Stop alle maxipubblicità nell’area marciana e in Canal Grande sui ponteggi per i restauri. Sarà questo il tema della «raccomandazione» principale che i Comitati privati per la salvaguardia di Venezia - che da quarant’anni contribuiscono alla tutela artistica e monumentale del centro storico - indirizzeranno oggi alla città e alle autorità competenti, nella loro XXXVI Riunione Annuale che si terrà - in forma pubblica - a Palazzo Zorzi, sede dell’Ufficio veneziano dell’Unesco. Un tema che è già stato affrontato ampiamente ieri - anche alla presenza della sovrintendente ai Beni architettonici e paesaggistici di Venezia Renata Codello - nella sessione privata a porte chiuse e che fa seguito anche alla lettera preoccupata su questo tema che gli stessi Comitati avevano indirizzato di recente al sovrintendente e al sindaco Massimo Cacciari.
«Abbiamo avuto assicurazioni dal sovrintendente - commenta il presidente dei Comitati Alvise Zorzi - che non è prevista l’installazione di tabelloni pubblicitari luminosi in Piazza San Marco per i prossimi restauri in programma. Inoltre è stata accettata dalla stessa Soprintendenza e dal Comune la nostra proposta di creare un Comitato consultivo di esperti che valutino di volta in volta le richieste di sponsorizzazioni pubblicitarie legate agli interventi di restauro nell’area marciana. E’ questa un’iniziativa che crediamo possa dare risultati positivi per la tutela dell’immagine della città».
Ciò non vuol dire, però, che le pubblicità dell’area marciana spariranno del tutto, perché la prima preoccupazione della Soprintendenza è quella di garantire l’integrità e la tutela degli edifici, con costi che ormai spesso solo sponsor privati sono in grado di sostenere. «La dottoressa Codello - spiega ancora Zorzi - ci ha ribadito che è prioritario assolvere gli scopi istituzionali di tutela dei monumenti, anche se questo, per avere i fondi necessari, imponga la presenza di messaggi pubblicitari dello sponsor».
Si ragionerà, dunque, soprattutto sulla forma, le caratteristiche e le misure delle presenze pubblicitarie che - se eccessive, come quelle presenti attualmente - rischiano tra l’altro di essere un «boomerang» per le stesse aziende, per le critiche su di esse che rischiano di attirare. Non a caso, per i primi mesi del nuovo anno il Comune non avrebbe trovato sponsor, disposti a ricoprire i ponteggi della facciata di palazzo ducale sul rio della Canonica.
L’altro tema su cui i Comitati Privati si impegneranno nei prossimi anni sarà quello della manutenzione degli edifici storici, più che del restauro vero e proprio. «E’ questa - spiega ancora Zorzi - la vera emergenza della città in questo momento e per questo i Comitati si impegneranno a intervenire nuovamente su quegli edifici già restaurati in passato, ma che cominciano ad accusare i segni del tempo». L’impegno di questi organismi - che nulla chiedono per i loro interventi a favore della città - è dunque destinato a continuare con lo stesso impegno del passato.
A moderare gli effetti più palesi (e forse non più gravi) dell mercificazione della città forse basterebbe un po’ di buon senso. Se comune e stato decidessero che, nella città stodica di Venezia, nessuna pubblicità commerciale può avere dimensioni superiori a quelle di un pannello di tot centimetri per tot centimetri, e se gli spazi disponibili sui ponteggi dei restauri fossero uno per edificio, le aziende correrebbero ad accapparrarseli pagano la stessa cifra che pagano oggi per le gigantesche lenziìuolate pubblicitarie.
Nel 2002 ogni veneziano aveva «a testa» 209,5 turisti (tra pernottanti ed escursionisti). Nel 2006, a fronte di 21 milioni e mezzo di visitatori, il rapporto con il numero dei residenti è salito addirittura a 1 a 349, con 60 mila visitatori in media al giorno e poco più di 61 mila residenti. Il confronto con Roma - dati del Ciset, il Centro internazionale di studi sull’economia del turismo - sa persino di paradosso: contando il solo numero dei turisti pernottanti, ogni residente nella Capitale ha in «dote» 8,9 turisti a testa, ogni veneziano (inteso come residente nel comune) ne ha 23,6, ogni abitante della città storica la bellezza di oltre 53 foresti. Una convivenza decisamente affollata.
D’altro canto, il turismo è economia. Sempre il Ciset ha calcolato un fatturato annuale di 1,5 miliardi di euro: ogni visitatore che dorme in città spende in media 150-180 euro (il 46% per l’alloggio, contribuendo con 1095 milioni al budget complessivo del settore); un escursionista improprio che dorme in terraferma, ma ha Venezia nel suo obiettivo, spende tra i 43 e i 51 euro al dì (180 milioni, il 12% del fatturato); l’escursionista puro non meno di 31-38 euro a testa (il 15% del fatturato, pari a 225 milioni).
Come chiunque ha sperimentato in questi anni, è in questo incontro-scontro di dati - l’economia e il peso dell’impatto che ricade su ogni residente - che sta il grosso dei problemi della città storica: trovare il punto di equilibrio, anche quanto a spese dei servizi. Temi che, negli ultimi giorni, si sono intrecciati con altri due dati. Da una parte, la tendenza al ribasso del mercato turistico veneziano (che risente delle congiunture negative internazionali), dall’altra l’introduzione dell’imposta di scopo tra le possibilità di autonomia economica per i Comuni previste dal ddl sul federalismo. Di ieri, il comunicato preoccupato degli albergatori veneziani dell’Ava che - pur a fronte di un settembre buono quanto ad arrivi, rispetto al difficile trend del 2008 - registrano un crollo di dieci punti nell’occupazione dei posti letto, scesa dal 90,28% del settembre 2007 all’80,53% di quest’anno. «Un calo accompagnato anche dal ridimensionamento del ricavo per camera, nell’ordine del 13,21%», sottolinea il presidente Franco Maschietto, «le flessioni più evidenti si sono osservate nel centro storico dove, a fronte di una variazione negativa di quasi 14 punti nel tasso di occupazione delle camere, si è osservata una decrescita dei ricavi del 14,64%». Flessioni dimezzate a Mestre.
Complessivamente, tra gennaio e settembre, il calo delle presenze (quindi delle notti) è stato dell’11,83%, quello dei guadagni del 13%.
Calo di visitatori, certo, ma anche boom nel numero dei posti letto nei nuovi alberghi, ma in particolare nel più economico settore extralberghiero: dal 2000 ad oggi - dati Ciset - Bed&breakfast e affittacamere siano cresciuti del 450%.
«Una flessione c’è stata e sarà certamente confermata anche nel 2009, data la congiuntura», osserva Mara Manente, direttrice del Ciset, «ma credo soprattutto che ci sarà uno spostamento a favore degli escursionisti, che arrivano a Venezia per un giorno o pernottano in alberghi dell’entroterra. Comunque, come Ciset non abbiamo ancora elaborato lo scenario ufficiale per il 2009, perché la situazione è troppo volatile».
«C’è una necessità di governance del turismo e il bisogno che questo settore contribuisca al mantenimento della città», prosegue Manente, «la tassa di scopo è un’opportunità, per quanto da calibrare con attenzione, non rivolta solo ai turisti, ma anche agli operatori privati, agli enti pubblici. Certo il momento non è dei più propizi, data la negativa congiuntura internazionale, ma d’altra parte il Comune non può spendere a sua volta. Bisogna coinvolgere tutti i soggetti interessati». (r.d.r.)
Ponte di Calatrava, si cambia. Più precisamente, saranno sostituiti ventiquattro gradini: via le pedate in vetro troppo scivolose, in arrivo le pedate di pietra più sicure. L’ha proposto l’architetto catalano il quale, evidentemente stufo di ricevere mail, lettere e fax circa le continue cadute sulla sua lucente creatura, ha optato per la soluzione più drastica.
«Un lavoro per niente complicato e costoso - spiegano i suoi tecnici - smontaggio e montaggio sono possibili in una sola notte, due al massimo se si vuole tenere il ponte sempre aperto. La decisione spetta unicamente alla direzione dei lavori, che supponiamo vorrà intervenire quanto prima».
Detta così sembra facile, ma a Ca’ Farsetti hanno fatto un balzo dalla sedia. Nessuno aveva mai sentito parlare di cambio di gradini, di altre spese, di ulteriori lavori, di viabilità interrotta ma solo di segnaletica. Strisce gialle per terra e cartelli informativi ai piedi del ponte.
«Ho appreso delle proposte dello studio Calatrava mentre i nostri uffici sono già al lavoro su una diversa ipotesi - dichiara l’assessore ai Lavori pubblici Mara Rumiz - Un’ipotesi legata alla segnaletica, per aumentare il livello di attenzione degli utenti e migliorare la percezione dei gradini nei cambi di passo conseguenti al cambio di larghezza della pedata attraverso puntuali elementi correttivi che non risultino invasivi. Ipotesi che ritengo meno complessa della sostituzione di parti del ponte, meno costosa e oltretutto modulabile, suscettibile cioè di eventuali e ulteriori aggiustamenti».
E intanto c’è chi, come il capogruppo di An in Municipalità, Pietro Bortoluzzi, punta il dito e spara: «Calatrava ammette di aver sbagliato a disegnare gli scalini del ponte».
A questo punto, però, le parti dovranno incontrarsi e decidere il da fare, e anche in tempi rapidi, visto che sul ponte - forse anche un po’ per l’effetto domino - si continua a cadere come peri.
«Il problema della caduta di persone resta - continua la Rumiz - meno di dieci, in venti giorni, sono ricorse alle cure del Pronto soccorso, come ha puntualizzato il primario che comunque ha ricordato che ogni settimana i casi di questo tipo sono “diversi”, visto che a Venezia le cadute sui ponti sono naturali».
E così, per non essere più subissato di mail su questo che si è fatto male di qua e quell’altro che si è fatto male di là, Calatrava propone una soluzione radicale.
«Com’è noto alcuni gradini hanno larghezza doppia rispetto a quelli che precedono e a quelli che seguono - scrive lo studio dell’architetto in un comunicato - I doppi gradini marcano appunto il cambio di larghezza delle pedate e, in questi punti, il pavimento del ponte è diviso in tre corsie: ai lati vetro antiscivolo e al centro pietra. Secondo il direttore dei lavori Salvatore Vento i più distratti o le persone con problemi alla vista possono non percepire immediatamente il cambio di ritmo della pedata e dunque rischiano di cadere. Si tratta evidentemente di una questione che appartiene al settore percettivo e che ha pertanto carattere del tutto soggettivo».
Visto che sul ponte bisogna mettere mano, si provvederà anche ad agevolare gli ipovedenti. Due le proposte dell’architetto da presentare per la scelta alle associazioni di non vedenti: alzare di tre centimetri il pavimento davanti ai parapetti per una superficie di sessanta centimetri quadrati e installare sul pavimento dei mercatori d’acciaio o di gomma del tipo utilizzato per i non vedenti, in modo che possano intercettarli con il piede o con il bastoncino».
Intanto, però, il ponte della Costituzione fa il pienone, segno che - oltre a essere bello - è anche utile e, dopo tante polemiche, non guasta.
La Venezia versione Disneyland fa discutere, come la reazione del sindaco Massimo Cacciari che ha duramente polemizzato, definendole «i peggiori luoghi comuni» sia le osservazioni dell’economista britannico John Kay - vincitore, con un articolo pubblicato sul Times sul degrado turistico della città e sui mezzi per contrastarlo, del premio giornalistico sulla città, bandito dall’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti - sia con la giuria. Una giuria guidata dal presidente dell’Istituto Leopoldo Mazzarolli e di cui fanno parte storici dell’arte e studiosi di valore: da Pierre Rosenberg ad Antonio Paolucci, da Wolfgang Wolters a veneziani di diritto e d’adozione come Alvise Zorzi, Gherardo Ortalli, lady Frances Clarke. E proprio Alvise Zorzi, presidente dei Comitati privati per la salvaguardia di Venezia, replica con misura, ma anche con fermezza alla reazione polemica di Cacciari contro la denunciata «disneylandizzazione» della città, che è in parte sotto gli occhi di tutti.
«Mi trovo d’accordo - commenta - con l’analisi del professor Kay, anche se egli evoca in modo paradossale l’utilità dei gestori di Disneyland al posto degli amministratori per affrontare i problemi legati alla pressione turistica su Venezia e alla trasformazione che la città sta subendo. Il premio dell’Istituto Veneto, attraverso il riconoscimento assegnato a questo articolo, intende fare non da critica ma da sprone ai nostri amministratori, perché affrontino finalmente questi problemi, di cui si parla da anni ma senza risultato». Zorzi entra anche nel merito: «Credo che un sistema di regolazione dei flussi turistici a Venezia non sia più rinviabile, assieme a misure concrete che favoriscano il mantenimento e l’arrivo di attività produttive alternative al turismo, perché Venezia non è solo questo. Non è certo colpa solo del Comune, ma quando sento che l’assessore alla Produzione culturale Luana Zanella dichiara che Venezia è la periferia di Mestre, mi cascano le braccia. La mercificazione della città è evidente, tutto è ormai consentito, purché ci sia un ritorno economico: basta vedere le insegne pubblicitarie sui monumenti». Anche il presidente dell’Istituto Veneto Leopoldo Mazzarolli concorda: «Il nostro Premio non ha altre finalità che quelle di stimolare il dibattito su Venezia, per questo mi hanno stupito e mi sono spiaciute le parole di Cacciari, perché quello articolo ha certo un tono provocatorio, ma per aiutare ad affrontare i problemi della città, che sono sotto gli occhi di tutti». Anche Italia Nostra esprime «sconcerto» per le reazioni di Cacciari. «Far passare il grido di allarme di un economista di rilievo internazionale per il cattivo scritto di un mediocre giornalista - commenta Giovanni Losavio, presidente dell’associazione ambientalista - significa non averne capito il senso. Chiunque abbia letto l’articolo, non può non riscontrare il tono provocatorio e paradossale scelto da John Kay per criticare la discutibile gestione amministrativa di Venezia. Parlare di Venezia come “parco tematico” significa denunciare la deriva che la città sta vivendo, travolta da un turismo fuori controllo e malamente gestito». (e.t.)
Qui un’ampia sintesi dell’articolo di John Kay, su l’Indipendente, ripresa da Patrimonio SOS http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getarticle&id=21063
Il Ponte di Calatrava? Già progettato a Venezia oltre quattrocento anni fa, da Cristoforo Sabbadino, grande ingegnere e proto dell’Ufficio delle Acque della Serenissima. Nella sua celebre pianta di Venezia, concepita nel 1557, compare infatti sul Canal Grande tra Santa Chiara e la zona del Corpus Domini - oggi corrispondente al piazzale di Santa Lucia - un ponte tracciato per collegare le due rive in corrispondenza di quello realizzato oggi dal famoso architetto catalano, che tanto fa discutere.
Quel ponte - che sarebbe stato il secondo sul Canal Grande, dopo quello di Rialto, allora ancora in legno e ben prima di quello degli Scalzi - non fu poi mai realizzato, ma è singolare che nel furioso dibattito che da anni è in corso in città sulla funzionalità e la collocazione dell’opera di Calatrava, nessuno si sia ricordato che già negli anni d’oro della Repubblica Veneta un collegamento simile era stato concepito e disegnato su una delle piante più conosciute della cartografia antica veneziana. Lo ha notato, ora, una giovane docente di Storia dell’Architettura dell’Iuav, la dottoressa Elena Svalduz, consultando per una ricerca la copia della pianta del Sabbadino conservata alla Biblioteca Marciana, accanto alle altre due che possiede invece l’Archivio di Stato.
«La pianta, ben nota alla critica - spiega - raffigura il cosiddetto “piano” per Venezia elaborato nel 1557 da Cristoforo Sabbadino, come proto dell’Ufficio delle Acque, l’organismo che controllava l’assetto delle aree marginali della città. E’ considerato un vero e proprio piano regolatore, che concepisce e disegna la città come un complesso urbano in trasformazione, in anticipo sui tempi rispetto alla moderna pianificazione urbanistica. Per la città di Venezia è il primo progetto d’insieme, di cui sono previste tanto le ricadute fisiche, quanto quelle d’economiche. A completamento del disegno manoscritto, infatti, l’autore riporta il computo dettagliato delle superfici e del volume di fango necessario per ottenerle».
Era, quella, una Venezia da circa 180 mila abitanti, in crescita, che dopo il boom edilizio della prima metà del Cinquecento e la saturazione delle aree centrali disponibili, cercava nuovi terreni per l’edificazione, reperibili solo ai limiti della città. Da qui anche interventi contemporanei di riequilibrio, come la bonifica dei terreni paludosi, con l’uso dei fanghi asportati dai canali per consentire una migliore circolazione dell’acqua. «Sulla scia di una serie di provvedimenti volti a rettificare i bordi della città - spiega ancora la dottoressa Svalduz - Sabbadino disegna una fondamenta continua in pietra, larga più di 17 metri, lungo l’intero perimetro urbano. Allo sbocco dei canali sono previsti ben trentasei nuovi ponti, uno dei quali sul Canal Grande tra Santa Chiara e il Corpus Domini, grosso modo in corrispondenza di quello progettato da Calatrava, oggi in corso di realizzazione. Lungo le rive è delineato un sistema di canali prolungati in linea retta nelle aree recuperate, fino a immettersi nei due nuovi canali scavati sul retro della Giudecca e a lato delle attuali Fondamente Nuove, per vivificare quelli interni e per convogliare il flusso delle maree lungo i bordi». In anticipo sui moderni project financing, quelle concepite dall’ingegner Sabbadino erano opere pubbliche a costo zero. Secondo i suoi calcoli, infatti, la vendita dei nuovi terreni strappati alle acque e resi edificabili, avrebbe consentito di coprire le spese relative tanto alla realizzazione della lunga banchina con i suoi ponti, quanto alle opere di escavo dei canali perimetrali. Ma a cosa sarebbe servito il “ponte di Calatrava” versione Sabbadino? Al collegamento pedonale verso la terraferma, nell’area vicino al convento di Santa Chiara, dove sarebbe stato ricavato un nuovo bacino acqueo, una sorta di terminal per il trasporto fluviale per le barche «da Padoana et Vicentina», come si legge sulla pianta. Un ponte spostato un po’ più a ovest rispetto a quello ora realizzato e che in fondo giustifica anche sul piano storico il nome di Ponte de la Zirada che il Comune vuole attribuire ora al suo “gemello”.
