«A Venezia non si sa neppure cosa sia lo smog! Nel senso letterale della frase: Venezia è inquinata forse più di ogni altra città della pianura padana, ma è probabilmente l’unica città al mondo a non avere una rete di centraline che misurino la qualità dell’aria». Ytali.com, 4 febbraio 2016 (m.p.r.)
Ma cosa vogliono ‘sti veneziani? si dirà qualcuno: non hanno mica le auto. Non vanno a piedi? Come se il traffico marittimo non inquinasse. Proprio in questi giorni il Gazzettino ha ricordato che dal 2007
si sa che la maggior fonte inquinante nel Veneziano è la portualità grazie agli studi dell’Arpav (Le emissioni da attività portuali) confermati dal progetto comunitario Apice (Common Mediterranean strategy and local practical Actions for the mitigation of Port, Industries and Cities Emissions), ma alle navi commerciali e civili bisogna aggiungere le centinaia di vaporetti dell’Actv e di Alilaguna, le centinaia di taxi acquei, le centinia di Lancioni Gran Turismo, le centinaia di topi da trasporto, le migliaia di imbarcazioni da diporto che solcano le acque della laguna. Solo di contrassegni “LV” (Laguna Veneta), obbligatori per imbarcazioni con motori di potenza superiore ai 10 hp e che già non abbiano una targa per forza di legge, ne sono stati rilasciati più di 50 mila. Poi ci sono quelle senza targa, migliaia.
Ogni nave da crociera inquina come 14 mila automobili messe assieme: altro che Tangenziale. E spesso in Marittima ce ne sono anche sette contemporaneamente, coi motori accesi 24 ore su 24. Ma usano carburante “verde”, dicono le autorità, perché gli armatori hanno firmato il Venice Blue Flag, ovvero un accordo per limitare allo 0,1 per cento il tenore di zolfo del diesel usato il laguna, contro il 3,5 per cento in mare aperto. Peccato che il tenore dello zolfo nel diesel delle automobili sia dello 0,001 per cento, cioè 3500 volte inferiore a quello usato in mare e 100 volte inferiore a quello usato in laguna e all’ormeggio. Actv non aderisce al Venice Blue Flag. Ci sarebbero gli scrubber, i filtri, ma gli armatori li usano nel Baltico e negli Stati Uniti, in Italia no.
Come si vede, ragioni per dotare anche Venezia di una rete di centraline ve ne sono, ma in 25 anni di governo cittadino di centrosinistra non ci hanno mai pensato una volta, né ora Brugnaro sembra ricordarsi che a inquinare ci sono anche le navi e le barche se le ordinanze emergenziali del Comune fanno riferimento al solo traffico automobilistico: se sosto in auto devo spegnere il motore, se mi ormeggio in topo posso inquinare a man salva. Di blocchi o riduzioni del traffico nautico non se n’è mai parlato.
Dati più recenti non ne ho trovati, ma già nel 2011 il Registro tumori dell’Istituto Oncologico Veneto mostrava che Venezia insulare era la prima città d’Italia per l’incidenza dei tumori ai polmoni: che c’entri qualcosa?
Si comincia a scoprire il nuovo Fontego dei Tedeschi e fanno già discutere i nuovi infissi dorati delle finestre del cinquecentesco edificio destinato a essere riaperto il primo ottobre come un grande magazzino del lusso gestito dal gruppo francese Dfs. In questi giorni è iniziata infatti la scopertura delle facciate del palazzo e sono apparsi così i nuovi serramenti che assomigliano per il colore all’alluminio anodizzato vietato a Venezia ma che sono invece di ottone brunito, autorizzato dalla Soprintendenza. Lo stesso tipo di materiale è stato già infatti utilizzato dall’architetto Alberto Torsello - che dirige i lavori di ristrutturazione per l’impresa Sacaim, con la committenza di Edizione, la società del gruppo Benetton proprietaria del palazzo e in base al progetto di Rem Koolhaas per lo Studio Oma - anche per i grandi finestrini nella nuova ala delle Gallerie dell’Accademia e per quelli della Scuola Grande della Misericordia. Infissi che secondo i progettististi si armonizzerebbero perfettamente con lo spazio circostante e presenterebbero il vantaggio di resistere nel tempo alle aggressioni dell’ambiente marino tipico della laguna veneziana.
L’effetto di queste decine di serramenti nuovi e dorati sui quattro lati del Fontego, desta però più di una perplessità, ad esempio anche su Facebook secondo quanto registrato dal sito Venessia.com. Molti li hanno appunto scambiati per infissi in alluminio anodizzato, perché l’effetto visivo è molto simile. È perplesso anche il professor Amerigo Restucci, già rettore dell’Iuav e storico dell’architettura e del paesaggio. «In effetti il confine tra l’alluminio anodizzato e l’ottone brunito sul piano visivo è molto labile » commenta -«e mentre nel caso delle Gallerie dell’Accademia e della Misericordia era usato per pochi finestroni e molto grandi, qui compare in decine e decine di finestre, influendo pesantemente sull’effetto complessivo dell’edificio. Proviamo a pensare se in tutta Venezia gli infissi venissero sostituiti progressivamente con questo tipo di materiale, cambierebbe l’aspetto della città. Forse anche la Soprintendenza dovrebbe riflettere meglio su questo aspetto».
L’altra novità comparsa sul Fontego è il ballatoio metallico, anch’esso dorato e quindi probabilmente anch’esso in ottone brunito comparso sul tetto, con la ringhiera che delimierà quindi l’area della terrazza-belvedere che tanto aveva fatto discutere prima del via libera definitivo. Anch’essa, naturalmente, destinata a suscitare molte discussioni. Il cantiere del Fontego dei Tedeschi per la ristrutturazione proseguirà sino a fine marzo. Poi subentreranno alla Sacaim e a Edizione, gli architetti e le maestranze di Dfs, per gli allestimenti, in vista dell’apertura di ottobre.
Nonostante le evidenti diversità, se le intenzioni si giudicano dai fatti è fortemente probabile che sulla "valorizzazione" il sindaco e il ministro siano d'accordo. La Nuova Venezia, 30 gennaio 2016
Venezia «L’attenzione ai monumenti e alle opere d’arte è importante, ma deve essere sempre promossa pensando alle persone. Non dimenticando che in queste case e in questi palazzi vivono delle persone. Noi vogliamo una città viva, e i regolamenti devono essere ispirati al buon senso». Quasi un assist, quello che il sindaco Luigi Brugnaro porge al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Che gli risponde in sintonia: «Tutela e valorizzazione stanno assieme. Noi vogliamo che Venezia non sia solo un luogo per turisti che consumano, ma di visitatori che entrano nella bellezza».
La pace ufficiale tra il sindaco e il ministro viene firmata a un tavolo del Gran Hotel Monaco, a San Marco. Si parla di politiche del turismo, di prestiti di opere d’arte, di grandi navi. Al termine di una mattinata intensa, in cui il ministro è venuto a inaugurare le nuove sale dell’ala palladiana delle Gallerie dell’Accademia, restaurate e aperte al pubblico. Franceschini ricorda l’importanza delle Soprintendenze. «Organi della tutela, di cui dobbiamo andar fieri». E rilancia la sua idea del museo-azienda. Le Grandi Gallerie sono uno di questi, con la nuova direttrice Paola Marini che gli illustra con entusiasmo i nuovi spazi e le nuove opere finalmente godibili.
Cultura e turismo. Volàno di una città che, entrambi sottolineano più volte, deve essere “viva” e deve poter ricavare lavoro e ricchezza dai suoi tesori. Nel pranzo all’hotel Monaco, prima di andare insieme al teatro La Fenice per una rapida visita nel giorno del ventennale dell’incendio, il ministro e il sindaco hanno parlato di come frenare l’invasione del turismo mordi e fuggi. E di come dare alle città d’arte autonomie impositive per recuperare le risorse necessarie a organizzare i flussi e i servizi. «Un dialogo molto positivo», commenta alla fine Brugnaro. «Abbiamo deciso di confrontarci sui problemi concreti», gli fa eco Franceschini, «Venezia è una sfida mondiale».
