1. Introduzione
L’attesa riforma della legge urbanistica sembra essere tornata di attualità nel nostro Paese, in un clima di innovazione di pratiche, strumenti e dispositivi di legge che, da almeno un ventennio, hanno espresso un approccio molto debole nel mobilitare e rilanciare processi di sviluppo sociale ed economico su base territoriale e urbana.
Infatti, la proposta di legge Lupi si colloca entro una stagione molto attiva – sebbene non sempre fertile – di redazione di provvedimenti normativi di natura o con effetti urbanistici (consumo di suolo, riorganizzazione degli EE.LL. e istituzione delle città metropolitane, rigenerazione urbana, etc.).
Tuttavia, a fronte dell’ampio auspicio che la legge sul contenimento del consumo di suolo, la legge Delrio e la legge Urbanistica Nazionale (LUN) potessero costituire, in forma integrata, l’avvio di un generale e complessivo processo di riforma della disciplina del governo del territorio, attualmente sembra che le tre iniziative continuino a procedere separate, non solo nella procedura, ma soprattutto nei contenuti.
Naturale evoluzione e necessaria conseguenza di tali iniziative legislative dovrebbe quindi essere l’avvio di un processo di riforma della LUN, che, però, nella proposta di legge oggetto di queste note, si configura ancora come un tassello piuttosto che come la necessaria cornice di coerenza generale.
Pertanto, pur seguendo con molta attenzione la ripresa di un certo interesse istituzionale per l’urbanistica e il governo del territorio (anche per la possibilità di riallineare le diverse leggi regionali in un telaio normativo unitario), sembra che questa proposta di legge sia sbilanciata su aspetti tecnico procedurali piuttosto che sostantivi: su aspetti legati al regime di proprietà e alla fiscalità, con l’effetto di un trattamento debole e sfocato dei valori del territorio e dei contenuti propri di un progetto urbanistico che interessi il futuro del Paese, dei suoi territori e delle sue città.
In questo quadro, come Società Italiana degli Urbanisti (SIU), ci preme sottolineare la centralità della città e del territorio, stigmatizzando nell’attuale versione del disegno di legge l’assenza di alcune distinzioni (tra città grandi e piccole, ma anche tra capacità amministrative regionali1) e di alcuni problemi e valori caratterizzanti ciascun territorio a fronte di una supposta competenza nazionale a stabilire priorità e orientamenti.
Pertanto, la SIU si propone di collaborare attivamente alla definizione di proposte di miglioramento a
partire da critiche competenti, costruttive ed interagenti, immaginando e coordinando un processo di
confronto pubblico, di riflessione e di elaborazione, che vede la nostra ampia disponibilità a una
collaborazione istituzionale che consenta di far interagire e dialogare, su questi temi, le competenze e le professionalità dei docenti e dei ricercatori delle 30 strutture Universitarie e di Ricerca che aderiscono e trovano rappresentanza nella nostra Società Scientifica, con l’intenzione di mettere in rete ricerche specifiche sui diversi temi sollevati e di porre in evidenza le carenze o i temi che ci appaiono sottovalutati dalla proposta.
2. Punti chiave
La SIU ha sviluppato, negli anni, importanti riflessioni teoriche riferite al nuovo assetto degli strumenti di pianificazione e alle trasformazioni del territorio e della società italiana, che rendono possibile indicare alcuni punti chiave rilevanti che possono rappresentare i contenuti su cui la SIU potrà sviluppare un ruolo di affiancamento nella revisione dell’attuale testo di legge.
· Incrementare l’integrazione e l’intersettorialità tra piani, strumenti di gestione e pianificazione
urbanistica e territoriale, misure di conservazione, di tutela e di valorizzazione dei patrimoni storici e
paesaggistici, programmi infrastrutturali, piani e misure di salvaguardia ambientale e idrogeologica e di sicurezza del territorio nel Paese;
· Ripensare complessivamente la riforma urbanistica nazionale come sfida per una reale revisione delle responsabilità, dei protocolli e degli strumenti per un governo del territorio più intelligente, sostenibile e solidale ma, anche, capace di sostenere un efficace “federalismo urbanistico”, senza tentazioni vetero centraliste e senza derive regionaliste frammentarie.
· Invertire la scarsa rilevanza dei temi della vivibilità delle città, della qualità del paesaggio, della coesione delle aree interne, della sostenibilità ambientale e dell’efficienza energetica nell'agenda politica e sociale dell’Italia, rifiutando il “piano per le città” e prediligendo un “patto per le città” che produca maggiore innovazione dei processi e non solo l’accelerazione dei finanziamenti o degli investimenti. La qualità del territorio e del paesaggio e la conservazione dell’ambiente e delle energie devono essere la matrice di politiche attive di creazione di nuovo valore urbano. Serve un nuovo paradigma territoriale da “risorsa” a “patrimonio”, il quale passando dal valore di scambio al valore d’uso concorrerebbe alla messa a punto di una strumentazione e normazione urbanistica efficacemente orientate alla limitazione del consumo di suolo.
· Interpretare e sostenere i processi di metropolizzazione determinati dalle nuove condizioni
economiche e sociali che generano spinte a una “diversa crescita” della città e della popolazione
urbana in una rinnovata dimensione transcomunale cooperativa e non più semplicemente ancillare. Le
poche metropoli italiane e le tante “protometropoli” insieme agli “arcipelaghi urbani” pongono alla
pianificazione alcune sfide ineludibili: inquinamento e congestione prodotti dalla mobilità, compulsivo consumo di suolo, fragilità del patrimonio edilizio, dispersione energetica, mancanza di reticoli di spazio pubblico ed interruzione delle reti ecologiche; ed impongono di mutare radicalmente i contenuti principali della pianificazione urbana e territoriale e di innovare gli strumenti regolativi e progettuali.
1 Se si prova a contare quante nuove funzioni vengono demandate all’attività regionale sottoposta alla proposta di nuova normativa nazionale ci si chiede, inevitabilmente, se alle regioni resterà il tempo di fare altro…
· Internalizzare nei processi urbanistici i temi rilevanti per ridefinire il modello di sviluppo come l’urban recycle, in termini di riuso creativo della dismissione; il progetto di suolo non esclusivamente in termini di consumo; la smartness per la revisione dei cicli di acquaenergiarifiuti e per la gestione delle reti digitali e di mobilità verso una reale sostenibilità; l’urban retrofitting come modalità di intervento sulla città esistente non efficiente.
· Revisionare il rapporto pubblicoprivato verso una maggiore corresponsabilità e concorrenza verso lo
sviluppo sostenibile, mettendo a regime il rapporto tra regolazione e incentivazione, tra facilitazione e
redditività. In particolare decisiva sarà la sostenibilità delle risorse finanziarie per la “città pubblica”, per la realizzazione dei servizi, per la dotazione di pertinenze di qualità, per le infrastrutture di mobilità pubblica, per la qualità dello spazio pubblico, per l’incentivazione del social housing. A tal fine dovrà essere rivista la fiscalità locale e di scopo per l’incentivazione della pianificazione operativa, nonché dovrà essere innovata la fiscalizzazione generale della rendita, al fine di una sua più equa distribuzione sociale. Alle incentivazioni fiscali dovranno essere affiancate quelle autorizzative, gestionali e amministrative, le quali, intervenendo sul fattore tempo, possono concorrere alla agevolazione dell’investimento privato.
2.1 Paradigmi e ruoli del progetto urbanistico
Sembra indispensabile che vengano affrontate e trattate dalla proposta di legge alcune questioni che oggi appaiono centrali nel ridefinire paradigmi e ruoli del progetto urbanistico del territorio contemporaneo e delle politiche volte alla sua trasformazione.
Innanzitutto andrebbe declinato con maggiore chiarezza il tema della qualità urbana (del resto la proposta di riforma adotta lo slogan “le città vivibili”), focalizzando i temi cardine per una città vivibile, i criteri e i dispositivi che possono garantire qualità e vivibilità all’ambiente urbano. In relazione a questi temi è centrale la considerazione secondo cui attualmente i processi di trasformazione territoriale (come tutti i processi di produzione e consumo) generano scarti e rifiuti (aree dismesse, paesaggi abbandonati, drosscape, rifiuti e macerie) che hanno la necessità di essere ripensati all’interno di nuovi cicli di vita della città e del territorio; ciò reclama un nuovo progetto politico e culturale che sia in grado di assumere la centralità della nozione del riciclo estesa ai territori urbani e rurali, agli ambienti e ai paesaggi, al di fuori delle derive esteticoespressive o di una banalizzazione delle pratiche di recupero edilizio ed urbano intese settorialmente.
In questo quadro, appare evidente come il tema della fragilità geoambientale (tradizionalmente trattato in maniera settoriale) vada assunto, al contrario, in una prospettiva ecosistemica e vada considerato come progetto della città nel suo insieme. Si tratta di lavorare sulle relazioni e sulle connessioni che migliorano la resilienza urbana. Non è solo un problema di corretta ingegneria ambientale e strutturale. Anche tenendo presente che, soprattutto nelle aree interne del nostro Paese, il tema della sicurezza ambientale si associa a quello del rinnovo urbano e del rilancio socioeconomico di interi territori.
Così come, allo stesso tempo, appare necessaria una riflessione e un approfondimento sull’evoluzione e trasformazione: a) del concetto di sussidiarietà, presupposto ed esito di una condizione che ci vede
comunque dipendenti dagli indirizzi comunitari; b) dei nuovi lemmi e slittamenti semantici, derivanti per lo più da esperienze nazionali e internazionali anche avanzate (dibattiti pubblici2, housing sociale, dotazioni territoriali3, o procedure di evidenza pubblica) ma ricollocate entro modalità piuttosto tradizionali nei confronti degli interventi dei privati senza alcun apprendimento da pratiche negoziali confuse e, spesso, perdenti per il pubblico.
2.2 Questioni ineludibili
Di seguito si riporta una sintetica elencazione di alcune argomentazioni essenziali che non è possibile
eludere:
1) Sarebbe un arretramento che la materia del governo del territorio fosse ricondotta esclusivamente alla competenza dello Stato. Dovrebbe avvenire il contrario, ovvero, che sia di competenza delle Regioni,
2 Vedi art. 16 “da disciplinarsi con LR senza specificare che succede in assenza di riferimento nelle LR di competenza.
3 Positivo, invece, a questo proposito la declinazione di dotazioni territoriali essenziali al punto g) che sembrerebbe dare il via alla realizzazione, ad esempio di moschee/centri culturali, quando, come è noto già la 1444/68 non specifica che si debba trattare solo di “chiese”… riservando allo Stato la predisposizione di quadri di orientamenti normativi di riferimento per le legislazioni regionali. Così si potrà porre argine a ridondanti declinazioni locali nella DGT su cui le Regioni si sono banalmente esercitate, e lasciare alle specificità locali la responsabilità delle scelte concrete di assetto del territorio, unificate in appositi strumenti di pianificazione. Utile, in questa direzione, l’esperienza dei codici (edilizia, ambiente, beni culturali), dannosa la sovrapposizione e intersezione su medesimi ambiti spaziali di piani generali e settoriali, urbanistici e territoriali, di competenza di enti diversi (statali, regionali, provinciali e comunali).
2) La nuova DGT dovrà portare immediati benefici ed essere direttamente operativa nella prassi
pianificatoria, salvo le precisazioni che le Regioni potranno apportare; si dovranno prevedere poteri
sostitutivi per le Regioni inerti; dovrà essere condotta una capillare, anche se difficile, operazione di
abrogazione di norme preesistenti per evitare una impossibile gestione di qualsiasi innovazione innanzi alla giustizia amministrativa, civile e penale.
3) I nuovi atti di governo del territorio, mediante strumenti di pianificazione di diverso livello e
competenze, dovranno essere strettamente integrati alle politiche di bilancio degli enti locali e ne
dovranno costituire effettivamente il motore e l’elemento di verifica; la fiscalità locale deve essere alla base dell’intervento urbanistico, nel rapporto fra generazione di risorse finanziarie prelevate dal
territorio e redistribuzione delle stesse, attivando una nuova fiscalità urbanistica; in tale contesto, vanno chiariti e stabilizzati, nella prassi corrente, le modalità perequative e compensative quali modifiche al diritto di proprietà.
4) L’edilizia residenziale sociale va intesa quale dotazione territoriale, superando l’equivoco che
inizialmente l’ha equiparata agli standard tradizionali, in quanto deve costituire un’ulteriore dotazione, indicata dagli standard previsti dalle normative statali e regionali.
5) È necessario introdurre nella DGT il regolamento urbanistico edilizio comunale, come già le discipline regionali hanno provveduto a fare, chiarendone il ruolo di strumento di governo spaziale stabile e permanente, esteso all’intero territorio comunale.
6) I piani urbanistici attuativi devono rimanere uno strumento urbanistico unificato e di iniziativa pubblica, privata o mista; tali piani, inoltre, vanno approvati con rigore e trasparenza ma, anche, attraverso uno snellimento delle procedure, verificando anche possibili e controllati elementi di flessibilità rispetto alla pianificazione comunale generale.
7) La valutazione ambientale strategica deve diventare un momento di approfondimento tecnico e di
verifica e confronto sociale, integrato alla costruzione delle strategie di governo del territorio, puntando su trasparenza e partecipazione e dimostrando come tale strumento sia in grado di sostenere
l’individuazione di scelte e obiettivi, di verificare l’efficacia delle soluzioni, nonché delle progressive
implementazioni.
8) Le politiche urbane devono diventare azione corrente di governo del territorio da parte degli enti locali, indipendentemente dal sostegno finanziario statale e, solo in casi eccezionali, devono ricorrere a finanza derivata se non nei termini conclamati di insostenibilità dell’azione locale e con verifiche concrete di ritorno dell’intervento aggiuntivo, corredato da forme di penalizzazione expost.
9) Le forme di tutela del territorio e delle città, sia attiva che passiva, devono essere integrate nei cicli di sviluppo economico e sociale, e le politiche urbane le devono sostanziare con trasparenza e in termini di efficacia.
3. Interpretazione critica e proposte
La nuova proposta di legge redatta dal gruppo di lavoro “rinnovo urbano” facente capo alla segreteria
tecnica del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, pur proponendosi di fissare nuovi principi in
materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana con l’esplicito obiettivo di migliorare l’efficacia attuativa del piano, si concentra prevalentemente ed essenzialmente sulle modalità e sugli strumenti, con un’attenzione sbilanciata per gli aspetti procedurali legati al regime di proprietà e alla fiscalità. Per queste ragioni tale proposta appare oltremodo debole, se non addirittura “omissiva”, sugli aspetti urbanistici regolativi, progettuali e spaziali.
La proposta di legge contiene alcune intenzioni che ci paiono importanti e condivisibili, da mantenere con alcune precisazioni e miglioramenti:
si parla di rigenerazione, accogliendo implicitamente che l’idea di approvazione delle operazioni di
rinnovo funzionale e di rigenerazione urbana comporti “la dichiarazione di pubblica utilità delle opere e l’urgenza e indifferibilità dei lavori”;
si danno i contorni della perequazione e della trasferibilità dei diritti edificatori, pur senza tener conto
delle difficoltà che l’applicazione di tali principi ha riscontrato nelle regione dove sono stati previsti
dalle norme regionali;
si chiariscono gli oneri dovuti dalle trasformazioni e si fa riferimento al metodo del plusvalore, come
avviene in altri paese europei, si fornisce un importante chiarimento sulla fiscalità immobiliare, sebbene dettato da una eccessiva attenzione al regime della proprietà privata;
reinterpreta, seppur parzialmente, la materia degli standard urbanistici ponendo in evidenza la
necessità di procedere ad approcci e modalità di calcolo diversi da quelli tradizionalmente delineati
nell’ambito di una nuova idea di città in trasformazione;
si cerca di sciogliere alcuni importanti nodi riguardanti il regime dei suoli , il ruolo della proprietà
privata, la commerciabilità dei diritti edificatori, la perequazione, la fiscalità urbana che hanno la
possibilità di essere utilizzati come strumenti di efficacia del progetto urbanistico contemporaneo.
A questo livello di elaborazione, la proposta di legge appare prevalentemente finalizzata a trovare risorse per il settore immobiliare in crisi. Ma la soluzione ancora una volta sembra limitarsi ad agire esclusivamente sulla rendita fondiaria ed edilizia. La proposta, infatti, mira a rendere virtualmente edificabile l’intero territorio nazionale per rafforzare la rendita fondiaria attraverso l’istituzione di diritti edificatori trasferibili e utilizzabili tra aree di proprietà pubblica e privata, e liberamente commerciabili.
Non si tratta solo di una critica sul piano dell’etica, ma anche su quello altrettanto rilevante della pratica concreta: oggi la rendita fondiaria e immobiliare è esaurita, se non in dosi marginali, ed è, quindi, incapace di far ripartire il sistema generativo di valori urbani sui quali si regge la compartecipazione tra pubblico e privato. Servono nuovi valori, nuovi “capitali urbani”, come la rigenerazione paesaggistica e ambientale, la valorizzazione del patrimonio storico, la qualità, l’attrattività, la riattivazione manifatturiera, la produzione di energia, l’efficienza del metabolismo, etc.
3.1 Integrazione e contestualizzazione dei piani e dei progetti urbanistici
La proposta legislativa, nel tentativo di proporsi come “legge di principi”, sfugge ai contenuti legati ai valori spaziali, culturali e sociali del territorio, del paesaggio e dell’ambiente urbano; valori di cui oggi, la disciplina e la cultura internazionale, hanno piena consapevolezza maturata attraverso studi, ricerche e riflessioni ampie e interdisciplinari.
Questo slittamento dall’oggetto della pianificazione (le città, i territori produttivi e rurali, i paesaggi) alle procedure operative, genera alcune semplificazioni che non consentono ad alcuni temi importanti di andare oltre enunciati di principio.
Manca qualsiasi riferimento ai valori che definiscono l’identità dei contesti e dei territori urbani, dunque alle invarianti e alle condizionanti territoriali, alla valutazione ambientale strategica dei piani come costruzione di contenuti degli strumenti di pianificazione e non solo come mero congegno procedurale, al paesaggio come risorsa generatrice e al patrimonio culturale come attivatore di sviluppo, alla presenza resiliente dell’agricoltura urbana e alle identità urbano/rurali dei nostri centri interni, al contrasto al dissesto idrogeologico, alla mitigazione della fragilità del territorio e all’efficienza energetica degli insediamenti, sempre più oggetto attivo del progetto urbanistico.
Poco o nulla si dice sulle invarianti territoriali, sulle forme di integrazione degli strumenti di governo del territorio e della copianificazione, sul consumo di suolo nonché sui temi urgenti del dissesto idrogeologico e della vulnerabilità e fragilità del territorio, della tutela del paesaggio, della compatibilità ambientale dei piani nelle aree sismiche, dell’apporto recente delle conoscenze in campo informatico applicate al territorio al suo monitoraggio e alla sua rappresentazione con i prevedibili effetti di economia delle risorse, di maggiore trasparenza e di potenziale flessibilità delle scelte urbanistiche.
3.2 Debole considerazione dell’area vasta
La proposta appare complessivamente carente nella gestione della dimensione di area vasta, indispensabile per risolvere numerose criticità territoriali e per cogliere le opportunità offerte dalla nuova programmazione europea (si va verso le macroregioni per molte iniziative di sviluppo, soprattutto quelle con forte rilevanza infrastrutturale e insediativa). A fronte di questa evidente omissione della dimensione interscalare della pianificazione e, in particolare, di quella intermedia (da intendersi come la più efficace per orientare politiche policentriche e reticolari) la proposta introduce una Direttiva Quadro Territoriale (DQT), quinquennale e direttamente approvata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che riesuma in altra veste i piani infrastrutturali e le grandi opere della “legge obiettivo” o del “piano città”, subordinando il paesaggio al governo del territorio, non solo in contrasto col “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, ma anche con il dettato Costituzionale dell’art. 9.
Nel suo insieme, l’architettura istituzionale e normativa contenuta nella proposta non risolve e, talvolta, nemmeno affronta, il complesso sistema dei ruoli e delle competenze, esclusive o concorrenti, autonome o associate, nel rapporto tra lo Stato, le Regioni, le Province (in corso di profonda riforma), le Città Metropolitane (in corso di definizione) e i Comuni (paralizzati della profonda crisi della finanza pubblica), derivato dall’interazione o dall’interferenza tra il vigente Titolo V della Costituzione e le riforme in campo. In questo denunciando un mancato riconoscimento dei processi di trasformazione in atto in cui prendono forma inedite conurbazioni multiscalari e reticolari: unioni e intese tra formazioni insorgenti e spesso nuove che vedono l’interazione tra comuni, “metropoli piccole”, aggregazioni territoriali estese, “coalescenze territoriali”, “arcipelaghi urbani”, geocittà.
La proposta appare, in qualche modo, indifferente alla contemporanea riflessione politica e disciplinare, oltre che alla diffusa critica alla complessità e farraginosità dell’apparato pianificatorio urbanistico. Essa sembra riproporre il doppio livello del piano comunale strutturale e operativo (ormai acquisito dalle leggi urbanistiche regionali) attingendo a modelli forse efficaci ma, in parte, obsoleti e senza distinzione tra le conurbazioni metropolitane, le città medie e il reticolo di piccolissimi comuni che invece andrebbero incentivati verso forme di composizione comprensoriale.
A tal fine sarebbe necessario agevolare la predisposizione di “quadri di coerenza territoriale” capaci di individuare le potenziali scelte “invarianti” e “condizionanti” in grado di integrare ed orientare i successivi livelli di pianificazione.
3.4 Altre criticità
Infine, appare opportuno citare alcuni ulteriori elementi problematici:
- la mancata integrazione tra alcune politiche di settore (in particolare paesaggistiche e infrastrutturali) e politiche urbanistiche: questioni da sempre irrisolte che attengono alla separazione (culturale ed operativa) tra strumentazioni, competenze e giurisdizioni, che non sembrano chiarite, in termini di contenuti, ambiti di applicazione, cogenza e rapporto tra DQT, DQR, Piano Piani di Area Vasta, Piano Comunale, dagli artt. 5 e 7 a proposito del coordinamento delle politiche in materia di governo del territorio;
- la perdita di efficacia di alcune parte del d.m.1444/68 non sostituite né garantite dall’introduzione delle “dotazioni territoriali”;
- la determinazione del fabbisogno pregresso e futuro per le “dotazioni territoriali” a fronte di una oramai larga indifferenza al calcolo del fabbisogno nella definizione dello sviluppo urbano futuro e, quindi, lo scollamento tra fabbisogno abitativo e fabbisogno di dotazioni territoriali essenziali, ossia i vecchi standard minimi;
- il calcolo degli oneri di urbanizzazione rischia di rendere impraticabili alcune azioni di rigenerazione urbana, tenendo conto che, ad esempio, il 30% del plusvalore può essere eccessivo, soprattutto nel caso di recupero con bonifica delle aree;
- la definizione di zone urbanistiche “omogenee” – quando viene meno l’omogeneità degli usi da sostituire con una nuova mixité funzionale – appare anacronistica e smentita dalla totale liberalizzazione del cambio di destinazione d’uso in caso di non necessità di reperire ulteriori dotazioni di servizi;
- nel complesso la proposta di legge (in particolare all’art. 8, comma 3 e 4) sembra eccessivamente
sbilanciata a prestare il fianco a dispositivi di eccezione per garantire la salvaguardia del privato piuttosto che a mettere al centro la salvaguardia del pubblico, introducendo anche il rischio di aprire notevoli margini di contenzioso in sede di redazione degli strumenti di pianificazione comunale;
- l’assenza di riferimenti a forme di tutela risulta evidente in passaggi come quello del comma 2 dell’art. 16 laddove, a proposito di rinnovo urbano si fa riferimento ad esempio alla demolizione, ricostruzione e ristrutturazione urbanistica, che, in assenza di un quadro certo di tutele può divenire pericoloso.
