolgimenti dei vari progetti per il Lido, al fallimento del nuovo palazzo del cinema, della discutibile proposta di trasformazione del Fondaco dei Tedeschi, della speculazione del Quadrante di Tessera (due milioni di metri cubi di costruzioni) e della relativa metropolitana sublagunare. Sono questioni che dipendono strutturalmente dalla scelta politicamente errata di una economia solo turistica, questioni che si discutono da almeno vent'anni, senza esito, anche se non sono mancate le preposte alternative. Sulla loro storia consiglio di leggere il piccolo libro che, pur con qualche inesattezza, ha scritto, meritevolmente, di recente il giornalista Alberto Vitucci dal titolo Nel nome di Venezia, o il libro che io stesso ho pubblicato più di quindici anni orsono dal titolo Venezia città della nuova modernità, una prospettiva certamente mancata.
L'ultimo capitolo di questo insieme di sciagure è rappresentato dalla proposta del grattacielo di Cardin, generosa nelle intenzioni del promotore ma assurda sia nella sua soluzione architettonica, che nella totale assenza di una qualche logica di pianificazione di fronte ad un luogo tra i più complicati ed insieme decisivi dell'area metropolitana di Venezia, cioè il sistema Mestre, Marghera con la relativa grande area industriale. Tutto questo, bisogna confessare, sorretto da un piano di assetto territoriale che rifiuta ideologicamente ogni definitone funzionale e di disegno urbano come elemento essenziale delle prospettive di sviluppo di una città tanto difficile. Ma quella del nuovo episodio isolato del grattacielo Cardin è una proposta purtroppo presa sul serio anche dalle istituzioni e persino da una parte dell'opinione pubblica, con il commento che è meglio far qualcosa che nulla. Una conclusione triste ed insieme pericolosa e senza ritorno, come hanno dimostrato i numerosi errori italiani di disegno urbano e di paesaggio in questi anni, e di cui è un segnale la stessa vertiginosa diminuzione della popolazione dell'area centrale di Venezia ridotta ormai a meno di 6o.000 abitanti contro una popolazione turistica che nel 2011 ha raggiunto in un anno i trenta milioni di turisti. Per quanto riguarda poi la soluzione architettonica dell'edificio proposto il suo provincialismo formale è tanto evidente che sembra si stia ricorrendo a qualche ecoarchitetto protettore, oltre che a qualche robusto studio di ingegneria, nel tentativo di un qualche suo consolidamento tecnico-burocratico. Invano qualcuno, come i professori dello Iuav Pascolo e Vittadini, ha elaborato studi e proposte che, fin dal 2009, sono state oggetto di seminari e di tesi di laurea perla trasformazione dell'intera area industriale di Marghera, con la conservazione del suo potenziale di occupazione, proponendone la trasformazione secondo la tradizione della città europea della compresenza di funzioni produttive compatibili, di abitazioni e servizi capaci di una forte mescolanza sociale, con equilibrata relazione con la città di Mestre e con il parco del Forte che affaccia sulla laguna. Forse la generosa volontà da parte del grande Cardin di lasciare un proprio ricordo alla città di Venezia sarebbe più opportunamente collocata se sostenesse la realizzazione di un progetto come quello proposto dallo Iuav, sino ad oggi inutilizzato nella discussione pubblica, nonostante la città sembri, per ora, piuttosto indifferente a tutte queste questioni. Voglio ricordare a questo proposito come alla metà degli anni Ottanta la minaccia di un Expo 2000 veneziana, sostenuta dall'allora potente ministro Gianni De Michelis, fosse stata sconfitta da una sollevazione popolare, sostenuta da alcune personalità culturali e proprio anche dall'Istituto universitario di architettura. Oggi le preoccupazioni della nostra società, lo sappiamo bene, sono in primo piano rivolte alla mancanza di lavoro ed alla sopravvivenza economica. Ma non è escluso che il miracolo della sollevazione anti-Expo possa ripetersi anche oggi.