L’esempio è lì davanti. Un restauro di qualità, una trasformazione delle polverose Gallerie in un’azienda. «Prima questi musei erano governati da funzionari, nemmeno da dirigenti, non avevano nemmeno un bilancio proprio», attacca il ministro, «adesso potranno dare anche lavoro e reddito». Musica per le orecchie del sindaco, che cerca di fare altrettanto con la Fondazione dei musei veneziani, affidata a una giovane imprenditrice di origini torinesi, Mariacristina Gribaudo. Non c’è solo la cultura. «Abbiamo parlato anche di progarmmazione e bigliettazione integrata», dice Franceschini. Un contatto cominciato due giorni fa a Firenze, a margine del convegno dell’Anci sulle Città metropolitane.
In Comune adesso cercano di rendere concrete le buone intenzioni manifestate sul fronte del “degrado” e del centro storico sempre più a rischio per l’invasione dei turisti e delle attività turistiche che scalzano le botteghe storiche e i negozi di vicinato. Anche di questo hanno parlato Brugnaro e Franceschini. È stato il sindaco a introdurre il discorso del controllo per le aree in sofferenza come l’area marciana, invasa nel 2015 da 27 milioni di turisti. «I sindaci possono emettere provvedimenti per limitare l’accesso all’area marciana solo a chi ha prenotato», ha detto Franceschini. Discorso avviato anche sulla possibilità per il Comune di tenere per sé gli introiti che derivano dal turismo e di incassare un “ticket” anche per i passeggeri delle navi degli aerei, in prospettiva anche dei treni. Oggi la “tassa sul turismo” funziona solo con chi pernotta in hotel, sotto forma di tassa di soggiorno. «Abbiamo extracosti incredibili che derivano dal turismo», ha ribadito Brugnaro. Concetto espresso anche in mattinata, nel discorso di saluto al ministro alle Gallerie.
«Oggi è una giornata di festa per Venezia», ha esordito Brugnaro, «salutiamo il ministro, insieme costruiremo le premesse per ripartire». Poi un ringraziamento al governo per le risorse stanziate con l’ultima Legge di stabilità. «Anche se gli faremo capire che non sono sufficienti», ha detto. Infine, Brugnaro ha ringraziato l’ex soprintendente oggi segretario regionale Renata Codello, autrice insieme a Tobia Scarpa del progetto di restauro delle Gallerie. E ha aggiunto: «Anche con l’attuale soprintendente i rapporti sono ottimi, è una strada su cui continuare. Vogliamo una città viva».
Dove le pietre e il popolo sopravvissuti raccontano (per quanto ancora?) storie antiche dove segregazione e integrazione, repressione e convivenza, potere e pubblica utilità s'intrecciano. La Repubblica, 24 gennaio 2016
UNA PATTUGLIA DI NERI tuffetti sorvola in formazione a “V” il canale di Cannaregio in direzione del tramonto. Dall’altra parte una Luna enorme, gelida, galleggia sui tetti sul lato dell’isola di San Michele. Un vaporetto chiede strada a una gondola e accosta all’imbarcadero delle Guglie con pochi turisti intabarrati. Ma ecco un sotopòrtego quasi invisibile fra una farmacia e una locanda kosher. Oltre quella soglia, a sinistra, sulla parete di una casa, un’epigrafe con l’editto del 1704 contro la bestemmia degli ebrei fatti cristiani. Subito oltre, cinque sinagoghe disseminate in uno spazio minimo, fra la strada d’accesso e il campo disseminato di coriandoli di Carnevale.
Si entra così — quasi di nascosto — nel Ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che il 29 marzo compie cinquecento anni di vita. Pochi gli abitanti rimasti, ma bastano e avanzano i muri a raccontare la storia, e quei muri dicono un’assenza che è più forte di una presenza viva. In mezzo al campo, il vecchio pozzo e una fontana gelata. In alto, case altissime, fino a sette piani, le più alte di Venezia, segno di un affollamento (sette metri quadrati a persona) oggi inimmaginabile. Sul lato del Rio San Girolamo, i nomi degli oltre duecento assassinati nei lager. Sugli stipiti delle porte, l’incavo diagonale che alloggiava la mezuzah, l’astuccio scaramantico con i versi della Bibbia. Affacciati alla piazza, i portici con le tracce dei banchi dei pegni.
Io sono il Ghetto, dicono quelle pietre, ed esistevo prima che arrivassero gli ebrei. Ero uno spazio malsano di concerie e fonderie, e mi chiamavano “ Getto” per via della gettata dei metalli, ma i primi ebrei venuti dal nord pronunciarono il nome alla tedesca, con la “ Gh” dura, e quel mio nome rimase, si sparse a Venezia, nel Mediterraneo e nel mondo. Ma il genius loci dice anche altro, che qui inizia il viaggio in un enigma, in uno spazio più claustrofobico dei quartieri spagnoli di Napoli, ma che a confronto del ghetto di Roma, schiacciato dal tallone papale, assurse al ruolo di Terra Promessa (“di promissione”) per gli ebrei di allora. Qualcosa di profondamente diverso da ciò che divenne quando l’idea di razza e nazione fecero cortocircuito con l’antigiudaismo della Chiesa, producendo lo sterminio.
In un tempo che vede il ritorno dei muri e dei reticolati, forse non è fuori luogo ricordare che a Venezia questo archetipo e sinonimo dell’esclusione è stato anche altro: garanzia di identità, persino esperimento di inclusione portato avanti dalla Serenissima, sia pure attraverso una maniacale separazione delle fedi, delle lingue e dei mestieri. «Parlarne solo come segregazione non è corretto», osserva Donatella Calabi, autrice di un libro sul tema che uscirà a settimane per l’editore Bollati Boringhieri, prima di guidarti nel mistero di un questo “orto concluso” che pure si connette al mondo attraverso i legami millenari della Diaspora, ed è anzi esso stesso sintesi del mondo, per la secolare compresenza di ebrei venuti da Spagna, Centro Europa, Nord Africa e Medio Oriente.
Cominciò che non si poteva accettare che gli ebrei occupassero le stesse case dei cristiani, che girassero liberamente notte e giorno, e facessero “tanti manchamenti & cussì detestandi & abhominevoli”. E così, per ovviare a tutto questo, il 27 marzo 1516 il nobile Zaccaria Dolfin propose di mandare “tutti” gli ebrei di diverse contrade cittadine ad abitare “uniti” in Ghetto Nuovo, “che è come un castello”. Il luogo avrebbe dovuto essere delimitato da due porte da aprire la mattina al suono della “Marangona”, la campana di San Marco che scandiva i ritmi della città, e richiuse a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso. E non basta. Due barche del Consiglio dei Dieci, con guardiani insonni, avrebbero circumnavigato ininterrottamente l’isolotto “per garantirne la sicurezza”.
Detto e fatto; Le case dell'isola furono svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni, alla scuola e all’università, ma nello stesso tempo — stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo — avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel “riserbo” necessario ad “animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscendo l’utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi”. Dentro i confini del Ghetto funzionava un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il permesso di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto, al pari degli “eretici armeni” e degli ebrei.
Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altrove, l’usura — pur regolamentata — fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi commerci, gli ebrei — pur fiscalmente spremuti come limoni — erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché ritenuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le casse del Vaticano.
C’erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal “catenaccio” delle corporazioni, e furono sistemati nell’isolotto centrale. Poi toccò ai levantini dall’impero ottomano, ebbero le strade contigue verso il canale di Cannaregio e furono tutelati più degli altri perché ritenuti indispensabili dalla Repubblica nel commercio con l’Oriente. Per ultimi giunsero i “marrani”, i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d’origine ma conservarono, si dice, l’alterigia degli “ Hidalgos” nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.