Dopo i precedenti interventi di Italia Nostra che denunciavano le gravi alterazioni in atto alla Punta della Dogana, in uno dei luoghi veneziani più prestigiosi e ricchi di storia, il commento pessimistico di molti è stato che la triste vicenda forse non era ancora finita e che “il peggio non è mai morto”. Italia Nostra riteneva che quanto già al momento noto, con alterazioni e interventi di grande pesantezza, fosse un limite impossibile da superare. Purtroppo dobbiamo ricrederci.
Le ultime notizie parlano, fra l’altro, di due obelischi di cemento alti ben dieci metri da erigere a pochi passi dall’ingresso dell’edificio. In riferimento al vago carattere cimiteriale che gli obelischi spesso richiamano, qualcuno ha commentato che potrebbero valere come simbolo funerario dedicato ad un luogo di eccezionale valore oltraggiato in quei suoi antichi caratteri che avevano resistito per secoli.
Italia Nostra ama anche l’ironia, ma non è disposta ad apprezzare più di tanto le battute che irridono a scelte comunque di grave pesantezza. Rimane invece fermissima nel condannare tutta un’operazione che negli anni ha fatto della Punta della Dogana ciò che sta diventando. La faccenda – lo si ricordi – inizia quando gli organi dello Stato decidono di spostare dalla Dogana in Terraferma uffici con funzioni d’interesse pubblico che lì si svolgevano da secoli. Non sapendo progettare il futuro una volta di più si colpiva il passato. E posti di lavoro venivano tolti ad una Venezia già pericolosamente proiettata verso una miope monocultura di mero sfruttamento turistico.
Si ricorda altresì come le autorità amministrative centrali e locali e gli stessi organi di controllo che dovrebbero tutelare Venezia (in particolare la Commissione di Salvaguardia e le Soprintendenze), non abbiano saputo impedire alterazioni fortissime delle strutture monumentali. Con scarsa fantasia l’unica destinazione che si è saputo trovare per un manufatto di tale valore culturale è stata quella di sede espositiva: un’altra! nella città che ne ha la massima quantità in proporzione al suo tessuto urbano e che intanto continua ad espellere gli abitanti senza risolvere il problema vitale della residenza.
Con scarsa fantasia ci si è pure impegnati a “nobilitare” l’operazione in atto con il richiamo del grande architetto (senza che il ponte di Calatrava abbia insegnato qualcosa)! E si è scelto un operatore (Tadao Ando) che non ha nulla veramente a che fare con la cultura della grande edilizia veneziana e che è noto ovunque per l’uso del cemento!
Non a caso, dunque, dieci metri per due di obelischi di cemento rischiano di essere il segno di un ulteriore gravissimo sfregio alla qualità civile di Venezia. Se un monumento dovranno essere, gli obelischi lo saranno non in lode a un architetto che ha deciso di collaborare a un progetto che viola la cultura veneziana; non lo saranno nemmeno a lode di un ricco signore che può comprarsi palazzi e beni per metterci quello che desidera; non lo saranno nemmeno alle autorità pubbliche che hanno approvato queste scelte. Saranno il monumento alla memoria di una ulteriore offesa al patrimonio culturale di una città straordinaria ma sempre più indifesa.
Allarme turismo. Con la nuova proposta di legge della giunta regionale anche le ultime difese per i residenti della città storica rischiano di essere travolte. Il nuovo disegno di legge sul turismo, firmato dall’assessore e vicepresidente della giunta Galan, il leghista Luca Zaia, prevede all’articolo 132 una norma che rischia di oncrinare per sempre l’equilibrio della città storica. Alberghi e affittacamere potranno infatti aprire «dipendenze» ovunque, anche al di fuori della norma dei cento metri prevista per il resto del Veneto, purché all’interno dello stesso sestiere. Ieri, presa visione della proposta, l’assessore alla Casa del Comune Mara Rumiz ha inviato una dura lettera al presidente della Regione Giancarlo Galan e al vicepresidente Luca Zaja. «Questa legge va in senso contrario alla politica di tutela della residenza scelta dal Comune», scrive la Rumiz, «e rischia di comprometterne il futuro. Siamo a disposizione per fornire all’amministrazione regionale tutti i chiarimenti di cui ci sia bisogno». Allegato alla lettera, l’assessore ha inviato anche l’ultimo studio dell’Osservatorio Casa in cui viene documentato come negli ultimi anni ci sia stata un’esplosione delle attività di affittacamere, pensione e hotel. E soprattutto come circa la metà di questi spazi siano stati sottratti alla residenza. Appartamenti «svuotati» degli inquilini, sfrattati e costretti a trovarsi alloggio in terraferma, dove i prezzi sono più bassi. E consegnati alla speculazione. Risultato, alberghi e affittacamere ovunque. Ma anche hotel con «dipendenze» nelle vicinanze. Adesso, invece di correggere il fenomeno, si allargano ulteriormente le maglie. Dopo un periodo in cui non sempre il Comune ha interpretato in senso restrittivo le norme già piuttosto carenti. «Meglio alberghi che l’Enichem o i vu’ cumprà», dice il leghista Alberto Mazzonetto, «il turismo è l’economia più importante della città, va bene così». Ma è una voce fuori dal coro.
Danilo Lunardelli, assessore al Turismo della Provincia, annuncia una prossima convocazione di un tavolo sul turismo. «Bisogna discutere delle possibilità di sviluppo del settore», dice, «ma a Venezia bisogna andare con calma. Certo non si possono togliere i vincoli proprio lì».
Del tema degli alberghi diffusi si parlerà anche martedì a Ca’ Farsetti, nel corso del vertice tra uffici comunali e Apt convocato dal sindaco Massimo Cacciari. «E’ la dimostrazione di come in tanti settori la città non abbia alcun potere decisionale», dice il verde Beppe Caccia. Ricordando come nei primi anni Novanta fu proprio una legge regionale a disciplinare il trasporto pubblico non di linea. Istituendo vincoli e normative che ancora oggi pesano sulla possibilità di modificare la mobilità acquea. In questo caso però i vincoli saranno tolti. «Un disastro», accusano i dirigenti di Italia Nostra, «questa città è stata stravolta. Invece di frenare lo sviluppo di alberghi e affittacamere si vuole consentire a tutti di farlo». La conseguenza sarebbe che il mercato delle case tornerebbe alle stelle. E la concorrenza delle grandi società che vogliono acquistare alberghi e dependance si farebbe pressante. I veneziani sarebbero cacciati, ammenocché non vivano di alberghi.
Insomma, siamo vicini a un punto di non ritorno. «Daremo battaglia», promettono in Comune, «e cercheremo di convincere chi ha scritto quel testo che si tratta di un grave errore». Ma la pressione delle lobby è forte. Si dice che un provvedimento del genere potrebbe rivelarsi presto anche una «sanatoria indiscriminata» nei confronti dei tanti esercizi abusivi: sono centinaia quelli sanzionati dalla Finanza e dall’Edilizia privata del Comune, con esposti in Procura. La proposta di legge comincerà nei prossimi giorni il suo iter in commissione.
In questo scritto di Luigi Scano le scelte che hanno permesso di rendere il PRG innocuo per chi vuole trasformare residenze in alberghi
Laguna stravolta dai lavori del Mose
Viaggio in elicottero sui cantieri aperti in laguna. Ruspe e camion dov’erano le dune, in acqua palancole di ferro e muraglioni - Sulla spiaggia di Santa Maria del Mare gli enormi cassoni in calcestruzzo - All’Arsenale spuntano già grandi basi in cemento nei bacini un tempo utilizzati dalle imbarcazioni
Migliaia di palancole in ferro piantate in laguna fin sotto il caranto, lo strato solido su cui poggiano le palafitte che sostengono Venezia. Spianate di cemento, muri di calcestruzzo alti tre metri, bassi fondali scavati fino 20 metri di profondità. E un paesaggio che in attesa della «fase 2», quella dei cassoni e delle paratoie, è già stato scolvolto. Eccola la laguna salvata - o sfregiata, secondo i punti di vista - dai lavori del Mose. Ruspe, camion, gru e betoniere che lavorano a pieno ritmo alle tre bocche di porto.
Visti dall’alto i cantieri del Mose sembrano quasi un’operazione chirurgica di restyling della costa lagunare e dei litorali. Bisogna scendere a bassa quota con l’elicottero della Guardia di Finanza per vedere le ferite e sentire i rumori dei cantieri, che hanno modificato le abitudini della fauna selvatica nelle due oasi di Ca’ Roman e Alberoni. E poi scie di materiali, acque torbide, correnti che secondo gli esperti sono già state modificate dai lavori con conseguenze ancora poco note sul futuro equilibrio lagunare.
Punta Sabbioni. La bocca di Lido, la più vicina alla città storica, ha cambiato volto. Verso Punta Sabbioni il cemento ha ristretto il varco per almeno 200 metri. E’ il «porto rifugio» per le piccole navi in entrata durante le fasi in cui le paratoie saranno alzate. Il lato laguna di Punta Sabbioni è ormai irriconoscibile. Un chilometro di scogliera per proteggere la «conca» e un enorme catino in cemento, I camion, piccoli piccoli, danno l’idea delle dimensioni della conca. All’esterno sporge lo spiazzo, anche qui rinforzato con il cemento sui fondali, dove si dovrebbe ancorare la fila di paratoie verso Treporti. Saranno scavati in totale quasi otto milioni di metri cubi di materiali, da sostituire con altrettanto calcestruzzo. I fondali saranno «rettificati» per ospitare gli enormi cassoni e le paratoie.
L’isola. L’isola del bacàn, 13 ettari davanti alla secca naturale di Sant’Erasmo, è ormai completata. Si vedono i muri alti tre metri sul livello laguna. Da Sant’Erasmo la vista del mare è in parte occlusa. Sull’isola dovranno trovare posto i grandi edifici per il controllo del sistema e anche la nuova centrale elettrica. Per far funzionare il sistema sarà necessario produrre una grande quantità di energia elettrica. Dietro l’isola, ben visibile, è il nuovo canale - destinato a interrarsi continuamente - per far passare le motonavi.
San Nicolò. La vecchia diga è stata tagliata in più parti e «rinforzata» verso la laguna. Il cantiere ha in parte raso al suolo le dune sulla spiaggia, la diga è stata sdoppiata e ai suoi lati sono stati affondati enormi blocchi di cemento. «E questi sarebbero reversibili?», avevano scritto con la vernice quelli del Comitato No Mose.
Santa Maria del Mare. La bocca di Malamocco è quella dove i lavori sono in fase più avanzata. Quasi conclusi i rinforzi per la conca di navigazione, destinata a ospitare le petroliere. Fa un certo effetto la «piastra» in cemento, quasi venti ettari piazzati sulla spiaggia e sul tratto di mare antistante. Verso sud una nuova diga «sigilla» il cantiere dove si dovrebbero costruire gli enormi cassoni in calcestruzzo con la spiaggia. Le acque torbide testimoniano di nuovi scavi in corso. Dai bassi fondali si dovrà arrivare a profondità tra i 14 e i 20 metri per il varo dei cassoni. Dov’erano dune e spiaggia è un continuo via vai di ruspe e camion. L’intera fisionomia del luogo è stata sconvolta.
Ca’ Roman. Dall’alto è ben visibile la fetta di oasi naturalistica della Lipu «tagliata» dagli enormi cantieri. Modificata anche la linea di costa, e all’interno ormai finite la conca e il grande spiazzo in cemento per la movimentazione dei cassoni. Verso il mare si nota la diga foranea. Barriera dove qualche settimana fa si è schiantata portata dalle correnti una nave che portava i sassi dall’Istria proprio per i lavori del Mose.
Arsenale. Nei bacini di carenaggio dell’Arsenale affidati al Consorzio, si vedono già basi in cemento e nuove lavorazioni al posto delle navi. Qui si dovrebbe installare la centrale operativa del Mose.
Il Piano del territorio prevede un risarcimento per i danni
Un risarcimento per i danni ambientali provocati dal Mose. Lo prevede il nuovo Pat, il Piano di assetto del territorio approvato dalla giunta. Perché un fatto è certo: comunque la si pensi sull’utilità della grande opera, gli sconvolgimenti e gli impatti già provocati all’ambiente lagunare sono evidenti. Rumori, vibrazioni, inquinamento, modifica delle correnti e delle abitudini dell’avifauna. Anche che perché molti dei cantieri sono a ridosso di aree o naturalistiche protette, come a San Nicolò, Santa Maria del Mare, Ca’ Roman. Un rapporto sconvolgente, quello pubblicato da Ca’ Farsetti, in polemica con i tecnici del Magistrato alle Acque e il Corila, che ha l’incarico di svolgere i controlli sugli effetti dei lavori. Dopo il Comitatone del novembre 2006, quando il governo Prodi aveva autorizzato il proseguimento dei lavori del Mose, le polemiche si sono fatte più rade. Ma il contenzioso resta in piedi. Ricorsi e inchieste aperte, di cui si attende l’esito.
Tar del Lazio. Una sentenza molto importante è quella attesa a giorni dal Tar del Lazio. Si deve decidere sul ricorso presentato a Roma da Italia Nostra. L’associazione per la difesa del territorio sostiene che la delibera di autorizzazione ai lavori del Comitatone nel novembre scorso fu illegittima. Secondo la Legge Speciale, scrivono i legali di Italia Nostra, ad avere diritto di voto in quella sede sono i singoli componenti, tra cui cinque ministri. Quel giorno invece il presidente Prodi mise sulla delibera una sorta di «fiducia», e il governo si era espresso solo con il suo voto favorevole. Mentre avevano dichiarato voto contrario insieme al sindaco Cacciari i ministri dell’Ambiente e della Ricerca Scientifica, si era astenuto il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi. Un vizio di legittimità che è ora all’esame dei giudici.
Tar del Veneto. Fino ad oggi il Tar Veneto ha sempre respinto tutti i ricorsi di Comune e ambientalisti contro la grande opera, dando ragione al ministero dei Lavori pubblici e alla Regione. L’ultimo ricorso (sentenza rinviata ad aprile) è stato presentato da Ca’ Farsetti e Wwf. Riguarda i presunti abusi compiuti per i lavori del cantiere a Santa Maria del Mare. Secondo i legali del Comune Federico Sorrentino, Nicolò Paoletti e Giulio Gidoni, si tratta di un’opera «provvisoria» ma di grande impatto. Che avrebbe avuto bisogno come già stabilito da altre sentenze della Cassazione dell’autorizzazione paesaggistica preventiva.
Unione europea. «La procedura di infrazione va avanti, e il nostro interesse per Venezia è grande», ha scritto al sindaco il commissario della commissione Ambiente della Ue Stavros Dimas. Procedura aperta due anni fa dopo i ricorsi degli ambientalisti perché non sarebbero state rispettate le norme che tutelano le aree lagunari protette Sic e Zps.
Corte dei Conti. Sei mesi fa il magistrato inquirente della Corte dei Conti Antonio Mezzera ha aperto una procedura contro il Consorzio, contestando ben 57 capi d’accusa su lavori e concessione unica. L’inchiesta è aperta.
Procura. Un’inchiesta penale è aperta da tre anni alla Procura di Venezia. Nata da numerosi esposti e da un rapporto dei carabinieri del Noe e del ministero per l’Ambiente sull’illegittimità di alcuni cantieri.
I numeri della maxi-operazione in laguna
Già finanziati dallo Stato 1,9 miliardi di euro Ne mancano ancora 2,4 per terminare l’intervento
Una «grande opera» da 4300 milioni di euro. Che si dovrebbe concludere stando ai progetti entro il 2012. Ma i finanziamenti scarseggiano, e uno slittamento è ormai quasi certo. Dal 2003 a oggi il Consorzio Venezia Nuova - concessionario unico dello Stato per la salvaguardia della laguna - ha ricevuto dallo Stato circa 1900 milioni di euro. Ne mancano 2400, che dovrebbero essere finanziati con il ritmo di almeno 500-600 l’anno. La Finanziaria 2008 ne ha assegnati 170, che - in aggiunta a quelli già stanziati l’anno scorso - consentono di andare avanti con i lavori almeno fino a primavera. Sono state completate quasi tutte le opere preliminari e le dighe foranee. Il Mose vero e proprio è costituito di tre sbarramenti alle bocche di porto: 79 paratoie da 30 per metri per 30 ancorate sul fondo ai cassoni in calcestruzzo. Nella bocca più grande (il Lido, larga 900 metri) la barriera sarà divisa in due con un’isola al centro. (a.v.)
Due grandi navi crociera da 100 mila tonnellate. E in mezzo, piccolo piccolo piccolo, il campanile di San Marco. Motoscafi e Gran Turismo che si muovono come pesciolini vicino a due enormi balene. E’ l’immagine simbolo della grande mostra sul «degrado veneziano» che l’associazione «Amici di Venezia» inaugurerà in gennaio ai Magazzini del Sale. Gondolieri, professionisti, cittadini armati di macchina fotografica che hanno immortalato i tanti problemi della città visti dall’acqua. Pietre danneggiate, moto ondoso, traffico acqueo impazzito. E, sosprattutto, le grandi navi.
Una polemica che torna attuale, dopo l’aumento di arrivi delle grandi navi crociera, e il dato record di un milione di passeggeri. Le crociere portano ricchezza. Ma è proprio necessario far passare i «mostri del mare» a due passi da San Marco? Il comitato ha raccolto dati e studi dell’Arpav e del Cnr, scattato immagini e messo insieme un vero dossier di denuncia. «Le grandi navi inquinano», sostiene Marco Zanon, gondoliere, tra i promoori della grande mostra, «danneggiano i fondali e le rive, spostando masse d’acqua enormi».