Gregotti è buon conoscitore dell’urbanistica veneziana, i prodotti della sua presenza di docente e di architetto sono stati utili alla città quando i tempi erano meno barbarici. Alcune delle sue proposte coglievano il cuore del problema. Ricordo quella, elaborata con l’indimenticabile Guglielmo Zambrini, per un intelligente sistema della mobilità del tutto alternativo a quello praticato, nei fatti e nei progetti, dagli amministratori degli ultimi decenni. E coglie ogli a certamente il cuore del problema la connessione tra i molteplici temi e aspetti della decadenza di Venezia: tutti o qusi raccontati dai nomerosi saggetti della fortunata collana Occhi aperti su Venezia, dell’editore Corte del fòntego.Intelligente anche la speranza espressa da Gregotti: che si ripeta «il miracolo della sollevazione antiExpo». Il guaio è che una parte consistente del mondo veneziano che allora si oppose all’Expo ha voltato gabbana, come molti intellettuali e quasi tutti i politici. Potrebbe essere utile esaminare, per comprendere meglio, i percorsi che ciascuno di loro ha compiuto, nell’ultimo ventennio. Quando gli intellettuali non aiutano a comprendere le ragioni e le radici della critica e non partecipano alla costruzione di un’alternativa, l’altra parte del mondo, il popolo, fatica a rendere affilate lo proprie armiSu eddyburg vedi, a proposito della Torre Cardin, gli articoli di Paola Somma e di Sergio Pascolo.
L’ormai prossima Biennale di architettura di Venezia ospiterà tra i suoi eventi collaterali -ai quali si partecipa non su invito, ma a pagamento - una mostra dedicata al gigantesco grattacielo che Pierre Cardin ha deciso di costruire a Marghera. Da quello che si vede nel rendering distribuito alla stampa, l’intervento consiste in 3 torri, alte 250 metri, con 66 piani che contengono alberghi, negozi e residenze di lusso, oltre alla sede di un’accademia della moda. La volumetria prevista supera gli 800 metri cubi. Sull’area, che non à ancora di proprietà di Cardin, insistono attualmente circa 300 mila metri cubi di capannoni industriali. Secondo i portavoce dello stilista, la forma del cosiddetto Palais Lumière evocherebbe l’immagine di tre fiori armoniosamente disposti in un vaso e tenuti insieme da un nastro annodato. Secondo le stesse fonti, diverse opzioni sono state prese in considerazione circa la località dove collocare tale vaso, da Parigi a Mosca, ma la preferenza di Cardin è proprio per questa porzione di terraferma del comune di Venezia. Se la dichiarata e presunta indifferenza per il punto di appoggio dell’opera può sconcertare, perché denota un’assenza di attenzione per il legame tra sito e manufatto che poco si addice alla sensibilità artistica del grande couturier, in realtà la scelta del luogo è molto oculata. Non era facile, infatti, trovare un’area libera o liberabile di adeguate dimensioni e in una posizione dotata di un altrettanto grande valore pubblicitario. Non a caso, a Parigi già circolano brochures promozionali che pongono in vendita gli appartamenti con vista su Venezia, prima ancora che il progetto sia stato ufficialmente approvato.
Il progetto di Cardin è in contrasto con i piani ed i regolamenti vigenti , incluso quello che detta le norme di sicurezza in prossimità dei corridoi d’accesso agli aeroporti. L’Enac, in effetti, ha già espresso un parere negativo, perché l’altezza delle torri supera di oltre 100 metri quella autorizzata, ma tale parere è stato sdegnosamente respinto da Cardin che, da un lato ha prodotto uno studio dal quale risulterebbe che le torri non rappresentano nessun pericolo per il traffico aereo, dall’altro ha dichiarato che “o si fa così o se ne andrà in Cina”. E a conferma delle sue intenzioni, ha indicato la fine di luglio come termine ultimo entro il quale il comune di Venezia deve esprimersi a favore del progetto.