« Šnaim yeudin shalosh batei a kneset », due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Francesco Trevisan Gheller con la kippah d’ordinanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell’enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci conduce in un dedalo di ballatoi, scale di legno, pulpiti, matronei, passaggi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cunicoli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la “Scola” grande dei Todeschi (ebrei askenaziti), poi quella dei Provenzali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagnoli), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scintillare di lampadari e paramenti nel semibuio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale assieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto — utero e al tempo stesso ombelico di un mondo — la quintessenza di Venezia e non la sua antitesi.
A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formule magiche. « Orsài », commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. « Zuca baruca », zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall’ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parlata degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condurti per mano nell’universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che svela — un po’ come a Trieste — l’intimità di contatto della città con gli ebrei nonostante la reclusione. “ Fare un Tananàì”, fare un Quarantotto. “ No darme Giaìn”, non darmi vino scadente. “ No xe Salòm in sta casa”, non c’è pace in questa casa. E poi la “ Tevinà”, il sesso femminile, la quale “ ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà”. Oppure il micidiale “ El traganta de soà”, detto di chi puzza di m. (vulgo “escrementi”). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.
La vita di Calimani è segnata dall’Olocausto. «Il 16 settembre del ‘43 il presidente della Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l’elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per poter scappare assieme e nascondersi sui monti dell’Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera. Mi metteranno al mondo il 20 gennaio del ‘46. Le dice qualcosa? Nove mesi esatti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghetto, ma spiega che già nell’Ottocento — dopo l’arrivo di Napoleone che brucia le porte dell’enclave e parifica gli ebrei agli altri — scatta l’emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei ansiosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti “dentro” sono poche decine, sostituiti da veneziani di altra origine.
«Questi cinquecento anni non devono essere una celebrazione, ma uno spazio di riflessione su un’esperienza in senso lato, qualcosa che va oltre la stessa Shoah. Non sono troppo d’accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i campi profughi, le banlieue...». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l’assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall’insediamento sulla collina di Bjelave degli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell’aprile del 1992, l’anno dell’Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dževad Karahasan, mentre intorno tuonavano le granate. «Ghetto non è un problema ebraico ma della cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiamavano altrimenti, “ Chatzer”, che vuol dire recinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristiani. Vorrà pur dire qualcosa.
«Dopo gli arresti per il Mose, nel 2014, tutto si è fermato: ne fanno le spese gli abitanti della laguna. Tutti i dati nel report della Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti: area senza "cintura di sicurezza", "varchi" nei terreni fanno passare il percolato inquinante». Il manifesto, 24 gennaio 2016
Oltre un miliardo di euro: è la rigenerazione, ancora incompiuta, di Portomarghera. L’emblema dell’inquinamento criminale della laguna, ma soprattutto il simbolo di un sistema che metabolizza risorse a senso unico e paralizza Venezia.
Le bonifiche si sono impantanate fra eredità del Consorzio Venezia Nuova, intoppi istituzionali o burocratici, opere cruciali inesistenti, controlli a vuoto e contabilità infinita. Sintetizza Gianfranco Bettin, ex assessore all’ambiente ora presidente della municipalità di Marghera: «Purtroppo da giugno 2014, quando scoppiò lo scandalo Mose con i primi arresti, tutto si è fermato. E non si è pensato nemmeno di trovare tecnici preparati, come Giovanni Artico arrestato ma poi assolto con formula piena. Ora è più che mai necessaria un’azione di Comune e Regione per far uscire dallo stato di paralisi in cui si trova il processo di risanamento ambientale e di rigenerazione economica e occupazionale di Porto Marghera. Altrimenti non si avranno argomenti per far investire, come Eni sulla chimica verde».
L’istantanea spietata quanto inquietante è contenuta nelle 54 pagine della relazione stilata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. In sostanza, la maxi-operazione di risanamento ambientale effettuata a Portomarghera diventa inutile senza la “barriera protettiva” con palancolati e marginamenti delle macroisole. I terreni inquinati necessitano di una “cintura di sicurezza” per proteggere la laguna, ma l’anello della bonifica è infarcito di «buchi». Proprio dove spuntano le tubature di Edison, Syndial, Sapio-Crion o l’oleodotto e l’impianto antincendio della Ies di Mantova. Segmenti dai 20 agli 80 metri quadri tuttora non censiti in funzione dell’ultima fase di lavori.
“Varchi” che mettono a repentaglio quanto già realizzato, perché non bloccano il percolato con sostanze come arsenico, mercurio, nichel. È il “colabrodo” lungo i 50 chilometri di palancole metalliche, conficcate fino a 22 metri di profondità: l’indispensabile isolamento di Portomarghera per trasferire gli inquinanti fino al depuratore di Fusina.
Nicola Pellicani, di fatto il portavoce del centrosinistra in consiglio comunale, sottolinea: «Ho appena presentato una mozione al sindaco Brugnaro per convocare in tempi rapidi un tavolo di confronto. Partendo dal definitivo marginamento di tutta l’area industriale. Sono già stati spesi 781 milioni. Per la conclusione mancano circa 3,5 km di rifacimento sponde, pari al 6%: un investimento di altri 256 milioni. Se non sarà completato, sarà tutto inutile».
Finanziamenti che spettano al Provveditorato interregionale per le opere pubbliche (100 milioni), Regione (80 milioni) e dell’Autorità portuale di Venezia (altri 70). Ma c’è da controllare bene il capitolo delle spese. A cominciare dai collaudi che potrebbero lievitare fino a due milioni, per di più un’uscita senza senso: «rappresentano un mero sperpero di danaro pubblico» sentenzia la commissione parlamentare d’inchiesta.
Tutti collaudi cantiere per cantiere: perfettamente inefficaci «se non seguiti dalla verifica della funzionalità complessiva dell’intera opera eseguita». Ma rappresentano ghiotti benefit per i dirigenti regionali Roberto Casarin o Mariano Carrarto, ex capi di gabinetto del ministero dell’ambiente come Luigi Pelaggi o direttori generali dello stesso ministero come Mauro Luciani, dirigenti del Magistrato alle acque di Venezia (Maria Adelaide Zito), ex del ministero dell’Ambiente (Ester Renella) e membri della Commissione Via (Monteforte Specchi Guido e Fernanda D’Alcontres Stagno).
Del resto, anche gli appalti della maxi-bonifica meriterebbero più attenzione. Il Provveditorato interregionale, come conferma il dossier della commissione parlamentare, «non ha mai esercitato né esercita tuttora alcun effettivo controllo sia sul sistema di assegnazione da parte del Consorzio dei subappalti relativi al Mose e alle bonifiche, sia sulla congruità dei corrispettivi dati alle ditte subappaltatrici».