Secondo le indagini dell’Arpav una grande nave da crociera emette inquinamento da polveri sottili e zolfo pari a 14 mila automobili circolanti in un giorno, il 15 per cento dell’inquinamento totale dell’area veneziana. Le grandi eliche sollevano sedimenti e scavano i fondali. Dalle indagini effettuate non risulta che le navi producano «onde» più di altri motoscafi. Ma il fenomeno pericoloso, secondo gli esperti, è quello dello spostamento di enormi masse d’acqua, e il risucchio dai canali che «svuota» di colpa o rii accelerando il degrado delle strutture. Spostamenti di almeno 100 mila tonnellate d’acqua.
Una battaglia che si riaccende, quella contro le grandi navi a San Marco. Qualche anno fa si era progettato di farle approdare a Marghera. Succede in tutte le grandi città d’Europa meta di crociere. Le navi attraccano nelle aree portuali e i passeggeri vengono portati in città con il bus o i trimarani di bordo. Solo a Venezia le agenzie vendono il «passaggio» per San Marco. Mozzafiato, sicuramente, ma anche molto rischioso per i delicati equilibri della città. Qualche anno fa una nave si era incagliata davanti al palazzo Ducale in una giornata di nebbia. Il soprintendente Giorgio Rossini aveva annunciato un decreto per «sfrattare» le navi da San Marco. Il Comune aveva annunciato un progetto per attrezzare nuove banchine a Marghera. Ma non se n’era fato nulla. E il «business» aveva preso il sopravvento sulla discussione. Nonostante le denunce di Italia Nostra e gli allarmi lanciati dai tecnici.
Qualche giorno fa il problema è tornato di attualità, con la presentazione di una interrogazione al ministro Bianchi da parte del senatore veneziano Felice Casson. E quello delle grandi navi in Bacino sarà uno dei nodi che si troverà a dover sciogliere il nuovo presidente dell’Autorità portuale. Intanto le associazioni si sono messe insieme e annunciano battaglia. «E se dovesse perdere il controllo?» recita la didascalia sotto la foto delle due navi affiancate a poche decine di metri da San Giorgio. Il filmato, con efficace colonna sonora dei Pirati dei Caraibi, mostra immagini impressionanti. La via Garibaldi «murata» da una nave più alta dei campanili, e una grande scritta: «E se dovesse perdere il controllo?»
Più di cento nuovi bed & breakfast in un anno, una cinquantina di affittacamere e una ventina di alberghi. Praticamente un’insegna in ogni calle, in ogni campo, in ogni corte. Un’esplosione di posti letto che in sei anni è aumentata quasi del 40 per cento, in particolare nel segmento del B&B che dal 2001 alla fine del 2006 conta la bellezza di 459 nuove aperture.
La situazione incontrollata è ormai sotto gli occhi di tutti: alberghi a molte stelle, alberghi così e così, pensioni, pensioncine, appartamenti in affitto, stanze per una notte. Il mercato della ricettività non conosce limiti e ovunque ci sia uno spazio libero ecco che spunta un hotel.
Dal 2001 al 2006 hanno aperto la bellezza di 66 alberghi contro i 12 che hanno chiuso con un saldo di 54 nuovi hotel. A questi vanno aggiunti gli altri 55 che sono stati inaugurati in provincia (saldo tra i 136 che hanno aperto e gli 81 che hanno cessato l’attività).
«Il fenomeno alberghiero è aumentato ma non di tantissimo - spiega il presidente dell’Associazione veneziana albergatori, Franco Maschietto - se si esclude l’Hilton le altre sono strutture da quaranta-cinquanta posti. Il problema sono soprattutto gli appartamenti che vengono dati ai turisti, ma non solo in centro storico. Il fenomeno ormai va da qui a Bassano».
Decisamente più intensa l’attività degli affittacamere: 336 nuove aperture nell’ultimo lustro, solo 19 le chiusure per un saldo di 317. Il record spetta al 2001, con 87 aperture. Un’esagerazione anche in provincia dal 2001 al 2006: 409 inaugurazioni, 25 chiusure con un saldo di 384.
Il capitolo bed & breakfast conosce numeri ancor maggiori: 459 abitazioni sono state trasformate in B&B nell’arco degli ultimi sei anni, di cui 119 l’anno scorso. Calcolando che nello stesso periodo ne sono stati chiusi 122, al netto ne restano 337. Bed & breakfast dirompenti anche in provincia con un netto di 465 nuove aperture.
«Ormai l’offerta è pazzesca - dice il presidente dell’Associazione veneziana albergatori, Franco Maschietto - e non esiste nessun limite alle licenze che possono essere date. Non abbiamo uno strumento giuridico per bloccare questa situazione che sta diventando pesante per tutti. E non parlo solo come albergatore ma anche come veneziano, alla luce di tutti quegli immobili che si stanno svuotando uno dopo l’altro e che, prima o poi, fatalmente sembrano destinati a diventare alberghi». Le conseguenze sono che chiunque può aprire quello che vuole e quello che tutti vogliono è aprire un albergo, un alberghetto, un albergone, un bed & breakfast, un appartamento da affittare, e così i palazzi si svuotano delle funzioni vitali per la città riempiendosi di turisti. «Tutti questi contenitori vuoti sono scelte a livello politico» continua il presidente degli albergatori.
I dati di questa tendenza sono sotto gli occhi di tutti. Dal Duemila a oggi, i posti letto del centro storico sono aumentati quasi del 40 per cento. Seimila posti che si sono aggiunti ai 16 mila di sette anni fa per un totale di 22 mila posti. Un immenso dormitorio dove ogni tre metri c’è un’insegna più o mena bella, a poche o tante stelle, che offre ospitalità ai viistatori.
Di questi 22 mila posti 18 mila fanno parte del settore alberghiero e 5 mila dell’extralberghiero. Le previsioni per domani sono tutt’altro che incoraggianti. Altri palazzoni si stanno liberando e sembrano destinati a trasformarsi in altri hotel.
Chissà perché. Su eddyburg trovate le risposte. Magari tra gli scritti di Luigi Scano.
Promosso dagli architetti
Non è un segreto e lo stesso professore lo ha raccontato spesso: l’idea del quarto ponte e soprattutto il coinvolgimento dell’architetto catalano Santiago Calatrava è un’idea sua o, meglio, nata durante una cena in casa sua, a San Polo, e allora è scontata la risposta dello storico dell’architettura e docente allo Iuav Francesco Dal Co alla domanda se, adesso che è montato, quell’opera gli piace. E’ addirittura lapidario: «E’ bellissimo». Un altro professore, invece, non entra nel merito del giudizio estetico, per lui c’è altro da discutere. «Non è questione di bello o brutto - sostiene Gherardo Ortalli, docente di storia medioevale a Ca’Foscari ed esponente di Italia Nostra - il problema è quale politica si fa per Venezia. Quella del quarto ponte non era certo una questione urgente ed importante, insomma non credo fosse una priorità, penso che la città non ne avesse bisogno. I problemi da risolvere sono altri, ad esempio l’invasione turistica, l’insoddisfazione dei cittadini che cresce. Il ponte di Calatrava mi sembra sia stato utilizzato, con un’operazione mediatica, per coprire, per nascondere i problemi reali della città».
Per l’ex rettore dello Iuav Marino Folin si tratta di «un intervento perfetto all’inizio del Canal grande, in una zona considerata minore e marginale riesce a inquadrare come una cornice la chiesa di San Simeon Piccolo» spiega. Un’altro architetto, più pratico, Plinio Danieli, immobiliarista e realizzatore del Laguna palace di Mestre, è più cauto: «Certo mi piace ma adesso è come dare un giudizio sullo scheletro di un palazzo, bisogna attedere il resto per quello finale, anche perchè ci sono questioni tecniche di non poco conto da risolvere, i parapetti in vetro e l’ovovia» (la soluzione prospettata per i disabili).
Vittorio Sgarbi, il critico d’arte, la sua opinione l’aveva già data qualche giorno fa: «Sono amico di Calatrava e ho un grande rispetto per le opere di quell’architetto, certo che il nuovo ponte visto così darà qualche problema di impatto visivo. Perché arrivando da piazzale Roma modificherà lo sky line della città verso le cupole di San Simeon Piccolo. Insomma, qualche problema dal punto di vista dello spazio e degli ingombri il nuovo ponte lo porrà». Per Piero Rosa Salva, consigliere comunale, è un’opera di architettura contemporanea ardita, ma l’esponente della Margherita ha un rammarico: «Avrei preferito che prevedesse una pedana per i disabili, è un’opera in controtendenza visto che ora si sta progettando tutto pensando anche a loro, ma sarebbe servita non solo a loro, pensate a chi porta valige o spinge la carrozzina col bambino. Ed essendo il biglietto da visita della città mi dispiace». Per l’estetica niente da dire: «Del resto Venezia è una sommatoria di interventi contemporanei» conclude. (g.c.)
Veneziani scettici: «Che c’entra con la città?»
Ora che il ponte è stato posato, bisognerà aspettare la fine dell’anno per avere la possibilità di attraversarlo. I primi commenti alla struttura però non sono dei più lusinghieri, in particolare quelli dei veneziani che lavorano nei pressi di Piazzale Roma. La signora Elsa Moro, che ha un banchetto di souvenir a ridosso dei giardini Papadopoli lo boccia senza se e senza ma: «Da quello che abbiamo visto fino ad ora questo ponte è antiestetico e fuori posto e tra i commenti della gente non ne ho sentito uno che fosse positivo a livello architettonico, insomma è proprio brutto». Mirko, proprietario del banchetto ai piedi del ponte di S.Chiara, va giù duro: «Il ponte? A me sembra piuttosto un cavalcavia da tangenziale». Un gruppo di veneziani che aspetta l’autobus, invece spezza una lancia in favore dell’opera: «Finalmente a Venezia un’opera contemporanea, che lancia anche un segnale di innovazione e di discontinuità con il passato». E una giovane afferma: «Sì, la struttura è molto interessante, sono sicura che i veneziani con il tempo si abitueranno ad apprezzarlo, anche se il colore rosso non mi piace molto, ma comunque considero l’opera positiva».
I tassisti di Piazzale Roma hanno poca voglia di parlare, anche se un commento alla fine si riesce a strapparlo: «Cosa c’entra questa struttura con Venezia? Se dovevano fare un ponte, dovevano farlo di marmo, in linea con la storia di questa città, basti solo guardare cosa hanno posato per capire che è antiestetico». Cosa pensano invece i turisti del ponte? Un gruppo di giovani tedeschi scherzando: «Potevano farlo prima, così dalla stazione saremmo arrivati in Piazzale Roma in modo più agevole, ieri invece ci siamo fatti tutto a piedi perché non c’erano vaporetti, a noi comunque non sembra nulla di speciale».
La sensazione però è che i commenti di tipo estetico del ponte siano stati viziati dalle polemiche che hanno fatto da contorno alla estenuante costruzione del ponte, poiché in modo particolare i veneziani associano senza dubbio il ponte ad uno spreco di risorse pubbliche e quindi se il ponte non piace è perché parte con un handicap di base. Andrea, studente di architettura allo Iuav è invece entusiasta: «Finalmente un’opera di un grande architetto contemporaneo anche a Venezia, ho seguito tutta la posa ieri e direi che sotto il punto di vista estetico è molto interessante».
Altri veneziani però continuano con le critiche: «No, devo dire che proprio non mi piace, questa struttura di ferro ha un impatto troppo violento sul canale, la visuale era molto meglio senza questo ponte, mi auguro solo che regga, perché di polemiche tra sprechi, lotte tra aziende e toto-nome non se ne può veramente più
(Giacomo Cosua)
Nel commentare il quarto ponte sul Canal Grande abbiamo messo in evidenza due aspetti della questione: la maggiore o minore bellezza dell’oggetto, e la sua inutilità per la città: avevamo infatti intitolato la piccola rassegna stampa "la bella cazzata", sembrandoci questa una definizione adeguata dell’evento. Dai commenti di oggi vediamo che, mentre gli "architetti" decantano l’oggetto, i veneziani (nelle testimonianze raccolte dai cronisti) badano più alla sostanza delle cose. Il dibattito su Venezia, ai "piani alti", sembra interessarsi più dell’oggettistica che della sostanza, più del fumo che dell’arrosto.
L’impegno del Comune nella complicatissima gestione tecnica dell’evento è stata davvero straordinario. Peccato che sia stato impiegato per un’impresa che, come molti rilevano, se non è del tutto inutile per la città, non era comunque certamente prioritaria per la sua salvezza. Ed è costata 14 milioni di euro. L’iniziativa non è attribuibile all’attuale giunta, perché nasce in anni più lontani. Si è scelta la linea della "continuità amministrativa": una linbea che in Italia, di questi tempi, sembra molto pericolosa.
La fase terminale dell’operazione non è ancora arrivata. Avverrà quando sarà chiaro chi saranno gli utilizzatori del grande complesso immobiliare dove aveva sede il Compartimento ferroviario, utenti diretti dell’opera pubblica. Oggi l’edificio è della Regione, ma si parla di altri attori, privati, operativi nel settore commerciale. Wait and see.
Nel suo recente intervento in argomento di responsabilità del vigente piano regolatore per la città storica (o "antica", come lo stesso piano ha preferito chiamarla) relativamente al fenomeno dell’impetuosa, ingentissima, acceleratissima espansione delle attività turistico-ricettive a detrimento della funzione abitativa ordinaria ("Il boom di hotel non dipende dal PRG", in Il Gazzettino di Venezia del 27 ottobre 2004), l’assessore comunale alla pianificazone strategica, arch. Roberto D’Agostino, combina un tale spudorato pasticcio tra i contenuti effettivi del piano adottato alla fine del 1992, quelli del piano adottato (lui medesimo essendo assessore proponente) alla fine del 1996, le affermazioni (comunque scarsamente pertinenti con i contenuti di questo e di quello) fatte in quegli anni da chissachì, da indurmi a pensare di essere "in buona fede". Cioè di non avere compreso né la reale portata dei disposti del piano che si trovò a ereditare, né quella dei disposti del piano che pretese di sostituirgli. In caso contrario, avrebbe fatto ricorso al noto motto "imbroglio aiutami", o, quantomeno, al forse meno noto, ma glorioso motto della marineria borbonica: "facite ammuina". Nell’uno e nell’altro caso, mi sembra opportuno, per non dire moralmente doveroso nei confronti dell’opinione pubblica veneziana, fare sintetica chiarezza in merito ai dati storici reali degli atti amministrativi richiamati dall’assessore D’Agostino.
Nel piano regolatore per la città storica messo a punto all’inizio del 1990 (all’epoca della "giunta rosso-verde" diretta da Antonio Casellati, con assessore all’urbanistica Stefano Boato), e adottato alla fine del 1992 (all’epoca della giunta diretta da Ugo Bergamo, con assessore all’urbanistica Vittorio Salvagno), si distingueva nettamente tra "utilizzazioni compatibili" e "destinazioni d’uso".
Le prime, cioè le "utilizzazioni compatibili", erano intese come quelle utilizzazioni la cui efficiente esplicazione non sia necessariamente tale da contraddire, o da forzare, le caratteristiche tipologiche e formali proprie delle diverse categorie di unità di spazio (unità edilizie e unità di spazio scoperto) alle quali il piano aveva attribuito tutti gli immobili della città storica. Per farmi intendere agevolmente esemplificherò con una fattispecie estrema e (voglio sperare!) incontrovertibile. Relativamente alle "unità edilizie speciali a struttura unitaria" (chiese, teatri e simili) l’utilizzazione per "abitazioni ordinarie" non compariva tra le "utilizzazioni compatibili", in quanto l’attivazione di una tale utilizzazione implicherebbe, per ricavare alloggi, di spezzettare in verticale e in orizzontale l’ampio (sovente amplissimo) vano unitario che costituisce la caratteristica essenziale, e immediatamente percepibile, di quella categoria di unità edilizie.
Le seconde, cioè le "destinazioni d’uso", erano definite come le utilizzazioni (incluse tra quelle definite "compatibili") vincolativamente assegnate a determinati immobili, nel senso che di tali immobili era vietato il mutamento dell’uso da quello "destinato" a qualsiasi altro uso.
Nell’impianto del piano, le "utilizzazioni compatibili" erano concepite come valide "a tempo indeterminato", cioè per decenni (o per secoli), mentre per le "destinazioni d’uso" si prevedeva che il pianificatore, vale a dire il consiglio comunale, le riesaminasse e le ripensasse ogni quinquennio, e le confermasse, o le eliminasse, o le cambiasse, in relazione alle proprie acquisite conoscenze, e alle proprie scelte politiche, circa le dinamiche intercorse e in essere (di espansione, o di contrazione) di questa o di quella funzione, e circa le funzioni da tutelare rispetto a loro erosioni ritenute eccessive.
Nella concreta versione del piano di cui si è sinora dato conto, si era ritenuto di dover tutelare (imprimendo a immobili puntualmente individuati nelle cartografie, o a intere categorie di immobili indicate nelle norme, vincolanti "destinazioni d’uso") esclusivamente cinque raggruppamenti di funzioni: le attività ricettive (anche in ottemperanza dell’allora vigente legislazione regionale, e vincolando all’uso gli immobili che avessero tale utilizzazione in atto e quelli che l’assumessero legittimamente in prosieguio di tempo), le manifatture private (cioè l’artigianato tipico e tradizionale, con particolare riferimento alla cantieristica minore); le strutture culturali private (il "terziario avanzato", la "produzione immateriale" di cui tanto si parla, anzi si blatera), le strutture pubbliche e/o per attività collettive (dalle scuole alle strutture sanitarie e assistenziali, agli uffici pubblici alle strutture religiose, e via enumerando: occorre dire perché? o precisare che si trattava anche di ottemperare a una previsione di legge regionale e nazionale?) e, innanzitutto e soprattutto, le abitazioni.
Erano infatti vincolativamente destinate ad abitazioni ordinarie e/o specialistiche (alloggi per disabili, e simili) tutte le unità immobiliari che avessero utilizzazione abitativa in atto alla data di adozione del piano.