In definitiva il testo della legge andrebbe opportunamente revisionato, tenendo in considerazione le
argomentazioni e i temi richiamati in precedenza, con l’obiettivo di attribuire una più ampia centralità al ruolo del progetto urbanistico come pratica amministrativa e politica in grado di costruire – in forma condivisa e concertata – scenari di futuro per i territori e le comunità locali, legati alle loro specifiche esigenze, alle loro potenzialità, alle condizioni di identità dei differenti contesti. Solo in subordine a questi principi e valori dovrebbe essere possibile innestare le articolazioni procedurali contenute nell’attuale proposta.
In tale direzione la SIU, in rappresentanza della cultura urbanistica e della ricerca universitaria e scientifica in Italia, si candida a contribuire all’individuazione e all’approfondimento di modifiche, chiarimenti e articolazioni della proposta di legge, affinché tale disciplina possa innovare con decisione le forme di governo e di progetto dei territori e delle città italiane, in termini di sviluppo e di vivibilità dello spazio urbano, di tutela e di valorizzazione delle identità locali, di sostegno dei processi di sviluppo e di rilancio delle attività economiche in chiave di sostenibilità.
Michelangelo Russo è Presidente della Società Italiana degli Urbanisti
Postilla
L’articolato presentato a luglio 2014 dal Gruppo di lavoro “Rinnovo urbano” del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sembra ispirato da una vera e propria furia iconoclasta (v. in particolare art. 6, c. 6) nei confronti della tradizione di strumenti e procedure consolidatesi tra il 1967 con la L. 765/67 (c.d. Legge Ponte) e conseguente D.M. n. 1444/68 ) e il 1977 con la L. 10/77 (“Norme per la edificabilità dei suoli”, c.d. Legge Bucalossi) e sembra invece porsi come obiettivo il ritorno istituzionalizzato al “libero” confronto negoziale tra proprietà fondiario-immobiliare e amministrazioni locali che, negli anni Cinquanta-Sessanta caratterizzò, anche dopo la fase di ricostruzione emergenziale delle distruzioni belliche, il periodo di renitenza da parte dei comuni a dare seguito al compito di indirizzo del processo urbanizzativo con modalità di valorizzazione economica compatibili con gli interessi pubblici e collettivi, compito loro attribuito dalla L.
n. 1150/42 (“Legge urbanistica”).
Non è, infatti, casuale che alle forme di partecipazione socialmente qualificata previste dal testo tuttora vigente della “Legge urbanistica” (art. 9, c. 2: «...possono presentare osservazioni le associazioni sindacali e gli altri enti pubblici ed istituzioni interessate».) o anche alla prassi instauratasi per estensione del disposto del c. 1 (nel periodo di pubblicazione dei piani urbanistici «chiunque ha facoltà di prenderne visione») per consentire a chiunque la facoltà di presentare osservazioni (e, tuttavia, la proprietà fondiario-immobiliare che usi di questa facoltà ha la necessità di rivestire la tutela del proprio interesse proprietario – giuridicamente tutelato dalla forma dell’opposizione - di qualche forma di cointeressenza pubblica se vuole sperare di trovare accoglimento) il testo proposto sostituisca la tutela pressoché esclusiva e preminente della partecipazione “proprietaria” (art. 1, sub i: «leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni e tra queste ultime e i privati nella definizione e attuazione degli strumenti di pianificazione»; art. 1 c. 4: «Ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale. Le procedure di pianificazione assicurano la partecipazione dei privati anche nell’esecuzione dei programmi territoriali senza dar luogo a sperequazioni tra le posizioni proprietarie»; art.7, c. 7: «7. Nell’ambito della formazione del piano operativo, i privati, singoli o associati, possono presentare proposte per operazioni di trasformazione urbanistica di maggiore complessità funzionale, gestionale ed economico – finanziaria. Le proposte, corredate da progetti di fattibilità, si intendono come preliminari di piani urbanistici attuativi»; art. 8, Tutela della proprietà ed indifferenza delle posizioni proprietarie, c. 1, 2, 3 e 4:
«3. I limiti alla proprietà privata, necessari alla programmazione territoriale, sono giustificati dagli obiettivi sociali della programmazione e realizzano una migliore accessibilità al diritto di proprietà
«4. Le limitazioni apposte alla proprietà privata che non hanno carattere generale e che non riguardano in generale una categoria di beni economici sono compensate. La compensazione rende indifferente le limitazioni»), mentre scompare del tutto la partecipazione socialmente connotata, del tutto equiparata a quella dei generici “privati”.
Altrettanto si potrebbe riflettere sull’opportunità di porre a carico dei Piani Attuativi (e forse, monetizzandole, anche a carico dei permessi di edificare diretti) le aree corrispondenti ai 15 mq/abitante per parchi pubblici urbani e territoriali, di cui all’art. 4 p. 5 del DM 1444/68, oggi disegnati nei Piani Regolatori e in gran parte inattuati e a vincoli decaduti, che sono spesso all’origine di fantasiose e per lo più inefficaci ipotesi di compensazioni perequative che si risolverebbero in aggravamento dei pesi insediativi sulle aree edificabili. Si porrebbero così limiti al consumo edificatorio del territorio ben più efficaci di qualunque limitazione imposta dall’esterno al processo urbanizzativo.
Anche il combinato disposto degli artt. 8 c. 2, art. 7 c. 2 e art. 9 del DM 1444/68 (è opportuno leggerli in questa sequenza per comprenderne bene il meccanismo) meriterebbe una più attenta valutazione alternativa alla brutale proposta di soppressione. Il senso di quegli articoli potrebbe esplicitarsi così : "Se un Piano Attuativo realizza interamente i propri spazi pubblici prescritti dallo strumento pianificatorio generale, esso può proporre un proprio modello insediativo caratterizzato da altezze, distanze tra edifici e densità fondiarie liberamente determinate dalla proposta di progetto; viceversa se gli spazi pubblici non vengono realizzati interamente all'interno del Piano (cioè in gran parte monetizzati o ceduti fuori comparto, e quindi si tratta - al di là della forma - un "non –piano attuativo", assimilabile ad un intervento a permesso edificatorio diretto) le altezze e le densità devono essere stabilite per analogia con quelle degli edifici dei tessuti urbani circostanti e preesistenti e la distanza tra gli edifici é prefissata per legge (ad es. pari all'altezza dell'edificio più alto) con un minimo assoluto". Che questo minimo debba essere quello di 10 m. come disposto dall’art. 9 p. 2 del DM 1444/68 (disposto che, voglio ricordarlo, ha superato indenne i numerosissimi ricorsi amministrativi che gli si sono rivolti contro) è questione che può anche essere discussa. Certo il ritorno alle disposizioni previste dal Codice civile (1,5 m. dal confine di proprietà, con la conseguente distanza minima tra pareti esterne di edifici di 3 metri), mi sembrerebbe segnare un ritorno a periodi oscuri (in tutti i sensi!), di cui non so se il Gruppo di lavoro intenda davvero e consapevolmente assumersi la responsabilità di proposta, implicita nell’abrogazione del DM medesimo.
Da ultimo la questione della fissazione di una dotazione minima di spazi pubblici a livello nazionale: i 18 mq/abitante (con l’abitante stimato a 30 mq s.l.p. o 100 mc lordi “salvo diversa dimostrazione”; art. 3, c.3) furono stabiliti empiricamente sulla base di esempi giudicati positivamente dal Gruppo di lavoro diretto da Martuscelli; gran parte delle legislazioni regionali susseguitesi tra il 1975 (Lombardia) e il 1999 (Basilicata) stabilirono maggiori dotazioni tra 24 e 28 mq/abitante. Per quanto la crisi economica morda ferocemente sembra difficile credere che regioni come Piemonte, Lombardia, Veneto che amano paragonarsi per reddito e qualità della vita alle regioni europee più sviluppate non ritengano più garantibile ai propri cittadini ciò che si riteneva perseguibile negli anni Settanta e l’intero Paese ciò che riteneva proponibile nel 1968. Ma, al di là del dato quantitativo, ritengo sia opportuno mantenere un livello minimo garantito a livello nazionale per evitare che si manifestino eccessive disparità di trattamento tra i cittadini del Paese. Anche in questo caso la brutale soppressione del DM farebbe venir meno quel minimo di garanzia, potendo dare origine a corse “al ribasso” con finalità di concorrenzialità economica e a danno della qualità insediativa.
Quanto alla proposta di inserire la dotazione di edilizia economico-popolare (o sociale come preferisce l’entourage di provenienza del ministro Lupi: non a caso la proposta è un’inveterata aspirazione di taluni ambienti politico-sociali lombardi) tra le aree a destinazione pubblica o di interesse pubblico: comunque anche in questo caso occorrerebbe stabilire una quota minima nazionale rispetto alle quantità edificatorie programmate dai piani operativi (il 40% come disposto dalle mai abrogate, ma totalmente disattese, L. 167/62 e 865/71? Altre diverse quote?) per evitare eccessive disparità e le aree destinate ad attuarle devono essere aggiuntive a quelle per i servizi pubblici di zona e generali di cui sopra.
PerUnaltracittà, 7 novembre 2014.
Per l’attuale governo, Firenze ha costituito un fruttuoso banco di prova. Dal punto di vista politico: autocrazia, deliberazioni d’urgenza (quella per la pedonalizzazione di piazza del Duomo è ora all’attenzione della Procura), annichilimento del consiglio comunale, rottamazioni senza ricostruzione, svuotamento di senso della città pubblica, finta partecipazione e vere privatizzazioni; in una continua, colpevole frammistione tra pubblico e privato. Dal punto di vista urbanistico, il ruolo di anticipatore zelante delle scelte politiche governative permane, come dimostra, solo per fare un esempio, il riciclo dell’attuale sindaco come intermediatore immobiliare alle fiere internazionali del real estate (Monaco di Baviera, ma a breve Cina e Mipim di Cannes): Nardella, infatti, si dedica non solo alla promozione (di per sé vergognosa e penosa) dei migliori immobili pubblici in disuso o in dismissione presenti sul territorio comunale, ma soprattutto di quelli privati. Sui 59 edifici promossi sul mercato della speculazione fondiaria sotto l’egida del comune di Firenze, ben 47 sono infatti privati. Nel disastro della desertificazione della città storica attuatasi anche grazie al decentramento di università, tribunale e uffici, non pareva sufficientemente destrutturante svendere il patrimonio pubblico, ora il pubblico si incarica di vendere quello privato agognando un investimento immobiliare estero dal potere taumaturgico.
E così, per l’occasione, è stato redatto il dossier “Florence city of the opportunities” scritto nell’inglesorum del primo ministro. Ma non basta: il dossier è scaricabile dal sito “invest in Tuscany”, vetrina immobiliare della Regione Toscana dove si trovano, fianco a fianco, offerte di fortezze medicee, «ecowellness resort» nella campagna toscana e lotti edificabili in area industriale.
Torniamo al caso Firenze. Tra i 59 immobili della “brochure” si trovano architetture di pregio: il secentesco convento dei Filippini, ex tribunale in piazza San Firenze; le Poste di Michelucci; il convento di Monte Oliveto e la rinascimentale villa di Rusciano, entrambi in collina; il palazzo Vivarelli Colonna, sede dell’assessorato alla cultura, in piena città storica. E il teatro Comunale, per il quale le brochures ad speculationem (comunale e regionale) presentano già un progetto avveniristico di mini grattacieli sul corso Italia. Per inciso, voglio ricordare che il 27 dicembre 2013 (nei giorni tra Natale e Capodanno!), la Cassa Depositi e Prestiti Spa (su cui torneremo) si è prodigata in un tempestivo regalo al rampante sindaco sulla via di Roma, comprando per 23 milioni di euro (dopo aste andate deserte) proprio il teatro Comunale che ora si tenta di rivendere. I 23 milioni vennero immediatamente utilizzati per chiudere il bilancio comunale, evitando che si sforasse il patto di stabilità (CDP è affidabile: il 28 dicembre i 23 milioni erano già nelle casse comunali).
Come il teatro Comunale, le altre aree in catalogo avrebbero importanza vitale nel progetto futuro per la città: la Manifattura Tabacchi (88.687 mq), proprietà Fintecna, è in vendita con un progetto adottato che prevede (contro il volere dei comitati) due torri alte 53 metri in deroga al regolamento edilizio; le ex-Officine grandi riparazioni (55.000 mq) alle spalle della Leopolda; i 19.000 mq della Cassa di Risparmio all’ombra della cupola del Brunelleschi. Più di duecentomila metri quadri, pubblici e privati, solo nella cerchia trecentesca e nelle aree immediatamente limitrofe.
Eppure, tra il mantenimento della proprietà pubblica e la sua svendita ai privati, esisterebbero soluzioni intermedie, ad esempio nel segno dei commons, da sostenere con scelte politiche mirate: ad esempio, riversandovi il denaro delle spese militari o delle inutili grandi opere. In tal modo gli edifici – ancora pubblici – potrebbero ospitare centri di quartiere, edilizia sociale (vera), scuole, sale per assemblee (così rare nella Firenze post-renziana). Invece, un’analisi dell’oscuro – e illeggibile – decreto 133/2014 detto “Sblocca-Italia”, ora legge, evidenzia che l’«asse Firenze-Roma» (sul quale lugubremente puntava il programma elettorale nardelliano) è attivo e diretto verso ben altri lidi.
Ad esempio, l’art. 26 (Misure urgenti per la valorizzazione degli immobili demaniali inutilizzati) introduce modifiche sostanziali all’accordo di programma, che – ricordo – è una convenzione tra enti pubblici per la realizzazione di opere, la cui approvazione «comporta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle [...] opere» medesime (corsivo nostro, dl 267/2000, TU sugli ordinamenti degli enti locali, art. 34, c. 6). Ora, all’accordo di programma riguardante gli immobili demaniali inutilizzati, lo Sblocca Italia attribuisce anche valore di variante urbanistica (in modo da saltare le fasi di adozione, osservazioni, approvazione, etc., erodendo ulteriormente gli spazi di democrazia comunale). Su questi immobili il comune presenta un progetto di recupero, «anche attraverso il cambio di destinazione d’uso», al ministero cui è attribuito in uso il bene; è inutile dirlo: il progetto potrà derivare anche da privati «a seguito di ricerca di mercato». Sulla base della variante urbanistica così realizzata – in deroga alle leggi (perché di pubblica utilità) – l’agenzia del demanio procede all’alienazione. Ne deriva che uno strumento eminentemente pubblico, volto all’interesse generale, la dichiarazione di “pubblica utilità”, è impiegato per la speculazione privata.
A questo punto il cerchio si chiude: il comma 8 prevede infatti l’attribuzione di quota parte dei proventi derivanti dalle valorizzazioni/alienazioni degli immobili, proprio a quegli enti territoriali che hanno contribuito alla conclusione del procedimento. Dunque – nel nostro caso – al comune di Firenze e alla Regione Toscana spetterà una percentuale sulla vendita degli immobili in brochure, come agli agenti immobiliari, nel segno della regressione civile.
Ma c’è di più: a intorbidire le acque, l’art. 10 trasforma la Cassa Depositi e Prestiti estendendone il campo d’azione come ente promotore di iniziative private (ancorché «nei settori di interesse generale»), campo non più limitato a quelle pubbliche che in tal modo vengono rigettate in pasto al mercato (il tema è stato trattato esaurientemente da Luca Martinelli).
Ricordiamo come già il Piano strutturale fiorentino aveva posto nel sovrammondo della pianificazione le aree strategiche (Manifattura tabacchi, Panificio militare etc.), estrapolandole – con determina del sindaco – dalla normale gestione urbanistica e proiettandole su un binario preferenziale di deroghe, varianti e pubblico avviso. E come l’approvando Regolamento urbanistico richiami, nella forma e nella sostanza, le dette brochures.
Lo Sblocca Italia – all’insegna di urgenza e pubblica utilità, facendo leva sul mercato immobiliare, sul cemento e sulla rendita, in una fase storica in cui i valori degli immobili sono crollati, e in cui il finanzcapitalismo ha eliminato le merci dal ciclo di accumulazione – sottrae definitivamente all’autodeterminazione delle comunità locali, le aree inutilizzate o in via di dismissione, in specie quelle militari, così estese nelle città italiane il cui futuro disegno, fisico e sociale, proprio su quelle aree potrebbe far leva.
I metodi adottati sono improntati, da una parte, al neoliberismo (o paleoberlusconismo, come si legge nel Rottama Italia), ossia: deroghe, stralci, defiscalizzazione, sconti, esenzioni, silenzio-assenso. Dall’altra alla neoautocrazia (o paleofascismo): ad esempio nella generosa previsione di commissari straordinari (i “commissari straordinari per la rigenerazione urbana” previsti dall’art. 33 rammentano gli sventramenti di regime). Commissari che – L’Aquila insegna – corrispondono al trasferimento della potestà in materia urbanistica dall’ente locale direttamente al governo. Quando si dice potere esecutivo.
Intervento svolto a un incontro sul tema "Sblocca Italia, o il grande appetito", organizzato dal Laboratorio politico perUnaltracittà. Firenze, 7 novembre 2014
Con l’introduzione del concetto di “governo del territorio” ci si sarebbe dovuti aspettare un progetto di legge in grado di riunificare e riordinare le molte discipline che oggi incidono sugli usi del suolo e sulle trasformazioni territoriali, individuando le strette connessioni ed interazioni ad esempio esistenti tra l’urbanistica, la pianificazione paesaggistica, la tutela dei beni storici e culturali, la salvaguardia idrogeologica, la protezione della natura e degli ecosistemi, la normativa antisismica, la tutela della salute, il benessere ed i diritti degli abitanti. Discipline semplicemente richiamate ma non coordinate ed integrate nel disegno di legge, che affronta unicamente i temi dell’uso del suolo a fini urbanistici e dell’edilizia, in netto contrasto con gli indirizzi e le direttive della Comunità europea che pongono al centro del governo del territorio i principi dello sviluppo sostenibile, della lotta ai cambiamenti climatici, della partecipazione dei cittadini e che quindi preliminarmente richiederebbero - come osserva Paolo Urbani, docente di Diritto Urbanistico all’Università di Roma - la definizione delle “invarianti territoriali” derivanti «… da una lettura sistematica degli equilibri sostenibili del territorio che delimiti a monte le condizioni complesse ed interrelate di trasformazione degli usi del territorio in rapporto alla sostenibilità degli usi dei beni pubblici quali l’acqua, l’aria, il suolo, la natura» (P. Urbani, 2005)
E’ d’altra parte lo stesso concetto di “territorio” sotteso dal disegno di legge sembra far unicamente riferimento alle sole realtà urbanizzate (o da urbanizzare), ignorando completamente la realtà dei sempre più diffusi arcipelaghi metropolitani, di un territorio rurale disseminato di capannoni e villettopoli, della assoluta e prioritaria necessità di contrastare la dispersione insediativa ed il consumo di suolo, non solo salvaguardando le residue oasi naturalistiche bensì anche promuovendo - compatibilmente con la tutela del paesaggio - le attività agricole nel territorio aperto ed all’interno stesso del territorio urbanizzato.
Ciò premesso non si può non osservare come larga parte dei principi e delle disposizioni del disegno di legge anziché proporre un aggiornamento ed un superamento in positivo della legislazione urbanistica vigente, ne scardinano alcuni dei presupposti fondamentali con prevedibili devastanti effetti su di un territorio ed un paesaggio già martirizzati. Proviamo ad analizzarne i principali.
1. In numerosi punti del disegno legislativo si attribuisce alla proprietà immobiliare un ruolo predominante nell’elaborazione dei piani urbanistici. Il comma 4° dell’articolo 1 stabilisce che «… ai proprietari degli immobili è riconosciuto, nei procedimenti di pianificazione, il diritto di iniziativa e di partecipazione, anche al fine di garantire il valore della proprietà conformemente ai contenuti della programmazione territoriale». L’intero articolo 8 è dedicato alla “tutela della proprietà”, stabilendo che «… il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza ed il suo godimento» e che «… i proprietari hanno il diritto di partecipare alla determinazione dei contenuti della programmazione territoriale». Per contro assolutamente nulla si dice sul diritto dei cittadini a partecipare all’elaborazione dei piani e dei programmi di trasformazione urbana nonché sugli strumenti atti a garantire detto diritto.
Il testo proposto capovolge uno dei principi fondamentali della tradizione legislativa italiana ed europea, ovvero il principio della titolarità pubblica delle pianificazione del territorio. Certo si può sostenere che, pur spalancando le porte all’iniziativa ed alla partecipazione della proprietà immobiliare ai procedimenti di pianificazione, l’adozione ed approvazione dei piani spetta comunque in ultima istanza alla pubblica amministrazione. Ma, come scrive Luca De Lucia docente di Diritto amministrativo all’Università di Salerno, non è difficile comprendere che «… i processi regolativi e di elaborazione delle politiche pubbliche, specie allorquando intercettano interessi economici forti (quali sono indubbiamente quelli connessi alla rendita immobiliare), necessitano di strumenti giuridici ed istituzionali che mantengano l’amministrazione pubblica esente, per quanto possibile, da interferenze e condizionamenti indebiti, consentendole di assumere decisioni e di eseguirle autonomamente dal consenso dei privati interessi» (L. De Lucia, 2005).
Tanto più forte sarà il potere condizionante dei proprietari privati se, come previsto dall’articolo 10 del disegno di legge Lupi, fosse consentita - sull’esempio di quanto già avviene a Milano - la possibilità di estendere la “perequazione” a tutte le aree di trasformazione urbanistica (quella che Roberto Camagni ha efficacemente denominato come “perequazione sconfinata”), attribuendo ai proprietari privati dei “diritti edificatori” spendibili in altre aree urbane e liberamente commerciabili (art. 12, Trasferibilità e commercializzazione dei diritti edificatori), il che consentirebbe alle società immobiliari di farne incetta e di concentrarli su aree in loro disponibilità nelle quali richiedere al Comune l’adozione di appositi strumenti attuativi anche in variante alle previsioni di piano (vedi articolo 14, Accordi urbanistici).
2. L’articolo 6 del disegno di legge Lupi di fatto propone l’eliminazione degli standard urbanistici introdotti dal Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444: una conquista delle lotte popolari di quegli anni volta ad assicurare in tutte le realtà locali quantità minime di servizi collettivi. Certo sono passati gli anni: i territori si sono profondamente trasformati e sono mutate le esigenze degli abitanti. Molto spesso gli standard, espressi in mq/abitante ed incrementati dalle leggi regionali successivamente intervenute, sono rimasti disegnati negli elaborati di piano e non si sono tradotti in servizi reali a causa di miopi gestioni amministrative o di oggettive difficoltà di bilancio dei Comuni. Ma sono sufficienti queste considerazioni per proporne tout court l’eliminazione e la sostituzione con non meglio precisate “dotazioni territoriali essenziali”, i cui livelli quantitativi e qualitativi andranno definiti in una futuribile Conferenza Stato Regioni?