Nel frattempo, a sostegno delle richieste di Cardin, si è schierata la maggior parte degli operatori economici e dei politici locali. Perfino due docenti universitari di diritto amministrativo, Gianfranco Perulli e Flavio Leardini hanno detto che “va fatto ogni sforzo per superare gli schemi e le consuetudini operative nell’ambito dell’urbanistica e dell’edilizia, e dello stato dei luoghi” e hanno suggerito di chiedere un intervento personale del presidente del consiglio Monti che, a loro giudizio, potrebbe emanare “un decreto legge ad hoc senza che questo configuri alcuna prevaricazione agli enti locali”. Preoccupazione, quest’ultima, superflua, dal momento che gli enti locali non hanno bisogno di alcuna prevaricazione per appoggiare senza riserve la grande opera. Dal presidente della regione, che ha paragonato Cardin a Lorenzo il Magnifico e ha rivolto un accorato appello al ministro Passera affinché “ si metta una mano sul cuore di fronte ai divieti posti da Enac”, alla presidente della provincia, secondo la quale il progetto ha una “valenza quasi rivoluzionaria per le prospettive di sviluppo”, le espressioni di entusiasmo per l’arrivo di un nuovo mecenate si succedono. Particolarmente euforico è il sindaco di Venezia, secondo il quale il palais lumiere “non è una banale speculazione edilizia, ma un progetto idoneo a riqualificare il territorio sul piano economico e culturale, un’occasione da non perdere, un progetto da portare a casa” e, soprattutto, ha sottolineato, “Cardin ce lo regala”.
Mentre i notabili locali si esibivano in queste dichiarazioni, si dice che Cardin abbia scritto al capo dello stato Giorgio Napolitano, il quale avrebbe chiesto un’informativa al ministro dello sviluppo per avere lumi sull’iter della vicenda. Non si sa se tale notizia riportata dalla stampa risponda a verità (il che forse potrebbe rassicurare i mercati dimostrando che nel nostro paese la situazione non è seria); certo è che il 23 luglio il sindaco Orsoni ha dichiarato di aver ricevuto una telefonata dal presidente dell’ENAC che gli ha detto “se non ci sono rischi, è OK subito ”, e che il 24 luglio, con 28 voti su 31, il consiglio comunale ha dato mandato al sindaco, con esecutività immediata, di esaminare l’opera in conferenza dei servizi per poi procedere alla stipula di un accordo di programma. L’entusiasmo del sindaco è alle stelle. Non solo ce l’ha fatta una settimana prima della scadenza dell’ultimatum di Cardin, ma anche un mese prima dell’apertura della Biennale. Il che gli eviterà il ripetersi della penosa situazione di due anni fa, quando il progetto del gruppo Benetton per la trasformazione del Fontego dei Tedeschi in centro commerciale venne esposto alla Biennale, prima di essere stato discusso in consiglio comunale.
Per i normali cittadini, l’arrivo a Venezia di un ennesimo benefattore che vuole regalarci una grande opera non rappresenta una novità, né lo saranno gli “imprevisti” costi e danni collaterali a carico dei contribuenti. La vicenda del palais lumière, però, ha alcuni elementi che la differenziano da altre del recente passato, primo fra tutti il fatto che questa volta il mecenate non si è fatto accompagnare da una grande firma dell’architettura. Benché sia stato da alcuni paragonato alla torre Eiffel, da altri definito in termini minimalistici una scultura abitabile, il palais lumiere non è opera di una archistar; l ’unica griffe è quella del committente/investitore. E quasi si trattasse di una mancanza di rispetto nei loro confronti, i notabili dell’architettura italiana hanno reagito bocciando il progetto. Per una volta tutti d’accordo, ex rettori dell’Università IUAV di Venezia ed ex direttori della Biennale di architettura non solo ne hanno individuato i molti e verosimili impatti negativi sulla città ma, soprattutto, si sono lamentati, perché il progetto non è l’esito di un concorso (al quale avrebbero partecipato o come vincitori predestinati o come membri della giuria). Uno di loro, il professor Marino Folin, ha anche detto sdegnato che “se il progetto venisse approvato, vorrebbe dire che qualunque miliardario può venire a Venezia e fare quello che vuole”. Si tratta di osservazioni ragionevoli e condivisibili. E’ un peccato, però, che la credibilità di questi novelli Cappuccetto Rosso sia largamente minata dal fatto che tutti gli interventi che hanno contribuito alla distruzione di Venezia come città e alla sua trasformazione in terreno di caccia e rapina per investitori e speculatori- dal ponte di Calatrava al palazzo del cinema del Lido, dal mulino Stucky alla creazione di nuove isole edificabili in laguna - siano stati promossi, propagandati, dotati di garanzia di qualità, dalle prestigiose istituzioni da loro presiedute.