Dunque, il “sistema Cvn” continua a funzionare come prima. Il deus ex machina del Mose Giovanni Mazzacurati è a San Diego; il “doge” Galan e l’ex assessore Chisso sono alle prese con la magistratura; l’ex ministro Clini tace da mesi travolto da un altro faldone giudiziario; Piergiorgio Baita è stato sostituito alla Mantovani Spa dall’ex questore Carmine Damiano; il “giro” di Legacoop ha rimodulato le referenze nel Pd. Tuttavia, in laguna la lobby delle grandi e piccole opere pubbliche sembra inossidabile grazie all’omesso controllo di legalità, che non riguarda solo la Procura della Repubblica…
Arduo consolarsi con gli annunci sull’iter dei 23 progetti che valgono 153 milioni in base all’accordo di programma sottoscritto l’8 gennaio 2015 da Mise, Regione, Comune e Porto. Quest’anno dovrebbe scattare la bonifica dell’area Syndial (107 ettari), almeno così promette l’assessore regionale Roberto Marcato: «Si sta procedendo con la appena costituita società Mei Spa partecipata al 50% da Regione e Comune, entrambi attraverso società in house. Il rogito è datato 11 dicembre 2015 e la prima attività sarà la stesura — indicativamente nel prossimo quadrimestre — del business plan che indichi i termini finanziari e procedurali della manovra. A ruota, dovrà ottenere la volturazione dei decreti ministeriali di approvazione delle attività di bonifica (intestati a Sindyal): c’è di mezzo il ministero dell’Ambiente. Auspicalmente nella seconda metà del 2016, Mei Spa potrà iniziare ad attivare le operazione di bonifica e recupero funzionale delle aree».
corrieredelveneto.corriere.it
FONDACO, LA GALLERIA DEI VIAGGIATORI
Venezia. I lavori devono ancora finire ma la data d’apertura è già stata fissata, il primo ottobre aprirà il «T Fondaco dei tedeschi», dove T sta per traveller, viaggiatore. Ieri sera, all’hotel Danieli, Dfs, la società del retail di Louis Vuitton Moet Hennessy, ha presentato come sarà arredato il Fondaco a una platea di imprenditori, rappresentanti delle categorie e autorità tra cui il sindaco e il prefetto. I restauri sono infatti a buon punto e Edizioni Property, l’immobiliare del gruppo Benetton, proprietaria dell’edificio, sta consegnandolo proprio in queste giorni ai futuri gestori. «È il primo grande magazzino Dfs in Italia - ha spiegato Eléonore de Boysson - e vogliamo replicare l’esperienza del Danieli, da palazzo a hotel d’eccellenza». Dfs ha promesso di diventare il custode del fontego, «ringraziamo i veneziani d’avercelo permesso - ha precisato Philippe Schaus, presidente di Dfs - avremo prodotti italiani, internazionali e veneziani, sarà la destinazione migliore per lo shopping di lusso, un luogo pieno di vita con prodotti locali, grandi marchi ed eventi culturali». Ora che le vecchie casse delle poste sono sparite e sono stati smantellati i magazzini e i divisori delle poste, l’edificio, al momento chiuso, ha cambiato volto.
Le arcate che circondano la corte centrale sono state ripulite, le scale mobili e gli ascensori sono stati costruiti ma, ha garantito Dfs, in uno spazio non immediatamente visibile all’ingresso del fondaco. «Oma ha eseguito un lavoro incredibile - ha detto l’architetto Jamie Fobert, incaricato di allestire il grande magazzino - ha restituito una nuova vita all’immobile, la copertura del tetto è stata smontata, pulita e restaurata e ora è al suo posto, solo posizionata più in alto così da permettere di stare in piedi». Qui ci sarà l’altana che nei piani originali dell’archistar Rem Koolhass, progettista dei restauri, doveva essere una terrazza. Sotto, l’auditorium per gli eventi culturali. Ieri sera, Dfs non è entrata nel merito delle attività che organizzerà nè dei prodotti in vendita, Fobert ha illustrato il percorso che l’ha portato a creare arredi unici per la «T» galleria. «Dfs non voleva pezzi di designer newyorkesi o londinesi - ha detto - e allora mi sono ispirato alla storia cittadina e al design novecentesco italiano, a Carlo Scarpa».
Il mobilio non sarà un «pasticcio alla veneziana » e non si vedranno gondole o altri simboli noti in tutto il mondo della città. Le bacheche espositive degli orologi sono state forgiate dallo strumento con cui si creano appunto gli orologi. Le grate tipiche di Venezia sono invece diventate lo spunto per decorare espositori e mobilio. Il pavimento originale come anche gli elementi che rimandano alla storia del fontego (ad esempio, i giochi scavati sulla pietra dai vecchi mercanti) sono stati tutti mantenuti e recuperati, solo nell’ex sala del telegrafo, dove a terra c’era una colata di cemento, l’architetto ha introdotto una pavimentazione nuova. «Mi sono ispirato all’acqua e ai suoi movimenti per creare un mosaico che richiamasse i colori di Venezia», ha aggiunto. Il fondaco, al suo interno, non avrà colori sgargianti ma tonalità calde in sintonia con la tradizione della Serenissima. «Stiamo scrivendo una nuova pagina della storia del fontego», ha concluso Meneghesso. Gloria Bertasi
Nuovavenezia.gelocal.it
IL COMUNE SI VENDE ANCHE PALAZZO CONTARINI
Aggiornato con alcune «new entry» l’elenco degli immobili che il Comune intende mettere in vendita nel 2016
Venezia. Aggiornato con alcune «new entry» l’elenco degli immobili che il Comune intende mettere in vendita nel 2016 e che ha allegato anche al bilancio di previsione 2016, con un valore orientativo del «pacchetto» di circa 31 milioni di euro.
Tra di essi c’è Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, che - come Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, poi venduti - interessava alla Cassa Depositi e Prestiti, che però si è poi ritirata dalla trattativa per la metratura ritenuta non sufficiente.
Il Comune ha infatti comunque deciso di metterlo di nuovo in vendita, spostando in altre sedi gli uffici comunali legati alle politiche sociali che l’edificio attualmente ospita.
In vendita anche Palazzo Corner Contarini, attuale sede della Corte d’Appello.
A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. Il Fatto quotidiano, blog di Manlio Lilli, 18 gennaio 2016
“Ca’ Corner della Regina, costruito tra il 1723 e il 1728 da Domenico Rossi per conto della famiglia dei Corner di San Cassiano, è un palazzo veneziano situato nel sestiere di Santa Croce e affacciato sul Canal Grande. Dal 2011 diventa la sede veneziana della Fondazione Prada che ha presentato finora in questi spazi cinque mostre di ricerca, in concomitanza con il restauro conservativo del palazzo che si sta attuando in più fasi”.
“Il restauro conservativo di Ca’ Corner della Regina, promosso dalla Fondazione Prada dalla fine del 2010 in linea con le direttive della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e della Laguna, si sta attuando in più fasi. La prima, conclusasi nel maggio 2011, ha previsto interventi di messa in sicurezza delle superfici di pregio artistico e architettonico, il rilievo di tutte le parti impiantistiche incoerenti, la manutenzione dei serramenti lignei, l’eliminazione delle partizioni non originarie e il recupero degli spazi destinati a uffici e servizi. Per quanto riguarda gli apparati decorativi, sono stati messi in sicurezza affreschi, stucchi e materiali lapidei che ornano il portego e le otto sale del primo piano nobile del palazzo. Questi lavori consentono nel giugno 2011 l’apertura al pubblico del piano terra, del primo e secondo mezzanino e del primo piano nobile di Ca’ Corner della Regina”.
Evviva, verrebbe da dire. La lente del pregiudizio ha viziato la lettura iniziale. Venezia acquista uno spazio per l’arte internazionale. Ed è così. Ma accanto alle sale attraversate dai visitatori, ci devono essere anche parti “riservate”. Insomma appartamenti. E’ stabilito nel contratto. Per questo rimangono a lungo in sospeso 8 dei 40 milioni di euro. Miuccia Prada deve avere certezza di poter riposare nel palazzo che dal 1975 al 2010 è stato sede dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee. La Direzione Generale dei Beni Culturali si oppone alla destinazione residenziale ritenendola incompatibile con le caratteristiche storiche del Palazzo e con il mantenimento di un suo uso pubblico. E’ così fino a ottobre 2015.
Prosegue la soprintendente Codello
A Venezia fra sottrazioni e aggiunte si sta perdendo il filo. Quello della Storia, certo. Ma anche quello del Diritto. Delle regole, sovvertite. Della democrazia calpestata. A Ca’ Corner, dove si sperimenta da anni l’alienazione del patrimonio pubblico, il nuovo modello-Italia sembra giunto al suo epilogo. Finalmente, svelandosi in maniera completa. Dopo alcuni tentativi falliti. Lo Stato è un moribondo da sostituire e non da affiancare. Quindi spazio ai nuovi mecenati. Poco importa se esigono un appartamento nel palazzo restaurato. I nuovi Signori sono loro.