Giustamente Alberto Magnaghi dell’Ateneo fiorentino e Anna Marson, assessore alla Pianificazione territoriale della Regione Toscana, sostengono che, lungi dall’essere eliminabili, gli standard urbanistici «… vanno al contrario arricchiti in molteplici direzioni che esplorino il passaggio dalla quantità alla qualità, all’equità, alla bellezza, all’inclusione». Una legge che pretende di definire i nuovi principi del “governo del territorio” dovrebbe dunque non semplicemente rinviare il problema a futuri provvedimenti di incerta formulazione, bensì stabilire precisi indirizzi e criteri unitari, esplicitando sotto quali aspetti integrare gli standard urbanistici attuali, ad esempio:
- verificandone la validità in una visione urbanistica e territoriale tendente all’integrazione delle funzioni ed al superamento dello zoning;
- modulandone i contenuti in relazione ai diversi contesti sociali e morfologici ed alle reti ecologiche esistenti nel territorio, anche al fine di contribuire alla salvaguardia e riproduzione dei fondamentali cicli ecologici ed alla lotta ai cambiamenti climatici (riduzione delle emissioni inquinanti e mitigazione degli effetti sui microclimi locali);
- coordinandoli con gli indicatori elaborati dalla Comunità europea e dall’ICLEI (sostenibilità ambientale, accessibilità ai servizi, salute, qualità paesaggistica…), anche al fine di consentire il monitoraggio degli effetti reali conseguiti da un punto di vista ambientale ed in relazione al benessere degli abitanti.
Alle problematiche degli standard urbanistici si deve necessariamente associare la questione degli oneri di urbanizzazione e della fiscalità immobiliare, ovvero di come i Comuni possano reperire le risorse atte a garantire la effettiva realizzazione delle opere pubbliche e dei servizi e quindi una adeguata qualità del vivere e dell’abitare.
Le trasformazioni urbane generano, anche per effetto delle reti infrastrutturali realizzate dagli enti pubblici, enormi plusvalori (rendite fondiarie) che nel nostro paese - contrariamente a quanto avviene in altri paesi europei - vanno a quasi totale beneficio dei privati. Dalle analisi comparative condotte da Roberto Camagni e da Maria Cristina Gibelli del Politecnico di Milano, risulta che dalla sola tassazione locale delle trasformazioni urbane in Germania l’Amministrazione pubblica ottiene da 4 a 6 volte di più di quanto non ottengano le nostre amministrazioni: risorse reinvestite per la realizzazione di opere e servizi di pubblica utilità.
Il conseguimento di una più equa ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalla trasformazione delle città è dunque una delle questioni centrali da affrontare nell’ambito di una riforma urbanistica. Come afferma Camagni «… vi è nel nostro paese ampio spazio per un aumento sostanzioso della parte di plusvalore che può restare nelle mani del partner pubblico, da realizzare attraverso aumenti degli oneri di urbanizzazione, che oggi spesso non coprono nemmeno i costi delle infrastrutture direttamente al servizio delle nuove costruzioni, e/o attraverso extra-oneri da concordare col partner privato in presenza di importanti progetti di trasformazione» (R. Camagni, 2013).
In questa direzione sembrava andare un articolo della prima stesura del disegno di legge Lupi (era l’articolo 14) che prevedeva, “a fronte di rilevanti valorizzazioni immobiliari generate dallo strumento urbanistico generale”, un contributo straordinario nella misura massima del 66 per cento, in funzione del maggior valore immobiliare conseguibile, da destinare appunto alla realizzazione di opere pubbliche o di interesse generale. Un articolo che - certo non casualmente - è stato soppresso nella versione definitiva del disegno di legge presentato il 24 luglio scorso.
3. L’articolo 7 affronta (almeno nel titolo) i temi della pianificazione comunale e della pianificazione d’area vasta. Per quanto concerne la scala comunale il disegno di legge si limita di fatto a recepire quanto già disciplinato da gran parte delle leggi urbanistiche regionali ovvero l’articolazione del piano regolatore generale in un piano di carattere programmatorio non avente efficacia conformativa della proprietà (normalmente definito Piano strutturale) da tradurre in una fase successiva in un piano di carattere operativo (nel quale, si ribadisce, possono essere accolte le proposte ed i progetti di programmi complessi presentati dai privati). Ciò che stupisce è che al piano strutturale venga attribuita esclusivamente una “efficacia conoscitiva e ricognitiva”, rendendolo di fatto ininfluente ai fini pratici delle gestione del territorio e delle salvaguardie ambientali, e comunque tale da poter essere completamente disatteso e stravolto dal piano operativo, che è poi quello in cui - come ricordato - maggiormente si può far sentire il peso degli interessi particolari. Non è difficile comprendere come tutto ciò prefiguri una “nuova” concezione dell’urbanistica, nella quale «… progetti e programmi pubblici e privati non sono tenuti a uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, è il piano regolatore che si deve adeguare ai progetti, diventando una specie di catasto dove si registrano le trasformazioni edilizie contrattate e concordate». (Vezio De Lucia, 2005).
Per altro verso appare sconcertante osservare quanto poco credito sia attribuito dal disegno di legge Lupi alla pianificazione d’area vasta. Al comma 9 dell’articolo 7 ci si limita infatti a richiedere che le Regioni incentivino «la pianificazione urbanistica intercomunale con l’approvazione di piani urbanistici che si estendono al territorio di più comuni», ma non si fornisce alcuna indicazione ed alcuno strumento per conseguire detto obiettivo.
Non si può a tal proposito non sottolineare come, in presenza di diffusi fenomeni di sprawl urbano che hanno generato sempre più estese conurbazioni metropolitane, sia oggi divenuto prioritario ed essenziale individuare e rendere obbligatoria l’adozione di nuovi più efficaci strumenti di piano a scala comprensoriale, superando la dimensione localistica dei piani regolatori comunali. E’ soprattutto a scala comprensoriale, in una visione policentrica degli insediamenti urbani e attraverso il potenziamento delle infrastrutture di trasporto collettivo, che si può realisticamente immaginare di porre un freno al consumo di suolo, con un equo e razionale decentramento dei principali servizi territoriali e con una valutazione condivisa dei reali fabbisogni abitativi in grado di evitare il sovradimensionamento dei piani dei singoli comuni. Ed è a questa scala che si possono ripensare città e campagna quali elementi costituenti un unico organismo unitario caratterizzato da una fitta rete di corridoi ecologici, da sistemi agricoli più sostenibili e da un proprio metabolismo che dovrà divenire sempre più di tipo circolare anziché lineare.
4. L’articolo 18 definisce l’edilizia residenziale sociale quale standard aggiuntivo nell’elaborazione dei piani: un servizio che può essere erogato sia da operatori pubblici che privati attraverso l’offerta di alloggi in locazione od il sostegno all’accesso alla proprietà della casa, «… perseguendo l’integrazione delle diverse fasce sociali, che potrà essere favorita dalla presenza di un equilibrato mix di funzioni». Una definizione condivisibile, che però non fa i conti con la drammatica realtà del nostro paese. In Italia l’edilizia popolare (quella che il disegno di legge Lupi definisce come ERPS - Edilizia Residenziale Pubblica Sociale) raggiunge a stento una percentuale del 4 per cento sul totale delle abitazioni, a fronte di una media comunitaria del 20 per cento (36 per cento in Olanda, 22 per cento in Gran Bretagna). Oltre 700.000 sono le domande inevase di case pubbliche, mentre si valuta che il fabbisogno di alloggi in affitto a canone sociale o calmierato (non superiore al 25 - 30 per cento del reddito familiare) coinvolga circa tre milioni di famiglie.
Il social housing, attualmente realizzato dai privati anche con agevolazioni pubbliche (ed a cui il disegno di legge, oltre alla riduzione o esonero dal contributo di costruzione, consentirebbe di usufruire del “permesso di costruire in deroga”), non risulta in grado di intercettare questa domanda. Dalle stime effettuate da Federcasa risulta infatti che il costo medio degli affitti realizzati dal social housing dei privati si aggira intorno agli 800 euro mensili, il che - come osserva Salvatore Lo Balbo della Sindacato edili della CGIL - equivale ad un reddito mensile complessivo di almeno 2600 euro, «… palesemente non accessibile ai lavoratori dipendenti, agli studenti, ai disoccupati, ai pensionati o alle false partite IVA» (S. Lo Balbo, 2014).
Tutto ciò dimostra come sia impossibile pensare di risolvere il problema abitativo, riguardante prevalentemente categorie di lavoratori a basso reddito, con la semplice incentivazione dei meccanismi di mercato e pone il problema, che affronteremo più estesamente nel punto successivo, della necessità di un rinnovato e consistente intervento pubblico nel settore dell’edilizia residenziale (eventualmente anche dando una diversa destinazione e finalizzazione a molti dei fondi già stanziati quali: gli oltre due miliardi previsti per l’edilizia sociale privata del Fondo Investimenti per l’Abitare, istituito nell’ottobre 2009 con il contributo della Cassa Depositi e Prestiti, del Ministero delle Infrastrutture e di diversi gruppi bancari ed assicurativi; gli 800 milioni del Piano Nazionale di Edilizia Abitativa di cui al Dpcm 16 luglio 2009; il miliardo e mezzo di fondi cosiddetti ex-Gescal a disposizione delle Regioni dal 2011; i fondi dei Programmi europei 2014-2020).
5. Il Titolo II ed in particolare l’articolo 16 del disegno di legge Lupi affronta il tema del “Rinnovo urbano” finalizzato alla «rifunzionalizzazione, valorizzazione e recupero del patrimonio e del tessuto esistente, delle periferie, delle aree dismesse e per il ripristino ambientale e paesaggistico delle aree degradate»: un tema ovviamente centrale se si vuole vincere la battaglia contro ogni ulteriore consumo di suolo, imponendo il drastico ridimensionamento delle abnormi previsioni di nuove espansioni urbane contenute nella quasi totalità dei piani regolatori comunali vigenti.
Una prima osservazione di merito riguarda il concetto stesso di “Rinnovo urbano”, troppo spesso nel passato associato ad operazioni di pura speculazione edilizia, altamente impattanti nei confronti della storia dei luoghi, del tessuto sociale preesistente, del paesaggio e dell’ambiente. Si dovrebbe, a nostro avviso, più correttamente utilizzare il concetto di “Rigenerazione urbana” od ancor meglio di “Rigenerazione urbana sostenibile”, promuovendo l’elaborazione e l’attuazione di programmi unitari, costruiti e gestiti in forma partecipata dalle comunità locali, in grado di integrare l’urbanistica e l’edilizia con politiche settoriali di diversa natura, quali quelle riguardanti il sistema della mobilità, la multifunzionalità e l’accessibilità ai servizi a scala urbana, il risparmio energetico e l’utilizzo di fonti rinnovabili, le connessioni ecologiche, nonché la riduzione delle emissioni inquinanti e la mitigazione degli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto, favorendo il benessere degli abitanti e l’inclusione sociale. Programmi e progetti coerenti con le strategie definite a monte dagli strumenti della pianificazione urbana e territoriale e non frutto di scelte estemporanee o dettate da interessi particolari quali quelle consentite ed in una certa misura incoraggiate dal comma 7 dell’articolo 16 del disegno di legge Lupi nel quale si stabilisce che «… le operazioni di rinnovo urbano possono essere realizzate anche in assenza di pianificazione operativa o in difformità della stessa, previo accordo urbanistico tra Comune e privati interessati alle operazioni».
In realtà la logica che sembra sottendere tutto l’articolato della legge Lupi, anche sul fronte del “Rinnovo urbano”, appare ancora una volta essere quella che per consentire la ripresa di un mercato dell’edilizia da anni in profonda crisi sia necessario e sufficiente eliminare ogni ulteriore laccio e lacciolo all’iniziativa privata. Al pubblico spetterebbe fondamentalmente solo un ruolo di incentivazione e di sostegno all’iniziativa privata, attraverso la riduzione degli oneri, agevolazioni fiscali, premialità volumetriche ed una sburocratizzazione dei procedimenti e dei controlli. Sembra del tutto sfuggire, a chi ha redatto il testo di legge, la reale natura della crisi attuale derivata proprio da un eccesso di fiducia nelle virtù taumaturgiche di un mercato privo di regole e da un un progressivo depotenziamento delle strutture di governance e delle capacità manageriali della pubblica amministrazione.
E’ in realtà difficile immaginare di poter uscire dalla crisi ed avviare una ripresa economica nel nostro paese utilizzando le stesse ricette che hanno generato la situazione attuale. In un interessante e documentato studio di recente pubblicazione (Lo stato innovatore) Mariana Mazzucato, docente di innovazione economica presso l’Università del Sussex in Gran Bretagna, osserva come i paesi europei più duramente colpiti dalla crisi siano quelli che hanno registrato minori investimenti pubblici in aree fondamentali per la crescita economica quali quelle della formazione del capitale umano, dell’adattamento alle nuove tecnologie, della ricerca e dello sviluppo e come anche negli Stati Uniti - considerati la nazione anti-statalista per eccellenza - il successo delle aziende più innovative in campo informatico e farmaceutico non vi sarebbe stato se non fosse stato preceduto da ingenti investimenti guidati dal settore pubblico. Solo il pubblico infatti può disporre di capitali “pazienti” in grado di sostenere investimenti strategici (mission-oriented) di lungo periodo in aree nuove e ad alto rischio d’insuccesso, non stimolati da una convenienza spicciola, ma dalla percezione di opportunità future: investimenti che possono orientare ed attrarre anche operatori e capitali privati, in un rapporto pubblico/privato di tipo simbiotico e non parassitario (evitando la socializzazione dei rischi e la privatizzazione dei guadagni e quindi garantendo anche al pubblico un congruo “profitto”).
Ma per avviare con successo un nuovo processo di crescita economica, sostiene sempre Mariana Mazzucato, non sono sufficienti gli investimenti pubblici “intelligenti”, serve anche una nuova visione del settore pubblico: un settore pubblico che non solo sostenga l’innovazione, ma che sia anche “innovativo al suo interno”, sviluppando competenze e spirito imprenditoriale, attirando individui di talento, evitando la frammentazione dei progetti e concentrando gli interventi nei settori strategici prioritari.
Mariana Mazzucato indica tra i settori in cui prioritariamente lo stato dovrebbe investire quelli della ricerca di base, delle nano-tecnologie, dell’informatica, dell’energia e delle tecnologie pulite. Non è però difficile cogliere le possibili analogie delle riflessioni della Mazzucato con le problematiche connesse all’avvio e alla realizzazione di complessi programmi di rigenerazione urbana. Anche in questo caso appare del tutto illusorio immaginare che vi siano - nell’attuale situazione di recessione ed in presenza di un elevatissimo stock di immobili invenduti sia di tipo residenziale che non residenziale - operatori privati disposti ad investire ingenti capitali in progetti dai tempi e dagli esiti incerti ed ancor più in progetti fortemente innovativi nell’uso delle risorse energetiche, delle tecnologie costruttive e dei materiali, in grado di riqualificare e rigenerare parti significative dell’organismo urbano coniugando gli aspetti edilizi con quelli sociali ed urbanistici. Anche in questo caso alla base del processo vi deve essere, da parte di una pubblica amministrazione rinnovata al proprio interno, la capacità di elaborare una chiara visione strategica delle trasformazioni urbane necessarie, un piano condiviso e regole precise, a cui devono corrispondere una adeguata programmazione delle risorse finanziarie pubbliche e private da impegnare e l’attivazione di efficienti strutture di progettazione e di gestione.
E’ questa, tra le altre, una delle ragioni di fondo che ci fa dubitare del fatto che abbia oggi un senso sprecare tempo e risorse intellettuali attorno ad un dibattito per molti aspetti puramente ideologico su di un progetto di legge che avrebbe la pretesa di definire nuovi fondamentali principi e nuove norme per l’urbanistica ed il “governo del territorio”, ma che in realtà si presenta come un incoerente insieme di norme arretrate dal punto di vista della cultura urbanistica e delle direttive comunitarie europee ed arretrate persino rispetto a molte delle leggi urbanistiche approvate in anni recenti dalle Regioni: norme che non forniscono alcun concreto strumento per uscire dall’attuale situazione di emergenza ambientale, economica e sociale.
Se realmente si vogliono affrontare le tematiche di un governo sostenibile del territorio, dello stop al consumo di suolo e della rigenerazione urbana, un buon punto di partenza può invece essere quello indicato dalla Conferenza nazionale degli Ordini degli Architetti tenutasi a Padova nello scorso mese di maggio, che in un documento di sintesi ha recepito e fatto propri i risultati di una serie di giornate seminariali di studio organizzate dalla Fondazione Barbara Cappochin a cui hanno partecipato alcuni dei principali protagonisti dei più interessanti interventi di rigenerazione urbana realizzati nel corso degli ultimi quindici anni in Svezia, Danimarca, Finlandia, Germania, Francia e Italia (si veda la pubblicazione Eco-quartieri: Strategie e tecniche di rigenerazione urbana in Europa, Marsilio editore).
Il documento, predisposto dal Comitato scientifico organizzatore degli incontri seminariali ed approvato dalla Conferenza degli Ordini degli architetti, parte dalla considerazione che per avviare politiche di rigenerazione urbana all’altezza dei tempi, in grado di promuovere una nuova stagione di interventi finalizzati all’inclusione sociale, alla riqualificazione ecologica ed ambientale degli spazi urbani e dei territori metropolitani, alla mobilità sostenibile, alla messa in sicurezza ed alla riabilitazione energetica del patrimonio edilizio, in una fase quale quella attuate caratterizzata da stagnazione e declino economico, appare assolutamente necessario rilanciare gli investimenti pubblici concentrando le risorse nelle situazioni di maggior disagio, rimettere quanto prima ordine nella caotica sovrapposizione di norme e provvedimenti oggi in vigore, ma soprattutto deve essere definito un quadro legislativo di riferimento chiaro nelle finalità, che offra strumenti giuridici adeguati a superare gli ostacoli determinati dall’attuale frammentazione della proprietà immobiliare e che strategicamente garantisca un flusso costante di finanziamenti, da attribuirsi secondo criteri trasparenti e con precise priorità, necessari ad innescare programmi nei quali - con la regia degli enti locali - convergano risorse sia pubbliche che private.
Una disciplina organica che consenta di superare l’attuale governo frammentario e settoriale delle politiche urbane, integrando i diversi aspetti sociali, economici ed ambientali che devono caratterizzare uno sviluppo realmente sostenibile.
Un quadro legislativo che, sull’esempio della Francia, definisca chiaramente le competenze dei diversi organi istituzionali ed i rapporti di collaborazione che devono intercorrere tra settori e livelli dell’amministrazione pubblica, nella convinzione che - pur nel rispetto delle autonomie locali - sia oggi necessario dar vita ad una agenzia nazionale, articolata a livello regionale, di supporto tecnico e di verifica per l’attuazione nei tempi programmati degli interventi di rigenerazione urbana.
Sulla base di dette considerazioni il documento approvato dalla Conferenza nazionale degli Ordini degli Architetti ritiene urgente la predisposizione di una legge di programmazione per molti aspetti analoga a quella che fu la legge n. 457/1978, anche se certo oggi l’accento va posto su problematiche più complesse rispetto a quella allora centrale del fabbisogno abitativo. Una legge che concentrando e razionalizzando l’uso delle risorse finanziarie pubbliche per interventi fortemente innovativi in ambito urbano, sia in grado di fungere da volano per una più generale ripresa degli investimenti privati e delle attività economiche nel nostro paese.
Un Programma pluriennale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile in Italia
Una nuova legge di programmazione dovrebbe in primo luogo definire le finalità dei programmi di rigenerazione urbana, favorendo l’integrazione delle politiche settoriali promosse dai diversi ministeri e dalle Regioni ed il coordinamento delle risorse finanziarie messe a disposizione dallo stato con quelle della programmazione comunitaria europea. Tra le finalità generali un aspetto oggi centrale è senza dubbio costituito dalla necessità di evitare ogni ulteriore consumo di suolo, attraverso una coerente pianificazione urbana e territoriale che privilegi il recupero statico, energetico, funzionale ed architettonico del patrimonio edilizio esistente, che salvaguardi il territorio rurale e le attività agricole anche in ambito urbano e che localizzi preferenzialmente gli interventi in prossimità delle reti del trasporto collettivo.
I programmi di rigenerazione urbana predisposti dai Comuni, o dalle associazioni di più Comuni, per poter essere ammessi a finanziamento dovranno dunque risultare parte integrante di una più ampia visione dello sviluppo della città e del contesto territoriale, di un più generale progetto di miglioramento della qualità della vita dei cittadini e di riconversione ecologica dell’organismo urbano, che tenda alla chiusura dei cicli naturali relativi all’energia, all’acqua, all’alimentazione, alla riduzione del consumo di materie prime e dell’inquinamento, alla raccolta differenziata ed al riciclo dei rifiuti, alla lotta ai cambiamenti climatici ed alla mitigazione dei loro effetti (resilienza urbana). Dovrà quindi essere dimostrata la coerenza tra i programmi riguardanti specifici quartieri ed aree urbane e gli strumenti della pianificazione urbanistica, con una attenta valutazione delle ricadute sociali ed ambientali in ambiti territoriali più estesi.
In particolare, poi, i programmi di rigenerazione urbana dovranno essere caratterizzati da una elevata qualità degli spazi pubblici e dei servizi progettati e da una accentuata mixitè funzionale e sociale, integrando all’interno dello stesso quartiere residenza, attività lavorative, servizi sociali e commerciali e prevedendo una quota minima di edilizia sociale con caratteristiche spazialmente e tipologicamente non discriminanti al fine di evitare la segregazione territoriale e sociale. Parte integrante dei programmi saranno altresì le azioni ed i provvedimenti specificamente finalizzati allo sviluppo di nuove economie e di nuova occupazione, alla sicurezza sociale ed al superamento delle disuguaglianze sociali, garantendo a tutti gli abitanti l’accesso ai fondamentali diritti di cittadinanza. Essenziale a questo fine è anche promuovere e rendere istituzionale la partecipazione attiva degli abitanti alla progettazione e gestione dei programmi d’intervento (Forum di quartiere ai quali andranno attribuiti poteri effettivi di indirizzo e di controllo e di cui siano assicurate l’autonomia ed indipendenza di fronte ai poteri pubblici). Con la partecipazione degli abitanti sarà d’altra parte possibile conservare la memoria storica e l’identità dei quartieri valorizzandone il patrimonio di relazioni sociali formatesi nel corso degli anni.
Nella valutazione e selezione dei programmi ne andranno inoltre considerati gli aspetti più innovativi e sperimentali, di tipo tecnologico, tipologico, sociale e procedurale, precisandone le modalità di monitoraggio e verifica dei risultati ed evidenziandone la riproducibilità in contesti diversi e l’utilità ai fini dell’aggiornamento legislativo e normativo nazionale e regionale.
Per quanto concerne la ridefinizione delle competenze, fermo restando che i programmi dovranno essere predisposti e presentati dalle amministrazioni locali e che la titolarità e responsabilità degli stessi dovrà essere dei Sindaci o delle associazioni di Comuni, è fondamentale che a livello governativo vi sia chiarezza su quale Ministero debba assumersi la responsabilità di un Coordinamento Interministeriale per le Politiche Urbane, vera e propria cabina di regia in grado di tradurre in provvedimenti operativi i programmi pluriennali e le linee di indirizzo di volta in volta definite. Una cabina di regia che dovrà definire i criteri sociali, demografici, economici e ambientali da utilizzarsi per l’individuazione a scala nazionale dei quartieri e delle aree urbane su cui prioritariamente intervenire e nei quali prioritariamente concentrare le risorse finanziarie gestite dai diversi Ministeri competenti per specifiche politiche di settore (Infrastrutture e trasporti, Ambiente, Economia e Finanze, Sviluppo Economico, Istruzione, Università e Ricerca, Lavoro e Politiche Sociali). Al Coordinamento Interministeriale spetterà inoltre la definizione del quadro di riferimento e degli indirizzi generali dei Contratti di Rigenerazione Urbana, di durata non superiore al quinquennio, da sottoscrivere con gli enti locali, nonché dei criteri atti a verificare la coerenza dei progetti presentati dagli enti locali con le finalità generali del Programma nazionale.