Era ammesso il mutamento dell’uso da quello abitativo a un altra "utilizzazione compatibile" soltanto, a determinate e rigide condizioni, per le unità immobiliari site al piano terreno, per le unità edilizie già adibite per almeno due terzi a un'unica utilizzazione diversa da quella abitativa, e infine, soltanto nelle unità edilizie di tipo C (i cosiddetti "palazzi"), per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avessero una superficie utile superiore a 400 metri quadrati, e le trasformazioni fisiche ammissibili non consentissero di ricavarne almeno due unità immobiliari a utilizzazione abitativa.
In altri termini, non c’era, in quella versione del piano, alcuna preconcetta ostilità verso non meglio definite attività "direzionali" (checché ricostruisca oggi l’assessore D’Agostino, che forse trova comodo citare prese di posizioni di "fantocci polemici" che della realtà del piano avevano capito poco o nulla), e neppure verso le attività ricettive, che non si intendeva affatto né "bloccare" né "contingentare". V’era, puramente e semplicemente, l’intenzione di vietare ulteriori indiscriminate e generalizzate erosioni degli spazi edilizi veneziani utilizzati per abitazioni ordinarie (e/o specialistiche), nella convinzione che le altre utilizzazioni (essenziali anch’esse alla città, ma diversamente bisognose di essere tutelate nella concreta, durissima, competizione economica per l’uso degli spazi edificati) potessero trovare equilibrata soddisfazione innanzitutto nelle unità edilizie appartenenti alle tipologie originariamente non abitative (chiese, scolae, conventi, palazzi per uffici, fondaci, capannoni, opifici, e via via enumerando), quindi negli spazi edilizi già sottratti alla funzione abitativa (ingentissimi), e infine in quelli (limitati) ancora sottraibili secondo le nuove norme.
Le quali nuove norme furono giudicate, dopo il 1993 (all’epoca della giunta diretta da Massimo Cacciari, con assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino) insopportabili "lacci e laccioli" posti al libero dispiegarsi delle attività economiche.
Più in generale, fu giudicato (forse per difficoltà di comprensione) troppo macchinoso l’impianto complessivo del piano adottato nel precedente mandato amministrativo, e in questo contesto la distinzione (di significato, e di valenza precettiva) tra "utilizzazioni compatibili" e "destinazioni d’uso". Cosicché quelle che erano, come si è spiegato dianzi, definite "utilizzazioni compatibili", riferite alle diverse categorie di unità di spazio (unità edilizie e unità di spazio scoperto) alle quali il piano aveva attribuito, in rapporto alle loro caratteristiche tipologiche, tutti gli immobili della città storica, divennero, nella nuova redatta versione del piano "destinazioni d’uso compatibili". Sono questi gli elenchi di utilizzazioni che l’assessore D’Agostino afferma, nel suo intervento giornalistico, essere rimasti immutati dall’una all’altra versione del piano. Non ho ricontrollato se ciò risponda perfettamente al vero. Per due ottimi motivi. Il primo è che, come il Marco Antonio di Shakespeare, sono convinto che "D’Agostino è un uomo d’onore". Il secondo è che la cosa è perfettamente irrilevante, dato che l’invarianza si colloca in un contesto di significati tutt’affatto diverso.
Nelle prime stesure del nuovo piano, infatti, era sostanzialmente eliminata tutta la parte, di cui sopra si è dato resoconto, relativa alle "destinazioni d’uso" impresse a specifici immobili, o a categorie di immobili, in vista della tutela di determinate funzioni. Nella stesura del piano adottato alla fine del 1996 si "cedeva" alle insistenze di alcune componenti della maggioranza consiliare, e si ripristinava qualche disposizione a tutela dell’utilizzazione abitativa, peraltro ammettendo il mutamento dell’uso da quello abitativo a un altro, oltre che negli ulteriori casi puntualmente disciplinati dal precedente piano, in tutte le unità edilizie, per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avessero una superficie utile superiore a 120 metri quadrati.
L’osservazione dell’associazione Polis, tendente a ripristinare le limitazioni del piano del 1990-1992, non fu accolta dal consiglio comunale, la cui maggioranza, com’è noto, era composta dalle stesse formazioni politiche che costituiscono la maggioranza odierna (dalle forze politiche di minoranza, di allora e di oggi, non ci si aspettava, né ci si aspetta, un opposto atteggiamento, ma in questo caso va riconosciuta la coerenza con la loro natura).
Da più di tre anni, periodicamente, componenti politiche di tale permanente maggioranza, e loro autorevoli esponenti (anche assessori), levano lamentazioni nei confronti dell’eccessiva espansione delle attività ricettive, nei casi più intellettualmente e politicamente apprezzabili in quanto intervenuta a detrimento della funzione abitativa ordinaria. L’anno addietro, il Consiglio comunale tentò persino di porci una pezza, con una variante al nuovo piano per la città antica che aveva, tutt’assieme, i difetti dell’irresolutezza, del confusionismo intellettuale, del compromesso politico.
Oggi anche l’assessore D’Agostino riconosce la gravità del problema, ma ammette quale "fenomeno pericoloso" soltanto la "proliferazione degli affittacamere". E, comunque, ciò che gli interessa è difendere il piano di cui è responsabile, che, a suo dire "viene chiamato in causa in modo improprio". Giacché, afferma, "gli affittacamere sono residenze che, utilizzando una legge regionale che regola le attività extra alberghiere, possono esercitare l’attività ricettiva facendo una semplice denuncia al comune e senza cambiare la destinazione d’uso residenziale".
Ebbene: l’affermazione ora testualmente riportata è per metà falsa, o, per essere più cortesi, infondata. E’ infatti verissimo che, ai sensi della legge regionale veneta 4 novembre 2002, n.33, recante "Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo" l’attività di affittacamere (come in genere le attività ricettive extra alberghiere) è subordinata a mera denuncia di inizio dell’attività. Ma è altrettanto vero che, ai sensi della legislazione statale che la regola, la denuncia di inizio dell’attività si fonda sull’attestazione, da parte dello stesso soggetto interessato, del pieno rispetto di ogni vigente disciplina, avente forza di legge o di atto amministrativo regolamentare, ivi compresi gli strumenti di pianificazione. E nella legge regionale dianzi citata non v’è una sola parola che consenta a chi voglia intraprendere l’attività di affittacamere (o un’altra attività ricettiva extra alberghiera) di derogare da una disposizione della pianificazione urbanistica che vieti di mutare l’uso abitativo ordinario, in atto, di una unità immobiliare in qualsiasi altro uso (soprattutto ove la medesima pianificazione si sia premurata di dettare definizioni dettagliate dell’uso abitativo ordinario e degli altri usi considerabili).
Per cui mi sento di affermare serenamente che, se fosse stato vigente il piano regolatore per la città storica adottato alla fine del 1992 (eventualmente, ma non indispensabilmente, ritoccato per tenere conto della più vasta gamma di attività ricettive considerate dopo di allora nell’ordinamento), gli uffici comunali competenti avrebbero potuto respingere la più gran parte delle denunce di inizio di attività di affittacamere (o omologhe), per mancanza dei relativi requisiti di legittimità, e perseguire per abuso chi avesse ciononostante avviato tali attività.
E di concludere dichiarando di concordare con l’assessore D’Agostino laddove afferma che non si aiuta la città oscurando le vere cause dei fenomeni, e che bisogna cercare i nemici dove ci sono. Per l’appunto, è quel che mi sono impegnato a fare con questo scritto.
L’articolo dell’assessore Roberto D’Agostino
da il Gazzettino del 27 ottobre 2004
Esistono alcune affermazioni che, per quanto false, vengono ripetute spesso e, a forza di essere ripetute, diventano vere. Senza entrare nelle ragioni del perché cose false, e facilmente verificabili in quanto tali, vengono spacciate per vere, ogni tanto vale la pena tentare di rimettere sui piedi la verità. Una di queste affermazioni data per incontestabilmente vera è quella che il processo di trasformazione alberghiera di molte parti della città derivi dal piano regolatore del Centro Storico.
E, in particolare, dal lassismo in fatto di cambio di destinazioni d'uso voluto da chi quel piano ha elaborato (giunta Cacciari) cambiando le previsioni della precedente proposta di piano molto più rigida in materia.
Prima cosa falsa: quando venne discusso il piano regolatore il dibattito sul cambio di destinazioni d'uso ci fu e fu forte, ma esso non riguardava affatto le destinazioni alberghiere, bensì quelle direzionali. C'era infatti chi voleva tutelare la residenzialità della città impedendo che si potesse trasformare un edificio o parti di un edificio residenziale in direzionale, e c'era chi pensava che la residenzialità a Venezia si sarebbe tutelata meglio favorendo, anziché ostacolando, l'insediamento di nuove attività lavorative. Prevalse, a ragione, questa seconda posizione, che peraltro non poteva contribuire da sola a trattenere attività che tendono ad andarsene espulse proprio anche dalle destinazioni residenziali che rappresentano la vera frontiera avanzata della speculazione immobiliare a Venezia.La seconda cosa falsa è che il piano precedente a quello in vigore avesse norme più rigide in fatto di destinazioni alberghiere. In realtà tali norme sono state trasferite senza modificazioni da un piano all'altro e fanno ambedue riferimento alla gamma di destinazioni d'uso insediabili nelle diverse tipologie edilizie: per quanto riguarda tipologie e destinazioni alberghiere i due piani coincidono.
Dunque è falso che il proliferare delle trasformazioni alberghiere sia il frutto delle decisioni del piano regolatore. In realtà il piano regolatore ha consentito in questi anni che alcuni edifici di grandi dimensioni, non adatti alla residenza e spesso abbandonati da tempo, fossero trasformati in albergo (è questo il caso dell'isola di S.Clemente o di alcuni palazzi sul Canal Grande): d'altra parte i dati ci dicono che nel 1966 Venezia aveva dodicimila stanze di albergo e tre milioni di turisti, nel 1996, trent'anni dopo, quando fu fatta quella scelta di piano, Venezia aveva ancora dodicimila stanze di albergo e dieci milioni di turisti, oggi ha sedicimila stanze di albergo e quindici milioni di turisti.Dunque il piano ha avuto una funzione nel riequilibrare un mercato bloccato, monopolistico e di bassa qualità, ma non avuto nessuna influenza sulla proliferazione degli affittacamere che è il vero fenomeno pericoloso e a cui opporsi in quanto sottrae residenza alla città e contribuisce all'innalzamento dei costi degli alloggi. Infatti, gli affittacamere sono residenze che, utilizzando una legge regionale che regola le attività extra alberghiere, possono esercitare l'attività recettiva facendo una semplice denuncia al comune e senza cambiare la destinazione d'uso residenziale. Dunque, il piano regolatore non c'entra, come si suole dire, un fico secco in questa faccenda e viene chiamato in causa in modo improprio.Sgombrato il campo, si spera, da queste leggende metropolitane, rimane da affrontare il problema di merito di come contrastare un fenomeno distorsivo della realtà veneziana come è quello della proliferazione delle strutture ricettive minori, prodotto di una fortissima spinta economica alla quale certo i veneziani non si sottraggono.
Alcune cose il Comune ha fatto di recente, di più forse si potrebbe fare e sarebbe opportuno fare, cominciando col premere sulla Regione per una modifica della legge che ha aggravato il problema. Certo non si aiuta la città oscurando le vere cause del fenomeno e cercando nemici dove non ci sono.
Le Assicurazioni Generali intendono realizzare nelle Procuratie Vecchie venticinque appartamenti prestigiosissimi e costosissimi. Il Sindaco Paolo Costa ne è contrariato, e pensa di utilizzare le risorse di persuasione morale di cui dispone per indurre le Assicurazioni Generali a rinunciare, graziosamente, all’intento. Del quale sono preoccupati e scandalizzati l’Assessore all’edilizia privata Paolo Sprocati, il Rettore dell’Istituto universitario di architettura Marino Folin, il Direttore dei Civici musei Giandomenico Romanelli, e altri illustri personaggi. I quali tutti, così come il Sindaco, muovono dall’assunto che il progetto delle Assicurazioni Generali sia perfettamente conforme alle disposizioni dei vigenti strumenti urbanistici. La qual cosa è vera, quantomeno per quel che riguarda la possibilità di attivare nelle Procuratie Vecchie un’utilizzazione per abitazioni ordinarie, cioè per comuni appartamenti monofamiliari: ma non sempre è stato così.
Nel piano regolatore per la città storica messo a punto all’inizio del 1990 (all’epoca della “giunta rosso-verde” diretta da Antonio Casellati, con assessore all’urbanistica Stefano Boato), e adottato alla fine del 1992 (all’epoca della giunta diretta da Ugo Bergamo, con assessore all’urbanistica Vittorio Salvagno), nelle “unità edilizie speciali preottocentesche a struttura modulare”, tra le quali erano classificate le Procuratie Vecchie, non compariva tra le utilizzazioni compatibili quella, appunto, per abitazioni ordinarie. In altri termini, non si sarebbero potuti realizzare, nelle Procuratie Vecchie, così come, per esempio, nelle Fabbriche Nuove di Rialto, o nel Palazzo dei X Savi, normali appartamenti.
Quello strumento urbanistico fu, dopo il 1993 (all’epoca della giunta diretta da Massimo Cacciari, con assessore all’urbanistica Roberto D’Agostino) diffusamente e rozzamente rimaneggiato, soprattutto per eliminare i “lacci e laccioli” posti al libero dispiegarsi delle attività economiche. Ne sortì il nuovo piano regolatore per la città storica, adottato alla fine del 1996. Esso da un lato ammise il mutamento dell’uso da quello in atto, compreso quello abitativo ordinario, a un altro uso, in tutte le unità edilizie, per ciascuno dei piani superiori a quello terreno, ove avessero una superficie utile superiore a 120 metri quadrati: cinque o sei mesi fa sui giornali locali si ravvisarono e si dibatterono gli esiti nefasti di tale innovazione in termini di sottrazione di infinite unità immobiliari al loro uso originario e più autentico. Da un altro lato inserì l’utilizzazione per abitazioni ordinarie fra quelle compatibili nelle “unità edilizie speciali preottocentesche a struttura modulare”, nelle quali una tale utilizzazione non aveva mai avuto storicamente luogo.
L’osservazione al nuovo piano presentata dall’associazione Polis, tendente a ripristinare, in questi come in altri casi, le disposizioni del piano del 1990-1992, non fu accolta dal consiglio comunale, la cui maggioranza, com’è noto, era composta dalle stesse formazioni politiche che costituiscono la maggioranza odierna.
E Paolo Costa, Paolo Sprocati, Marino Folin, Giandomenico Romanelli, e gli altri illustri personaggi dianzi citati, dov’erano all’epoca? avessero almeno battuto un colpo!
Cordiali saluti.
Il Segretario dell’associazione Polis
Luigi Scano
VENEZIA. Il professor Gherardo Ortalli è un uomo che non le manda a dire. Infatti preferisce dirle lui, anche se sono nude e un po’ crudette, spolverando le parole con quel che resta di un accento emiliano che lo ha seguito nei 30 anni di intensa vita in laguna, dentro l’Università, nella biblioteca dell’Istituto veneto di Scienze Lettere e Arti e sui bastioni di Italia Nostra.
Arrivato a Venezia nel 1973 per insegnare Storia medioevale a San Sebastiano, Ortalli ha fatto sentire la sua voce spesso e sempre fuori dal coro, lontano dai salotti e immune dai piagnistei. Dall’altana del suo appartamento (senza ascensore) in calle lunga San Barnaba vede un sacco di cose: il campanile di San Marco, il nuovo Molino Stucky diventato Hilton e anche qualcosa che gli piace infinitamente meno, anzi, che lo fa impazzire di rabbia, ed è l’agonia della sua città, a cominciare da un turismo che se la sta divorando a morsi.
Professore, la città non ce la fa più.
«Guardi, io credo che la prima cosa da capire sia il punto critico oltre il quale una risorsa diventa un problema. E così è per il turismo. Credo anche che il problema andava affrontato quindici anni fa e non ora, quando ormai è difficle, se non impossibile, porvi rimedio».
Chi ha sbagliato?
«C’è una responsabilità politico-amministrativa molto forte. Rarissimamente la classe dirigente veneziana ha tentato progetti per essere all’altezza della città. Ci hanno provato Visentini e Casellati e, molti anni fa, Cacciari. Ma è finito tutto nel nulla. E poi c’è la colpa dei veneziani».
Sarebbe?
«La colpa dei veneziani è di non aver percepito che c’è stato un mucchio di santi laici che ha cercato di fare i salti mortali per questa città».
A chi pensa?
«Penso, primo tra tutti, a Pino Rosa Salva, al suo impegno, alla sua forza e al suo coraggio. Se dovessi fare un monumento in città lo farei a lui».
Gli altri si offenderanno.
«Dico Rosa Salva perché è fuori gara».
E Cacciari? Di fronte ai 25 milioni di turisti in arrivo, ad esempio, qualcuno dice che si è arreso.
«E’ il Paese intero che si è arreso. Oggi non si sta decidendo per forza di interessi legittimi ma personali e individuali che hanno il sopravvento su quelli collettivi. Basti pensare alle navi».
Le navi?
«Le grandi navi arrivano e sbarcano migliaia di passeggeri quando, invece, non ci vorrebbe molto per mettere un porto a mare e impedire ai turisti di entrare a Venezia su grattacieli di dicotto piani. Certo, una scelta del genere significherebbe scontrarsi con interessi enormi».
Scelte faticose.
«Scelte faticose a fronte di una debolezza che ormai va dal Consiglio di quartiere alla Presidenza del Consiglio. E la nostra amministrazione comunale non è solo debole, ma è anche contradditoria».
Contradditoria?
«Guardi, qui vendono i palazzi e poi dicono: abbiamo fatto un affare. Ma questo è un ragionamento bassissimo. Si sta vendendo quello che resta, e ormai restano solo i muri».
E il turismo.
«Il problema, anche per il turismo, è decidere se Venezia è una città o no. Oggi Venezia è diventata un quartiere e come tale è un pezzo di un organismo urbano in cui le diverse parti hanno una funzione. Ridotta a quartiere, Venezia diventa indifendibile e la sua funzione si riduce a essere quella turistico-museale. Quindi o si fa un salto di cultura amministrativa e si considera Venezia una città o non c’è salvezza».