Links:
Il Palais Lumière è sempre più realtà: il consiglio comunale dà l'ok al progetto
Palais Lumière, appartamenti con vista già in “vendita”
Corsa contro il tempo per la Torre di Cardin:
Orsoni: progetto da portare a casa
Torre Cardin, interviene anche Napolitano
Il 13 luglio all’Isola del Giglio si è svolta a 6 mesi di distanza la cerimonia di ricordo delle 32 vittime che persero la vita nel naufragio della Costa Concordia, un ricordo che non svanisce ma tende a replicarsi nella fantasia dei superstiti, quasi incombesse su di essa una coazione a ripetere, iscritta nella stupidità umana, come ha detto uno dei testimoni. In realtà è un fenomeno tutt’altro che irrazionale, sol che si rifletta alla motivazione del tutto frivola, ancorché fruttuosa dal punto di vista pecuniario, che ha suggerito al comandante come ai suoi predecessori, di far correre un rischio tutt’altro che imprevedibile ai suoi passeggeri pur di offrir loro il brividodi sfiorare le rocce.
La verità agghiacciante di questo rischio mi è apparsa all’improvviso ripercorrendo, con una diversa attenzione che nel passato, un luogo assai lontano dall’arcipelago toscano e, cioè, il Bacino San Marco e i canali lagunari che gli fanno corona. Un paesaggio visto più volte con ammirata emozione, ma ormai senza sorpresa, all’improvviso mi generava un senso di assurdità, di inconcepibile provocazione, di ridicola sceneggiatura messa in piedi da un pazzo con pieni poteri cui fosse stata affidata la sorte della Città dei Dogi, secondo un modello allucinatorio, che riprendeva su scala lagunare il raid della Costa Concordia riprodotto nella sua follia dalla sproporzione tra il minuscolo borgo marittimo e la gigantografia della maxi-nave che ne sfiorava gli scogli. Una cronaca realistica che va oltre l’evento mi è stata fornita da un sapiente resocontista, Silvio Testa, con un incipit meritevole del Campiello: «Immensi scatoloni galleggianti passano per il Bacino di San Marco: sono bianchi, li chiamano navi, e in effetti lo dovrebbero essere, ma delle splendide navi di un tempo hanno solo la funzione di portare passeggeri, tanti, il più possibile. Queste navi non hanno né raffinatezza né buon gusto, sono ispirate ai Casinò di Las Vegas, a bordo mantengono quel che promettono: una vacanza davillaggio turistico per quei croceristi che fan parte di quei 30 e più milioni di visitatori all’anno che soffocano Venezia».
La Stazione marittima è uno dei principali varchi d’entrata e di passaggio “mordi e fuggi” che permettono a questi viaggiatori una “toccata e fuga” a qualche metro dai tetti dei palazzi e delle chiese. Così uno dei luoghi più belli del mondo si trasforma da un minuto all’altro in uno dei più brutti dell’universo, La fonte dello scempio nasce dall’idea diabolica del “fuori scala”. Le cosiddette navi-giganti non hanno linea, si ergono per oltre 60 metri di altezza mentre le case della città non superano in media i 15 m. I passeggeri inerpicati sui punti più alti delle navi guardano dall’alto in basso campi, campielli, case, calli perdendo ogni cognizione della città, della sua fragilità, del suo bisogno di rispetto. Le autorità e i gruppi d’interesse inneggiano comunque al moltiplicarsi delle presenze . Nel 2009 i passaggi o le “toccate” (tipo Isola del Giglio) delle grandi navi nel Bacino di San Marco sono stati 1300 (metà all’andata, altrettante al ritorno). Sovente approdano in un giorno 12 condomini galleggianti e le banchine portuali non bastano; si ricorre alla Riva dei Sette Martiri. Nella zona i motori sono accesi giorno e notte, vibrazioni, fumi inquinanti, avvelenamenti elettromagnetici si susseguono. Le proteste dei cittadini che chiedono una struttura portuale in mare aperto con un sistema di ormeggio compatibile con la sopravvivenza di Venezia non vengono ascoltate. Ma è soprattutto l’ipotesi che una mega-nave in transito nel Bacino di San Marco finisca per infilarsi nella facciata di San Giorgio o in quella di Palazzo Ducale viene liquidata in poche righe da un rassicurante studio affidato dalla Autorità portuale a una società locale la quale afferma che basta usare in modo corretto la strumentazione esistente per raggiungere gli standard di sicurezza necessari. In altri termini, se non ci sono errori non ci sono incidenti.