Per superare i tradizionali vincoli burocratici delle nostre amministrazioni e rendere più snelle le procedure è d’altra parte auspicabile che, sull’esempio della Francia, venga costituita una apposita Agenzia Nazionale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile, finalizzata a collaborare con il Comitato Interministeriale per la selezione a livello nazionale e regionale dei siti in cui intervenire (con incentivi e speciali misure premiali per le associazioni di Comuni), a fornire alle comunità locali il supporto tecnico ed operativo necessario per la progettazione e realizzazione degli interventi, a definire gli impegni finanziari dei diversi partner pubblici e privati garantendo la disponibilità dei finanziamenti in tempi certi. Tra i compiti dell’Agenzia vi dovranno anche essere quelli di contribuire alla formazione delle equipe incaricate di implementare gli aspetti sociali ed economici degli interventi e di attivare i processi partecipativi, nonché di monitorare, verificare e certificare la qualità dei progetti sulla base di appositi indicatori ed il rispetto della tempistica.
Nell’ambito della legge di programmazione andranno definiti nuovi, più efficaci strumenti giuridici in grado di consentire interventi estesi a comparti urbani caratterizzati - come spesso avviene - da una situazione proprietaria frazionata ed andranno precisati condizioni e parametri di riferimento atti ad assicurare l’effettivo interesse pubblico nelle relazioni tra enti pubblici, banche e società private e/o nella costituzione di società miste pubblico-private finalizzate alla progettazione e realizzazione di interventi di trasformazione urbana (criteri di di selezione degli operatori privati, regole perequative e compensative…).
Infine, oltre ad indicare le risorse finanziarie del bilancio statale e dei programmi comunitari europei utilizzabili per l’attuazione del programma pluriennale, riteniamo sarebbe importante che la legge favorisse la promozione di nuovi strumenti finanziari in grado di attirare gli investimenti privati (fondo di rotazione, raccolte obbligazionarie di scopo, fondo di solidarietà per la realizzazione di alloggi sociali, forme di micro-credito…).
E’ di questa legge di programmazione (congiuntamente ad una legge che affronti seriamente il tema del consumo di suolo) che il nostro paese ha urgente bisogno, piuttosto che di una pasticciata ed approssimativa legge urbanistica che peggiora la legislazione esistente. Tanto più in considerazione del fatto che il disegno di legge Lupi rinvia ad una futura Direttiva Quadro Territoriale (denominata DQT) la definizione degli “obiettivi strategici di programmazione dell’azione statale” e la definizione degli strumenti e degli “indirizzi di coordinamento” tra lo stato, le regioni e gli enti locali, che pure dovrebbero costituire elemento essenziale del provvedimento legislativo. Una Direttiva per la cui stesura si prevede una delega in bianco al Governo sottraendone la competenza al Parlamento.
3 settembre 2014
Sergio Lironi è Presidente onorario di Legambiente Padova
Il credito di cui l’INU ancora gode grazie alla sua storia ottuagenaria e al suo status di “ente morale” rende necessario esprimere le ragioni per le quali riteniamo negativa non solo la sua sostanziale adesione al progetto Lupi nella sua forma renziana, ma anche la fuorviante argomentazione che svolge nel documento. Significativa, quest'ultima, delle pratiche adoperate dagli intellettuali quando vogliono fare da cuscinetto tra il potere e la società.
L’incipit del documento dell’INU è già di per sé illuminante: si esprime «apprezzamento per il tentativo di promuovere finalmente l’approvazione di una legge quadro sul governo del territorio». Una lode senza se e senza ma al disegno di legge, il quale costituirebbe il positivo esito di un «ventennio di riforme proposte dall’INU». Che oggi l’INU sottolinei questa continuità e se ne attribuisca il merito non meraviglia chi, come noi, ricorda il ruolo che l’INU svolse nel lubrificare il cammino della legge Lupi degli anni di Berlusconi. In estrema sintesi l’odierno documento dell’INU riduce la sua critica a segnalare che vi sono «alcuni elementi critici»: c’è insomma qualcosa che non va, ma si può aggiustare.
I tre capoversi conclusivi sono i più interessanti per una riflessione sul ruolo che l’INU ha assunto nel processo di assoggettamento dell’Italia all’egemonia del neoliberismo. Essi, se letti con attenzione critica, sono esemplari di una funzione tipica degli intellettuali, qualora vogliano aiutare un determinato gruppo di potere in lotta per la conquista dell’egemonia, tentando di rendere vane le parole d’ordine dei gruppi antagonisti neutralizzandole e/o inglobandole. Gramsci li avrebbe definiti «pugilatori a pagamento».
Vogliamo riportarli per intero:
«Da una riforma realmente innovativa l'Inu si aspetta la valorizzazione della componente ambientale e urbanistica, piuttosto che quella strettamente edilizia, promuovendo tattiche di rigenerazione urbana fondate sui "beni comuni". Al contrario la rigenerazione urbana, per come è concepita nel ddl, rinvia alla semplice operazione di demolizione e ricostruzione di fabbricati e infrastrutture. La procedura è descritta come intervento in cui lo Stato ha mero ruolo di regolazione delle forze di mercato, mentre è esclusa la funzione di promotore e partner, come investitore o realizzatore di programmi a finalità sociale o di aiuto alle imprese. In altri termini, non si configura come politica urbana. Sulla stessa falsariga, la proposta di legge per contrastare il consumo di suolo appare sbilanciata sui soli aspetti quantitativi, sia in termini assoluti che in termini di una raffinata articolazione in classi qualitative di suoli, che però distoglie dalla questione centrale del progetto urbanistico, ovvero dalla necessità di ridurre il suolo impermeabilizzato».
L'INU – prosegue il documento -«rilancia e offre una definizione di rigenerazione urbana generalizzata, che comprende la produzione di ricchezza pubblica e privata, le strategie dell'adattamento climatico, le politiche di inclusione sociale, le azioni di messa in sicurezza dei territori e l'innovazione della produttività d'impresa, gli interventi dell'infrastrutturazione fisica e quelle della rete immateriale a sostegno dello sviluppo, del lavoro e della creatività urbana. Una definizione che comprenda anche l'inclusione di validi strumenti per la prevenzione del rischio idrogeologico, strumenti che nel ddl mancano».
Conclude infine il documento:
«L'Inu ritiene che una base su cui impostare questo cambiamento nel ddl ci sia, ed è la volontà manifestata dal testo di integrare la materia urbanistica e quella fiscale, che merita apprezzamento. I nuovi atti di governo del territorio dovranno essere strettamente integrati nelle politiche di bilancio degli enti locali e ne dovranno costituire effettivamente il motore e l'elemento di verifica. La fiscalità immobiliare è centrale per la possibilità di dare attuazione alle politiche urbane di rigenerazione diffusa, tramite interventi che possono beneficiare di sgravi fiscali, differenziando la fiscalità afferente alle operazioni di rigenerazione rispetto a quelle che consumano nuovo territorio».
Insomma, basta qualche aggiustamento retorico nelle parole d’ordine della proposta Lupi lasciandone immutati i contenuti sostanziali: l’ulteriore rafforzamento dell‘appropriazione privata della rendita immobiliare, il primato della valorizzazione economica sul benessere sociale, la generalizzazione della contrattazione pubblico/privato (quindi, nella situazione di fatto, della prevalenza del secondo) nelle scelte sull’uso del suolo, l’abbandono della riserva di una determinata quantità pro capite di spazi pubblici (standard urbanistici), la sostituzione della ”inclusione” (nuovi recinti?) alla ”equità” (diritto alla città), la riduzione delle garanzie del controllo tecnico-amministrativo pubblico (“sburocratizzazione”).
Ci sembra che non ci sia nulla da aggiungere.
che l’INU ha assunto nel processo di assoggettamento dell’Italia all’egemonia del finanzcapitalismo.
Premesse
Nell’esprimere apprezzamento per il tentativo di promuovere finalmente l’approvazione di una legge quadro sul governo del territorio - attesa da numerosi decenni, di seguito vengono svolte alcune considerazioni. In generale, nel disegno di legge (ddl) in materia di governo del territorio, si riconosce l’esito di un ventennio di riforme, promosso dall’INU (Congresso di Bologna, 1995). Il ddl fornisce alle Regioni la opportuna “copertura”, relativamente a questioni come la perequazione urbanistica, la compensazione, la scomposizione del piano in componenti strutturali e operative.
Nel merito del portato del ddl, però, si ravvisano elementi critici, sia di sostanza che di forma. Si deve rilevare che, al di là dei titoli (Titolo I: Principi fondamentali in materia di governo del territorio, propriet‡ immobiliare e accordi pubblico privato”, Titolo II “Politiche urbane, edilizia sociale e semplificazione in materia edilizia”) e della finalità generale (la legge intende occuparsi dell’intero territorio che “in tutte le sue componenti, costituisce bene comune, unitario e indivisibile”), mancano i contenuti fondamentali per il governo di tutte le componenti del territorio: insediamenti e infrastrutture, paesaggio e beni architettonici, aree agricole, aree naturali da tutelare, assetto idrogeologico e prevenzione da eventi sismici. Il ddl enuncia principi giuridici generali (sussidiarietà,
adeguatezza, differenziazione, consensualità, partecipazione, proporzionalità, concorrenza, leale collaborazione, semplificazione e non aggravamento dei procedimenti) ma affronta prevalentemente il tema dei diritti edificatori e il ruolo della proprietà privata degli immobili.
Si deve anche rilevare che la possibilità di costruzione in deroga ai Piani, di modificare le destinazioni d'uso, di trasferire immobili in altra area senza specificare che essa debba avere destinazione “conforme”, oltre alla discrezionalità data a premialità e compensazioni, renderebbe la
pianificazione un atto quasi superfluo, ma utile alla commercializzazione dei metri cubi individuati nei Piani. Conviene, inoltre, prestare attenzione alle disposizioni che possono farsi rientrare tra quelle concernenti la disciplina della proprietà fondiaria o tra le norme di frontiera tra la disciplina stessa e la disciplina relativa al governo del territorio, nonché ad alcune disposizioni aventi ad oggetto la conformazione edificatoria mediante l’esercizio delle funzioni di pianificazione. A tal proposito si rileva che l’esigenza di assicurare “il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata la sua appartenenza e il suo godimento” (art. 8) risulta indispensabile in applicazione di principi costituzionali relativi alla proprietà stessa, che comunque, però, ne affermano la “funzione sociale”.
Inoltre, deve essere considerata una più chiara affermazione del principio secondo cui l’edificabilità discende dai piani e solo dagli stessi. Infine, ma non ultima per rilievo, vi è la verifica di allineamento con la riforma proposta del Titolo V della Costituzione. Appare opportuno considerare che, in un futuro più o meno prossimo, potrebbe intervenire l’approvazione definitiva della riforma del Titolo V della Costituzione e con essa una modifica dell’art. 117 della Costituzione in forza della quale non si avrebbero pi˘ materie di competenza legislativa concorrente e rientrerebbe tra le competenze legislative statali la materia “norme generali sull’urbanistica”. Ci si chiede quale sorte potrebbe avere il progetto di legge in considerazione se, a monte della sua approvazione, prima da parte del Consiglio dei Ministri e poi da parte del Parlamento, intervenissero l’approvazione definitiva e l’entrata in vigore della suddetta riforma del titolo V della Costituzione.
A tal proposito è da evidenziare che non risulta chiara la distinzione tra “principi fondamentali”, la cui approvazione, per le materie di competenza concorrente di cui all’attuale comma terzo dell’art. 117, solo compete (rectius dovrebbe competere) oggi allo Stato, e le materie indicate nel suddetto progetto di riforma del Titolo V, come “norme generali sull’urbanistica” etc. Il progetto in considerazione non contiene, peraltro, solo principi fondamentali relativi alla materia “governo del territorio” (che, se va in porto la suddetta riforma del Titolo V della Costituzione, ridiventerebbe la materia “urbanistica”). Come gi‡ la lettura del primo titolo del progetto suggerisce di far rilevare, esso contiene anche principi fondamentali “in materia di … proprietà immobiliare e accordi pubblico privato”. Anzi si riscontrano nello stesso anche principi fondamentali e norme relative ad altre materie:
- norme rientranti nella disciplina della proprietà fondiaria appartenenti alla materia “ordinamento civile”,
- norme riconducibili alla materia, avente contorni non ben definiti, di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) ovverosia la materia “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”
- alcune norme da assumere come norme relative oppure relative anche alla tutela dell’ambiente.
L’occasione offerta dalla considerazione del progetto ministeriale Ë da cogliere per indicare un’omissione di principi border line tra l’urbanistica e l’ambiente, relativi alla valutazione ambientale strategica di piani. In particolare sorprende l’esclusione del principio di sostenibilità dal novero dei principi per l’esercizio delle funzioni di pianificazione indicati nel terzo comma dell’art. 2. Forse, però, è stato (erroneamente) ritenuto sufficiente il cenno allo “sviluppo economico sostenibile” contenuto nel comma precedente.
In sostanza, l’INU è convinto che ormai non serva affinare un modello e che per l’urbanistica contemporanea, utile alle citt‡ del futuro, occorra cambiare strumenti per gestire i processi. I temi rilevanti del dibattito contemporaneo sulle condizioni urbane sono la cura nell’uso delle risorse, da salvaguardare e da mobilitare, un’etica dei beni comuni, una rigenerata efficienza a base degli stili di vita, la creazione delle condizioni di convivenza in spazi diversamente percepiti e vissuti, una concreta risposta alle tensioni verso felicità e sicurezza.
Si deve notare, invece, una prevalenza assorbente della componente edilizia nel testo. Il ddl si intitola “Principi in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”; si articola in due titoli, di cui il primo suddiviso in tre capi. Di questi il II e III capo del Titolo I e, di fatto, tutti e 5 gli articoli del Titolo II (in tutto: 13 articoli su 20) sono dedicati a garantire la proprietà e l’iniziativa privata, dentro i procedimenti di formazione dei piani, ma anche fuori (v. art 16 comma 7, che consente gli interventi di rinnovo urbano in assenza di strumenti operativi ) e persino “contro”: è facile prevedere gli effetti paralizzanti sull’iniziativa pubblica che possono infatti derivare dall’applicazione dell’art. 12 (trasferibilità e commercializzazione dei diritti edificatori, con indennizzo da parte del Comune in caso di loro limitazione).
D’altra parte, anche nella I parte della legge, gli interessi della rendita sono esplicitamente e legittimamente riconosciuti come parte in causa nei procedimenti di pianificazione (art. 1 comma 4). Lo sbilanciamento porta anche a una distorsione di strumenti che potrebbero rivelarsi utili, come la
concorsualità nella messa in opera delle scelte di pianificazione, con l’integrazione dei valori collettivi (efficienza ambientale, salvaguardia dei paesaggi) nel conto economico. Ci si riferisce agli artt. 1 e 7, che sanciscono il diritto del privato a partecipare alla elaborazione degli strumenti di
pianificazione urbanistica sia generali che operativi; all'articolo 8 relativo all'obbligatoria compensazione di limiti posti alla proprietà privata, di cui si è già detto; all'articolo 12 che impone il risarcimento al privato, in caso di variante al Piano, dei mancati guadagni dei cosiddetti “diritti edificatori”, che il Comune stesso ha gratuitamente elargito attraverso una destinazione urbanistica (con premialità, compensazioni, perequazioni) e che deve pagare risarcendo un presunto mancato guadagno.
Quanto alle politiche pubbliche territoriali, il loro compito, secondo la legge, è graduare gli “interessi in base ai quali possono essere regolati gli assetti ottimali del territorio e gli usi ammissibili degli immobili” (art. 3) con gli obiettivi di favorire “la crescita inclusiva, lo sviluppo economico sostenibile e la coesione sociale e territoriale” (art 2 comma 2) e assicurare “il razionale uso del suolo” (comma 4). Tutto qui. La restante parte del Titolo I è dedicata a rinominare gli atti e i documenti di programmazione e pianificazione ai vari livelli amministrativi, senza precisarne i contenuti, e ad elencare le “dotazione territoriali essenziali” che le Regioni dovranno determinare caso per caso nella prospettiva dell’eliminazione degli standard urbanistici unificati per tutto il territorio nazionale di cui al DM 1444/1968. Nel contesto di una nuova scrittura della legge urbanistica, la definizione degli obiettivi che si intendono raggiungere non è mera formalità, quanto il campo principale del confronto e sul quale misurare l’efficacia della legge stessa.
Questo aspetto non emerge dal testo di legge se non marginalmente o per negativo: occupandosi sostanzialmente di edilizia e trascurando tutti gli aspetti di carattere ambientale, paesaggistico, sociale ed economico, il disegno di governo del territorio che ne esce Ë un progetto di regolazione dell’attività di trasformazione delle aree edificate o edificabili. Con un’attenzione particolare alla tutela della proprietà privata alla quale viene garantito il coinvolgimento nella formazione del piano e la tutela dei diritti mettendo in secondo piano la partecipazione più ampia nello spirito del territorio come bene comune, che la legge richiama senza però chiarire cosa si intenda con questa definizione. Da questo punto di vista si tratta di un testo di legge che nasce già superato dai fatti, dal mercato edilizio, dall’agenda degli enti e dalla visione europea delle città e dei territori.
E’ indispensabile procedere a una semplificazione legislativa e alla definizione di Codici nazionali (urbanistica, edilizia, ambiente, paesaggio), per promuovere più progetto e meno procedura.
Il territorio come bene comune
Serve anche in Italia un principio amministrativo del genere del principio francese dell’unitarietà dello Stato fra i diversi livelli, o del principio tedesco della Allmitgliedschaft (appartenenza di tutti al medesimo organismo), che comporta il concorso di tutti al perseguimento degli obiettivi pubblici. Occorre la contestuale assunzione di un modello di pianificazione basato sulla assunzione di obiettivi e fondato sul principio di coerenza, che diviene il principio in base al quale operare il contemperamento di interessi differenziati, pubblici e privati.
Coordinamento delle riforme, geografie istituzionali e territoriali
Il processo di riforma appena avviato presenta qualche speranza di successo maggiore delle iniziative precedenti non tanto e non solo perché nasce sotto gli auspici del Governo, ma anche perché si inquadra nel programma di riordino istituzionale che prevede la costruzione delle città metropolitane, la riorganizzazione delle provincie e le unioni dei comuni. Dunque, sono in corso riforme; esse vanno correlate, non sono scindibili nè possono evitare di considerare il Paese reale.
L’area vasta rappresenta l’ambito dove sono fallite le politiche e le pratiche urbanistiche. L’area vasta, che deve emergere dal riordino istituzionale incrociato con la riforma urbanistica, deve disegnare perimetri capaci di una visione strategica producendo quadri di riferimento condivisi e superando un approccio piramidale delle decisioni assumendo le decisioni sociali ed ambientali come le risorse della pianificazione territoriale. Nel dibattito in corso è data molta rilevanza alla città metropolitana, che, correttamente, a seguito dell’attuazione della Legge Delrio, sta assumendo un ruolo strategico nella programmazione territoriale. Tale ruolo è anche motivato dal rilievo che la stessa sta assumendo nella programmazione dei Fondi comunitari 2014-2020. Accanto ad essa viene rilevato il ruolo delle province e le mutate funzioni da esse assunte, nonchè le competenze delle unioni di comuni. In questa logica, se da un lato viene riconosciuta la natura fortemente policentrica del territorio italiano, dall’altro sembra essere stata abbandonata qualsiasi riflessione sulle città cosiddette medie, capoluogo di provincia o poli di innovazione e di sviluppo, riconosciute tali in quanto centri di offerta di servizi e con un forte ruolo funzionale e strategico.
In conclusione:
- lo Stato produca pochi e incisivi codici legislativi e agende nazionali, distribuisca risorse per rendere efficaci politiche pubbliche di ammodernamento, con un linguaggio universale, a servizio di uguali diritti su tutto il territorio nazionale (infrastrutture, standard, ambiente, paesaggio, fiscalità),
- la Regione unisca programmazione di spesa e programmazione territoriale, garantendo, tramite politiche pubbliche (cioè dotate di risorse), l’integrazione degli interventi altrimenti settoriali (la
sicurezza dei suoli, la valorizzazione dei patrimoni culturali, le reti naturalistiche, la formazione giovanile e il sostegno al lavoro che possano appoggiarsi al capitale territoriale).
- le Città metropolitane e le Unioni dei Comuni si occupino di strategie territoriali perequate (equilibrio insediativo e risposta alla domanda abitativa, assetti produttivi urbani e rurali, trasporto pubblico e mobilità),
- le Municipalità producano progetti di città, riorganizzando i luoghi urbani e rendendo efficiente uno stock urbanistico ed edilizio vecchio, figlio delle rendite (che comprende sia le parti di città nate come sommatoria delle zone B che quelle mal organizzate dai piani attuativi che avevano per oggetto le zone C), che è la risorsa più preziosa su cui investire. Si dovrebbe qui riaprire anche il capitolo città storica, della quale nessuno parla, come se la resistenza naturale che offrono gli spazi storicamente consolidati fosse garanzia della loro corretta manutenzione (basta vedere cosa sono oggi i centri storici per convenire che non è vero).
Politiche integrate: ambiente e resilienza, prevenzione e sicurezza
Il ddl lascia inalterata l’attesa di una legge di governo del territorio che contenga i principi di partecipazione, di contenimento del consumo di suolo, di mitigazione e gestione dei rischi, che richiami con forza strategie adattive e di resilienza. Il contenuto ambientale della futura pianificazione urbanistica è il grande assente nella legge, sia nel titolo I sui principi, sia nel titolo II dove si accenna genericamente ad una generica necessità di “sostenibilitò economica, sociale e ambientale” degli interventi (impropriamente definiti di “rinnovo”). Riteniamo fondamentali questioni legate al nuovo metabolismo urbano, alle strategie adattive in epoca di cambiamenti climatici, centrali in una legge di principi (assieme ai temi dell’accessibilità e dell’inclusione sociale), perchè impegnano di fatto lo Stato a coordinare intenti e risorse adeguate a questi obiettivi nelle diverse sedi legislative e di programmazione (programmi comunitari, agenda urbana, politiche per la citt‡, risanamento ambientale ecc.).
Nei suoi principi e nei suoi obiettivi lo Stato deve pretendere dalla pianificazione urbanistica a tutte le scale uno spazio adeguato per connotare le strategie e le tattiche di rigenerazione urbana fondate sui “beni comuni”, valorizzando la dimensione urbanistica (e non solo edilizia) della questione ambientale e uscendo dalla settorialità in cui è spesso relegata nelle azioni di governo. La carenza delle componenti ambientali appare non solo poco rispondente alle finalità di un rinnovato processo di pianificazione e di una risanata e continuativa azione di governo pubblico delle trasformazioni territoriali, ma anche distante dalle aspettative delle cittadinanze.