Secondo lei come andrà?
«In genere sono ottimista e non mi stanco mai, ma quello che vedo mi sembra realmente molto grave. E la cosa peggiore è che tutto ciò sta accadendo senza che nemmeno sia stato deciso».
Un’agonia inconsapevole.
«Un’agonia che non è stata decisa perché qui manca qualsiasi progetto e si rincorre quello che capita».
Quindi?
«Quindi l’orda dei turisti non la fermi perché è sbagliato il punto di partenza».
Le proposte di Ca’ Farsetti per accogliere i flussi sono più servizi e più vaporetti.
«Sono solo delle pezze che non porteranno a nessuna inversione di tendenza. E invece bisognerebbe invertirla questa perfida tendenza».
Secondo lei, siamo mai arrivati così in basso?
«Credo che questo sia un percorso inevitabile iniziato molti anni fa che nessuno ha saputo e voluto fermare. Il risultato è che Venezia è una città di meno di 60 mila abitanti, con un’età media alta, fatta di gente stanca. Una città, insomma, che non è più in grado di difendersi».
Sì, ma qualche soluzione ci sarà.
«Esistono meccanismi che contengono i flussi come, ad esempio, il sistema delle prenotazioni e non capisco perché qui non si riesca ad applicarlo. Non capisco perché i gruppi, le scolaresche, i passeggeri delle navi non possano prenotare prima di venire a Venezia».
Qual è, secondo lei, il tetto di capienza della città?
«Ci sono persone pagate per studiare queste cose e per dircelo».
Però non ce lo dicono.
«Allora io dico che tanto vale rivolgersi a Disneyland. In realtà noi stiamo già facendo Disneyland però senza la capacità programmatica del parco divertimenti. Siamo ormai un gran bazar però senza le regole del gran bazar. Terribile, no?».
Molti veneziani sono diventati insofferenti ai turisti.
«La città sta diventando sempre più scortese. Ci sono edicole che espongono cartelli con la scritta: non si danno informazioni. Oppure basta andare sul ponte dell’Accademia per vedere il peggioramento dei comportamenti. I turisti si fanno la foto da una parte all’altra del ponte e i veneziani ci passano in mezzo».
Scusi, ma lei cosa fa?
«Ci passo anch’io, se non resto lì tutto il giorno».
Alcuni degli articoli in eddyburg sul medesimo argomento: di Luigi Scano del novembre 2004 e del marzo 2007, di Edoardo Salzano su Liberazione e su Carta, e articoli di Francesco Erbani, di Alberto Vitucci, di Jan van der Borg, e del Gazzettino, con postille di eddyburg.
«Voto Casson perché sono di sinistra». Così il famoso urbanista Edoardo Salzano, veneziano d'adozione, risponde alla domanda che ossessiona la laguna dal 4 aprile: chi preferisci nella poltrona di sindaco, Cacciari o Casson? Eppure Salzano dice, e chiaramente, che al primo turno non ha votato né per l'uno né per l'altro. «Un voto di protesta», scrive nel sito personale che cura da quattro anni, www. eddyburg. it, dove incolla i suoi godibilissimi "eddytoriali" sulla politica, il costume e sulla passione e il mestiere di una vita, l'urbanistica. Consigliere comunale di Venezia per 15 anni e consigliere regionale per il Veneto, Salzano conosce Cacciari da sempre: militavano nello stesso partito, il Pci. «Che non è quello di Folena!», scherza. Ma al filosofo veneziano Edoardo «per gli amici Eddy» non ne risparmia una: «Non voterò Cacciari, perché è lui che ha avviato la linea che critico, perché è lui che ha abbandonato il campo a metà legislatura, perché è lui che ha nominato Costa (il sindaco uscente della Margherita, ndr) suo erede». A Liberazione l'urbanista spiega ulteriormente la sua avversione per il rivale di Casson: «Cacciari ha inaugurato un tipo di amministrazione aperta alla mercantilizzazione di Venezia», dice riferendosi alle due giunte Cacciari dal 1993 al 2000. E Casson, invece, «è un esempio di integrità e devozione agli interessi generali dei veneziani». Perché Venezia, insiste Salzano, non è una città come le altre e non può subire l'assalto della modernità - metro sublagunari, dighe gigantesche, turismo forsennato -che caratterizza la metropoli occidentale dei nostri tempi.
Professor Salzano, Lei critica molto Cacciari e ciò che la sua giunta ha fatto a Venezia dal 1993 al 2000. Perché?
Quando Massimo Cacciari divenne sindaco c'è stata una svolta profonda nella politica della città. Si sono affermate con lui due posizioni, molto pericolose, sintetizzabili con lo slogan «privato è bello». Questo ha portato alla cancellazione dei vincoli alla trasformazione e alla modifica della città: le residenze sono diventate alberghi, gli esercizi commerciali fast food e così via. Fino ad allora la sinistra aveva frenato la mercantilizzazione di Venezia. Il secondo elemento cacciariano riguarda la politica della casa: fino ad allora vigeva la regola «nessuna nuova abitazione se non pubblica e destinata ai veneziani». Da allora invece è cominciato il via libera ai privati.
Lo scopo era solo quello di vendere ai privati?
No, ma con Cacciari la sinistra si è arresa alle proposte della destra. Quindi le critiche che Cacciari fa a Costa sono giuste, ma dimentica che le politiche di Costa sono un'estremizzazione di ciò che lui stesso ha iniziato. Non è un caso che Costa sia il delfino di Cacciari.
Perché alla prima tornata ha deciso di non votare né per Casson, né per Cacciari?
Per pura protesta. Ora che siamo arrivati al ballottaggio invece scelgo Casson perché ha due meriti: è l'uomo nuovo, quindi c'è la possibilità che lavori meglio del filosofo. In secondo luogo, ha una storia di rigore su una serie di questioni rilevanti. Ha sempre difeso gli interessi generali di Venezia: il caso contro la Montedison, ad esempio.
So che l'ambientalismo le sta molto a cuore...
Venezia è una città che vive sul rapporto equilibrato con l'ambiente, un traguardo che si è raggiunto dopo mille anni, ma che adesso si sta sfasciando.
Si sta sfasciando per la cattiva amministrazione?
Si sta privilegiando la crescita e il progresso a qualunque costo, senza rendersi conto che il rapporto ambiente-città a Venezia è delicatissimo. L'ultimo esempio è la metropolitana sublagunare, un progetto che non ha nessun significato, e sul quale sia Cacciari che Casson stanno prendendo tempo. Eppure nessuno osa bocciarla in toto. E' stato un assessore di Cacciari, D'Agostino, a proporla e a portarla avanti.
Chi conosce Venezia sa che è una delle pochissime città occidentali che resiste alle brutture della modernità, come la fretta. La dimensione cittadina obbliga il veneziano o il turista a piegarsi ai suoi ritmi, alla sua lentezza. Sono privilegi da salvaguardare? O Venezia deve essere per forza efficiente?
Sono perfettamente d'accordo. Il tempo a Venezia ha una qualità diversa dalle altre città, che non è misurabile quantitativamente, ma qualitativamente. Il tempo passato nei trasporti pubblici a Roma, ad esempio, è un tempo di soffrenza, mentre a Venezia è un tempo di gioia. Ecco perché la sublagunare per me è una follia, e non servirebbe realmente ai veneziani, che solitamente non vanno all'aeroporto o a Murano. Chi ci va invece sono i turisti.
Come risolveresti il turismo di massa?
Da consigliere comunale proposi un «razionamento programmato dell'offerta turistica». Cioé scoraggiare il turismo mordi e fuggi, e incoraggiare quello a lungo periodo, per dare il tempo di conoscere la città nella sua vera essenza.
I commercianti non sarebbero d'accordo, non crede?
Penso che non sarebbero contenti i venditori di Coca cola e panini. Ne sarebbero felici, ad esempio, i rilegatori di libri e tutti quegli artigiani tipici di Venezia che negli anni stanno scomparendo. Preferisco, insomma, un buon made in Venice piuttosto ad un made in Hong Kong.
Torniamo al dilemma Cacciari - Casson. Sui temi appena accennati come li vedi? Per lei pari sono?
No. Su Casson ripongo le speranze, su Cacciari no. Casson credo che starà molto attento a certe questioni, che per il filosofo sono ormai puramente marginali. Io ho fiducia nell'uomo Casson, nella sua integrità e nella sua storia professionale.
E il Mose?
E' un opera sicuramente dannosa. Secondo molti studiosi di calibro è oltretutto inutile. Certamente costosissima e che ha provocato una completa traformazione dei poteri a Venezia. E poi la complessità lagunare non la risolvi solo con un'opera ingegneristica, per quanto avveniristica. Il problema è come governare un ambiente che a Venezia è molto naturale.
Casson, come del resto anche Cacciari, ha promesso che si prenderà carico delle problematiche di Porto Marghera. Cosa pensi che si dovrebbe fare?
Porto Marghera andrebbe ripensata. Il ciclo del cloro è pericolosissimo. Il problema centrale è: che cosa può vendere Venezia al mondo? Può vendere chimica? Automobili? Non credo. Venezia ha una specificità che le deriva da mille anni di storia, possiede una cultura e un know-how incredibili. Venezia ha risolto un problema, quello del rapporto tra uomo e ambiente, in un modo che le altre metropoli si sognano. Le Corbusier diceva che Venezia ha risolto il principale problema urbano dei nostri tempi, la separazione dello spazio del pedone da quello delle macchine.
Quasi tutti gli scrittori che si avvicinano a Venezia scrivono che è indicibile, che è stata già raccontata da troppi, che i discorsi sulla città sono esauriti. Però ne parlano.
Con questo approccio sembra che Venezia sia come quel pilota di Formula Uno doppiato da tutti: se ne sta laggiù in fondo, gli altri lo sfiorano e salutano, perché lui ha un passo differente. È comunque in una posizione della pista altra, in una stravaganza del tempo, dalla quale tutti passano e se ne allontanano. Questo avviene per lo scrupolo di tanti scrittori che le si avvicinano con falsa modestia, amplificando i pericoli del raccontare.
Venezia, invece, è tutta un campiello, è tutta una chiacchiera, Venezia è da parlare più che mai, da raccontare in tutto e per tutto, qui, come dice un poeta, “la vita evolve secondo la logica del pettegolezzo”. È tutta un’intimea. Così si chiama la federa del guanciale in veneziano; così si dice di chi non si fa i fatti suoi e racconta a destra e a manca del prossimo suo, e anche di quello degli altri.
E se di Venezia ne hanno già parlato in troppi, chi se ne frega! Di cosa dovremmo parlare ancora? Delle villette a schiera del varesotto, o dello zen di Palermo? Parliamo di Venezia, che è meglio. Parliamone, prima che si arrivi all’anno della poesia di Anna Toscano: “venezia nel 2050/sarà una trave/sarà una ghianda/sarà un budello/con il mantello/una statua vacua/una gioconda errabonda/una luna piena/una pasta alla scogliera/una serenata ingrassata/una freccia stracciata/sarà una girandola ferma/una festa girovaga/una sveglia che non suona/una campana che non tuona/venezia nel 2050/sarà una finestra chiusa/una finestra aperta”.
Meglio parlare di Venezia, si diceva. Magari cercando i luoghi altri della città, un approccio laterale, come fa Predrag Matvejevic nel suo omaggio alla città lagunare, L’altra Venezia (Garzanti, 2003). Lo scrittore bosniaco parla con accuratezza dei fili d’erba tra le pietre e delle decorazioni murarie, cioè di due aspetti misconosciuti della città.
“La parietaria – scrive – detta anche erba muraiola proprio perché aderisce e si attacca ai muri e alle rocce, ci capita di vederla più spesso delle altre piante spontanee della stessa famiglia: lungo Rio Marin, alle Zattere, presso il Ponte Trevisan e sotto il Ponte della Maddalena, in Calle dei Ragusei, lungo Dorsoduro e ancora da qualche altra parte. Si attacca più che altrove ai ruderi, alle rovine. Si ignora in che modo e da dove nasca. Oltre all’umidità che penetra profondamente negli interstizi dai quali spunta, non ha quasi altro alimento o sostegno... Qui la muraiola è conosciuta anche sotto il nome di erba vetriola o viriola – perché messa in acqua calda, facilita la pulizia dei recipienti di vetro, perfino quelli delicati e preziosi di Murano... La tisana che una volta si otteneva facendo bollire i fiorellini della paritaria guariva il mal di gola... e infine la leggendaria triaca o teriaca, ritenuta un efficace rimedio contro svariati veleni. Dal suo nome, un tempo, le farmacie veneziane erano dette triacanti”.
E non mancano, nel libro, le descrizioni sulle vecchie pàtere, cioè le formelle, o sculture murarie, che stavano a indicare segni araldici minori, piccoli stemmi di famiglia, o insegne di vecchie associazioni sfasciate o di confraternite sciolte. In Calle delle Botteghe, sulla facciata di un’antica scuola di calzature, ce n’è una che rappresenta un’antica scarpa che sembra uscita da una commedia di Carlo Goldoni.
Vecchie formelle, glossario di una comunità minore, scolpite e applicate non certo da maestri d’arte di prim’ordine, ma da semplici muratori e tagliapietre.
Matvejevic parla di roba minima, di caratteristiche semplici, cose che la straordinarietà di Venezia e la sua posizione nel borsino del turismo mondiale faticano a mostrare. Lo scrittore parla dell’umidità e della ruggine, della marcescenza che avvolge ogni cosa. E parla anche di come nei tempi antichi si lavorò al respiro della città sull’acqua, ponendo la terracotta “in gran copia da un estremo all’altro della Laguna... I cocci hanno riempito e sostenuto le fondamenta, permettendo alle costruzioni di respirare e di resistere meglio”.
Ma Venezia non può accontentarsi di tali minimalia. Venezia è splendida splendente, e sa circuire l’occhio umano con abilità.
Non avevo mai riflettuto sul narcisismo delle città, su quante ti sbattano in faccia la loro forma fisica modellata nel tempo. Venezia me ne ha dato lo spunto e Venezia vince su tutte. Ma non basta. Soltanto Venezia è una città dallo sguardo doppio. La città si lascia guardare senza freno, certo. Ma c’è un di più. Chi la abita si guarda in faccia come in nessun altro posto. A Venezia non ci sono automobili, non c’è rumore di traffico, a Venezia si cammina veloce e i piedi faticano molto. Eppure, mai come qui la gente si butta gli occhi addosso, mette in atto una pratica del guardare che contempla curiosità e malizia, attrazione e distacco. Un gioco del biliardo che tra rinterzi, virtuosismi di stecca, e fruscii sul tappeto mette in mostra un infinità di tracciati del desiderio che, a volte, fanno girare la testa.
Io sono toscano. Non sono abituato ai giri di parole. Gli artifici mi fanno perdere la pazienza. Così, per non leggere con sufficienza e snobismo queste pratiche che ho scoperto da detective delle geografie letterarie, cercavo nei libri una pezza d’appoggio. E l’ho trovata. Ne parla Josif Brodksij, nel suo libro forse più immediato che è Fondamenta degli incurabili (Adelphi 1991), quando dice: “...Venezia è quel tipo di città dove lo straniero e l’indigeno sanno in anticipo di essere in mostra... Perché questa è la città dell’occhio: le altre facoltà vengono in seconda linea, e molto distanziate... lo scopo comune di tutte le cose, qui, è sempre lo stesso: farsi vedere”.
Il poeta insignito del Nobel, ha scritto libri ben più densi di questo veneziano, dato su commissione. E, tralasciando le pagine dove alligna il suo malcelato stato di costante “interesse” verso tutto ciò che ha l’aria di una femmina, che poi è il modo di allontanare le donne, sembra che anch’egli non sfugga al dovere di esaltare la bellezza di Venezia: “nessun egoista può fare il divo per molto tempo in mezzo a questo servizio di porcellana posato su un’acqua di cristallo, perché il fondale gli ruba la scena”. Sono d’accordo. Sempre che i maledetti piccioni non si mettano di traverso...
Ma qui non si parlerà del fondale (tanto meno dei piccioni), perché sarebbe come cercare di mettere a fuoco l’universo, cioè un’impresa impossibile.
Che a Venezia ci siano i leoni alati e piazza San Marco con la basilica, e Palazzo Ducale e il ponte dei Sospiri, e il caffè Florian come l’Harry’s Bar è cosa arcinota (pure il libro di Arrigo Cipriani dedicato al suo bar è una delle più belle storie che abbia letto sulla città).
Che Venezia ospiti la Salute, Palazzo Grassi e la Guggenheim, che ci siano la Mostra del Cinema e la Biennale di Arte e Architettura, e i dipinti di Tiziano, dei Bellini, di Giorgione, di Tintoretto e di Canaletto è nozione ordinaria.
Qui si cerca un percorso laterale. Qualcosa che al tempo stesso sappia raccontarci la città profonda e quella della superficie indigena, quella della quotidianità.
Per fare questo si devono attraversare forse molti anni andando e tornando da queste parti. Bisogna avere soldi per le scarpe, e voglia di camminare. Serve tempo per perdersi e per innamorarsi, dimenticare lavori, responsabilità e impegni e affondare dentro se stessi. Soltanto allora, quando avremmo perduto la nostra capacità di controllo sulle cose, potremo toccare le pietre e le forme architettoniche di questa città con i nostri occhi, potremo calare il nostro stato in una vacanza dell’anima al tempo forte e tenera.
Come forti e tenere sono le crepe sui muri della Biblioteca Querini-Stampalia. Lunghe crepe che tengono in bilico enormi quadri a olio con putti, cherubini e donne languide e svestite, rapite, profanate o tristi per la morte vicina. Lunghe crepe che raccordano con tenacia il soffitto al pavimento, in una energica dimostrazione del fatto che il tempo è spesso un segno estetico migliore del proprio restauro.