L’ultimo giorno del 2015, il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha comunicato ... (continua a leggere)
L’ultimo giorno del 2015, il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha comunicato di aver trovato la soluzione per chiudere il “buco” del palazzo del cinema al Lido. Il comune, cioè, avrebbe raggiunto un accordo transattivo con l’impresa Sacaim, riconoscendole un “risarcimento” di 2,8 milioni di euro per il mancato avvio dei lavori di costruzione dell’edificio, nonché la promessa di nuove commesse che “potrebbero riguardare il palazzo dell’ex casinò”, in cambio della rinuncia alle azioni legali intraprese dalla ditta.
Secondo Brugnaro si tratta di un risultato straordinario di fronte all’entità del “contenzioso e dei contratti ereditati” dalla sua amministrazione, che non è direttamente responsabile della vicenda. L’origine del “buco”, infatti, risale agli anni del terzo mandato del sindaco Massimo Cacciari che aderì alla pretesa della Biennale di avere un nuovo palazzo del cinema e, per procurarsi il denaro necessario, nel 2005 diede avvio ad una serie di cessioni immobiliari a vantaggio di un fondo finanziario creato da un ex assessore della sua giunta.
Le tappe successive possono essere così riassunte:
nel 2007 Sacaim si aggiudicò l’appalto per l’opera (secondo alcuni per pressione dell’allora ministro Francesco Rutelli) offrendo un ribasso del 20%; nel 2008 venne posata la prima pietra; nel 2009 furono abbattuti gli alberi in buona salute della pineta storica per far posto al palazzo. Nel 2010 il sito si “rivelò” era pieno di amianto e da allora è in possesso della ditta che viene pagata dai cittadini per garantire la sorveglianza dell’area di cui sono stati derubati. A tutt’oggi pare che i costi a carico dei contribuenti siano circa 40 milioni di euro.
La vicenda del “buco più caro del mondo” è periodicamente comparsa sulle cronache della stampa locale e nazionale che non ha potuto del tutto ignorare la forte e organizzata protesta popolare, come invece hanno fatto i rappresentanti delle istituzioni coinvolte.
Per limitarsi ai quattro personaggi immortalati nella foto che li riprende mentre posano la prima pietra, Giancarlo Galan è in galera, Sandro Bondi è impegnato nel trasloco sul carro del PD, ma gli altri due non hanno mai nascosto il loro arrogante fastidio.
Pochi mesi fa, ad esempio, l’ex sindaco Cacciari ha detto «come vanno oggi le cose non so, e non me ne frega niente… quando c’ero io per il palazzo del cinema c’era un buon progetto e le cose stavano andando avanti.. il problema sono le solite lamentazioni degli abitanti che non sono lidensi, ma lidioti…. Ho smesso di fare il sindaco proprio perché non ne voglio sapere più nulla. Si arrangino».
Seppur con linguaggio più pacato, anche Paolo Baratta, l’unico del quattro ancora in carica (il ministro Franceschini lo ha appena riconfermato alla presidenza della Biennale malgrado la legge prevedesse il limite di due mandati) in più occasioni si è lamentato per il buco che «toglie respiro a tutta la Mostra, al limite dell’asfissia» e per il «danno di immagine provocato dalla vista del cantiere a cielo aperto offerto alla vista dei frequentatori della manifestazione». Baratta ha anche sempre negato qualsiasi responsabilità della Biennale, ribadendo che «il destino del “buco” spetta al comune, la cosa ci è estranea». Solo ieri, finalmente, si è rasserenato e all’annuncio di Brugnaro ha commentato: «è una bella notizia per cominciare bene il nuovo anno».
Non è certo che questa sia l’ultima pagina dello “scandalo del Lido”. Della responsabilità delle prossime, il sindaco Brugnaro non potrà dichiararsi esente. E i segnali negativi non mancano, dalla decisione di sostituire il buco con «una sorta di piazza rialzata di una quarantina di centimetri», pedonale “ma anche” carrabile, una fontana con getti d’acqua colorata e «il recupero della pineta con la creazione di spazi per socializzare», alla scelta di mettersi d’accordo con l’impresa a nostre spese, senza neppure aspettare gli esiti delle inchieste della Corte dei Conti e della Procura della Repubblica per danni erariali, invece di schierare il Comune come parte lesa a fianco dei suoi cittadini.
In realtà, far pagare ai contribuenti il prezzo del “riscatto” dell’area della pineta del Lido agli stessi soggetti che se ne sono impadroniti e l’hanno devastata è coerente con la politica del sindaco che, nei primi sei mesi del suo mandato è stato abilissimo nello spostare l’attenzione mondiale sulle proprie intemperanze verbali distogliendola dagli affari dei gruppi di interesse di cui la sua giunta è espressione.
Non si conoscono dichiarazioni della Sacaim, impresa chiacchierata ma potentissima. Nel 2008, quando si è aggiudicata i lavori, il Sole 24 ore ha commentato: «ad accompagnare la nascita e la crescita di quello che diventerà un simbolo architettonico moderno per la città lagunare e per l'Italia sarà la Sacaim, che ha già lavorato alla ricostruzione del Teatro La Fenice». Come a dire "siamo in mani sicure". L’anno scorso, quando è stato indagato per corruzione nell’ambito dell’inchiesta sulle attività criminali del Consorzio Venezia Nuova, l’ex amministratore delegato Pierluigi Alessandri ha dichiarato che, oltre ad aver eseguito lavori gratis nella villa di Galan, tra il 2007 e il 2009 aveva “girato” 115 mila al governatore del Veneto per ottenere commesse, visto che in quegli anni alla Sacaim non «buttava bene».
Nel 2014 Sacaim è anche stata sottoposta dal prefetto a informativa antimafia, provvedimento poi revocato dal TAR, ma continua ad essere intoccabile. E l’accordo annunciato ieri è un’ulteriore conferma che “scavar buche, riempir buche” resta un’ottima ricetta per garantire un generoso welfare agli affiliati al sistema di potere che si è impadronito di Venezia.
Riferimenti
La vicenda del "Palabuco" è stata ampiamente documentata su eddyburg. Si vedano di Edoardo Salzano Lido di Venezia Uno scandalo bipartisan e Francesco Giavazzi Le mani sulla città: l'indegna storia del Lido di Venezia. QUI gli articoli che raccontano la distruzione della pineta. Altri articoli digitando “palazzo del cinema lido venezia” nel funzionale "cerca" in alto nella home page.
Sembra proprio che Cassa Depositi e Prestiti abbia un debole per Venezia. La società del Ministero per l’Economia continua a fare affari in laguna.
Dopo l’ex Ospedale al Mare del Lido, le ex Carceri di San Severo a Castello, l’ex Casotto Capogruppo di San Pietro in Volta e l’isola di San Giacomo in Paludo, i Palazzi Diedo, Gradenigo e Donà. Non semplici immobili, ma edifici che costituiscono a tutti gli effetti la storia della città. Solo il primo non più parte del pacchetto di immobili del Fondo Immobiliare Città di Venezia, gestito da EstCapital per conto dell’Amministrazione. Ma nelle differenze un minimo comun denominatore. Tutti e tre costituiscono cubatura da riutilizzare secondo la mission di Cdp di valorizzazione del Patrimonio immobiliare. L’ultima offerta, di circa 20 milioni di euro, per i primi due palazzi, preceduta da una serrata contrattazione. Tra le due proposte d’acquisto, anche il ricorso, da parte del commissario straordinario del Comune Vittorio Zappalorto, ad un esperto indipendente, la Yard Valtech srl, incaricato di stabilire un prezzo equo. Ma a quanto sembra il Comune sembra ormai pronto ad accettare, come indizia l’inserimento dei due immobili nel piano delle alienazioni approvato il 19 novembre.Palazzo Donà
Per Palazzo Diedo, a Santa Fosca, edificio settecentesco forse progettato da Andrea Tirelli, ricco di decori, stucchi e figurazioni allegoriche, ex sede della Procura della Pretura, c’è già il cambio di destinazione d’uso e il permesso di costruire appena approvato. Il progetto, quello presentato da EstCapital quando il palazzo faceva ancora parte del Fondo Immobiliare Città di Venezia. Un progetto che prevede la creazione di servizi igienici e magazzini al piano terra, funzionali al ristorante che si prevede di realizzare al piano ammezzato dell’edificio, mentre il primo e secondo piano saranno riservati a negozi e l’ultimo piano a due appartamenti.