Manca anche la fondamentale attenzione ai temi della contabilità ambientale delle risorse, delle tutele e delle infrastrutture verdi. Nelle infrastrutture si considerano solamente quelle di comunicazione, non quelle energetiche ed ambientali. Inoltre, si nota che l’oggetto del governo del territorio si focalizza sul suolo, ignorando la tridimensionalit‡ dell’urbanistica e sottovalutando i beni culturali ed ambientali (aria/atmosfera, acqua, sottosuolo) già oggetto di molte leggi regionali e delle pratiche di progettazione urbanistica (sottoservizi: fognature, impianti a rete per energia, telecomunicazioni). Il ddl non valorizza gli strumenti del governo del territorio per la prevenzione dei rischi, esigenza ormai imprescindibile: i livelli di danni frequentemente verificatisi negli ultimi tempi nel territorio Italiano sono infatti determinati dalle negative interazioni tra pericoli naturali ed antropici, caratteristiche spaziali ed organizzative dei sistemi urbani e territoriali, caratteristiche dei manufatti componenti i sistemi. Il rischio è sensibile ai modi in cui il governo del territorio stabilisce obiettivi di sviluppo, uso del suolo, soddisfazione delle esigenze abitative, rinnovo e riqualificazione del patrimonio urbano ed edilizio. Occorrerebbe declinare, pur succintamente ma pi˘ chiaramente, la sostenibilità, esplicitando che essa include la prevenzione dei rischi e cioè che conformazione, controllo e gestione del territorio, attraverso la mitigazione degli effetti delle calamità e la riduzione preventiva dei rischi (= entità dei danni), tendono alla tutela di popolazione, ambiente, dotazioni territoriali, patrimonio infrastrutturale e in genere qualità urbana dai pericoli naturali ed antropici, nel rispetto dei valori paesaggistici e dei beni culturali.
Politiche di rete
Si deve constatare la mancata considerazione dell’ammodernamento del Paese tramite politiche di rete e infrastrutturazione. Riguardo ai compiti e alle funzioni dello Stato (art. 3), si nota che esse si riferiscono a politiche generali in materia di tutela ambientale, del paesaggio, dello sviluppo economico, sociale, di rinnovo urbano, ma non contemplano quelle in materia di infrastrutture e trasporti. Si ritiene, invece, che esse siano strategiche nell’assicurare accessibilit‡, coesione e inclusione sociale. Inoltre, nell’indicare forme di coordinamento con le Regioni per l’attuazione delle politiche nazionali, non sono previste adeguate forme di consultazione dei territori, necessarie per prevenire e affrontare al meglio alcuni gravi fenomeni tuttora in atto in vari contesti (Nimby, No corridoio, ecc.).
Processo di pianificazione, strumenti, forma del piano
Si può pertanto affermare che il nuovo sistema di pianificazione dovrà perseguire in generale gli obiettivi di evitare la formazione di piani a cascata e duplicazioni di contenuti, semplificare il processo di formazione degli strumenti e costruire riferimenti certi. Anche la cogenza é questione da ripensare. Il piano deve produrre esito. Il rinvio di efficacia dalla pianificazione strutturale all’urbanistica operativa ha permesso la continua riproposizione del piano regolatore tradizionale. L’attesa dello strumento che conforma il diritto d’uso del suolo ha indebolito il livello adeguato per la realizzazione delle reti e il governo dei flussi utili ai cicli dell’efficienza ambientale delle città e agli equilibri insediativi. Un livello che non è confinabile nei limiti amministrativi comunali.
Sulle parti del ddl relative alla disciplina della pianificazione urbanistica comunale, in primo luogo Ë da esprimere apprezzamento per la previsione di un’articolazione della pianificazione urbanistica comunale in un piano strutturale e in un piano operativo, ma non si concorda con la sua applicazione al livello comunale. Si ritiene inoltre preferibile non solo evidenziare, quanto alla parte c.d. ricognitiva, l’importanza da riconoscere ai quadri conoscitivi, ma chiarire anche che con la pianificazione strutturale, oltre al recepimento di tutti i vincoli ricognitivi di valore morfologici ed altri valori intrinsechi e di particolari situazioni ontologiche previsti da leggi e da piani di settore, deve intervenire l’individuazione (in sede di conformazione del territorio) di altri valori comunque meritevoli di tutela, la cui considerazione comporta spesso l’esclusione della possibilità di promuovere conformazioni edificatorie nelle successive fasi del processo di pianificazione. Si deve ritenere necessario attribuire al piano in considerazione il compito di conformare il territorio, creando condizioni e limiti per l’esercizio della funzione di conformazione edificatoria attribuita alla pianificazione operativa.
In conclusione, riteniamo fondamentali:
- un piano di area vasta che tratti di paesaggio, ambiente e infrastrutture immediatamente operativo, in grado cioè di generare progetti e costituire la piattaforma del coordinamento delle politiche pubbliche;
- un piano veramente strutturale , cioè essenziale e non conformativo, che superi qualsiasi forma di azzonamento e che rappresenti il telaio territoriale delle politiche utili per quel territorio (pianificazione strategica), che non sia pi˘ solo comunale, ma alla scala dell’Unione dei Comuni e della Città Metropolitana, che non prefiguri un improbabile “disegno al futuro”, che sia a “consumo di suolo zero” e adotti quindi un’esplicita strategia di rigenerazione urbana;
- un piano operativo finalizzato al miglioramento della qualità urbana, efficace per la rigenerazione urbana, complessa per la varietà degli aspetti in gioco, fisici, finanziari, sociali, riferiti agli assetti proprietari, agli stati di degrado e inquinamento, sostenuta da risorse reali disponibili e spendibili, meccanismi che non alimentino le attese della rendita, investimenti corretti nel partenariato pubblico privato, una programmazione flessibile ma a tempo determinato, ben diversa dal disegno previsionale e regolativo; - una regolamentazione urbanistico edilizia applicata ai tessuti e alle forme urbane diffuse, eterogenee, consolidate, bisognose di evoluzione compatibile con l’erogazione di servizi e a favore dell’accessibilità e dell’inclusione sociale.
Si registra scarsa attenzione alla relazione tra momento programmatorio e momento operativo: per non ridurre la fase operativa ad una mosaicatura anche casuale di proposte private, è indispensabile passare attraverso modalità concorsuali, di cui affermare il principio, lasciando alle normative regionali tutte le possibili declinazioni. Appare da sostenere la necessità di stabilire che, per quanto riguarda il passaggio dal piano strutturale al piano operativo e i rapporti con i privati all’uopo occorrenti ed in particolare le negoziazioni, debbono essere rispettate regole
- atte ad evitare trattamenti differenziati, eccessi di discrezionalità, esiti da pianificazione “a la carte”,
- tali da garantire, solo in presenza dei necessari presupposti (possibili individuazioni in via alternativa di alcune scelte), l’applicazione del principio di concorsualità,
- ed infine (ma certo non alla fine) tali da consentire di perseguire gli obiettivi strategici prescelti nella fase strutturale del processo di pianificazione.
Gli accordi definiti nell’art. 14 del ddl sembrano concepiti come accordi derogatori o in variante agli strumenti urbanistici. Devono essere disincentivate scelte legislative regionali a causa delle quali si potrebbe avere il ricorso a negoziazioni ed accordi non preordinati al perseguimento degli obiettivi di piano. E’ necessario evitare rapporti urbanistici pubblico-privato e negoziazioni senza la rete costituita da una costante applicazione del metodo della pianificazione, senza la garanzia della suddetta finalizzazione al perseguimento di obiettivi strategici. Infine, nell’Art. 7 e in altre parti del testo si fa più volte riferimento ai “piani urbanistici attuativi”; tali piani sono un retaggio del vecchio ordinamento (attuativi del PRG!) e dovrebbero essere sostituiti da pi˘ semplici e utili “permessi di costruire convenzionati”, magari accompagnati da masterplan per evidenziare il risultato.
La “rigenerazione urbana” non é il “rinnovo urbano” che informa il titolo II (termine non coincidente peraltro con la “trasformazione urbana” contenuta nel titolo generale del ddl). La rigenerazione diffusa é un complesso di azioni non limitabili alla componente edilizia. Il “rinnovo”, come definito nel ddl, rinvia alla semplice operazione edilizia/urbanistica di demolizione e ricostruzione di fabbricati e infrastrutture. La procedura é descritta come intervento in cui lo Stato ha mero ruolo di regolazione delle forze di mercato, mentre é esclusa la funzione di partner come investitore o realizzatore di programmi a finalità sociale o di aiuto alle imprese. In altri termini, non si configura come politica urbana.
Quanto al recupero di contenitori dismessi (più propriamente individuabili come suoli urbanizzati ed edificati giunti a conclusione del loro ciclo di utilizzo), l’attribuzione di premialità volumetriche per favorirne il recupero si è dimostrata poco efficace. Nei fatti il valore delle aree in termini teorici è
stato continuamente incrementato senza che a ciò corrispondesse un reale interesse al recupero. I valori immobiliari aumentano, ma le aree rimangono abbandonate. Una più attenta valutazione del ruolo di tali comparti, spesso centrali nel sistema urbano, porterebbe a considerare diverse ipotesi di recupero. Spesso si tratta di ambiti dismessi che potrebbero essere recuperati, con minori costi di bonifica e di trasformazione, come spazi non edificati a completamento di dotazioni urbanistiche e di costruzione della rete verde. Si tratta di un riutilizzo reale e non virtuale che parte dal presupposto che si tratta di aree che hanno gi‡ compensato finchè erano utilizzate i costi di urbanizzazione e oggi possono essere recuperate in una logica che non sia solo di contenimento del consumo di suolo, ma di restituzione del suolo al sistema urbano.
Infine, sul problema del consumo di suolo: esso non è tema esclusivamente quantitativo. Non basta ridurre il consumo di suolo e nemmeno ridurre il consumo di suolo di qualità: occorre anche riconfigurare pattern insediativi che siano sostenibili. L’impostazione della proposta di legge per contrastare il consumo di suolo appare in tal senso sbilanciata sui soli aspetti quantitativi, sia in termini assoluti che in termini di una raffinata articolazione in classi qualitative di suoli che però distoglie dalla questione centrale del progetto urbanistico, ovvero dalla necessità di ridurre il suolo impermeabilizzato (Sealed soil = lost soil, Commissione Europea). In conclusione, l’INU rilancia una definizione di rigenerazione urbana generalizzata, che comprende la produzione di ricchezza pubblica e privata, le strategie dell’adattamento climatico, le politiche di inclusione sociale, le azioni di messa in sicurezza dei territori e l’innovazione della produttività d’impresa, gli interventi dell’infrastrutturazione fisica e quelle della rete immateriale a sostegno dello sviluppo, del lavoro e della creatività urbana.
Edilizia residenziale sociale e rinnovo urbano
Sull’Edilizia residenziale sociale il testo si limita a riportare una disciplina in larga parte già praticata. In prospettiva, l’ERS dovrà diventare il nodo essenziale delle politiche pubbliche urbane e il motore del rinnovamento territoriale, per acquisire un migliore mix funzionale e sociale e dar vita ad una compagine urbana più articolata e coesa, per rispondere concretamente alle istanze di ritorno alla citt‡ e di abitare sostenibile, per offrire efficaci soluzioni di ridistribuzione della rendita e, non ultimo, per assicurare operatività al mercato edilizio. L’edilizia residenziale sociale (pubblica e privata) deve essere resa obbligatoria e dovrebbe essere assicurato il mantenimento di uno stock minimo di propriet‡ di aree ed immobili pubblici, su cui concentrare le risorse delle amministrazioni, a cui affiancare un sistema più ampio di dotazioni e servizi abitativi promossi e gestiti anche con la partecipazione dei privati. Date le condizioni del nostro Paese, l’impegno dello Stato e delle Regioni in favore dell’ERS deve promuoverne la centralità nelle operazioni di rigenerazione, supportando prioritariamente l’affitto (a prezzi accessibili), con prescrizioni e contributi straordinari: al contrario, l’art. 8 comma 5 afferma che la programmazione territoriale contiene previsioni particolari che garantiscono l’accesso alla proprietà dell’abitazione, eco di slogan ormai lontani e superati del primo boom edilizio.
Città pubblica
Il tema centrale della costruzione degli elementi della citt‡ pubblica deve trovare nella legge un quadro di riferimento unitario per le Regioni sia nella loro definizione che nella loro composizione. Sul superamento del DM 1444/68 si nota che, dati i riconosciuti squilibri regionali nella dotazione delle infrastrutture, appare debole trattare l’argomento in termini puramente procedurali ed assegnarlo a negoziazioni regionali, senza assumere il principio generale dell’equità regionale e degli uguali diritti alla citt‡ dei cittadini della repubblica ovunque essi abitino. Il concetto di dotazioni minime può facilmente ridursi a registrare le attuali deficienze abbassando il livello delle dotazioni territoriali.
E’ necessario osservare come la modifica costituzionale (nel testo approvato dal Senato in prima lettura) dell’articolo 117 Costituzione preveda che ´Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di … dotazione infrastrutturaleª. La modifica costituzionale, se mantenuta e/o non esplicitata, potrebbe non solo porre un ostacolo insormontabile alla determinazione univoca sull’intero territorio nazionale dei livelli essenziali delle dotazioni infrastrutturali, ma, soprattutto, rendere non praticabile l’avvio di qualsivoglia programma di perequazione infrastrutturale dei divari territoriali.
Dotazioni e prestazioni ambientali
Se la questione ambientale Ë centrale nell’urbanistica dei prossimi vent’anni, non ci interessa rimanere su un piano di regolazione quantitativa aggiornata delle “dotazioni” ma affermare anche e soprattutto le loro prestazioni urbanistiche ed ecologiche. In questo senso, le prestazioni ambientali non sono un optional da incentivare con le premialit‡ e bisognerebbe distinguere tra:
- un plafond di prestazioni ambientali di valore urbanistico-edilizio da garantire sempre negli interventi diffusi e concentrati (oggetto di regolamentazione urbanistico-edilizia) che la legge dovrebbe, nei suoi enunciati, favorire attraverso un’armonizzazione di norme e politiche nazionali e regionali che già garantiscono adeguate incentivazioni e obblighi, ma sono parcellizzate e frammentarie e dunque non finalizzate ad obiettivi complessi;
- alcune prestazioni ambientali aggiuntive – da sollecitare attraverso una pluralit‡ di strumenti, quali premialit‡, contributi straordinari e politiche fiscali – finalizzate ad ottenere incrementi quali-quantitativi rispetto al plafond da garantire comunque, compensazioni ecologiche anche a distanza e azioni di bonifica in grado di contribuire alla costruzione delle infrastrutture blu e verdi.
Occorre richiamare la “perequazione infrastrutturale”, (Legge n. 42/2009), che, con particolare riguardo alla realtà socio-economica, al deficit infrastrutturale, ai diritti della persona, alla collocazione geografica degli enti, alla loro prossimit‡ al confine con altri Stati o con regioni a statuto speciale, ai territori montani e alle isole minori, all'esigenza di tutela del patrimonio storico e artistico ai fini della promozione dello sviluppo economico e sociale, prevede il recupero del deficit infrastrutturale di specifiche realtà territoriali. Nel riportare le dotazioni territoriali essenziali la norma dovrebbe, pertanto, contenere anche un riferimento a tale importante aspetto.
Perequazione e compensazione
La perequazione e compensazione sono principi necessari sia a livello territoriale (di area vasta) sia a livello urbanistico (nel rapporto pubblico- privato e tra privati). Utile nella pianificazione dell’espansione, la perequazione andrà adeguata ai nuovi obiettivi di rigenerazione urbana e di trasformazione insediativa consumo di suolo a saldo zero. Restano gli obiettivi equitativi, anche per ridurre gli effetti di una distribuzione del reddito sempre meno coerente agli obiettivi di coesione sociale. Vanno calcolati tutti i costi, anche di bonifica e di demolizione, e deve servire a incentivare il trasferimento delle cubature incongrue o eccedenti. L’INU non crede alla borsa dei diritti edificatori.
Si rileva anche che il ddl non riconosce i due differenti dispositivi della perequazione territoriale e della perequazione urbanistica. La prima rappresenta uno strumento tecnico finalizzato alla redistribuzione equitativa tra diverse proprietà immobiliari della valorizzazione generala dalle trasformazioni urbane, prima previste e poi attuate secondo il plano comunale. Il campo di applicazione della perequazione urbanistica è circoscritto alla dimensione del piano comunale e, più nel dettaglio, alle aree suscettibili di trasformazione. La perequazione territoriale rappresenta invece una particolare forma compensativa e/o finanziaria, in cui protagoniste non sono le proprietà immobiliari ma le collettività, principalmente rappresentate dai Comuni, e il fine da perseguire Ë un'equilibrata distribuzione dei vantaggi e dei sacrifici connessi agli interventi urbanizzativi, infrastrutturali ed insediativi che travalicano i confini comunali.
Trasferibilità di quantità (e non diritti) edificatorie.
Manca una definizione dei diritti edificatori ed una spiegazione di come sono generati, da cosa provengono, a quali poteri vanno attribuiti. Ribadiamo che le quantità edificatorie sono sempre associate ai terreni che le hanno generate o ricevute (non esistono quantità edificatorie “in volo”), tale trasferimento avviene sempre con uno strumento di pianificazione (ed è soggetto a trascrizione).
A proposito dei diritti edificatori generati da perequazione, compensazione ed incentivazioni, si precisa anche che essi devono afferire a proprietà immobiliari catastalmente individuate. E’ necessario che sia sancita la decadenza dei diritti privati, se non esercitati. L’art.7 co. 8 ne tratta in modo ambiguo, perchè fa riferimento alla mancata approvazione del piano da parte del Comune o Città Metropolitana entro un lasso di tempo individuato.
La posizione dell’INU è da sempre e ancora oggi per la decadenza de diritti privati acquisiti pro-tempore in virtù dell’approvazione degli strumenti, in assenza di una loro attuazione in un arco di tempo delimitato. E’ necessario ribadire la decadenza quinquennale delle potenzialità edificatorie private, analogamente ai vincoli preordinati all’esproprio. Riteniamo anche necessario che sia da fermare in via esplicita la cd pratica del trascinamento, ossia la traduzione delle edificabilità previste nei piani previgenti in titoli edificatori negoziabili.
Nell’Art. 12, a proposito dei “Diritti edificatori” non viene specificata la differenza, necessaria, al fine di risolvere il problema del “residuo di piano”, tra “diritti”, effetto di un previsione conformativa a livello operativo o di una convenzione stipulata e valida tra Comune e proprietari e “previsioni” o “possibilità edificatorie” (della componente strutturale), sempre modificabili/cancellabili con adeguate motivazioni. Le quantità edificatorie conferite a titolo di perequazione o premialità sono legate al piano che le ha generate, non sono soggette a indennizzo.
Fiscalità immobiliare
La volontà di integrare la materia urbanistica e quella fiscale merita un grande apprezzamento. I nuovi atti di governo del territorio dovranno essere strettamente integrati nelle politiche di bilancio degli enti locali e ne dovranno costituire effettivamente il motore e l’elemento di verifica. La fiscalità immobiliare è centrale per la possibilità di dare attuazione alle politiche urbane di rigenerazione diffusa, tramite interventi che possono beneficiare di sgravi fiscali, e differenziando ad esempio la fiscalit‡ afferente alle operazioni di rigenerazione rispetto a quelle che consumano nuovo territorio. Oggi, in una fase di stallo del mercato, occorre mettere al sicuro gli insediamenti italiani e far in modo di concentrare tutta la trasformazione sull’efficienza dell’uso dei suoli già urbanizzati, evitando che future nuove ondate di instabilità finanziaria tornino a generare altri sconquassi ed a falsificare i bisogni reali per favorire vantaggi patrimoniali. In tal senso è necessario ricostruire forme di finanza locale connesse alla realizzazione di capitalizzazioni indispensabili alla costruzione dell’armatura urbana, ma che debbono essere vincolate al territorio e non connesse alle incertezze della finanza globalizzata.
Semplificazione
La semplificazione dovrà essere perseguita non solo attraverso uno snellimento delle procedure ma anche e soprattutto con l’avvio di un processo di delegificazione, che dovrà in futuro concludersi con un testo unico sul territorio (Codice). Quanto alle pratiche di copianificazione e alla governance, è indiscutibile constatare che non si otterranno successi, né in termini di semplificazione né quanto a certezza di tempi e del diritto, finché non saranno chiare, obbligatorie e tracciabili le assunzioni di responsabilità e le competenze.
Linguaggio e Glossario
Si nota la compresenza di linguaggi diversi, mutuati dalla tecnica urbanistica, da apparati legislativi regionali, da corpi di riflessione e di trattazione di natura giuridica. Data l’estrema fluidità del dibattito scientifico su questi temi e la non univocità delle interpretazioni, si ritiene fondamentale chiarire le definizioni dei termini principali della normativa per il governo del territorio in maniera univoca.
Le nostre osservazioni affrontano prima alcune questioni preliminari, sugli obiettivi e la coerenza
del provvedimento rispetto alle politiche che riguardano il territorio italiano, e poi entrano nel
merito della proposta di articolato. Per Legambiente un intervento normativo in materia di governo
del territorio appare quanto mai urgente e deve avere come obiettivo di aprire i cantieri della
riqualificazione urbanistica, energetica e antisismica del patrimonio edilizio italiano, per dare
risposta anche alla drammatica crisi del settore delle costruzioni.
Prima di affrontare il testo, la proposta del Ministero delle Infrastrutture sollecita un chiarimnto
rispetto ad alcune questioni rilevanti in materia di governo del territorio.
Quale rapporto ha questo testo con il Disegno di Legge approvato a Dicembre in Consiglio dei
Ministri, in materia di “Contenimento del consumo del suolo e riuso del suolo edificato”
all’esame della Camera dei Deputati?
La proposta ha la forma del Disegno di legge, e dovrà dunque iniziare un iter parlamentare, confrontarsi con altri disegni di Legge già presentati in Parlamento sulle stesse tematiche, oltre che
con la discussione in corso in Commissione ambiente e agricoltura della Camera dei Deputati intorno ai diversi testi presentati in materia di consumo di suolo, a partire dal Disegno di Legge approvato dal Consiglio dei Ministri a Dicembre. Un coordinamento tra i provvedimenti appare imprescindibile, per dare un chiaro segnale di cambiamento nelle politiche urbanistiche e per rendere efficaci le stesse politiche di limitazione del consumo di suolo, in modo da spostare vantaggi e obiettivi verso la rigenerazione urbana e chiudere cosÏ per sempre il ciclo dell'espansione edilizia.
Chiarire gli obiettivi che il Ministro e il Governo nel suo complesso si pongono rispetto al Disegno di legge appare dunque indispensabile.
Quale ruolo vuole svolgere il Ministero delle infrastrutture nelle politiche urbane e del territorio?
Presentando questo disegno di Legge il Ministero svolge un ruolo che non gli é proprio, legiferare,
mentre continua a non esercitare le competenze assegnate dalla Legge. Una scelta quantomeno
discutibile, anche perché con il Disegno di Legge si individuano compiti per il Ministero di
pianificazione strategica, attraverso la redazione della Direttiva Quadro Territoriale (DQT) e di
programmazione speciale, quando sono da tempo stati svuotati di ogni ruolo i Dipartimenti che
avrebbero dovuto assolvere a questi ruoli. Non solo, tra i compiti che il Ministero dovrebbe svolgere (ai sensi del Decreto legislativo 112/1998) vi sarebbero quelli di “identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali, alla difesa del suolo e alla articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché al sistema delle città e delle aree metropolitane, anche ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno e delle aree depresse del paese” (Articolo 52).
Esiste davvero la volontà da parte del Ministero di aprire una nuova fase nel governo del territorio?
Quale idea delle città e delle risorse territoriali nelle politiche di sviluppo?