Qui dentro ci sono vecchi scaffali di libreria, tavoli e sedie ottocenteschi, dove ogni giorno si appostano centinaia di persone per studiare. Questo luogo è più animato e speciale della Biblioteca Marciana. Qui alla Querini-Stampalia c’è anche una caffetteria e un book-shop ben fornito di titoli di architettura e di testi su Venezia e la sua storia. Alcuni sono libri che possono aprire veri squarci sulla città. Penso ai lavori di Alberto Toso come Venezia Enigma e Misteri della laguna e racconti di streghe (Elzeviro, 2004, 2005), oppure alla simpatica guida di Guido Fuga e Lele Vianello, Corto Sconto, itinerari fantastici e nascosti di Corto Maltese a Venezia (Lizard edizioni, 1997), o al bel libro illustrato di Miroslav Sasek, Questa è Venezia (Rizzoli, 2006) che non è solo un libro per ragazzini.
Poi, in questo spazio, che è la reale biblioteca della città, si può venire a leggere fino a mezzanotte, che è decisamente un orario di grande civiltà. E ancora, di tanto in tanto, a mesi prestabiliti, viene organizzata una rassegna chiamata Raccontami una storia a cena, dove scrittori italiani che abbiano capacità affabulatorie, sono invitati a leggere o raccontare una loro storia inedita di fronte a un pubblico raccolto, in un’atmosfera conviviale. Sono già stati qui, tra gli altri, Tiziano Scarpa, Antonella Cilento, Marco Franzoso.
Proprio quando toccava a Roberto Bianchin raccontare la sua storia, siamo venuti qui con l’amico Gigi Scano, nel vecchio cortile, restaurato da Mario Botta e sottratto alla pioggia con un tetto di vetri da cui vedere il cielo del nordest. E – devo dire – abbiamo avuto fortuna già con l’aperitivo: ci hanno prenotato per quattro; noi siamo due; abbiamo quattro pinot, quindi beviamo due bicchieri a testa.
Per spiegare meglio. Prendete una grande scatola. Una scatola rettangolare. Un parallelepipedo col soffitto alto e metteteci dentro una ventina di tavoli. L’ambiente è di classe – non si fanno sconti allo stile a Venezia, tanto meno alla Querini-Stampalia. Mettete un leggio e un microfono a un angolo della stanza. Ecco fatto. Gli amici della Fondazione e chiunque abbia prenotato per tempo alla Caffetteria Barbarigo, assistono a un racconto di un’ora circa e poi cena tutti insieme. Un modo piuttosto serio di conoscere uno scrittore e certo un saggio di impegno e serietà da parte di quest’ultimo, quello di scrivere un testo appositamente per la serata, un racconto che il pubblico ascolta in esclusiva, prima che venga stampato per conto della Querini-Stampalia e venduto nel book-shop.
Zone franche come questa ce ne sono molte a Venezia. Sono luoghi nascosti, fuori dal giro consueto, come molte città trattengono al loro interno, in una sorta di pudore o di gelosia della propria natura. Perché chi ha a che fare con i grandi numeri difficilmente resta autentico, se non mantiene in sé un riserbo ulteriore. Lo diceva Elias Canetti che alla fine, una persona ha solo pochissimi modi di essere intimo e questo credo debba dare valore all’amore come allo splendore di ciò che non è evidente. Questi minori sono i percorsi da fare a Venezia, ma si incrociano soltanto con la costanza e qualche sbaglio. Pure vale la pena di muoversi in questa direzione.
Allora, forse, sarà possibile avvistare, come Brodskij, la straordinarietà della “luce invernale in questa città”, sempre che tale indugio non ci abbia reso impossibile l’impresa impervia di cenare fuori dopo le dieci, sempre che non ci abbia distolto la cacca di un piccione spruzzata a dovere sul giaccone appena uscito dal lavasecco.
Allora, forse, verso sera, traghettando sopra l’acqua, sulla gondola di San Tomà, imbacuccati dentro una sciarpa amica, se avremo la grazia di guardare verso ovest, quel bagliore rosa e celeste, scopriremo un affresco, un sentimento urbano, quasi un racconto di grande forza evocativa, che raccoglie, dal materiale umano affacciato là sopra, figure e forme che addensano paesaggi e malinconie, esistenze e fantasie.
Venezia è stata un’epoca, non solo una città, ed è una città d’acqua. I canali, i rii sono linee di contatto e di separazione che segnano la fisionomia di un territorio, dandogli respiro. In mezzo a questo respiro ci sono alcune sospensioni che armonizzano ancora meglio il ritmo: sono i ponti di questa città. Ponti che sono ceppi, condizione umana, stasi e attraversamento, bellezza del non essere, dolcezza nel ricordo di memorie altrui, voglia di nuovo e di sincerità.
Di solito attraversiamo i ponti nella calca giornaliera, ma se abbiamo coraggio Venezia ci aiuta. Guardando meglio, usando un punto di vista ricurvo, Venezia, nella sua diversità fisica, ci apre di fronte la consapevolezza che l’ordinarietà delle cose giornaliere, più che relegarci all’abitudine, ci imprigiona nella dimenticanza dei nostri sogni più profondi. Il vero misfatto di ogni vita non è la routine quotidiana, quanto la deviazione dal desiderio più intimo che ognuno di noi aveva di se stesso.
Ci aiuta Venezia a questo lavoro di rinascita dalla rimozione, perché il suo racconto urbano non è un urlo, né il disagio sommesso dei poeti intimisti. La sua direzione contempla l’attesa dell’alta marea che rigenera la laguna.
Dentro questa città si può figurare la salvezza con l’arrivo di qualcos’altro, dell’acqua e di altri residenti. Come tutti gli esseri umani cercano l’amore, cioè l’altro da sé, anche Venezia aspetta che arrivi qualcosa o qualcuno a travolgerla, a strapparla dalle sue catene che il borsino del turismo internazionale gli ha ormai avvinghiato alle fondamenta.
Gli unici veneziani a partire per Mestre, fino a poco tempo fa, erano i vecchi costretti a vender casa. Caricavano i mobili sui barconi, come sfollati di guerra, e andavano a morire «oltre la Libertà», di tristezza e solitudine o investiti dalle automobili. Ora la sera sul Ponte della Libertà trovi comitive di ragazzi veneziani che vanno a Mestre per vivere e divertirsi. Si lasciano alle spalle la Città Unica e sbarcano con passo leggero in una periferia senza storia che potresti confondere col Midwest o la Renania.
Alla ricerca di una vita normale fatta di pub, discoteche, pizzerie a prezzi decenti, centri commerciali, palestre, cinema (la «capitale del cinema» ha ben due sale, dieci meno di Castelletto Ticino). Sbandano a povere mete, direbbe Saba, ma sembrano felici.Il picco del pendolarismo alla rovescia si tocca prima e dopo il Carnevale, apoteosi di un assedio turistico senza pari, sedici milioni di visitatori all’anno contro una popolazione ridotta a sessantamila residenti. Se nulla interviene, si calcola che l’ultimo veneziano morirà o si trasferirà in terraferma intorno al 2040. Nata per fuggire le invasioni barbariche, rischia di finire per le invasioni turistiche. La Morte è l’allegoria che chiude sempre le sfilate. Altrove è biologia, religione, concetto filosofico, mistero. Qui è la prima voce dell’economia. La morte quotidiana dei veneziani, che libera spazi per farci ristoranti e alberghi e seconde case. E la morte eterna di Venezia, dalla quale nei secoli la Serenissima ha cavato di tutto, sapere tecnologico e grandezza militare, letteratura e turismo, industria e aiuti di Stato. Una montagna di soldi, dodici milioni di euro soltanto dalla legge speciale, gli ultimi quattro per le dighe mobili del Mose. Con la morte Venezia gioca a scacchi, stringe patti e tratta affari. E’ anche la forma di turismo dei veneziani. Non c’è veneziano che fin da bambino non sia stato portato a visitare i resti delle piccole Atlantidi sommerse dalla laguna, isole fantasma un tempo splendide, come Torcello oppure San Marco Boccalama, dove le draghe hanno portato alla luce una vallata di teschi.
Il Carnevale qui è metafora globale. La durata ufficiale è tre settimane, ma sono sei mesi per i commercianti e dodici per la politica. Alle ultime elezioni il centrosinistra ha combinato tali pasticci intorno alla candidatura di Felice Casson da riconsegnare per la terza volta la città a Massimo Cacciari, quasi suo malgrado. La destra, con tutte le mene leghiste sulla Serenissima e le sue carnevalate, dalla presa del campanile col trattore mascherato da tank allo sbarco dell’ampolla sacra a San Marco, non ha mai sfondato. Venezia è l’unico capoluogo e uno dei pochissimi comuni del Nord Est a non aver avuto un sindaco della Lega e/o di Forza Italia.
La mappa del potere cittadino è ferma al Cinquecento, contano il Doge e il Patriarca, Cacciari e il cardinal Angelo Scola. Nel caso di Cacciari in effetti Doge suona un po’ riduttivo, c’è caso che il professore s’offenda. E’ l’ultimo dei grandi veneziani e gli toccano tutte le parti in commedia. Oltre a essere l’incontrastato Doge dal ‘93, incarna il secondo mito dell’immaginario cittadino, il Casanova, per via del rinomato libertinismo (anche) intellettuale. Ora si sta attrezzando per comprendere in sé il terzo, Marco Polo, con una serie di viaggi in Cina. Fuori dalla giurisdizione del sindaco rimangono giusto la Curia e il suo Patriarca, al quale in ogni caso non lesina consigli.
Il problema è che Cacciari è un Doge senza alle spalle un Senato o un Maggior Consiglio e nemmeno un mezzo collegio di Savi. Ha dovuto portare in giunta candidati che avevano raccolto quindici preferenze, non ha intorno né una classe dirigente né un blocco sociale sul quale fondare un progetto di futuro. La classe operaia si è estinta («Quand’ero bambino» ricorda il sindaco «c’erano ventimila operai soltanto alla Giudecca») e gli ultimi capitalisti hanno venduto o vivono di rendita, come la famiglia Coin, il Luigino Rossi delle scarpe e del Gazzettino, Pietro Marzotto. Nella culla dell’operaismo italiano e dell’Istituto Gramsci, la lotta di classe si è conclusa a sorpresa con l’abbandono dei contendenti e la vittoria di risulta di una borghesia minima di bottegai, priva di qualsiasi visione generale.
Il Doge mi riceve nel palazzo di Rialto, bello e scomodo. L’agenda è la rappresentazione della sua solitudine. Fitta d’incontri con micro corporazioni, segnati a mano, nemmeno una segretaria. Da anni mi domando chi glielo faccia fare a uno ricco di talenti e di fidanzate, famoso e stimato in Italia e nel mondo («sarebbe l’ideale ministro della Cultura» dice sempre D’Alema, che non l’ha mai proposto), di svegliarsi alle sette e cominciare la giornata dall’incontro con la delegazione degli ambulanti. E’ una forma di suicidio nichilista, una cupio dissolvi mitteleuropea all’Aschenbach, alla Franz Tunda? Lui stesso non sa darsi risposte sensate. «Sono qui per cinque minuti di bile: contro il centrosinistra che non voleva neppure fare le primarie». Le primarie le ha inventate la Repubblica veneziana, mille anni fa. Il sindaco sospira, poi prende il pacco delle carte e mi spiega per l’ennesima volta perché il Mose è tecnicamente sbagliato. Il professore non resiste mai alla tentazione, come scrive Gian Antonio Stella, di spiegare «l’idraulica agli idraulici, il papato al Papa» eccetera.
Le tesi pro e contro il Mose hanno il vantaggio di non essere dimostrabili: l’ideale per alimentare un dibattito infinito. Dipende dall’effetto serra, dai mutamenti climatici, dallo scioglimento dei ghiacciai, tutte faccende intorno alle quali la comunità scientifica internazionale si accapiglia da anni con esiti da disputa teologica. Fino al mese scorso gli organismi mondiali prevedevano un innalzamento del livello del mare, nel secolo, in una forbice «fra nove centimetri e un metro», che non significa nulla. Nove sono quasi un’inezia e un metro equivale a mezzo miliardo di morti. Di recente le sibille scientifiche hanno ridotto la previsione fra quindici e sessanta centrimetri. «Ma con quindici» spiega il sindaco «il Mose è uno spreco perché l’inondazione diventa un caso rarissimo. Con sessanta invece diventa inutile e occorre una diga ferma, come in Olanda. Nell’un caso e nell’altro, stiamo buttando a mare quattro o cinque miliardi di euro, quando me ne basterebbe uno per risistemare la città e aiutare i veneziani a resistere. Altrimenti quando il Mose sarà finito servirà, ammesso che serva, a proteggere una città fantasmi». Cacciari era ottimista, poi pessimista (ma sempre contro il Mose) e per maggio ha organizzato un convegno sull’apocalisse climatica con Al Gore. Il direttore del Consorzio, l’ingegner Giovanni Mazzacurati, un galantuomo che da trent’anni si dedica al progetto, allarga le braccia: «E’ soprendente, tanto più da un filosofo. La morte di un uomo, in questo caso di una città, è sempre un evento raro, anzi unico. E che cos’è questo rifiuto della tecnologia in un popolo che nel Seicento deviava il delta del Po per difendere il porto?». Chiunque abbia ragione, ormai il Mose si farà. All’ultimo vertice romano il ministro Antonio Di Pietro, ascoltate le dotte arringhe di Cacciari e Mazzacurati, ha tagliato il nodo: «Ho capito soltanto una cosa, che se il mese prossimo arrivano due metri d’acqua io finisco sotto processo e non so neppure spiegarmi con l’avvocato». Il governo ha approvato la ripresa dei lavori.
E’ la prima sconfitta del Doge da vent’anni. Dalla battaglia vinta per impedire l’Expo 2000 di De Michelis, non s’era mai mossa foglia a Venezia che Cacciari non volesse, neppure quando non era sindaco. Ora sono in molti a pensare che Cacciari finirà per dimettersi. Mezza città trema all’idea, per loro il Doge è l’ultima barriera contro la metamorfosi di Venezia in una Dineyland del Quattrocento, con l’unica differenza che qui è l’autentico a sforzarsi di sembrare finto. L’altra metà trama e si prepara a brindare all’abdicazione con lo champagne all’Harry’s Bar. Il solo a venire allo scoperto è il solito Gianni De Michelis, che da sempre considera Cacciari «il cancro cittadino, un affabulatore ostaggio di venditori di cianfrusaglie e centri sociali». Ma dietro s’intuisce un grumo di poteri, pronto ad allearsi con il governatore Galan e i capitali foresti per mettere le mani sui palazzi decaduti, sul vuoto splendore dell’Arsenale e ancor più sulle gigantesche aree edificabili di Marghera e gli snodi strategici di Mestre, la futura «piattaforma del Nord Est». .
Quest’altra Venezia «del fare» e dell’affare ama opporre alla presunta ignavia del Doge l’attivismo padano del Patriarca. Il cardinal Angelo Scola, di Lecco, favorito per la successione di Ruini al vertice della Cei, a lungo motore con don Giussani della macchina da guerra di Comunione e Liberazione, è il classico parroco-imprenditore lombardo, ma moltiplicato per cento. Intelligenza acuta e pragmatismo: non per caso si è laureato con una tesi su San Tommaso. Non sarà avvincente come Cacciari nel disquisire del mistero dell’Immacolata Concezione, ma in compenso è più abile nel mettere d’accordo i potentati economici. Mentre Comune e Regione litigano da anni sul restauro di Punta Dogana, che il sindaco vorrebbe affidare a Palazzo Grassi-Pinault e Galan a Guggenheim, col risultato di un incredibile stallo, proprio lì dietro il Patriarca ha sta recuperando con le donazioni il magnifico collegio marciano. Ha trasformato la malandata Curia di San Marco in un gioiello, dove peraltro sta pochissimo, sempre in giro a Mestre e Marghera, oppure per il mondo. L’ultima volta all’Onu di New York per presentare la sua raffinata creatura, l’Oasis, prima rivista cattolica con versione a fronte in arabo. «E’ tradizione del Patriarcato» spiega «dialogare con tutte le religioni, Venezia è stata un crocevia di ebrei, ortodossi, protestanti». E’ tradizione del Patriarcato, aggiungo, esprimere futuri papi. Nel secolo scorso ben tre, Pio X, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo I. Per dire il personaggio, un giorno che stranamente era in Curia, s’è affacciato sulla piazza e «gli è parso» che il campanile di San Marco oscillasse. Ha chiamato subito gli ingegneri e aveva ragione. «El paron de casa» rischiava il crollo come nel 1902. I preti della diocesi non ne possono più di vederselo piombare a sorpresa in canonica. «I miei parroci mi ripetono: guardi che in laguna arriva lo scirocco, prima o poi si adatterà anche lei».
Nei palazzi si combatte la guerra dei poteri e nelle calli ogni giorno va in scena la guerriglia fra residenti e turisti. L’arte veneziana nel vendicarsi del foresto raggiunge vari gradi di crudeltà, dagli spaghetti «alle vongole fresche» scongelati più volte, al vino con retrogusto di piscio, alla tortura dei bed and breakfast selvaggi, spuntati come funghi, che ogni mattina sfornano famigliole di coreani e tedeschi devastati dall’umidità. Anni fa un buontempone stampò cartoline con la luna, la gondola, un campanile, un’isola e la scritta multilingue: «Manchi solo tu». La cartolina andava a ruba e i veneziani ridevano: l’isola era San Michele, il cimitero. Se si va spesso a Venezia è bene imparare qualche frase in lingua. Schiude vasti orizzonti letterari, da Goldoni a Zanzotto, e permette di ottenere sconti del cinquanta per cento sui taxi. Per non sembrare turisti è fondamentale assumere il passo svelto dei cittadini. Non procura sconti ma permette di uscire rapidamente dal flusso e perdersi nei sestieri deserti e stupendi di Castello o Cannareggio, respirare l’odore dei panni stessi e la vera Venezia. L’unica accortezza è non cercare mai una scorciatoia: finiscono quasi sempre in un cortile. Anche questa è una metafora, sostiene lo scrittore Daniele Del Giudice: «A Venezia la via breve non porta da nessuna parte». La storia di Del Giudice è quella di tanti veneziani. «Abitavo dietro San Marco, la mattina dovevo scansare torme di turisti ma riuscivo ancora a comprare il giornale, le sigarette, il pane e sedermi per un caffè. In tre mesi ha chiuso il panettiere, l’edicola, il bar e la tabaccheria, tutto per far posto a quelle maledette mascherine fatte a Taiwan e a un fast food. Niente pane, giornale, caffè e sigarette: la fine di una civiltà. Mi sono trasferito a Santa Maria Formosa, ma la ristrutturazione mi costa un occhio della testa e il palazzo più bello del campo sta diventando un albergo».