Quel che più conta che i due palazzi dopo anni di tentativi di vendita e di vari utilizzi, sembrano davvero prossimi ad essere anch’essi “sacrificati al turismo”, come denunciava nel 2012 Italia Nostra. Ma c’è anche un terzo edificio sul quale Cassa Depositi e Prestiti ha puntato il suo interesse. E’ Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, la struttura cinquecentesca, attuale sede della Direzione Politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza e del servizio sociale della Municipalità, oltre che dell’archivio della Procura della Repubblica.
La città lagunare sempre più una città solo per turisti. Una città per la quale l’unica alternativa al riutilizzo di luoghi della sua storia, a parti del suo Paesaggio, come hotel, o centri commerciali come si verificherà a San Giacomo in Paludo sembra essere l’abbandono, come accade all’ex Ospedale al Mare del Lido, che la Cassa Depositi e prestiti ha deciso di affidare a Hines.
Così Venezia rischia davvero di morire. Tra l’immobilità di molti e gli interessi di pochi.
Penso di fare cosa gradita precisando lo stato di fatto delle procedure su Contorta e Tresse Nuovo. Indipendentemente dall'Ordinanza del Consiglio di Stato che sospende la sentenza del TAR rinviando il merito al 10 marzo prossimo, la procedura di VIA del Contorta ha ripreso oggi stesso presso il ministero dell'Ambiente, mentre allo stesso Ministero non risulta presentato alcun progetto "Tresse Nuovo" né come variante né come nuovo progetto (d’altra parte se ci fosse sarebbe pubblicato sul Sito del Ministero).
Falsi allarmi, veri affari, ferocia di classe sono le parole chiave delle ultime cronache da Venezia. Il 25 novembre, data in cui si celebra ... (continua a leggere)
Falsi allarmi, veri affari, ferocia di classe sono le parole chiave delle ultime cronache da Venezia. Il 25 novembre, data in cui si celebra la lotta contro la violenza sulle donne, è apparsa la notizia che, il giorno prima, era stato vietato l’accesso a piazza San Marco a una turista che indossava il burqa. L’episodio è stato presentato come una prova dell’efficacia delle misure “antiterrorismo” adottate per il funerale di Valeria Solesin, durante il quale si poteva entrare in piazza solo attraverso cinque varchi controllati dalla polizia, mentre 400 agenti armati si aggiravano tra la folla e numerosi tiratori scelti erano appostati sui tetti.
“Una piazza di civiltà”, ha sentenziato il Corriere della Sera, mentre le autorità hanno espresso soddisfazione perché i cittadini non hanno protestato contro la limitazione della loro libertà di movimento. «È andata benissimo … la gente ha capito» ha detto il comandante dei vigili, spiegando che non si è trattato di un caso eccezionale, ma della “prova generale” di quello che avverrà in occasione di altri grandi eventi, a cominciare dall’inaugurazione del Giubileo con l’apertura della porta santa della basilica san Marco, il prossimo 13 dicembre. Alle parole del capo dei vigili si è associato il Primo procuratore di san Marco Carlo Alberto Tesserin, già consigliere regionale di NCD, che ha aggiunto: «oggi per il funerale è stato più facile», perché «tra le autorità ci si conosce tutti, almeno di vista», ma per il Giubileo stiamo studiando un sistema di «identificazione dei fedeli». Così, mentre il Papa camminava nelle bidonvilles di Nairobi e nei campi profughi di Bangui, le autorità veneziane hanno deciso che alla Messa del 13 dicembre si potrà assistere solo “per inviti” e in chiesa entreranno solo i “fedeli accreditati”.
La privatizzazione/militarizzazione di quello che era il cuore della città non è una novità. Proposte di chiuderne gli accessi e consentire l’ingresso, a pagamento, o comunque a discrezione di chi ne millanta la proprietà, si sono moltiplicate negli ultimi mesi, ma la loro applicazione è stata finora rallentata dalla contrapposizione dei diversi interessi di chi controlla il turismo “straccione” e dei padroni delle botteghe di lusso. Gli unici che, secondo il sindaco Brugnaro, alfiere della tolleranza zero contro i mendicanti che rovinano lo spettacolo ai turisti, hanno diritto di parola sulla questione. «E’ ovvio, ha detto, che un’ipotesi cosi estrema dovrebbe essere condivisa con le categorie, in primis commercianti e albergatori».
Intanto, mentre le “categorie” si spartiscono il territorio, è arrivato il ministro Alfano ed ha annunciato il piano “Venezia sicura”, che consiste nell’invio di “105 rambo per blindare la città” contro il terrorismo e contro il commercio abusivo. «Una città speciale merita un piano speciale» ha detto. Ed è solo l’inizio, se, come sembra, verrà accolta la richiesta del governatore del Veneto Zaia, di far arrivare cani che “fiutano l’esplosivo” nei “luoghi sensibili” della regione, cioè: Venezia e il suo carnevale, la basilica di sant’Antonio a Padova e Gardaland, accomunate in un osceno miscuglio di sacro e profano in quanto locations che attirano il maggior numero di visitatori paganti. Contemporaneamente, l’assessore alle politiche sociali del comune ha annunciato l’installazione di tornelli contro i barboni in biblioteca, misura, «necessaria per evitare che i senza dimora si siedano ai tavoli di studio insieme ai ragazzi che preparano gli esami per l’università».
«Vista dall’alto e senza illusioni, la Venezia verso la quale stiamo andando è un città la cui vita dipende in modo quasi esclusivo dal turismo. Il quadro del domani ci mostra che le sue case si sono svuotate di residenti per riempirsi di visitatori di pochi giorni». La Nuova Venezia, 2 dicembre 2015 (m.p.r.)
Come dei gitanti che attraversano un bosco, noi veneziani rischiamo di perdere l’orientamento se non alziamo frequentemente lo sguardo al di sopra del singolo albero o dell’intoppo sul sentiero che ci costringe a una deviazione. Combattiamo, almeno quelli di noi che si preoccupano per il bene comune, contro la vendita dell’ennesimo palazzo che si vuole trasformare in albergo, contro l’ingresso delle navi da crociera in laguna, contro il proliferare dei B&B in calli e campielli. Ma intanto la città si trasforma. Il suo futuro viene disegnato passo passo, in modo impercettibile ma che la coinvolge tutta. Come il gitante che si addentra nel bosco rischiamo di perdere l’orientamento e, mentre riusciamo ad aggirare un pericolo visibile, stiamo per finire dentro una selva senza uscita.