Questo disegno di legge si pone un obiettivo importante: riformare, finalmente, un quadro normativo che da troppo tempo aspetta una visione e degli strumenti per aprire una nuova stagione di riqualificazione e valorizzazione delle risorse urbane e territoriali, che chiuda quella dello sviluppo urbano che era al centro della legge 1150/1942, e che solo in parte e' stata modificata dai successivi interventi normativi. Il problema é che in questo testo non e' presente alcuna visione del territorio italiano. All'articolo 1 sono elencati obiettivi generici - "il territorio, in tutte le sue componenti.... costituisce bene comune", ma poi in alcun modo é chiaro in quale direzione si voglia spingere le politiche del territorio. Inoltre risulta sorprendente che una proposta che dopo 70 anni dovrebbe ridefinire le regole di governo del territorio, in un Paese che sta vivendo una drammatica crisi del settore edilizio e al contempo una perdurante difficoltà di accesso alle abitazioni, non sia accompagnata da alcuna analisi della situazione, delle criticità del Paese, e che dunque motivi obiettivi e proposte.
E' disponibile il Ministero delle infrastrutture ad uscire da un approccio ideologico e ad affrontare sul serio e con nuovi strumenti i problemi di degrado delle città italiane?
Rispetto al merito delle scelte concentriamo le nostre osservazioni intorno ad alcune questioni che
ci sembrano prioritarie nel confronto pubblico. In questo é veramente utile e apprezzabile il metodo
adottato che, ci auguriamo, porterà a una rivisitazione del testo per poi aprire un confronto con Parlamento, altri Ministeri, Regioni e Enti Locali.
1 Certezza delle regole e strumenti di pianificazione
Il disegno di Legge cerca di porre ordine nel quadro di competenze (articoli 2-7) dopo due decenni
di interventi legislativi da parte delle Regioni. E' pienamente condivisibile che si fissino riferimenti
e principi uniformi all'interno dei quali la legislazione regionale si dovrà muovere, recuperando le
differenze e le contraddizioni che oggi contraddistinguono le diverse realtà. Il disegno di Legge non fissa però una prospettiva chiara con obiettivi che dovranno guidare queste scelte e che invece sono indispensabili come riferimento per i sistemi di valutazione. Una Legge su argomenti di questa
importanza non può risultare neutrale rispetto alle prospettive di sviluppo, ma dire con chiarezza
quale idea del territorio si vuole promuovere, lasciando alla pianificazione la sua declinazione nelle
scelte legate ai diversi territori. Il Ministero condivide l'idea che si debba fermare il consumo di suoli agricoli e naturali? Che la lotta ai cambiamenti climatici, e quindi la riduzione di gas serra e le politiche di adattamento debbano entrare oggi con forza nella pianificazione? Che il recupero urbanistico, ambientale e sociale delle aree degradate e dismesse debba rappresentare la priorità
degli interventi? E allora questi obiettivi, e altri che si ritengono prioritari, devono essere
chiaramente scritti nel Disegno di Legge in modo che la DQT li declini attraverso scelte e criteri e
che si affidi alla valutazione ambientale strategica dei piani il compito di verificarne la presenza e
coerenza qualitativa e quantitativa.
Legambiente condivide la scelta (articolo 7) di inserire nella legge la divisione del piano comunale
in una parte programmatoria e in una di carattere operativo e, soprattutto, di stabilire che
quest'ultimo non abbia efficacia conformativa della proprietà e degli altri diritti reali. Appare però
contraddittorio prevedere (articolo 7, comma 8) che “la mancata approvazione del piano operativo
nel termine massimo indicato comporta la decadenza delle previsioni del piano a contenuto
programmatorio”. Proprio perché quelle previsioni non incidono sulla proprietà questa indicazione
Ë priva di senso e in ogni caso finché non Ë approvato il piano operativo le previsioni possono
essere riviste dal Comune e anche stralciate, ma senza automatismi.
2 Una politica per la rigenerazione urbana
Le scelte del provvedimento sul tema del rinnovo urbano appaiono, purtroppo, inadeguate ad
affrontare problemi di questa complessità. Quanto previsto si limita a individuare per i Comuni la
possibilità di attivare operazioni di rinnovo urbano, con obiettivi generici e senza chiarire come
dovrebbero funzionare le procedure (se non con un accenno alla conferenza di servizi). Anche qui al centro dell’attenzione sembra essere la tutela dei privati interessati dai piani di rinnovo e il loro
diritto di partecipare alla formazione. Mentre per tutti gli altri cittadini, non proprietari o proprietari
di immobili fuori dall'area, per essere informati bisognerà aspettare che le Regioni disciplinino il
dibattito pubblico (ma solo nei casi di abbattimento e ricostruzione di porzioni di città, altrimenti
nessun diritto).
L’assenza di una analisi delle barriere che oggi esistono per interventi di rigenerazione urbana nel
nostro Paese o di retrofit energetico di edifici condominiali avrebbe aiutato a capire quale direzione
prendere. Il gruppo dei consulenti chiamato dal Ministro a elaborare il testo avrebbe potuto portare
nella discussione le esperienze recenti delle città europee, per capire come temi di questa complessità vengano affrontati in ben altro modo. Avrebbe aiutato un analisi della situazione delle periferie italiane per capire a Bari, Napoli, Roma, Genova la semplice deregulation non porta ne al rilancio dell'edilizia ne a mobilitare risorse private. Davvero si può rinunciare a qualsiasi ruolo di coordinamento, indirizzo, sperimentazione, finanziamento da parte Statale? Oppure, interventi
complessi di rigenerazione urbana con obiettivi di integrazione sociale, di demolizione e ricostruzione e densificazione, con obiettivi energetici e ambientali ambiziosi, l’utilizzo di concorsi
di sperimentazione, di sperimentazione nel social housing, di ridefinizione della mobilità
incentrandola sul trasporto pubblico, ciclabile e pedonale, possono essere realizzati nel nostro Paese
senza una regia del Comune che preveda strumenti nuovi di pianificazione, confronto pubblico e
intervento? La risposta appare scontata per chi conosce le esperienze di riqualificazione realizzate a
Marsiglia come ad Amburgo, a Copenaghen come a Barcellona.
Legambiente ritiene che proprio nella rigenerazione urbana sia la sfida oggi più importante per uscire dalla crisi del settore edilizio e per dare risposta ai problemi delle città italiane. Ma occorrono
strumenti e obiettivi nuovi per mettere in moto interventi di questa portata e, soprattutto, evitare che
riguardi solo alcune città e le aree più appetibili lasciando nel degrado tutto ciò che non e' attraente
per gli operatori privati. Inoltre, oggi il riuso non può essere neutrale rispetto agli obiettivi che ci si
vuole proporre. Abbiamo bisogno di interventi che non si limitino a demolire e ricostruire,
realizzare qualche attività e servizi, ma di riqualificazioni che portino qualità architettonica e urbana, integrazione sociale, con obiettivi e prestazioni ambientali elevate in modo da realizzare edifici con consumi energetici prossimi allo zero. Questi obiettivi nel Disegno di Legge non ci sono e neanche vi sono proposte per ridefinire il ruolo dello Stato e quello dei Comuni in queste politiche. Legambiente propone di prendere spunto proprio dalle migliori esperienze europee per apportare delle modifiche al sistema normativo italiano.
Legambiente ritiene che un intervento normativo debba affrontare alcuni dei punti nevralgici delle
procedure vigenti individuando chiari obiettivi di innovazione. In primo luogo intervenire sul tema
della semplificazione, fornendo alle amministrazioni pubbliche gli strumenti per avviare processi
significativi di rigenerazione attraverso una chiara regia pubblica degli interventi, da affidare ai
Comuni, e un coinvolgimento trasparente dei diversi soggetti pubblici e privati nella definizione di
obiettivi, proposte e risorse1. In secondo luogo la rigenerazione urbana, perché non risulti uno slogan generico, presuppone di definire con chiarezza gli obiettivi di qualità urbana e sociale degli interventi (con una quota minima obbligatoria di edilizia residenziale sociale) e le prestazioni ambientali e energetiche che si vogliono raggiungere. La rigenerazione urbana deve infatti riguardare gli ambiti degradati della città e proporre ipotesi di riqualificazione da presentare e discutere con i cittadini, a partire dalla definizione degli obiettivi e dalle prestazioni che si vogliono raggiungere.
Un tema assente dal Disegno di legge ma fondamentale per far crescere la qualità della progettazione, riguarda i concorsi di progettazione, che occorre rendere obbligatori per la selezione e realizzazione di tutti i progetti pubblici o di interesse pubblico, e da promuovere anche per gli interventi privati. Una scelta lungimirante per elevare la qualità della progettazione in questo tipo di interventi sarebbe l’istituzione di un fondo rotativo per l’attivazione della progettualità degli Enti locali e territoriali, utilizzabile per la redazione di progetti preliminari e Concorsi di Architettura. Una questione su cui il provvedimento appare poco coraggioso é nell’innovazione nelle forme di intervento all’interno degli ambiti di rigenerazione. Per spingere l’innovazione nel settore edilizio occorre ampliare le procedure di evidenza pubblica aperte a tutti, in modo da valorizzare gli operatori più capaci e non solo i proprietari delle aree (come avverrebbe secondo l’articolo 17 nelle aree non pubbliche).
Fondamentale per la fattibilità di interventi di questa complessità Ë la regia complessiva e la
collaborazione tra i diversi Enti. Come l’esperienza francese nelle politiche urbane insegna occorre
che vi sia un ruolo dello Stato di coordinamento, indirizzo e co-finanziamento. Si dovrebbe per questo prevedere la creazione di un agenzia (sul modello francese) che abbia il compito di
accompagnare questi processi fornendo supporto ai Comuni e di coordinamento rispetto ai fondi
nazionali e europei in materia di rigenerazione urbana, smart city, efficienza energetica, edilizia
sociale, e di indirizzarli in forma integrata, ma anche di promuovere sperimentazioni e ricerche di
interesse nazionale sulla rigenerazione urbana e la bonifica di aree degradate e inquinate. L’agenzia
dovrebbe fornire il supporto ai Comuni nel portare avanti i progetti, mentre a questi va data la possibilità attraverso strumenti ordinari di trasformazione delle aree degradate dentro la città, ossia
le situazioni di edifici e aree in parte dismesse e in parte con complessi edilizi da ripensare,
demolire e ricostruire, densificare, per creare dei quartieri finalmente degni di questi nome con
spazi pubblici ospitali, ricchi di attività e identità e per questo sicuri. Questo tipo di interventi é oggi
difficilissimo da realizzare in Italia per la complessità delle procedure, la proprietà' frammentata, e i
costi degli interventi, e sono qui le ragioni del gap che nel nostro Paese scontano questo tipo di
interventi rispetto ad altre città europee.
3 innovare le forme di intervento nel territorio
Alla base della crisi dell'urbanistica italiana e' anche l'inadeguatezza degli strumenti di intervento, la
complessità normativa e l'inefficacia delle procedure. Il disegno di Legge prova a superare questi
problemi introducendo anche nella normativa nazionale strumenti diffusi nelle legislazioni regionali
- come la perequazione e la compensazione - e abolendo gli standard obbligatori (di verde, parcheggi, servizi pubblici, ecc.) che sono sostituiti da “dotazioni prestazionali essenziali”. Quest'ultima scelta, che pure é da tempo al centro del dibattito, per come e' formulata appare troppo generica e ancora inadeguata come formulazione. Occorre una più chiara definizione degli obiettivi quantitativi e qualitativi che si intende raggiungere. Se infatti è vero che occorre oggi ripensare completamente lo strumento degli standard, e fornire flessibilità ai Comuni per la loro applicazione all'interno degli strumenti di piano, in parallelo si devono fornire chiari riferimenti e strumenti di verifica.
Una questione che il Disegno di Legge affronta é quella della fiscalità che, indubbiamente,
rappresenta uno strumento fondamentale per guidare le trasformazioni. Rispetto a quanto previsto
dal testo riteniamo sia necessario individuare con più chiarezza le tipologie di interventi per cui ha
senso creare vantaggi e in particolare per quelli di rigenerazione2, oggi più costosi e invece urgenti.
Inoltre, prevedere come fa il testo, la commisurazione degli oneri di urbanizzazione in rapporto alla
densità edilizia se in teoria Ë condivisibile non sempre ha senso da un punto di vista urbanistico.
Anche in questo caso appare più ragionevole prevedere flessibilità nell’applicazione degli oneri ai
Comuni in funzione delle densità e delle previsioni di piano, in modo da perseguire sul serio
obiettivi di riduzione del consumo di suolo e densificazione intorno ai nodi del trasporto pubblico.
Legambiente chiede al Ministero di guardare all'esperienza di altri Paesi in questo campo e inserire
nel disegno di legge un contributo per il consumo di suolo e spostare le risorse sulla rigenerazione
urbana. Per cambiare le pratiche di intervento nel territorio occorre infatti scoraggiare, anche
economicamente, l'utilizzo di aree libere agricole e naturali, favorendo il recupero e la rigenerazione
urbana. Proposte pienamente condivise da Legambiente si trovano in Disegni di Legge presentati in
Parlamento (AC/703 e AC/10504). Il riferimento per queste proposte é la normativa tedesca che
rappresenta in questo campo un esempio efficace e che é nata proprio come disincentivo
all'occupazione di nuove aree. Nelle proposte presentate si utilizza come riferimento il valore degli
oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, mentre sono esclusi dal contributo gli interventi
realizzati in aree edificate o da riqualificare interne alla città. E' inoltre condivisibile sia che il
contributo venga destinato a un fondo per la bonifica dei suoli, per la riqualificazione del
patrimonio edilizio esistente, di acquisizione di aree verdi, sia la proposta di prevedere che lo
stesso, come stabilisce la normativa tedesca, possa essere parzialmente sostituito, previo accordo
con i Comuni e in coerenza con gli obiettivi di Piano, da una congrua cessione compensativa di aree
vincolate a uso pubblico per la realizzazione di nuovi sistemi naturali e in aggiunta agli standard di
Legge.
Infine, il Disegno di Legge deve contenere un articolo che affronti con chiarezza un tema oggi
ineludibile per la fattibilità di operazioni di trasformazione urbana e che riguarda l’informazione e
partecipazione dei cittadini. Un intervento normativo dovrebbe chiarire questi due concetti e i diritti
nelle procedure. Da un lato quello all’informazione di tutti i cittadini sugli atti, che deve essere
garantita attraverso la pubblicazione obbligatoria sui siti internet di tutti gli atti di pianificazione e
programmazione a partire dalle fasi preliminari. Dall’altro il diritto alla partecipazione, in particolare nei piani e programmi che intervengono nelle città, con specifici processi di informazione e coinvolgimento dei cittadini residenti negli ambiti e attraverso il dibattito pubblico, chiarendo quando e come può essere richiesto e svolto.
In conclusione, ci auguriamo che il confronto aperto su questo testo sia l'inizio di un percorso da
parte del Ministero delle Infrastrutture realmente innovativo e utile a dare risposte ai problemi del
Paese e a valorizzare le sue risorse territoriali e le sue città. Legambiente ribadisce la nostra
disponibilità a contribuire con idee e proposte normative che riguardano contenuti e innovazioni
indispensabili (ambientali, partecipative, concorsuali) in una prospettiva di cambiamento delle
forme di intervento nel territorio italiano.
Note
1 Una procedura più efficace di indirizzo delle trasformazioni dovrebbe prevedere che con delibera di giunta l’amministrazione individua, in un progetto integrato di rigenerazione urbana, gli ambiti urbani coinvolti, gli obiettivi pubblici che si intendono perseguire, le scelte urbanistiche e infrastrutturali, le misure di sviluppo locale sociale e economico. Che in tali ambiti i Comuni possono prevedere l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà immobiliari pubbliche e private. Che la delibera dovrà essere pubblicata, tra gli altri, sul sito web del Comune e nei successivi 60 giorni possono essere presentate osservazioni e proposte a cui l’amministrazione comunale Ë tenuta a rispondere in forma scritta. Che entro novanta giorni dall’approvazione della delibera il Sindaco del Comune promuove, anche al fine di approvare le necessarie varianti urbanistiche, un accordo di programma ai sensi dell’articolo 34 del Decreto Legislativo 267/2000. L’esito dell’accordo deve essere approvato dal consiglio comunale. I progetti degli interventi pubblici e di interesse pubblico da realizzare nell’ambito dell’Accordo di programma sono portati avanti attraverso concorsi di architettura. Nel caso di realizzazione di nuovi alloggi di edilizia residenziale una quota di almeno un terzo deve essere destinata per edilizia sociale.
Questo il testo AC/70, articolo 2 (Contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana).
Il consumo del suolo, a causa dell’impatto che determina su una risorsa non rinnovabile, Ë gravato da un contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana legato alla perdita di valore ecologico, ambientale e paesaggistico che esso determina. Il contributo si aggiunge agli obblighi di pagamento connessi con gli oneri di urbanizzazione e con il costo di costruzione, la cui misura Ë stabilita dai comuni ai sensi delle leggi statali e regionali vigenti.
A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, il contributo di cui al comma 1 si applica in tutto il territorio nazionale con riferimento a ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia che determina un nuovo consumo di suolo. Esso é pari a tre volte il contributo relativo agli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione, nel caso in cui l’area sia coperta da superfici naturali o seminaturali, ovvero pari a due volte il medesimo contributo, nel caso in cui l’area sia coperta da superfici agricole in uso o dismesse. Il contributo non é dovuto per interventi su aree edificate o comunque utilizzate ad usi urbani e da riqualificare, nonché nei casi in cui non sono dovuti gli oneri relativi ai costi di urbanizzazione ed al costo di costruzione.
Il contributo di cui al comma 1 può essere sostituito, previo accordo con i comuni, da una cessione compensativa di aree con il corrispondente vincolo a finalità di uso pubblico, per la realizzazione di nuovi sistemi naturali permanenti quali siepi, filari, prati, boschi, aree umide e di opere per la sua fruizione ecologica e ambientale quali percorsi pedonali e ciclabili. Tali aree devono essere, nel loro complesso, di dimensioni almeno pari alla superficie territoriale dell’intervento previsto. Sono tenuti al pagamento del contributo di cui al comma 1 i soggetti tenuti al pagamento degli oneri relativi ai costi di urbanizzazione e al costo di costruzione, secondo le stesse modalità e gli stessi termini. I comuni destinano i proventi del contributo a un fondo per interventi di bonifica dei suoli, di recupero
e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, di demolizione e ricostruzione di edifici posti in aree a rischio idrogeologico, di acquisizione e realizzazione di aree verdi.
4 Questo il testo AC/1050, articolo 6
Le aree edificabili, individuate ai sensi del comma 1, sono soggette ad un contributo addizionale rispetto agli obblighi di pagamento connessi con gli oneri di urbanizzazione e con il costo di costruzione, la cui misura è stabilita dai comuni ai sensi delle leggi statali e regionali vigenti. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, il contributo di cui al comma 5 si applica in tutto il territorio nazionale con riferimento a ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia che determina un nuovo consumo di suolo. Esso è pari a cinque volte il contributo relativo agli oneri di urbanizzazione ed al costo di costruzione.
Sono tenuti al pagamento del contributo di cui al comma 6 i soggetti tenuti al pagamento degli oneri
relativi ai costi di urbanizzazione e al costo di costruzione, secondo le stesse modalità e gli stessi termini. I comuni destinano i proventi del contributo a un fondo vincolato destinato ai seguenti interventi: non meno del 20 per cento alla bonifica dei suoli; non meno del 20 per cento al recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio pubblico esistente, con priorità per gli interventi di messa in sicurezza e risanamento conservativo degli edifici scolastici; non meno del 20 per cento ad interventi di riduzione del rischio idrogeologico, sia mediante interventi di riduzione della pericolosità, sia mediante interventi di rilocazione di edifici pubblici posti in aree ad elevato rischio; non meno del 20 all’acquisizione, realizzazione e manutenzione di aree verdi.
eddyburg è pronto a ospitare.
Sul disegno di legge “Principii in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”
Il 15 settembre scorso sono scaduti i termini per la presentazione di osservazioni al disegno di legge presentato dal ministro Lupi sui “Principii in materia di politiche pubbliche territoriali e trasformazione urbana”.
Come docenti, ricercatori, dottori di ricerca del Dipartimento di architettura dell’Università di Firenze impegnati sui temi affrontati dal ddl riteniamo che questo sia del tutto inadeguato e anziché essere innovativo rappresenti un arretramento della capacità di esprimere una strategia complessiva e un’idea del progetto contemporaneo di città e territorio anche rispetto alla legge urbanistica nazionale vigente. Pertanto esso non può essere corretto in singoli punti ma deve essere integralmente sostituito da un nuovo provvedimento più rispondente alle esigenze dei territori, delle istituzioni e della popolazione del paese.
Infatti nonostante il titolo, ribadito nell’art. 1, il ddl non sviluppa concretamente nessun principio “pubblico” innovativo e si limita ad applicare e valorizzare con linguaggio burocratico una concezione arcaica della proprietà immobiliare privata, orientata all’estrazione di vari tipi di rendita e superata da tempo dal nuovo rapporto pubblico/privato instaurato nelle legislazioni europee più avanzate.
In effetti l’unico principio perseguito concretamente è il seguente (art. 8):
«il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento»: su 20 articoli della legge, ben 13 sono dedicati a garantire la difesa degli interessi dei proprietari immobiliari privati mentre negli altri non compare alcuna prescrizione concreta significativa a vantaggio della collettività. La proposta di legge appare quindi profondamente segnata da un’impostazione arretrata della pianificazione limitata a favorire le trasformazioni edilizie private in contrasto con la stessa costituzione laddove il riconoscimento della proprietà privata è subordinato alla funzione sociale (art. 42), e per evitare dubbi fin dal primo articolo questo principio è chiaramente enunciato: «ai proprietari degli immobili è riconosciuto nei procedimenti di pianificazione il diritto di iniziativa e di partecipazione anche al fine di garantire il valore della proprietà». Per contro, nelle migliori pratiche europee le partnership pubblico/privato più efficaci si sviluppano in contesti dove la pubblica amministrazione mantiene un ruolo forte di regia delle iniziative di sviluppo e trasformazione. Attraverso quadri di riferimento certi infatti si creano le condizioni per attrarre investimenti intelligenti, che non mirano alla mera estrazione della rendita. La rigenerazione urbana europea di ultima generazione ha superato la sorda contrapposizione fra pubblico e privato, combinando la ricerca del profitto degli investitori con un ritorno pubblico, sia in termini di dotazioni e servizi, che di qualità del progetto, in termini di sostenibilità, di attività innovative, di organizzazione spaziale.
In conseguenza di questa impostazione, il ddl non considera neppure l’evoluzione disciplinare e culturale: non viene applicata nessuna delle nozioni recenti quali sostenibilità, città-spazio pubblico, partecipazione, progetto di città o resilienza, che improntano non solo le esperienze positive recenti ma anche le strategie dell’Unione Europea in campo urbano.
Si deve sottolineare che il ddl non affronta in alcun modo i problemi reali del governo del territorio vistosamente testimoniati dai disastri ambientali e dal crescente degrado del paese particolarmente per quanto riguarda il suo patrimonio storico-ambientale; dalla mancanza di coordinamento fra istituzioni e livelli di governo; dallo sviluppo abnorme delle procedure e della burocratizzazione priva di contenuti; dal conseguente bailamme della normativa generato dalle diverse legislazioni regionali e dalla iperproduzione dei diversi ministeri (sui temi della tutela, dell’ambiente, dell’economia riferita al territorio, delle procedure, ecc.) per cui i contenuti, i tempi e le modalità di attuazione dei piani e dei progetti sono sempre più oscuri; dalla crisi dei finanziamenti pubblici con la conseguente sottomissione degli interessi collettivi alle richieste dei maggiori operatori privati; dalla riluttanza ad aprire il processo di pianificazione a procedure di partecipazione effettiva capaci di apportare miglioramenti nella qualità e nella rispondenza delle scelte alla domanda degli abitanti.