L’unica soluzione è prendere l’autobus coi ragazzi veneziani e sbarcare a Mestre, dove passa la vita e si gioca il futuro. «Venezia è soltanto la vetrina, il negozio sta a Mestre e Marghera» mi dice Gianfranco Bettin, storico leader della battaglia contro il petrolchimico. E Cacciari: «E’ stato a Mestre? Abbiamo fatto il più grande bosco urbano d’Europa. Fra Mestre e Marghera convivono il più grande parco tecnologico d’Italia, il Vega, il secondo porto e il terzo aeroporto, dopo Malpensa e Fiumicino, un enorme bacino autostradale e ferroviario, un grande polo universitario e presto l’istitututo europeo di design. Quale altra città di trecentomila abitanti al mondo ha altrettanto? Se questa è la morte di Venezia…». Perfino il governatore Galan stavolta è d’accordo: «A Mestre deve sorgere la grande piattaforma del Nord Est».
In terrafermo trovo tutto quello che mi dicono e qualcosa in più, la straordinaria bellezza del paesaggio industriale di Marghera. Bella, deserta e letale, perché in attesa delle bonifiche qui circola ancora lo spettro di una morte non metaforica ma quotidiana, la morte chimica per cancro. Una volta ripulita dall’eredità Montedison, la terraferma potrebbe essere davvero la «grande piattaforma» di un Nord Est strozzato e in crisi, in cerca di sbocchi a Oriente e soprattutto senza più uno spillo dove costruire lungo tutta la nebulosa di capannoni che va da Brescia a Pordenone. E’ il sogno di Cacciari. Ma perché si realizzi bisogna aggirare un piccolo ostacolo, la Storia. La storia dei rapporti fra Venezia e l’entroterra, anzitutto, il disprezzo dei primi, il rancore dei secondi. L’ho capito un giorno intervistando Giorgio Panto, l’industriale proto leghista di Meolo che alle ultime elezioni ha fatto vincere Prodi per fare un dispetto alla Liga. Per tutto il tempo aveva sparlato dei veneziani, «più assistiti dei romani» e delle «storie di sfiga» legate alla città. Poi era arrivata la telefonata di un cliente inglese e lui: «Sure, I’m near Venice!». E’ morto l’anno scorso, mentre sorvalava la laguna in elicottero, di fronte a Venezia. «Gli imprenditori nordestini all’estero dicono "near Venice" anche se stanno a Verona o Belluno» dice il sociologo Aldo Bonomi, presidente della Fondazione Venezia «ma al dunque si tengono alla larga. Mestre è l’unico posto della regione dove si può pensare in grande, aprire la porta alla globalizzazione. Ma ci vorrebbe una neo borghesia colta che non c’è. E dove sono i grandi immobiliaristi, le grandi banche, i capitali stranieri? Rimangono a Milano, al massimo arrivano qui per il week end con i clienti». Zunino va al Bauer, Profumo al Gritti. Bazoli viene più spesso perché è presidente della fondazione Cini, ma il Leone che gli interessa non è quello di San Marco. «Quanto alla grande politica, c’è solo Cacciari, disperatamente solo», conclude Bonomi. Il suo maestro e predecessore, Giuseppe De Rita, che a Venezia ha dedicato vent’anni di lavoro, è ancora più pessimista: «E’ vero, le potenzialità di Mestre sono enormi ma temo che resteranno tali. Perchè Mestre non ha storia. Lo sviluppo e l’economia dei distretti in Italia si fanno dove c’è storia, Biella e Andria, Prato e le Marche. Sulla tabula rasa non cresce nulla e la storia di Marghera in questo è esemplare».
La Venezia del futuro è insomma ancora un luogo della mente, come del resto quella del presente, sospesa fra cielo e mare, città-palafitta poggiata su «una foresta sepolta» come scriveva Braudel, mutevole d’umore, certi giorni di nebbia malinconica come un vampiro, nei giorni di sole splendente come una regina, sempre fragilissima. Il Mose la difenderà dalle maree, ma prima dell’ondata di cento milioni di turisti cinesi bisognerà farsi venire qualche idea.
L'immagine è una fotografia di Jim McNitt
Sempre più negozi per il turista: souvenir, oggettistica, vetri di Murano, maschere. Sempre meno attività per i residenti: alimentari, panifici, latterie. Sempre più supermercati e discount. Sempre meno esercizi di vicinato, al dettaglio, sottocasa. E’ questa ormai la dinamica che caratterizza il commercio del centro storico, che nel corso degli anni ha visto cambiare radicalmente la tipologia della propria offerta. Così, anche se nel 2006 ci sono circa 400 attività in più rispetto al 1990, come dimostrano i dati dell’ufficio commercio fisso di Venezia, la realtà è molto più complessa di quanto appaia.
L’esperto. «Il turn over è alto - spiega a tal proposito Piergiovanni Brunetta, presidente di Confesercenti -. E, da questa parti, non è facile vedere serrande abbassate o spazi sfitti. Ma il negozio, ormai, si sta specializzando solo per il turista. Mentre i residenti, soprattutto delle periferie, non hanno più l’alimentari sottocasa». Ecco allora che i veneziani più giovani, fanno la spesa in terraferma. Mentre quelli più anziani si concentrano sui supermercati come la Coop e il Billa. Tutto a svantaggio, come detto, della classica bottega a completo servizio del residente.
Sempre più botteghe. In centro storico, comunque, il numero delle attività, negli ultimi anni, è aumentato in modo costante. Nel 1990, infatti, in tutta Venezia città c’erano 3.127 negozi, contro i 3.539 di adesso. L’aumento dunque c’è stato, ma ha riguardato in particolare le zone centrali. Nelle periferie, invece, come conferma Brunetta, «ci sono realtà senza più negozi. A dimostrazione che il centro storico si sta ormai dedicando solo al turista. E dove il turista non c’è, il commercio muore».
Il boom di San Marco. A San Marco sono addirittura duecento i nuovi negozi sorti dal 1990 ad oggi. «Questa è una zona dove si trovano anche molti residenti - ricorda ancora il presidente della Confesercenti - Ma, lo stesso, il negozio di vicinato è in pratica morto. Soppiantato dai numerosi supermercati che hanno aperto nel corso degli anni. Cinque, sei nuovi punti di riferimento per il cittadino. Che, però, ha in questo modo abbandonato l’esercente sotto casa. Ma questa, comunque, si rivela un’area abbastanza viva a livello commerciale».
San Vio senza scampo. Anche qui il numero di negozi, con il tempo è aumentato. Passando dalle 787 attività del 1990 alle 905 del 2006. Ma anche in questo caso, l’offerta merceologica sta cambiando e gli esercizi sono sempre più a servizio del turista. «Qui ci troviamo anche abbastanza vicini a piazzale Roma - ricorda Piergiovanni Brunetta -. Quindi per qualcuno è più comodo andare a fare le spese addirittura a Mestre. Dunque, è difficile far sopravvivere il negozio di vicinato. In più, alle Zattere c’è il Billa. Che viene preso d’assalto dai veneziani che abitano da queste parti». In ogni caso, ci sono zone, come San Vio dove ormai non c’è più nessuna attività.
Il trend al Lido. Il trend coinvolge anche il Lido. Che dal 1990 ad oggi perde anche 35 esercizi. «Anche qui ormai la gente fa la spesa al Billa - spiega Brunetta -. Poi ci sono i mercatini settimanali. Ma pure da queste parti l’alimentari sotto casa è sparito. A dimostrazione che questa tipologia di offerta sta cedendo il passo un po’ ovunque».
Così nelle isole. A Pellestrina si mantengono vive le attività tradizionali, poco più di una quarantina. Mentre sia Burano che Murano, hanno cominciato ad organizzarsi. Non stupisce allora che nel 2006 ci si ritrovi proprio a Murano con una settantina di negozi in più rispetto al 1990. Anche se si tratta quasi esclusivamente di negozi che vendono vetro. Pure Burano è passata da 64 attività alle attuali 98.
Residenti abbandonati. A questo punto, sembra chiara una cosa: il commercio del centro storico sta perdendo pezzi. Quei servizi, insomma, che sono riservati ai residenti. «La situazione non è per niente rosea - commenta Piergiovanni Brunetta -. E allora, quando ci si trova ad affrontare questo problema, non ci si può basare solo su dichiarazione demagogiche, come quelle dell’assessore Salvadori che dice: no, non devono chiudere gli alimentari e le latterie. Qui, se non ci si vuole trovare con un centro storico tutto dedicato al turista, bisogna giocarsela con gli incentivi».
Postilla
Nel corso degli anni Ottanta il fenomeno era già stato analizzato e denunciato, e si era tentato di contrastarlo con alcune politiche mirate: la politica dell’edilizia sociale, per consolidare la residenza dei veneziani; la politica urbanistica, per consentire un penetrante controllo pubblico dei cambiamenti di utilizzazione dei negozi e delle case; la politica patrimoniale, per dare nuovi strumenti all’intervento comunale nel mercato immobiliare. Negli anni Novanta, con le giunte Cacciari-Costa e il prevalere delle tendenze liberiste (via i lacci e i laccioli che ingessano Venezia) ci si è arresi alle tendenze mercantili che adesso stanno trionfando, tra lamentazioni sempre più profonde.
I VAPORETTI che la sera portano via i turisti sono stracolmi. Ma poche luci sono accese nelle case. E piano piano si spegneranno tutte. Il conto alla rovescia, nella città che fu dei Dogi, è cominciato, e nel 2030 qualcuno taglierà il nastro della città fantasma. Tra 24 anni, se l’esodo che continua inarrestabile da 40 anni andrà avanti a questi ritmi, Venezia non avrà più neanche un abitante. Solo frotte di turisti. Sono 18 milioni l’anno già oggi, 50mila in media al giorno.
E tra vent’anni rischiano di essere il doppio. Residenti zero, turisti centomila. E allora il destino, sempre temuto, di diventare la Disneyland d’Italia, sarà compiuto. Si apriranno i cancelli la mattina e si chiuderanno la sera, e non sarà più uno scandalo, anzi sarà normale, far pagare il biglietto per entrare. Ma Venezia all’anno zero, senza più la sua gente, la cantilena del suo dialetto, non sarà più una città. Solo la quinta di un antico teatrino di marmi e di merletti abbandonato sull’acqua per il passatempo di legioni di turisti di tutto il mondo.
Il disastro annunciato è raccontato dalla fredda voce delle cifre dei tabulati dell’anagrafe comunale. Dal 1966 a oggi, dall’anno dell’alluvione di cui il 4 novembre ricorre il quarantennale, il centro storico di Venezia ha perso la metà dei suoi abitanti: erano 121mila nel ‘66, sono 62mila oggi, e 3mila di questi sono stranieri. Il calo, negli ultimi quarant’anni, è stato sempre costante - come è stato costante l’innalzamento del livello del mare: salito di 5 centimetri negli ultimi 5 anni - e non si è mai arrestato: 102mila abitanti nel ‘76, 84mila nell’86, 69mila nel ‘96. Se ne sono andati mediamente mille abitanti l’anno, con punte di mille e cinquecento, e un picco di quasi duemila raggiunto adesso: nel solo 2005 hanno lasciato la città lagunare 1.918 abitanti. Un nuovo, inquietante, campanello d’allarme. «Stiamo andando oltre il livello di guardia - dice l’assessore comunale alla casa Mara Rumiz - superato questo, Venezia non sarà più una città normale, ma si trasformerà in una mera meta turistica, e perderà il suo fascino anche per i turisti stessi».
Gli esperti di movimenti demografici prevedono che l’esodo da Venezia continuerà e le cifre aumenteranno: nei prossimi anni lo spopolamento potrebbe stabilizzarsi su una cifra leggermente superiore a quella attuale, intorno a una perdita media di 2.000-2.500 abitanti l’anno. Se sarà così, e non vi sono motivi per pensare che vada diversamente perché non si intravedono ancora segnali precisi di un’inversione di tendenza, nel 2030 lo spopolamento sarà completato, e Venezia rimarrà deserta. O meglio, vuota di abitanti ma piena di turisti. Non confortano neanche le cifre dell’intera popolazione del Comune, anch’essa in calo in tutto il territorio. Non è solo Venezia che perde abitanti, calano anche quelli delle isole dell’estuario (dai 51mila del 1966 ai 31mila di oggi) e quelli di Mestre e della terraferma: da 193mila a 176mila. In quarant’anni l’intero Comune ha perso 100mila abitanti, scendendo da 365mila a 269mila. «Pochi per la città capoluogo del Veneto e che vuol essere un punto di riferimento nazionale e internazionale per la qualità di servizi e l’offerta culturale», dice l’assessore.
Perché se l’esodo della popolazione è il male più grave di Venezia, l’emergenza più acuta, più ancora dell’invasione turistica, dell’acqua alta e del pericolo di nuove alluvioni, la prima causa che lo ha determinato è proprio il problema della casa. Non solo perché dopo l’alluvione vennero abbandonati 16mila pianiterra divenuti inabitabili, ma perché i costi delle abitazioni sono diventati insostenibili per i residenti. Oggi una casa a Venezia, in un mercato dominato da cittadini stranieri con maggiori possibilità economiche, viene venduta dai 6 agli 8mila euro al metro quadro, mentre per un appartamento di 80 metri quadri in affitto nelle zone del centro vengono chiesti in media 2mila euro al mese. Inoltre gli sfratti sono molti, e tante case diventano locande e bed & breakfast. Negli ultimi anni, secondo l’Osservatorio Casa del Comune, ce n’è stata un’autentica invasione: ben 706 appartamenti del centro storico sono stati trasformati in alloggi per turisti. Al Comune, che è proprietario di 4.839 alloggi pubblici, sono giunte quest’anno 2.835 nuove domande di cittadini veneziani che chiedono di diventare inquilini di una casa pubblica.
Ma ad accrescere le difficoltà di chi decide di rimanere a vivere a Venezia, si aggiungono la velocità del degrado delle abitazioni, gli alti costi di manutenzione di case spesso vecchie, malandate, aggredite dall’umidità, e i disagi provocati ai residenti dall’onda del turismo: dalle difficoltà per salire su un vaporetto stracarico a quelle di trovare un ristorante "normale" a prezzi normali. Se l’esodo ha spopolato e invecchiato la città (un quarto della popolazione ha più di 64 anni), l’eccesso di turismo ne ha cambiato i connotati. Basta vedere che chiudono i negozi che segnano la vita di tutti i giorni: panettieri, macellai, fruttivendoli, droghieri, calzolai, fabbri, falegnami, sarti, merciaie. Perfino le vecchie osterie. Al loro posto aprono boutiques grandi firme, multinazionali del fast food, botteghe di paccottiglie, bancarelle di maschere di Taiwan, merletti di Burano della Cina, vetri di Murano della Romania. E la città, sempre più stravolta e invivibile, è dominata da clan rapaci di osti e affittacamere, intromettitori e battitori abusivi, gang di motoscafisti, corporazioni di gondolieri avidi e bancarellari furbi. Grida, divieti, proteste, denunce, non bastano. Ogni sera c’è una luce che si spegne e una finestra che si chiude.
Il Molino Stucky ritrova la sua facciata distrutta nell’incendio di tre anni fa. E’ stata scoperta ieri l’ala est del complesso neogotico tra il Bacino di San Marco e il canale di San Biagio. La parte più pregiata dell’edificio, che sorgeva su un antico convento dell’anno Mille e che fu poi usata come deposito delle farine. La novità sono le finestre aggiunte in verticale.
Sono quattro finestre doppie per ciascuno dei due corpi di fabbrica recuperati, che la Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di Venezia ha concesso di aprire, perché presenti nel progetto iniziale dell’architetto Ernst Wullekopf, quando l’edificio fu realizzato alla fine dell’Ottocento, ma che poi furono invece murate per problemi di statica, per limitare le vibrazioni provocate dalla farina che cadeva dall’alto nei depositi.
Esse consentiranno di dare luce alle stanze del nuovo albergo che si affacciano su di esse. Recuperata anche la scritta dorata originale «Molino Stucky», a fianco della facciata principale del complesso neogotico ancora nascosta dai ponteggi e dai teloni protettivi, ma la cui scopertura di annuncia come imminente.
Si tratta, anche in questo caso, di un «com’era e dov’era» - come per la Fenice, ma in modo più convincente - perché i mattoni dell’ala est distrutta dall’incendio e ricostruita sono dello stesso tipo e della stessa colorazione degli originali: rossi, arancione e gialli.
La struttura dell’albergo nel complesso della Giudecca è ormai completata e si lavora alla finiture delle stanze. Il complesso dovrebbe essere pronto per l’inizio del 2007, mentre il centro congressi dovrebbe essere concluso qualche mese più tardi. Sono ormai avanzati anche i lavori per realizzare nella parte inferiore del complesso il sistema viario interno, che unirà centro congressi da circa 1300 posti, albergo da 400 stanze e centro fitness. Si lavora anche alla realizzazione, all’ultimo piano dello Stucky, dello spettacolare ristorante-bar panoramico realizzato con piscina e vista sulla laguna.
A segnare il passo, per ora, è invece il recupero dell’area degli ex stabilimenti della Scalera Film, destinata a diventare un grande parco urbano - secondo l’accordo raggiunto da tempo tra l’Acqua Marcia e il Comune - ma che non è stato ancora avviato a pieno ritmo.