«Villa Hèrion alla Giudecca, Palazzo Donà, la Poerio e la Favorita. A Mestre l’ex scuola Manuzio, l’ex terminal di Fusina e il parcheggio Candiani. Una mappa per navigare tra le vendite degli ultimi 10 anni». Nella mappa dinamica tutte le immagine degli immobili già sottratti ai beni pubblici e comuni, 23 novembre 2015
Ma anche la giunta Brugnaro punta sulle alienazioni con varie novità inserite nell’assestamento di bilancio triennale di cui si discute in queste ore. Nel piano ci sono novità che allarmano. La Municipalità di Venezia si è già messa di traverso con Andrea Martini perché nel piano si chiede di mantenere l'alienazione per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo ma vengono aggiunti anche Palazzo Donà a S.Maria Formosa e soprattutto villa Herion alla Giudecca e scatta il timore, dice Martini, che l’operazione apra la strada, in cambio di un temporaneo beneficio di bilancio, all’apertura di nuovi alberghi. Entro fine anno dovrebbe essere venduta la vendita dell’ex palazzina Telecom del Lido di Venezia.
Negli ultimi dieci anni sono decine i palazzi già sedi di scuole, uffici pubblici, aule universitarie venduti per fare cassa, con operazioni anche molto discusse: dal Fontego dei Tedeschi all'ospedale al Mare, da Ca' Corner della Regina all'ex Pilsen, come racconta questa mappa attraverso la Venezia messa in vendita pezzo a pezzo (qui il link diretto alla mappa , da sviluppare con le segnalazioni dei lettori)
«Abbiamo appreso con soddisfazione che il porto di Venezia è il porto più verde del mondo». I danni alla laguna, la monocultura turistica che uccide la città, i mestieri che scompaiono a causa di questo fanno parte di una narrazione che non interessa il partito unico delle grandi opere/grandi affari. La Nuova Venezia, 13 novembre 2015 (m.p.r.)
Il Pd regionale con il capogruppo Alessandra Moretti a fianco del Porto e degli interessi di chi lavora nel settore della crocieristica e teme di perdere il posto di lavoro. Lo conferma la presa di posizione di ieri della Moretti e dei consiglieri regionali Francesca Zottis, Bruno Pigozzo (Pd) e Franco Ferrari (Gruppo Moretti Presidente), che hanno tenuto un incontro con il presidente dell’ Autorità Portuale di Venezia Paolo Costa e di quello della Vtp (Venice Terminal Passeggeri) Sandro Trevisanato.
«L’associazione “Poveglia per Tutti” presenterà ricorso al Tar contro il recente diniego del Demanio alla concessione, mentre sul fronte dell’amministrazione comunale si attende ancora un appuntamento». La Nuova Venezia, 11 novembre 2015 (m.p.r.)
L’associazione “Poveglia per Tutti” non ha più tempo da perdere e ora vuole vederci chiaro sul futuro dell’isola. Tra pochi giorni verrà ufficialmente depositato il ricorso al Tar contro il recente diniego del Demanio alla concessione, mentre sul fronte dell’amministrazione comunale si attende ancora un appuntamento, chiesto ormai da tempo. Fino ad adesso l’associazione ha seguito tutti i passaggi istituzionali al fine di ottenere la concessione dell’isola, ma la strada non è in discesa.
La prima difficoltà è proprio il Demanio che, dopo aver visionato il progetto dell’associazione che in 100 pagine ha spiegato quali interventi si volessero fare nell’isola entrando anche nel dettaglio economico, ha risposto picche, spiegando che «occorre valutare, di concerto con l’amministrazione comunale recentemente insediatasi, il più proficuo percorso da avviare nell’interesse del territorio e del bene stesso».
La seconda difficoltà, con radici che risalgono ancora a quando l’attuale sindaco Luigi Brugnaro aveva partecipato all’asta come Umana, è con l’attuale amministrazione comunale che, nei panni della vice sindaco Luciana Colle - attuale assessore al federalismo demaniale ed ex dirigente del Demanio - ha detto che la proposta di Poveglia verrà valutata al pari delle altre proposte di privati.
L’associazione non si è lasciata intimidire. Ieri mattina gli avvocati Raffaele Volante e Francesco Mason hanno spiegato il motivo del ricorso e dimostrato, facendo richiesta agli atti, che le proposte di altri privati sono inconsistenti. Il ricorso si basa sul fatto che la risposta del Demanio è altamente insufficiente in quanto non solo non spiega il diniego, ma dà peso al parare del Comune che non ha voce in capitolo in quanto il bene è dello Stato.
Per quanto riguarda le sette proposte il cui nome si saprà una volta che il ricorso verrà depositato: si tratta di sette manifestazioni di interesse, spesso scritte da un mediatore, senza nessuna esplicitazione di progetti, né riferimenti economici, ma solo richieste di informazioni.
«Sembra che lo Stato», ha detto Giancarlo Ghigi, «non accetti l’idea che la comunità abbia fatto meglio di lui in 47 anni di abbandono. Dopo aver rifiutato tramite il federalismo demaniale la possibilità di avere Poveglia, ora scopriamo che il Comune ha un progetto. Vorremmo sapere dal Demanio perché il nostro non funziona e parlare con l’Amministrazione».
«“Faremo gli studi, ma la città ha deciso”. E attacca la Municipalità: “Arroganti”. In pista anche le ipotesi Marghera e Lido». La Nuova Venezia, 11 novembre 2015 (m.p.r.)
«Zanda non vuole i nuovi canali? Ha fatto un buon discorso ma devono capire che la decisione è presa. La gente ha votato. Faremo gli studi necessari ma andiamo avanti. Abbiamo 5 mila posti di lavoro da difendere». Il sindaco Brugnaro archivia in tempo reale la presa di posizione del presidente dei senatori Pd, molto vicino a Matteo Renzi. In una sala San Leonardo strapiena, Zanda ha ribadito il principio di precauzione. «Dobbiamo fare attenzione a quello che facciamo, valutare bene le conseguenze a lungo termine. Lo scavo di un canale è dannoso per la laguna e per la conservazione di Venezia». Un «no» all’ipotesi Tresse sostenuta invece da Brugnaro e dal presidente del Porto Paolo Costa.
Le alleghiamo queste belle righe del costituzionalista Paolo Maddalena sulla vicenda Poveglia.
«Poveglia non è proprietà dello Stato, ma, come da tempo ha affermato l’illustre amministrativista Massimo Severo Giannini, è proprietà del popolo veneziano. Si tratta di “proprietà collettiva demaniale” e il “Demanio” è solo gestore e tutore dell’integrità di questo luogo.
Poiché l’isola risulta abbandonata e priva di cure, i cittadini veneziani, veri proprietari dell’isola, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, possono svolgere attività dirette a salvare l’isola, secondo il principio di sussidiarietà.
Direi che non occorre una specifica autorizzazione, ma solo una preventiva comunicazione da parte di un gruppo di cittadini, che agiscano come “parte” dell’intera cittadinanza veneziana, nella quale si spieghi cosa si ha intenzione di fare. In caso di mancata risposta entro un congruo termine indicato nella comunicazione, si dovrà ritenere che il Demanio è d’accordo in base al principio, oramai generale per l’ordinamento giuridico italiano, del “silenzio-assenso”. In caso di risposta negativa, occorrerà impugnare il rifiuto davanti al TAR. Ma a questo punto, i funzionari del Demanio si assumerebbero una grave responsabilità per danno alla Collettività veneziana».
«Il presidente dei senatori Pd traccia la linea in una sala strapiena. “Bisogna fare presto, ma soprattutto fare bene”». La Nuova Venezia, 10 novembre 2015 con postilla (m.p.r.)
«Bisogna fare in fretta. Ma prima di tutto bisogna fare bene. Valutare le conseguenze di interventi e scavi che potrebbero compromettere in futuro l'equilibrio della laguna. Venezia è vissuta mille anni, dobbiamo fare in modo che resista almeno per altrettanti». Sala San Leonardo strapiena, ieri pomeriggio, per l'intervento del capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda. Invitato dal circolo di Cannaregio del Pd veneziano e dalla sua segretaria Marina Rodinò per dire una parola chiara sulle grandi navi e le proposte alternative sul tappeto. In mattinata Zanda ha incontrato parlamentari e dirigenti del partito. Al termine dell'incontro, un comunicato rassicurante improntato all'unità.