Così il ddl non si preoccupa di coordinarsi con altre leggi vigenti e sostiene il principio della preminenza del valore della proprietà privata in contrasto con altre leggi (ad esempio quelle sulla tutela o sul rischio idraulico) col risultato atteso di produrre contenziosi e mettere in difficoltà non solo gli enti pubblici territoriali ma anche i privati stessi che pretende di favorire.
Il ddl non solo non risponde ai problemi attuali del governo del territorio, ma, anziché innovarli, stravolge totalmente i principi consolidati della pianificazione urbanistica e quelli recentemente introdotti nelle legislazioni europee avanzate (e a parole parzialmente assunti nello stesso art. 1) come:
1. il coordinamento dei livelli di governo: si elencano gli esistenti enti locali; si introduce una fantomatica Direttiva Quadro Regionale; si richiamano le Provincie all’art. 7 (quando si parla da tempo di ridurne il ruolo) ma soprattutto si introduce il dispositivo della Direttiva Territoriale dello Stato (art. 5), riguardante le maggiori opere infrastrutturali, concepito secondo una impostazione gerarchica che azzera il ruolo dei comuni e degli altri enti di governo nel processo decisionale e subordina agli accordi nazionali il paesaggio e quindi aprendo il contrasto col codice dei beni culturali; il resto è delegato alla regioni con l’unico vincolo del riconoscimento dei diritti delle proprietà private, in una combinazione di autoritarismo centralista e populismo pseudofederalista; in questo modo non si attiva il coordinamento territoriale della pianificazione urbanistica né si rimedia all’eterogeneità dei modelli urbanistici regionali; in apparenza ci si limita a impoverire i due tipi di strumenti ormai diffusi a livello comunale (confermando il livello operativo e riducendo il livello strategico-strutturale a mera operazione conoscitiva), ma nella sostanza si gerarchizza l’azione istituzionale mortificando il livello comunale come si illustra ulteriormente nel successivo punto 5;
2. la nozione di spazio pubblico: non c’è un’idea all’altezza dell’importanza del tema, per come oggi, nella crisi, debba essere affrontato, ma si abolisce il D.M. 1444/1968 che stabilisce l’obbligo di una quantità minima di spazi pubblici per abitante, sostituendolo col rinvio a successivi accordi con le regioni sulle «dotazioni territoriali» per concetti generici quali la salute, l’istruzione, il tempo libero, in questo modo stimolando l’ulteriore differenziazione regionale di regole e di conseguenza la differenziazione delle condizioni di vita a seconda degli equilibri politici e delle scelte di ciascuna regione;
3. le disposizioni inerenti la fiscalità immobiliare (art. 9) non definiscono nuove linee di indirizzo o principi generali in materia, bensì si limitano a fotografare il composito stato dell’arte consolidatosi negli ultimi anni (generici sgravi alla proprietà della prima abitazione, assenza di una disciplina dei contratti ad affitto calmierato che conferma la sostanziale vacatio legis creatasi a seguito dell’abrogazione delle norme sull’equo canone, progressiva sottrazione ai Comuni dei proventi delle imposte immobiliari, nessuna disposizione in ordine al vincolo di utilizzo degli oneri di urbanizzazione, allo scopo di impedirne l’utilizzo per il finanziamento delle spese correnti del comune, ritenuto una delle principali cause della sfrenata crescita edilizia recente). Inoltre vengono introdotti meccanismi iniqui e, con ogni probabilità, incostituzionali, nei confronti delle persone «non titolari di immobili» (comma 6), che vengono assoggettate a tributi ed entrate proprie «a fronte di servizi indivisibili» (si tratta, peraltro, degli unici tributi dei quali è sancita con chiarezza la destinazione al comune). Infine, la norma favorisce la sovrapproduzione edilizia quando (comma 9) generalizza la «non applicabilità» dei tributi immobiliari agli «immobili destinati alla vendita o alla rivendita che non siano utilizzati» istituendo l’ esenzione fiscale, a danno dei comuni, dello stock invenduto per le grandi società immobiliari;
4. le nozioni di “rinnovo urbano” e “consumo di suolo agricolo” vengono disciplinate unicamente in chiave di valorizzazione edilizia e deroghe alla pianificazione urbanistica (art 16), essendo possibile realizzare progetti di «rinnovo» in assenza o in contrasto con i piani operativi previo accordo fra proprietari e comune, con premi e incentivi volumetrici collegati al miglioramento energetico, sanitario, edilizio; per di più, si stimolano e legittimano i processi di espulsione sociale quando si consente in caso di incompleto accordo dei privati ricadenti in un ambito di recupero l’esproprio di quelli in minoranza, utilizzando la pressione derivante dall’espulsione per stimolare ulteriori trasformazioni edilizie; il blocco del consumo di suolo agricolo viene surrettiziamente evocato senza essere chiaramente sancito, anzi viene in realtà usato per consentire incrementi delle quantità edificabili nelle aree di «rinnovo urbano», anziché per attuare le disposizioni della Commissione Europea sulla riduzione del suolo impermeabilizzato;
5. il senso del processo di pianificazione viene rovesciato: riprendendo il principio di fondo della proposta di legge Lupi già avanzata nel 2005 e fermata al Senato, nella pianificazione comunale sono introdotti gli «accordi urbanistici» (art. 14 e 17) che obbligano gli enti locali a sostituire ai cosiddetti «atti autoritativi» gli «atti negoziali» e a prendere in considerazione le proposte dei privati, rovesciando la titolarità pubblica, il diritto-dovere degli enti pubblici a pianificare il territorio e trasformando così il piano nella sommatoria delle proposte immobiliari private;
6. i principii di premialità, compensazione, perequazione sono interpretati nel senso della liberalizzazione più sregolata; le norme delineate comprimono la potestà dell’ente locale a quella di un mero distributore di “diritti” edificatori che costituiscono, di fatto, l’unica moneta con la quale le municipalità possono acquisire dotazioni territoriali (art. 10), espropriare aree (art. 11) o incentivare progetti di riqualificazione ambientale o urbanistica (art. 13). Inoltre la possibilità «commerciare liberamente» le quantità edificatorie attribuite dai piani (art. 12) comporta l’obbligo di periodica revisione dei piani, non in ragione di sopravvenuti interessi pubblici, quanto allo scopo di trovare allocazione ai diritti edificatori acquistati e non ancora utilizzati sul territorio (“diritti” che peraltro presentano una validità illimitata: si estinguono solo a seguito di indennizzo del loro valore di mercato, a carico del contribuente!). Le scelte urbanistiche cui sono obbligati i comuni, in questo senso, possono peraltro essere sempre messe in discussione causando numerose e complesse controversie, a causa dell’introduzione dell’obbligo di motivazione delle scelte urbanistiche e dell’obbligo di coinvolgere il privato nel progetto degli strumenti urbanistici (art. 7 comma 5). In sintesi perequazione, compensazione, premialità e diritti edificatori rappresentano gli strumenti tecnici cui è demandata la privatizzazione dei processi di formazione dei piani. Al contrario, nel contesto europeo, a fronte della crisi, sono state adottate nuove forme di partnership pubblico privato, a forte controllo pubblico, con le quali gli obiettivi sociali, progettuali sottesi a ciascuna operazione di trasformazione sono conseguiti attraverso cessioni e dotazioni aggiuntive. Tali dispositivi, sperimentati ad esempio in Germania, non incidono sulla fattibilità economica delle operazioni, cui partecipano sovente developers internazionali, bensì sulla rendita immobiliare, contribuendo a calmierare il valore dei suoli e riducendo così il rischio di bolle speculative. Il registro dei diritti edificatori, di converso, comporta ulteriori evidenti rischi di sovrapproduzione edilizia e rappresenta un facile veicolo per favorire nuove iniziative speculative su beni immateriali sganciati dalle dinamiche dell’economia reale; è stato efficacemente definito come un potenziale registro di “titoli tossici” in grado di generare nuove crisi economiche.
7. l’edilizia residenziale sociale viene interpretata in modi deliberatamente vaghi, senza distinguere le diverse tipologie di utenti, e “anticontestuali” senza rilanciare una vera politica per la residenza capace di integrare edilizia pubblica e privata sociale (art. 18, 19): se è ammissibile ampliare il campo dell’intervento agli operatori privati, per aumentare l’offerta di alloggi economici, non è accettabile generalizzare la deroga dagli strumenti urbanistici per ammettere proposte puntuali, né favorire con numerosi e in alcuni casi ingiustificati vantaggi gli interventi classificati genericamente come “edilizia sociale”; così, anziché prescrivere standard minimi di edilizia sociale realmente pubblica; anziché utilizzare l’edilizia sociale come asse portante delle politiche pubbliche per la città, per rilanciare la pianificazione/progettazione urbana integrata, il potenziamento dei servizi, l’innovazione nel campo dell’abitare, si incentivano gli interventi tradizionali puntuali sganciati dall’ottica urbanistica e, come negli anni Cinquanta, tesi a sviluppare l’accesso alla proprietà privata;
8. la semplificazione è affrontata in modo generico e inconcludente (art. 20), senza tenere conto della eterogeneità delle disposizioni regionali, né delle difficoltà di coordinamento delle diverse istituzioni nelle procedure di approvazione degli strumenti urbanistici, che dovrebbero essere rinnovate (in particolare le procedure di valutazione ambientale) unificando i momenti di verifica senza rinunciare all’efficacia dei diversi livelli della pianificazione; anche da questo punto di vista, contrariamente alle enunciazioni di principio, pesa lo slittamento del piano da progetto di città a strumento di gestione dei diritti edificatori che comporta una progressiva complicazione procedurale e settorializzazione delle competenze.
Riteniamo quindi che dopo l’annullamento della proposta in questione, debba essere ripreso il lavoro avviato in passato per una legge di principi culturalmente aggiornata ai migliori esempi europei, assumendo due indirizzi fondamentali:
La prima considerazione, propedeutica ad ogni altra, riguarda la mancata corrispondenza del ddl in esame, alla riforma al titolo V già approvata al Senato. Essendo presumibile che le competenze attribuite a Stato e Regioni non si discosteranno molto da quelle contenute nel testo costituzionale in itinere e tenuto conto che vi è un nuovo assetto nella struttura istituzionale riguardante sopratutto le Province, è lungimirante la costruzione di un testo che ne tenga conto, considerato che il “Governo del Territorio”, di cui tratta la proposta di ddl non è, o meglio non sarà, più materia concorrente, ma materia esclusiva dello Stato. Così pure appare incongruo mantenere dei riferimenti e dei compiti (articoli 5 e 8) alla Conferenza Stato Regioni del tutto inutile dopo l'istituzione del nuovo Senato delle Autonomie
La seconda considerazione di carattere generale riguarda la “filosofia” che attraversa tutto l'articolato, molto sbilanciata verso la promozione e la difesa delle prerogative dei soggetti privati, intesi non tanto come cittadini detentori di interessi diffusi, quanto soggetti miranti ad ottenere dall'uso del territorio, Bene Comune, un proprio personale vantaggio economico. L'aspetto non condivisibile riguarda l'equidistanza, se non addirittura la subalternità dell'Ente pubblico, cui spetta per Legge il governo del territorio, agli interessi privati, che si evidenzia in particolare in due clamorosi “riconoscimenti”.
Il primo risiede agli art.1 e 7 che sanciscono il diritto del privato a partecipare alla elaborazione degli strumenti di pianificazione urbanistica sia generali che operativi.
Il secondo sta scritto all'articolo 8 relativo all'obbligatoria compensazione di limiti posti alla proprietà privata, ma sopratutto all'articolo 12 che impone il risarcimento al privato, in caso di variante al Piano, dei mancati guadagni dei cosidetti “diritti edificatori” che il Comune stesso ha gratuitamente elargito attraverso una destinazione urbanistica (con premialità, compensazioni, perequazioni) e che deve pagare risarcendo un presunto mancato guadagno. Una qualche responsabilità spetta anche a chi ha inventato questo lessico deviato del diritto edificatorio, inesistente, in quanto diritto non è, ma solo previsione di un assetto urbanistico che offre delle possibilità a costruire. Diventerebbero diritti, comunque subordinati al pubblico interesse, qualora fosse raggiunta attraverso le procedure di rito e gli eventuali nulla osta, tale facoltà sancita dal rilascio di un permesso a costruire dato dall'organo competente e/o attraverso un atto convenzionale.
Il terzo rilievo riguarda l'assenza di qualsiasi preoccupazione di carattere ambientale che, non solo scienziati, esperti, ambientalisti rilevano, ma i cittadini comuni, portatori di esigenze collettive dotati ormai di sensibilità verso i problemi che investono il territorio naturale e antropizzato che provocano gravi danni a persone e a cose, nonché alla profonda evoluzione della partecipazione in forme che raggiungono livelli qualitativi idonei al loro formale riconoscimento di attori a pieno titolo. Una Legge moderna sul governo del territorio, non può prescindere dagli aspetti di tutela del territorio, di difesa delle sue fragilità dovute allo squilibrato consumo di suolo e uso improprio delle risorse non riproducibili, nonché alla profonda evoluzione della partecipazione. Questa è la principale ragione per cui è necessario por mano alla revisione della Legge Urbanistica del 1942, quando questi aspetti non si presentavano nella forma devastante in cui si pongono oggi. Persino l'attuale cancelliera Angela Merkel quando era Ministro dell'Ambiente, ravvisò nel consumo di suolo il più pericoloso attacco al sistema ambientale, causa non secondaria di allagamenti e mutamenti climatici, a cui pose parziale rimedio con una Legge che disponeva limiti inderogabili.
L'esasperata privatizzazione della città, che il proposto ddl favorisce, si evince anche dal ruolo affidato agli standard urbanistici chiamati anche dotazioni territoriali. Questi non sono più espressi in termini di superfici o volumi, anche attraverso un aggiornamento delle funzioni che sono destinati a svolgere, bensì vengono considerati dotazioni da garantire, non attraverso lo strumento della pianificazione urbanistica che individua le aree da destinare a pubblici servizi, bensì invece attraverso forme proprie dei servizi sociali e delle strutture sanitarie a cui spettano specifici compiti di programmazione e gestione, ma che non possono assolutamente sostituirsi nella definizione, localizzazione, dimensionamento di spazi destinati ai servizi pubblici di quartiere, urbani, territoriali, compito che spetta unicamente allo strumento della pianificazione urbanistica. E a questo riguardo lascia assai perplessi che i minimi standard vengano azzerati con la soppressione del dpr che li ha originariamente istituiti. Segno questo di una controriforma della pianificazione e del governo del territorio, di un'arretratezza politico-sociale rispetto alle conquiste civili raggiunte nel passato.
Lasciare alle Regioni la possibilità di incrementare la dotazione di servizi, come oggi avviene, è un giusto tributo al federalismo, ma garantire ad ogni cittadino della penisola una dotazione minima di spazi destinati alla cura, al gioco, al verde, all'istruzione, al culto, ai parcheggi... è un atto dovuto dal governo centrale, una sua imprescindibile responsabilità nei confronti dei diritti individuali e collettivi, di socialità e di benessere di cui lo Stato nazionale deve farsi garante, come previsto dalla stessa Costituzione che il ddl Lupi non può modificare. Come pure garante deve esserlo nei confronti della conservazione dei beni storici, della prevenzione dei dissesti idrogeologici, delle inondazioni, delle frane, che non sempre sono opera solo di calamità naturali, ma sono determinate o favorite dall'azione deleteria dell'uomo a cui questa proposta di legge non pone alcun riparo.
La prevalenza del privato sul pubblico, si estende anche alla questione dell'edilizia residenziale pubblica, che come è giusto sia, entra a far parte dei nuovi standard urbanistici, ma non solo per quanto riguarda l'edilizia pubblica o in locazione convenzionata, ma anche in proprietà. Ovvero l'articolo 19 inserisce nel conteggio delle dotazioni territoriali, ovvero nei nuovi standard, la casa in proprietà !!
La proposta di ddl contiene due aspetti positivi. I tributi dovuti per effetto delle previsioni urbanistiche ritiene non debbano essere previsti fintanto che le medesime non siano contemplate nel piano operativo e non solo come accade ora in quello generale non conformativo (art. 9). Altro elemento innovativo riguarda il contributo dovuto all'aumento di valore degli immobili derivante dalla variazione di destinazione d'uso attribuita dai Piano e calcolata al 66% dell'incremento di valore determinatosi a causa della nuova destinazione rispetto alla precedente.
E' positivo l'auspicio di privilegiare gli interventi nel tessuto già edificato. Ma senza che, oltre a discutibili e discrezionali premi volumetrici, sia previsto un reale effettivo meccanismo di contenimento dell'uso del suolo e l'indicazione di un procedimento che favorisca questo processo, l'auspicio rimane del tutto aleatorio e privo di alcuna efficacia. Ma forse il legislatore fa affidamento al ricorso alla “deregulation”di cui all'articolo 17 che consente che tali interventi siano realizzati con accordi urbanistici, anche in assenza o in difformità al Piano Operativo
Il “razionale” uso del suolo ribadito più volte nel ddl è privo di senso, perchè gli amministratori che hanno finora predisposto e approvato i Piani, non hanno mai ritenuto che l'uso del suolo in essi contenuto, fosse irrazionale. Quindi questa affermazione non è destinata ad ottenere alcun buon risultato perchè non esplicita nulla, non intercetta quell'esigenza, quasi unanimemente condivisa, di contenimento dello spreco di suolo fin'ora perpetrato a danno dell'ambiente e della stessa economia dei territori.
Vi è poi all'articolo 3 una certa imprecisione riguardo alle competenze relative ai beni paesaggistici, quasi il legislatore volesse attribuire in forma concorrente, attraverso legge ordinaria, competenze che la Costituzione affida esclusivamente allo Stato, quali appunto il Paesaggio. Inoltre vi è la pretesa (art.5 terzo comma) che sia la pianificazione paesaggistica ad assumere (“contemplare”) le trasformazioni territoriali e non queste ultime a doversi adeguare alle esigenze di tutela del Paesaggio.
Pare anche alquanto discutibile il riferimento alle Forze armate fatto sempre al IV comma dell'art. 3 del ddl in oggetto.
Con il DQT (Direttiva Quadro Territoriale) lo Stato si sostituisce ai territori interessati nella pianificazione, non solo con programmi di interesse nazionale, ma adottando programmi speciali anche a valenza territoriale e questo a molteplici fini fra i quali la promozione di politiche di sviluppo economico locale e altre fattispecie che rendono praticamente onnicomprensiva la facoltà di ingerenza dello Stato nella pianificazione dei governi locali.
E' inoltre improprio e non pertinente, in una legge che si presume di lunga durata, stabilire quelle norme sulla fiscalità immobiliare che il governo modula costantemente per adeguarsi alle condizioni economiche del Paese e degli enti locali.
La possibilità di costruzione in deroga ai Piani, di modificare le destinazioni d'uso, di trasferire immobili in altra area senza specificare che essa debba avere destinazione “conforme”, oltre alla discrezionalità data a premialità e compensazioni, renderebbe la pianificazione un atto quasi superfluo, ma utile alla commercializzazione dei metri cubi individuati nei Piani.
Con la commerciabilità dei “diritti edificatori” previsti all'art. 12 e l'istituzione di registri comunali che li codificano la città si manifesta sempre più, secondo questo ddl, non come un organismo complesso (oggi in condizioni già abbastanza gravi di malessere sociale e ambientale), ma come una grande agenzia immobiliare e il pianificatore come un agente di commercio della città trattata come una merce.
“Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento”. Tutto il ddl si conforma a questo principio inserito al primo comma dell'art.8, non quindi a garantire i diritti collettivi, alla salute, al benessere, alla bellezza, all'efficienza, alla mobilità alternativa, all'accessibilità ai servizi, alla dotazione di verde, alla tutela dell'ambiente e del paesaggio, diritti urbani che, secondo questo discutibile principio, possono essere sacrificati al supremo diritto della proprietà privata a cui invece la stessa Costituzione pone dei limiti in quanto afferma che “deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali”
Luisa Calimani
Giulio Tamburini
Antonio Perrotti
Manlio Marchetta
Loredana Mozzilli
Sergio Lironi
Piergiorgio Bellagamba
Teresa Cannarozzo
Laura Mancuso
Laura Fregolent
Giancarlo Storto
Maurizio Rossetto
Luca Fanton
Francesco Indovina
Valeriano Pastor
Anna Braioni
Michelina Michelotto
Vezio De Lucia
Barbara Pastor
Arianna Rossi
Franco Mancuso
Serena Jaff
Francesco Lo Piccolo
Paolo Pavan
Maurizio Garano
Vittorio Caporioni
Marino Folin
Ettore Janulardo
Giacomo Massarotto
Fernanda Faillace
Melania Cavelli
Guido Mase’
Cristiano Toraldo di Francia
eddyburg gli altri documenti di critica che ci sembra piu interessante rendere noti ai nostri lettori.
Premessa
1. PERSONE
Balzano Lucia
Finalmente una buona notizia! Grazie all'assessore Anna Marson e al presidente Enrico Rossi la Regione Toscana é la prima regione italiana che ha una buona legge per il governo del territorio. Quando si vuole si può, sebbene si debba remare vigorosamente controcorrente. Adesso é ancora più importante fermare la proposta di legge nazionale di Maurizio Lupi
Una legge di svolta, prima legge urbanistica regionale
che tutela il territorio agricolo contro il consumo di suolo
FIRENZE - «Una legge di profonda svolta, e non scontata, che mette la Toscana all'avanguardia
nelle politiche del governo del territorio. Con questa legge la Toscana potrà andare a testa alta nel
dibattito nazionale e essere di esempio».
Lo ha detto in Consiglio il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, sulla nuova legge -
appena approvata - sul governo del territorio, che riforma le legge urbanistica del 2005, facendo
leva sul freno al consumo di nuovo suolo, sulla riqualificazione dell'esistente nei terreni urbanizzati,
sulla tutela del territorio agricolo da trasformazioni non agricole, e sulla pianificazione di area vasta.
«Con l'approvazione di questa legge lungimirante che consentirà alla Toscana uno sviluppo di
qualità, diamo dignità e forza alle istituzioni. La Toscana ce la fa ad andare oltre gli interessi
particolari e afferma un punto di vista più alto. Nel tutelare il territorio per le prossime generazioni,
sembra quasi ispirarsi a una idea di politica come 'arte del rimedio' secondo la formulazione di
Machiavelli». Rossi ha voluto togliersi anche un sassolino dalle scarpe. «Da oggi i cambiamenti di coltura si potranno fare senza licenza. E lo sottolineo soprattutto ai sindaci del Chianti che tante polemiche hanno fatto sul piano del paesaggio. Non piace a nessuno essere identificato come nemico
dell'agricoltura, tanto più che oggi presentiamo una legge che il territorio agricolo lo tutela».
Anche l'assessore Anna Marson ha insistito sul fatto che «questa nuova legge pone la Toscana come
innovatrice rispetto a un dibattito nazionale che vede più proposte di norme per contrastare il
consumo di suolo. Una innovazione intesa come riforma delle regole che avvicina la Toscana alle
più avanzate normative europee». «Il lavoro che ha portato all'approvazione di questa legge è stato lungo e dialettico – ha detto ancora l'assessore - e ha visto l'impegno di molte persone. In questo percorso ci sono state modifiche che non hanno però inficiato l'impostazione iniziale, e sono orgogliosa che alcuni principi e dispositivi siano divenuti, come è emerso da molti degli interventi in aula, patrimonio comune».