Postilla
Preoccupazione filologica? No, speculazione immobiliare. Per comprenderlo, occorre andare un po’ indietro negli anni. Già nei piani del centro storico adottati nel 1974 (giunta DC-PSI) gli antichi silos dello Stucky erano destinati ad attrezzature pubbliche. Le successive giunte di sinistra confermarono questa destinazione, nell’ambito di un mix di funzioni che prevedeva, nell’insieme del complesso, un albergo, un centro congressi (che avrebbe dovuto costituire il core del progetto, e una quota di residenze convenzionate da riservare ai veneziani. L’immobile dei silos avrebbe dovuto essere ceduto al comune in conto oneri di urbanizzazione: si pensava di destinarlo agli archivi veneziani e veneti, dispersi nella città nelle sedi più stravaganti e improprie.
Non si riuscì a concludere l’accordo con la proprietà perché questa avrebbe voluto mano libera sulle residenze, mentre era unanime atteggiamento delle forze politiche dell’epoca (1970-1990), dai comunisti ai liberali, passando per socialisti, repubblicani, socialdemocratici, democristiani, che nessuna nuova casa avrebbe dovuto essere costruita a Venezia se non destinata ai cittadini veneziani. La giunta Cacciari-D’Agostino, abbandonando i “lacci e lacciuoli” che “ingessavano la città”, trovò, all’inizio degli anni Novanta, l’accordo con la proprietà mollando sulle residenze.
Ma l’appetito dei grandi immobiliaristi, e la cedevolezza degli amministratori e, dispiace dirlo, dei custodi dei beni culturali, non si arrestano. Due anni fa l’incendio (un incendio provocato da esperti). Oggi la svelatura dell’ultimo passaggio: albergo con finestrelle d’epoca dove erano previste attrezzature pubbliche.
Quando tredicimila cittadini chiedono di poter dire la loro su di un tema fondamentale per la nostra città, nessuno può arrogarsi il diritto di rispondere negativamente. In ogni ordinamento (statale o locale) esistono tanti modi per poter consentire alla gente di partecipare alle decisioni politiche, soprattutto quando lo chiede con ragionata e consapevole insistenza. La questione della «chimica del cloro» a Porto Marghera è uno degli esempi più emblematici. Lo statuto e il regolamento comunali veneziani in materia di referendum sono fatti proprio male, anche dal punto di vista della tecnica normativa (e tutti lo riconoscono): ma di ciò nessuna colpa hanno il comitato promotore del referendum sulla chimica e i tredicimila cittadini che hanno firmato. Costoro si sono semplicemente fidati della segreteria generale del Comune e della precedente amministrazione, che hanno anche formalmente dato il via libera alla raccolta delle firme referendarie, così dando un primo tacito parere di ammissibilità.
Ora, di fronte all’imminenza di questa consultazione, amanti dello status quo e portatori di interessi di una parte dei cittadini, forse timorosi di una sconfitta, anziché affrontare la questione a viso aperto, preferiscono ricorrere alle pandette e ad avvocati. Quella della sopravvivenza della chimica a Marghera è una grande questione, economica tecnologica sociale culturale politica. E sotto tali punti di vista andrebbe affrontata. Invece, fa specie (per usare un eufemismo) vedere una piccola parte del sindacato (non la Cgil nel suo insieme, non i chimici della Uil né la Uil, non i chimici della Cisl né la Cisl) ricorrere a carte bollate e avvocati per diffidare (diffidare!) con minacce di ulteriori ricorsi il sindaco, gli assessori e i massimi dirigenti del Comune di Venezia, al fine di impedire l’effettuazione del referendum, senza alcun senso del limite o del ridicolo. Non mi pare una bella pagina di lotta sindacale.
Nessuno vuole nascondere la delicatezza del momento e l’importanza di una decisione in materia di chimica a Marghera, soprattutto dal punto di vista occupazionale. Come nessuno può nascondere che è dal lontano 1972 che a Marghera si assiste a un trend occupazionale costantemente negativo. Come nessuno può tacere del fatto che a determinare queste diminuzioni sono sempre state le imprese, anche di recente, in piena autonomia, seguendo esclusivamente la loro logica, alla faccia e in barba ai sindacati, al mondo della politica e soprattutto ai lavoratori. Sarebbe ora che i cittadini e la politica si riappropriassero del loro diritto di decidere. Come sarebbe ora che i politici veneziani ascoltassero un po’ di più e si facessero consigliare dai cittadini, soprattutto in una materia così fortemente sentita come quella della tutela della salute di tutti noi e delle generazioni a venire.
Non possiamo lasciare la decisione a giudici e avvocati, tanto più che - essendo illogiche e contraddittorie le norme - non esiste uniformità di interpretazione giuridica sulla ammissibilità di questo referendum. Basterebbe citare una ordinanza del Tar del Lazio del 2002, di cui molti si dimenticano.
E allora, al di là di codici e codicilli, che in questa materia non dicono nulla di concludente, va trovata la strada e individuata la forma per consentire alla gente e quindi a tutti noi di intervenire, apertamente e democraticamente, senza minacce e ritorsioni... anche perché sul futuro della chimica a Porto Marghera sembra non ci siano ancora le idee chiare.
E allora ben venga una consultazione popolare, nella forma ritenuta più opportuna, sulla base del quesito sottoscritto da tredicimila cittadini, che servirà pure a tastare realmente il polso alla gente e contribuirà alla decisione sul futuro di questa chimica a Marghera.
Felice Casson, ex magistrato, è oggi senatore dei Ds
L'immagine è tratta dal documentario "Porto Marghera -. Ultimi fuochi", di Manuela Pellarin
E così la vera Venezia potrà tornare ad essere una bomboniera e l'altra potrà essere presa d'assalto dai turisti. E quella nuova serve a salvare la vecchia. In due modi: rallentando l'impatto del turismo sulla città e ricavando risorse da destinare al centro storico e ai suoi cittadini. Perchè questo è il punto vero e cioè che a Venezia ormai si contano 15 milioni di turisti all'anno e nessuno nemmeno può ipotizzare di fermare questo fiume in piena. Stanno tornando gli americani, i tedeschi, i francesi, ma arriveranno gli indiani e i cinesi. A milioni. Perchè lasciare che Venezia rischi di morire schiacciata sotto le suole di 25-30 milioni di turisti all'anno?
Da qui l'idea geniale di farne una copia. Uguale alla vera Venezia, ma in terraferma. E d'epoca, però. Così tutti i turisti avranno a disposizione da una parte la Venezia d'oggi e dall'altra la Serenissima, con tanto di maschere e costumi del '700, ricostruita nel dettaglio con la precisione di un set cinematografico, con tanto di attori in costume d'epoca e giri in gondola con il sosia di Casanova, con dame e cavalieri, lacchè e musicisti. In terraferma nascerà così la Venezia del divertimento - diversa dalla Venezia della cultura, d'accordo, ma proprio per questo in grado di venire incontro alle esigenze di un turismo sempre più all'americana e quindi sempre meno compatibile con la fragilità di Venezia. E in centro storico si potrà pensare allora a governare invece un turismo che sia compatibile con la città, dotandosi di strumenti di controllo dei flussi, potendo arrivare a decidere esattamente quanti turisti entrano ogni giorno.
E a chi ha intenzione di fare lo schizzinoso e sollevare l'obiezione che così diventa Gardaland, con una Venezia di cartapesta, varrà la pena di ricordare che una operazione come questa vale 200 milioni di euro e porta a Venezia un indotto di qualche decina di milioni di euro all'anno, dando pane e companatico ad almeno 10 mila persone e permettendo di finanziare la Venezia vera, la sua cultura, la sua storia, i suoi abitanti. Vuol dire poter togliere l'Ici e la tassa per le spazzature ai veneziani che resistono in centro storico. Vuol dire poter finanziare il ritorno a Venezia di chi è stato costretto ad emigrare in terraferma. Vuol dire riempire la città di veneziani. E di turisti scelti.
E' questo il colpo d'ala della Giunta di Massimo Cacciari. Dello stesso sindaco che una dozzina d'anni fa aveva partorito la genialata del Parco scientifico tecnologico, risposta alta, di idee, alla crisi di Porto Marghera. Anche questa si preannuncia come l'idea chiave, risolutiva, che disegna la Venezia-Mestre del futuro, in grado di progettare il "suo" turismo. A questa idea della Venezia in replica sta lavorando l'assessore alla Produzione culturale Sandro Parenzo, scelto da Massimo Cacciari proprio con l'intenzione di avviare progetti innovativi e rivoluzionari come questo.
Parenzo ha discusso a lungo con Massimo Cacciari la necessità di trovare una idea forte attorno alla quale coagulare interessi economici e culturali di Venezia. L'idea base è di fare una sorta di parco tematico in riva alla laguna. Perchè, se la prima industria della città è il turismo, ragiona Parenzo, certo bisogna rendersi conto che di turismo si può anche morire. E siccome la quantità di turisti che arriva e sta per arrivare è tale da riempire venti volte Venezia, soffocandola, l'unico modo di sgravarla del peso eccessivo è far sì che una quota di questi turisti possa avere una alternativa.
Una alternativa piacevole, diversa dalla Venezia di oggi e quindi una alternativa vera perchè da una parte si avrà la Venezia d'oggi e dall'altra la Venezia dei libri di storia, dei Dogi e delle corse in carrozza, dei carnevali in costume e delle congiure di palazzo. Sarà per il turista come entrare nell'atmosfera vera della Serenissima che ha visto solo nei film.
Una operazione raffinata dal punto di vista industriale, ma anche culturale, che potrebbe essere messa in piedi nel giro di pochi ann. Un sogno. Una follia. Certo, bisogna parlarne con gli albergatori e con tutte le categorie che vivono di turismo a Venezia e bisognerà convincerli che hanno anche loro interesse ad avere un turismo sempre più qualificato in centro storico. Intanto Parenzo sta girando in lungo e in largo Porto Marghera a caccia di un'area sufficientemente grande da impiantarci questa Venezia del '700.
Perchè serve l'acqua e però ci vogliono anche i parcheggi. Bisogna pensare agli alberghi e ai centri di produzione cinematografica e televisiva in digitale. Venezialand infatti non può essere solo una Venezia di cartapesta. Siccome nasce già come set teatrale, infatti, tanto vale utilizzarlo per delocalizzare tutte le produzioni.
E l'assessore pensa già all'indotto perchè qui c'è lavoro per chi gestirà alberghi e ristoranti, ma anche per artigiani e carpentieri, attori e artisti, esperti di informatica e cameraman, registi e scenografi. Dal momento che hai un set televisivo e cinematografico perfetto, a quel punto l'intera produzione in digitale di spot e cinema infatti può essere trasferita qui a Marghera, no? E inevitabilmente questo porterà a Marghera anche la ricerca sulle nuove tecnologie digitali. Ecco il collegamento con il parco scientifico tecnologico, ecco il punto di contatto con la facoltà di informatica di via Torino. Insomma, attorno all'idea della nuova Venezia potrebbe ruotare il futuro della città per i prossimi decenni. Che cosa serve? L'area.
Parenzo a quanto si capisce sta ragionando sui 7 ettari che l'Immobiliare Veneziana ha a ridosso del Parco scientifico tecnologico - l'area cosiddetta ex Complessi. Anche perchè non è detto che i centri di produzione dell'immagine in digitale debbano per forza nascere attaccati alla replica di Venezia. Quelli possono stare dentro il Parco scientifico tecnologico e che è lì a due passi, mentre nei 7 ettari si mette solo piazza San Marco, calli e campielli, per capirci.
Di certo per adesso c'è solo la voglia di mettere mano ad un progetto strategico in grado di risolvere due problemi epocali, il turismo e la crisi economica. Con Venezia che soffoca di turisti e Mestre che arranca, la soluzione è la fantasia.
L'immagine è tratta dal sito di Paolo Visconti
L'incendio del Mulino Stucky, trasformato in colossale albergo, ripropone in termini drammatici il problema di Venezia, ben descritto nell'articolo su "Repubblica" di Erbani, domenica scorsa. La città è ormai abbandonata ad una espansione turistica piratesca. La trasformazione di normali abitazioni in locande e camere da affitto - che spesso lavorano in nero - ha effetti devastanti sul tessuto urbano. E' falso sostenere che lo spopolamento sia determinato dalla mancanza di opportunità di lavoro. Oltre 20.000 persone raggiungono quotidianamente Venezia per lavorare o studiare e molti vi trasferirebbero volentieri. Il pericolo più incombente non è solo l'acqua alta, ma anche questo turismo che espelle all'esterno gli abitanti e ogni altra attività civile. E non illudiamoci sia solo un problema di Venezia: pochi anni di questo sviluppo sono bastati a compromettere la nostra civiltà urbana.
Nella seduta del 14 aprile il consiglio comunale ha approvato una richiesta di finanziamenti da Roma destinati a studi per il progetto di metropolitana sublagunare e di ristrutturazione dell'area Arsenale-Tessera. Si può essere pro o contro la metropolitana sublagunare, il dilemma è serio perché da una parte c'è l'attraente possibilità di collegamenti veloci per i residenti, dall'altra i possibili danni al caranto, la nascita di nuovi quartieri turistico-alberghieri e il potenziale di ulteriori invasioni di turismo di massa. Molti veneziani sono perplessi e indecisi. Ciò di cui hanno bisogno è informazione, che dev'essere precisa, comprensibile e soprattutto imparziale. Ma quale garanzia d'imparzialità offrono degli studi che sono commissionati e pagati da quell'Assessorato che, a torto o a ragione, da anni si batte per l'approvazione del progetto? Dove si possono ottenere i dati che sviluppino non solo gli argomenti pro, ma anche quelli contro il progetto? L'Assessorato ci lavora sopra da anni. I suoi funzionari sono pagati per portarlo avanti. I consulenti sono stati assunti e pagati. Chi c'è dall'altra parte a sostenere i punti di vista alternativi?
Lo stesso problema, in misura cento volte maggiore, si è posto e si pone per il Mose. Il Consorzio Venezia Nuova, incaricato delle opere, ha speso decine, forse centinaia di miliardi per formulare il progetto, controbattere le obiezioni, distribuire informazione mirata. Chi ha cercato di contrastarlo? Esiste una sproporzione immensa tra le due parti. Gli oppositori non sono né dei fanatici né dei fondamentalisti dell'ambiente; sono degli uomini e delle donne che si pongono alcuni seri, ragionevoli dubbi e formulano interessanti alternative. Lo fanno solo perché mossi da amore per la loro terra e forse da un insopprimibile senso della razionalità che dovrebbero avere le cose, le spese, le opere.
Guardiamo un momento chi sono e con quali mezzi si battono. C'è Italia Nostra: avete mai visto i suoi uffici? Due minuscole e marcescenti stanzette ottenute in affitto agevolato dall'Associazione Alpini. Le porte non si chiudono, il bagno è al pianerottolo sottostante. Il presidente è un ingegnere in pensione che ci lavora a tempo pieno e gratuitamente. I consiglieri sono pochi veneziani, professionisti, insegnanti o altro, che vi dedicano tutto il tempo libero. Non hanno i fondi per un solo impiegato part-time. Non sanno come pagare le bollette della luce e del telefono. Lavorano senza compensi, spendendo del proprio. Non sono mossi da ambizioni politiche né di potere (andrebbero dall'altra parte se ne avessero). Cercano l'aiuto di specialisti dell'idraulica, della meteorologia mondiale, dell'ingegneria e riescono qualche volta a trovare altri idealisti che gratuitamente lavorano e tengono qualche conferenza. Non possono pagare non solo uno scienziato, ma neppure un manifesto. Se tengono una riunione per i veneziani, faticano a trovare i cinquanta euro per pagare l'affitto della saletta di San Leonardo. Che noi siamo d'accordo o meno, possiamo solo onorare, rispettare e ammirare quegli straordinari esempi di altruismo e di amore per il bene comune. E' a loro che dobbiamo se qualche piccolo rivolo di informazione alternativa ci raggiunge e ci aiuta a capire la globalità dei problemi.
Accanto a Italia Nostra, c'è il WWF, ci sono i VAS, c'è qualche altro piccolo gruppo locale (Estuario Nostro, Airis, pochi altri). Tutti volontari, tutti sprovvisti di fondi, tutti minuscoli di fronte al colosso ultramiliardario del Consorzio. Fanno miracoli. Non parlo di Pax in Aqua, che da cinque anni si sostiene con le magre quote associative (tre milioni l'anno), contrastando gli interessi di taxi, lancioni, trasportatori, diportisti. Le controparti hanno uffici che lavorano a tempo pieno e con fondi generosi; noi dobbiamo studiare i documenti, produrre le nostre relazioni, andare a innumerevoli riunioni preparando materiale e interventi. Ma vorrei aggiungere un'altra nota.
Il 15 aprile il Gazzettino pubblica la protesta di una signora che abita in Riva dei Sette Martiri. Le navi da crociera, anche quelle "piccole" delle linee greche, fanno vibrare le finestre al loro passaggio (la stessa cosa è stata denunciata dalla società Bucintoro che ha gli uffici alla punta della Dogana). Facile immaginare, dice la signora, i danni creati a fondali e a rive dalle enormi eliche di quelle navi. Ma sono subito pronti i fondi per uno studio tranquillizzante: l'Autorità portuale ha commissionato una ricerca che dimostra come il moto ondoso prodotto dalle grandi navi sia praticamente irrilevante. Può la signora, possiamo noi veneziani, pagare altri professionisti perché facciano una controperizia? Perché magari studino gli (ovvi) effetti subacquei anziché l'altezza dell'onda generata, come hanno fatto gli esperti del Porto? Naturale che no. Chi li pagherebbe, quei professionisti? La signora che abita in riva? Questa è, purtroppo, la realtà delle cose. Chi ha un interesse economico immediato si muove subito, investe e produce informazione parziale quando non ingannevole. Chi rifiuta di lasciarsi ingannare può contare solo sulla propria buona volontà, sulla cortesia della stampa (quella non di parte) e sul lavoro volontario di qualche avvocato o perito altruista. E' troppo poco. Forse in un paese veramente democratico le istituzioni dovrebbero contribuire a finanziare quei gruppi che profondono tanto del loro tempo e delle loro professionalità per cause comuni. Ma le istituzioni sanno bene che quei rompiscatole solleverebbero problemi, interferirebbero con progetti di mille lobby economiche e politiche. E si guardano bene dall'aiutare coloro che vengono percepiti come delle potenziali spine nel fianco.