«Il buon senso ci dice che nessuno dei suddetti progetti andrebbe promosso, semmai rigorosamente bocciati. Eppure ad ogni nuova proposta sembra formarsi subito una solida alleanza pubblica e privata che ne è entusiasta“. Lettere al giornale. La Nuova Venezia, 8 novembre 2015 (m.p.r.)
Quando negli Stati Uniti vogliono vederci chiaro su qualche faccenda pubblica che non sembra affatto limpida, si dice Follow the Money, cioè segui il denaro, e sicuramente capirai. Il susseguirsi di presentazioni di progetti da parte del Non Porto di Venezia, con o senza sostegni politici locali, regionali o nazionali, ha del ridicolo. Terminali di qua e di là, canali di su e di giù. E tutto giustificato dal fatto che in fondo è la città che chiede al Porto di trovare quella particolare soluzione al problema “Grandi Navi”.
Continuo a ripetere che il problema “Grandi Navi” non è un problema ambientale o di sicurezza. Il problema è semplicemente di natura socio-economica: il turismo generato dal crocierismo sfrenato è a tutti gli effetti paragonabile al più becero turismo mordi e fuggi che tutti dicono di non volere, e, quindi, va ridimensionato e assolutamente non incentivato, tantomeno utilizzando dei soldi pubblici. E se il problema del rilancio di Venezia fosse soltanto una questione di reddito e di posti di lavoro, come sembra suggerire il sindaco di Venezia Brugnaro, basterebbe seguire il modello Amsterdam anni settanta e trasformare il centro storico nel più grande e più vecchio bordello con coffee shop e casinò annesso del mondo.
La questione Venezia è, per fortuna, molto più complessa. Partendo da questa premessa, il buon senso ci dice che nessuno dei suddetti progetti andrebbe promosso, ma che tutti andrebbero semmai rigorosamente bocciati. Eppure, nella realtà, ad ogni nuova proposta sembra formarsi subito una solida alleanza pubblica e privata che ne è entusiasta. Il che mi riporta alla prima frase di questo breve intervento. Di fronte all’ultima trovata, cioè la proposta “Tresse Nuovo”, quanto “consenso” si può creare con 140 milioni di investimenti pubblici? Just follow the money!
Jan Vand Der Borg è Docente di Economia del Turismo a Ca’ Foscari, Venezia
«La capogruppo in Consiglio regionale appoggia il progetto alternativo delle Tresse di Brugnaro e Costa. Il presidente dei senatori del partito lunedì a San Leonardo è contrario allo scavo di nuovi canali». La Nuova Venezia, 6 novembre 2015 (m.p.r.)
«Non ci sono due Pd», ha ripetuto anche pochi giorni fa in un intervento il parlamentare veneziano Davide Zoggia, anche in riferimento all’atteggiamento del sindaco Brugnaro, in pieno feeling con Matteo Renzi, ma in contrapposizione con il partito a Venezia. Ma sulle Grandi Navi sembra proprio di sì, da Alessandra Moretti a Pier Luigi Zanda.
Presentatazione "blindata" della nuova proposta di Comune e Porto. Cronaca e resoconti di Alberto Vitucci, lettere dei cittadini esclusi Maria Rosa Vittadini e Marco Zanetti. La Nuova Venezia, 4 novembre 2015, con postilla
GRANDI NAVI
IL PROGETTO BRUGNARO
di Alberto Vitucci
«RIPARTIAMO PER SALVARE VENEZIA»
VENEZIA «Dobbiamo ripartire. Abbiamo 800 milioni di debiti, e non ce n’è più. Questo è un grido di dolore per la nostra città: non abbiamo più soldi». Si parte delle grandi navi per arrivare a Renzi e al nuovo «appello al governo». Il sindaco Luigi Brugnaro rilancia il suo messaggio al premier Renzi. «Aspettiamo con fiducia la Legge di stabilità, abbiamo chiesto provvedimenti per camminare con le nostre gambe». Quali?
Quando a speculare è la pubblica amministrazione. Non per soddisfare bisogni dei cittadini, ma per far quadrare bilanci. Il territorio ci perde sempre, i cittadini due volte: perdono un bene pubblico e si ritrovano con un debito di 36 milioni. E la storia continua. La Nuova Venezia, 1 novembre 2015 (m.p.r.)
Venezia. Non sono spiantati come Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni nel film I soliti ignoti ma restano la banda del buco. Un signor buco, quello del Palacinema del Lido: uno sbancamento ripristinato, un nulla di fatto costato 36 milioni di euro, pagati da voi che state leggendo. Questo vergognoso esempio di spreco è raccontato da Sergio Rizzo e Giancarlo Carnevale, ex preside di architettura, in 8 terrificanti minuti, registrati su Youtube il 3 giugno scorso. Provate ad ascoltarli.
«La polemica non si placa. Crovato (Lista Brugnaro): “Atto dovuto, il Tar ci darebbe torto”. L’urbanista Stefano Boato: “È una scelta politica, le norme in vigore consentono di dire di no”» La Nuova Venezia, 29 ottobre 2015 (m.p.r.)
Venezia. I cambi d’uso non si fermano. E in consiglio comunale stanno per arrivare due nuove delibere proposte dalla giunta che consentono di trasformare in pezzi di hotel appartamenti finora abitati da famiglie di residenti. La municipalità di Venezia-Murano-Burano ha dato parere negativo. La commissione urbanistica ha dato il via per la discussione in consiglio comunale, nonostante il parere negativo delle opposizioni (Lista Casson, Pd e Movimento Cinquestelle).
«Atto dovuto», si sono giustificati i consiglieri di maggioranza, in testa il capogruppo della Lista Brugnaro Maurizio Crovato e il vice Renzo Scarpa. «Dal punto di vista etico la Municipalità ha ragione», dice, «ma il Tar non avrà la nostra visione politica e le carte danno ragione ai richiedenti. E poi sono accorpati da anni agli alberghi. Dal 2010 al 2014 il Comune ha concesso 2950 cambi d’uso».
«Ma non è vero», replica l’ex assessore all’Urbanistica e capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi, «la gran parte di quegli atti non c’entrano con questo discorso. Sono errori tecnici che sono stati corretti». Fatto sta che i primi due atti portati in commissione Urbanistica dall’amministrazione Brugnaro riguardano la trasformazione di due appartamenti in hotel o loro depandance. Uno al ponte delle Guglie, secondo piano di un palazzetto dove ha sede l’hotel Biasin. L’altro in calle delle Rasse, tre appartamenti adiacenti all’hotel Danieli. Davvero un atto dovuto? L’articolo 21 delle norme Tecniche di Attuazione allegate alla Variante del Piano regolatore prevede che gli appartamenti con superficie inferiore ai 120 metri quadrati siano vincolati a residenza. Ma la stessa norma prevede anche la «scappatoia». «Nelle unità edilizie dove i due terzi della superficie abbiano destinazione diversa da quella abitativa può essere eccezionalmente autorizzato il mutamento d’uso delle parti restanti dell’edificio». Serve il parere della Commissione scientifica e il parere favorevole del Consiglio comunale.
Ma si tratta comunque di una “possibilità”, non di un obbligo. La prova è che non è un provvedimento firmato dai tecnici ma di una delibera. «È così», dice Stefano Boato, urbanista ed ex assessore all’Urbanistica, «volendo quella norma può essere cambiata in due minuti. Fino al 1997 vincolava tutti gli immobili usati come residenza, non solo quelli affittati. Poi le cose sono cambiate, ma la possibilità di intervenire c’è ancora. È una scelta politica, e stiamo parlando del problema più importante per la città storica: fermare l’esodo degli abitanti. Lo diciamo a parole da anni, ma non si fa».