Ilfattoquotidiano.it, 1 novembre 2014
Incontro “I Sindaci d’Italia "nell’Aula di Montecitorio.
«Ermete, con le sue competenze e la grande esperienza acquisita in tanti anni di importanti battaglie ambientali condotte alla guida di Legambiente, è la miglior garanzia perché questo Parlamento sappia raccogliere le tante nuove sensibilità ambientali presenti e sappia imprimere quella svolta che milioni di cittadini si attendono nella qualità della loro vita, nelle prospettive di nuovo lavoro, nella creazione di nuova bellezza nelle città come nelle aree meno urbanizzate, nel rispetto della legalità ovunque. Siamo certi che con la sua intelligenza e la sua tenacia saprà far valere le ragioni dell’ambiente e di un sano sviluppo del territorio». (Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente su Ermete Realacci, che ha votato si allo Sblocca Italia, 7 Maggio 2013)
Questo non vuol dire che associazioni con dei nomi importanti non siano di rilievo. Anche se spesso arrivano in ritardo, quando già le criticità sono note a livello locale, possono fare molto in termini di sensibilizzazione, da amplificatore mediatico e per influenzare le scelte politiche a livello nazionale.
Ed è per questo che non capisco Legambiente.
In questi mesi e settimane sono stati molteplici i comunicati di questa associazione contro lo Sblocca Italia – spesso attingendo ed ispirandosi a materiale e fonti che diciamo, sono venuti altrove. Ad esempio, qui chiedono l’abrogazione dell’articolo 38 del decreto Sblocca Italia.
Qui invece il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, durante un presidio a Montecitorio contro lo Sblocca Italia lo definisce un “decreto antiambientale, vecchio e pericoloso” aggiungendo che il decreto e’ “carico di interventi sbagliati, all’opposto del sostegno ad un’economia circolare e low carbon” e che lo Sblocca Italia ripropone un’Italia “vecchia, incapace di stare al passo con i tempi, che si limita a fare “tana libera tutti” contro i lacci e lacciuoli, che imbriglierebbero il sistema”.
Anche a livello europeo hanno avuto dure parole di critica al governo che ha mostrato “scarsa capacità di leadership e volontà politica di investire nello sviluppo di un’economia europea a basse emissioni di carbonio cedendo alla lobby del fossile“ in occasione del Consiglio Europeo su Clima e Energia svoltosi a Bruxelles durante l’ultima settimana di Ottobre.
Ma allora, perché il presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci del PD, presidente della VIII Commissione permanente Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici della Camera dei Deputati ha votato a favore dello Sblocca Italia? L’ha fatto due volte, il 23 ottobre 2014, quando c’è stato il voto alla fiducia sul governo e poi il 30 ottobre 2014 quando c’è stato il voto finale.
Come si conciliano le parole del presidente Cogliati Dezza contro lo Sblocca Italia con il voto del presidente onorario Realacci? Non è un controsenso?
Notare che, sebbene rarissimi come le mosche blu, ci sono stati dentro il Pd altri voti “ribelli”, quelli di Giuseppe Civati e di Luca Pastorino che hanno detto no allo Sblocca Italia. Quindi Realacci non può dire che non poteva fare altrimenti. Aveva una scelta, come ce l’avevano Civati e Pastorino, e ha scelto di votare sì.
Qualcuno mi dirà: e che poteva fare Realacci? Poteva fare quel che poteva fare anche Giovanni Legnini: spiegare, sensibilizzare, creare consenso a favore dell’ambiente dentro i palazzi romani spiegando a chi scrive queste leggi che è assurdo rendere la vita ancora più facile ai petrolieri in un paese come l’Italia. Se lo possiamo fare noi cittadini parlando gli uni agli altri, informandoci e creando opinione, lo può fare anche un politico, facendo l’attivista dentro i palazzi romani e magari convincendo gli altri parlamentari a rivedere queste norme trivellanti. Costa fatica, lo so. Meglio non prendersele queste gatte da pelare, vero?
Che dire. Sono sicura che il passaggio al Senato dello Sblocca Italia sarà senza inceppi per Renzi e compari. E questo significa ancora una volta che l’onere e l’onore di difendere il territorio non lo si deve delegare a nessuno – né a Renzi, ne al Pd, ne a Legambiente, né a Godot.
Purtroppo tocca a ciascuno di noi, ogni santo giorno.
Qui la lista di tutti i parlamentari della Camera e come hanno votato sullo Sblocca Italia.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/01/sblocca-italia-realacci-perche-hai-votato-si/1184727/
Una argomentata replica di Daniela Poli a un articolo di Saverio Mecca, direttore del dipartimento di Architettura dell'Università di Firenze (riportato in calce), a proposito del piano paesaggistico della Toscana. ancora una difesa del piano sottoposto alle bordate dei neoliberisti pratici della Toscana, cui si aggiunge qualche esponente dell'accademia
Caro direttore,
ti scrivo perché avendo coordinato un gruppo di ricercatori del Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio per il piano paesaggistico della Regione Toscana sono rimasta stupita e amareggiata dall'articolo a tuo nome che è apparso il 9 ottobre sul quotidiano Repubblica (in calce), dopo peraltro che si era già sviluppata una feroce campagna stampa di delegittimazione non tanto degli aspetti sostantivi del piano (poco richiamati in tutti gli articoli), ma dell’approccio complessivo che li sostiene.
Non discuto naturalmente della legittimità di comunicare pubblicamente il tuo pensiero personale. Figurando però l’articolo firmato nella tua qualifica di direttore di dipartimento ciò ha coinvolto oggettivamente il lavoro del CIST che ha sede proprio nel dipartimento di Architettura da te diretto e
con cui Regione Toscana ha stipulato un accordo istituzionale che ha previsto più di cinquanta borse (fra assegni, borse di studio, contratti) per un importo che complessivamente supera il milione di euro – compenso peraltro interamente utilizzato per il compenso dei ricercatori, poiché i docenti del CIST hanno tutti collaborato gratuitamente.
Nel tuo articolo indirizzi le tue riflessioni e richieste alla Giunta e al Consiglio regionale, ma nel farlo critichi radicalmente l’impostazione scientifica e culturale del piano che è stata oggetto proprio dell’accordo fra CIST e Regione - pur senza mai citarlo. Quando descrivi la debolezza di “politiche pubbliche solo conservative, sganciate da progetti di futuro condiviso e possibile” che “affidano la tutela solo a normazioni e vincoli ‘statici’ o legati a modelli di riferimento estetici o ecologici da sovraordinare ai processi economici e sociali e alle comunità locali” entri nel merito dell’architettura del piano alla cui definizione ha collaborato il CIST.
Nell’articolo scrivi che il materiale conoscitivo prodotto fino ad oggi è “utile e necessario” e non eccellente, ottimo e nemmeno buono (per riferirci alle valutazioni a noi note delle tesi di dottorato) ma casomai sufficiente. Ma comunque al di là del gradiente dell’apprezzamento non sarà facile far capire alla collettività e allo stesso ente pubblico, con i tagli alle spese sempre più ingenti, che quel lavoro “utile e necessario” non debba concludersi con l’approvazione del Consiglio, dopo essere già stato approvato anche dal Ministero, ma col suo “ritiro” come tu prospetti. Sinceramente dubito che la Regione Toscana continuerà a trovare affidabile per future ricerche un partner universitario come il CIST e lo stesso DIDA che si delegittima da solo. Ciò, al netto del danno rilevante di immagine arrecato a tutti i membri del CIST nonché alle relazioni faticosamente costruite all’interno dell’ateneo fiorentino e con le altre quattro università della Toscana (ateneo di Pisa e Siena; Scuola Superiore Sant'Anna e Scuola Normale di Pisa).
Entrando poi nel merito dell’articolo, come dicevo in apertura, sono rimasta stupita perché non conoscevo la tua attenzione verso le tematiche “partecipative”. Ho avuto modo di vedere in questi anni soprattutto la tua “verve decisionista”, ma certamente sarà una mia mancanza e ben venga questa sensibilità verso argomenti sempre più importanti per la pianificazione e la progettazione architettonica, urbana e territoriale. Il tema della partecipazione alla formazione di uno strumento di piano è tema complesso, ostico e molto dibattuto nella comunità scientifica.
Come sai – se non altro per aver avuto la gentilezza di presentare il testo a mia cura che documenta la prima fase della ricerca nella quale l’approccio culturale e scientifico al piano era ben delineato – si è consolidata fra urbanisti e non solo una corrente di pensiero che ha espresso la necessità di estrarre dal processo di formazione dei piani lo Statuto del Territorio, cioè il luogo dove secondo la legge toscana si devono individuare secondo modalità “partecipative” le invarianti e le risorse che stanno alla base delle identità del territorio: questo proprio per non dover sottostare ai tempi spesso ristretti del piano e per garantire il pieno dispiegamento delle pratiche necessarie alla costruzione di un senso collettivo. La legge urbanistica toscana prevede però adesso che lo Statuto stia dentro i tempi strettissimi del piano e in particolare di questo piano: poco più di un anno di lavoro. Non c’erano alternative, o proseguire con la convenzione alla quale tu stesso avevi dato avvio durante l’assessorato di Riccardo Conti, oppure abbandonare.
Abbiamo deciso di andare avanti cercando di trovare il modo per migliorare quanto di problematico c’era nella prima versione del piano paesaggistico - come a suo tempo evidenziato dallo stesso Ministero che allora non lo approvò. Nelle ristrettezze di tempo il team del piano ha svolto un’intensa
attività di informazione e comunicazione, con diversi tour che hanno toccato tutti gli ambiti territoriali; campagna accompagnata dalla concertazione con gli istituti e gli enti che già la legge toscana prevede.
Una migliore comunicazione della “retorica” del piano sarebbe certo stata utile per la sua miglior comprensione e sicuramente questa mancanza può aver creato danno all’immagine complessiva del lavoro. Ma scientificamente è utile mantenere distinte la “retorica” del piano con i contenuti e con la coerenza metodologica che ha portato alla definizione delle invarianti strutturali, dei valori, delle criticità e degli obiettivi di qualità.
Ma ciò che mi ha più colpito nel tuo articolo non è stata tanto la lunga dissertazione sulla partecipazione, ma la delegittimazione del ruolo della politica da un lato e delle politiche pubbliche dall’altro. Molti dei nostri studenti del Corso di Laurea di Empoli hanno letto nel tuo intervento una marginalizzazione della formazione del loro Piano di Studi con la quale stanno acquisendo competenze innovative e multidisciplinari nel campo della pianificazione e sono rimasti interdetti, non capendo quale sarà il loro futuro all’interno di una società come quella che tu descrivi. Infatti l’articolo fa riferimento a un paesaggio “metastorico” nel quale le decisioni e le trasformazioni sembrano essere avvenute “spontaneamente” in un intreccio di motivazioni sociali, economiche, culturali.
E’ notoriamente risaputo che in contesti ad alta densità legislativa come il nostro la definizione di regole d’uso della città e del territorio erano normate da istituti disparati, complicati e sovrapposti di natura pluriordinamentale per dirla con Paolo Grossi. Non mi posso qui dilungare su un tema centrale che rimette nella giusta prospettiva storica la pianificazione e la progettazione del paesaggio, ma il semplice rimando agli affreschi trecenteschi dell’Ambrogio Lorenzetti con la relazione fra le forme del paesaggio e il buon governo comunale la dice lunga su questo connubio. Gli statuti comunali, gli usi collettivi del bosco, i vari regolamenti minerari o quelli legati al pascolo definivano regole d’uso per garantire la riproduzione delle risorse del territorio.
Alle prime legislazioni di tutela dello stato post-unitario (1905, 1920) si sono affiancati poi i “piani paesaggistici” (1939, 1985) richiesti in primo luogo dai soprintendenti in seria difficoltà rispetto alle autorizzazioni paesaggistiche da concedere a chi ne faceva richiesta. Ma questa è la vecchia pianificazione del paesaggio, quella che dava una cornice alle aree vincolate per decreto o per legge. Nei piani di nuova generazione (dal 2004 in poi in ottemperanza del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) è tutto il territorio che deve essere studiato e valutato per individuare obiettivi di qualità e normative d’uso riferiti agli ambiti di paesaggio.
Se quella che chiami “Carta Europea del paesaggio del 2000” è in realtà la “Convenzione Europea del paesaggio” firmata a Firenze nel 2000 e sottoscritta dagli stati membri nel 2006 è noto che non si parla di generica partecipazione dalla quale discendono “naturalmente” indirizzi, ma si fa riferimento alla necessità di mettere in atto politiche, obiettivi, forme di salvaguardia, di gestione e di pianificazione. In particolare queste ultime sono indicate come “azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi”.
Ancora più delegittimante appare il modo con cui riferisci il lavoro svolto dal CIST in ordine all’individuazione degli obiettivi di qualità e delle azioni necessarie per implementarli. Parli come, ho già richiamato sopra, di politiche conservative, vincolistiche e estetizzanti, sganciate dai processi economici.
Questa ricostruzione getta discredito sull’attività di tutti gli scienziati del territorio (docenti, ricercatori,contrattisti e tirocinanti) che hanno partecipato con passione e dedizione a questa ricerca intendendo invece superare proprio quella visione vincolistica indirizzandosi verso una cultura statutaria di regole per le trasformazioni future. Immagino avrai letto integralmente i documnti del piano prima di esprime un giudizio così forte e non ti sia limitato alla vulgata che appare sui quotidiani (esaltata in termini diffamatori dal Foglio e dal Giornale) o alle osservazione depositate dagli ordini professionali. Ma evidentemente il messaggio non è arrivato nella maniera corretta.
Ai vari documenti del piano (in cui il CIST ha riunificato competenze diverse che vanno dall’archeologia, alla storia, alla geografia, alla geologia, all’urbanistica, all’architettura, all’ecologia, alla storia dell’arte, all’economia agraria, alla pedologia, ecc.) non ha lavorato una setta o un’accolita minoritaria, ma un gruppo di scienziati che hanno avuto come finalità la comprensione e valutazione delle dinamiche ecologiche, territoriali e paesaggistiche, privilegiando l’intreccio fra dimensione storico-strutturale, ecologica ed estetico percettiva.
Il piano in fondo ha inteso definire una base certa e scientificamente fondata per la futura manutenzione e trasformazione del territorio toscano, partendo dai valori, ma anche dalla tante criticità presenti. Il paesaggio toscano è fortemente a rischio e non solo idrogeomorfologico, ma anche economico, ecologico e paesaggistico. I molti scempi che sono stati realizzati in Toscana (dalle cave che stanno erodendo le Alpi Apuane, all’urbanizzazione lungo gli alvei fluviali, alle urbanizzazioni di bassa qualità, ai paesaggi sempre più banalizzati, ecc.) sono stati perpetrati perché la legislazione lo permetteva, perché non c’erano indirizzi che consentissero di trasformare e di fare attività economica rispettando e valorizzando i fondamenti complessi del paesaggio.
I documenti del piano intendono fornire conoscenze e opportunità per voltare pagina, perché non ci siano città e territori allagati come oggi Genova, ieri la Lunigiana o la Sardegna e l’altro ieri Campi Bisenzio, perché l’agricoltura costruisca nel suo farsi un bel paesaggio utilizzando tutti gli incentivi provenienti dal Programma di Sviluppo Rurale, perché le città possano vedere riqualificati i propri margini e gli water front.
Le tante persone che hanno lavorato assieme non hanno infatti redatto solo belle cartografie (anche se vale la pena ricordare il premio che un’istituzione statunitense ha conferito alle carta dei caratteri del paesaggio della Toscana, che inorgoglisce tutto il gruppo di lavoro), ma hanno costruito un quadro conoscitivo importante imperniato sulla definizione delle quattro invarianti che costituiscono il piano, ossia i caratteri idro-geomorfologici dei sistemi morfogenetici e dei bacini idrografici (la struttura fisica fondativa dei caratteri identitari alla base dell’evoluzione storica dei paesaggi della Toscana), i caratteri ecosistemici del paesaggio (la struttura biotica che supporta le componenti vegetali e animali dei paesaggi toscani), il carattere policentrico e reticolare dei sistemi insediativi, infrastrutturali e urbani (la struttura dominante il paesaggio toscano risultante dalla sua sedimentazione storica dal periodo etrusco fino alla modernità), i caratteri identitari dei paesaggi rurali toscani. Ognuna delle quattro invarianti ha definito indirizzi, che sono una sorta di manuale d’uso del territorio, non “staticità” o “vincoli” ma una gestione consapevole, mediante la quale continuare nella costruzione dei diversi paesaggi toscani mantenendone riconoscibilità e struttura.
Mi dispiace che anche tu pur di formazione urbanistica utilizzi in maniera ambigua il termine “vincolo”. Nel piano regolatore come tu ben sai i “vincoli” sono limitati alle zone da espropriare (ormai praticamente inesistenti e sostituite dalle pratiche perequative) o alle zone o aree notificate o tipologie specifiche per finalità di tutela (servizi e utilità pubbliche, beni culturali, vincolo paesaggistico) questi ultimi necessitanti come noto di una relazione per poter effettuare le trasformazioni richieste. Nel piano paesaggistico ora in approvazione i “vincoli” sono limitati alle aree individuate per decreto o per legge dove vigono prescrizioni: non a tutto il territorio, dove appunto vigono indirizzi e direttive che definiscono regole per la trasformazione. Il poderoso impegno scientifico del gruppo di lavoro è invece stato quello di far scaturire in maniera interdisciplinare dalle quattro invarianti e dalle altre elaborazioni e attività gli obiettivi di qualitàfinalizzati a dare regole d’uso (e quindi di recupero, di salvaguardia, di trasformazione) del territorio.
Naturalmente se per “vincolo” si intende un “indirizzo per le politiche” quale quello presente nell’ormai famoso ambito del Chianti che recita: “Gli obiettivi a livello di ambito per l’invariante ecosistemi sono finalizzati principalmente a mitigare e limitare i processi di perdita degli ambienti agropastorali tradizionali, evitando la diffusione estensiva di nuovi vigneti specializzati in ambito collinare, a ridurre i processi di urbanizzazione nelle aree di fondovalle e quelli di ricolonizzazione arbustiva e arborea negli ex ambienti pascolivi dei crinali montani”, allora è tutto un vincolo: lo è anche il legame sociale che regola l’uso della strada e richiede agli individui di fermarsi col rosso. Lo sono per estensione tutte le norme sociali anche non scritte che consentono la vita associata. Mi chiedo infatti chi potrebbe scrivere che gli obiettivi per il Chianti dovrebbero essere finalizzati “a incentivare i processi di perdita degli ambienti agropastorali tradizionali, a diffondere estensivamente i nuovi vigneti e le urbanizzazioni di fondovalle” e così via.
Credo sinceramente nessuno degli appartenenti alle comunità locali lo farebbe, vista anche la crescente sensibilità ambientale e paesaggistica diffusa nella popolazione. Chi osteggia l’impostazione culturale e scientifica che sorregge il piano non va ricercato fra gli abitanti, gli agricoltori medi e piccoli, la cittadinanza attiva, gli imprenditori consapevoli - che peraltro hanno presentato diverse osservazioni per chiedere maggiore tutela e una normativa più stringente - ma fra i portatori di interessi forti.
La bagarre di questi giorni, nella quale tu sei intervenuto con la tua voce autorevole, cerca semplicemente di discreditare una nuova cultura interdisciplinare della pianificazione del territorio nella quale le ragioni del territorio e del paesaggio sono messe in luce con l’intendo di sostenere forme di governance attente a non lasciare il potere unicamente a quelle lobbies normalmente silenti che cercano di governare senza dare troppo nell’occhio. Il clamore, il discredito, la violenza non fanno altro che convincermi che stiamo percorrendo una strada di rinnovamento importante.
Non so certamente quale sarà la stesura finale del piano e che fine farà il lavoro del CIST, ma rivendico il portato scientifico e la robustezza della metodologia seguita nella collaborazione alla redazione del piano. Rivendico anche lo sforzo che tutti abbiamo compiuto nel consegnare in maniera leggibile alla popolazione toscana le ragioni della bellezza che in molti hanno la fortuna di vivere ogni giorno e le ragioni delle tante criticità che offendono i luoghi e i loro abitanti.
Sono disponibile e ben felice di discutere con te, con tutto il consiglio e con i nostri studenti di questo lavoro bello e faticoso che collettivamente abbiamo svolto per uno sviluppo coerente e consapevole della Toscana e del suo paesaggio.
Daniela Poli è docente di Pianificazione e Progettazione del Territorio e del Paesaggio del Dipartimento di Architettura – Università di Firenze. E componente del Comitato Scientifico del CIST
Fermate il Piano paesaggistico, la parola ai toscani
di Saverio Mecca
L'ambiente, la città e il territorio sono costruzioni umane, le principali strutture complesse con cui l’uomo trasforma la natura e l'addomestica. Il paesaggio ne è un’espressione, parziale e dinamica, perché al modificarsi dell’economia, della società e delle conoscenze, anche il paesaggio muta e si trasforma in un processo continuo ed incessante, diventando “altro” insieme ai suoi abitanti. Ma cambia nel tempo anche la percezione individuale e collettiva del paesaggio e, con questo, cambia il valore che gli viene assegnato.
Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2014
È la “deroga Leopolda” e viene concessa all’unanimità. Funziona così. Il governo presenta il decreto Sblocca Italia il 12 settembre: un mischione di pessime norme che dovrebbero rilanciare la crescita. La Camera, dove il testo è in discussione, riesce persino a peggiorarlo: oltre agli orrori del governo, la commissione Ambiente inserisce tutta una serie di emendamenti non coperti durante una seduta notturna della scorsa settimana. Il testo arriva in aula mercoledì e subito la discussione viene stoppata: mancano i pareri del ministero dell’Economia proprio sulle coperture. La commissione Bilancio lavora tutta la sera di giovedì e finisce per bocciare la bellezza di 50 emendamenti. Ieri mattina, il testo torna di nuovo in aula per essere rispedito in commissione Ambiente: lì si provvede a escludere formalmente le norme scoperte.
A mezzogiorno il decreto è pronto per la discussione in Assemblea e il governo pone subito la fiducia sul testo. Pausa. Si va in Conferenza dei capigruppo per stabilire il calendario dei lavori e Maria Elena Boschi chiede ai gruppi “il favore” di non aspettare 24 ore per votare, come prevede il Regolamento, ma di concedere una deroga e iniziare la chiama fin dal pomeriggio: «Domani inizia la Leopolda», spiega la ministro. Tradotto: mica ci vorrete far stare qua invece che a Firenze? Le opposizioni lasciano fare: certe gentilezze una volta erano riservate ai congressi di partito, oggi basta una convention non ufficiale.
Lega e M5S si sono accontentate, considerandolo un successo, di trattenere due giorni in più il provvedimento a Montecitorio: il voto finale avverrà giovedì anziché martedì. Il risultato sarà che il Senato avrà ancora meno tempo per discutere il decreto e zero possibilità di modificarlo: il testo, infatti, scade l'11 novembre e arriverà a Palazzo Madama solo il 31 ottobre. Neanche due settimane in cui andrà approvato senza emendamenti con la probabile nuova fiducia.
Passa in carrozza, insomma, lo Sblocca Italia – testo peraltro su cui si formalizza l’ingresso in maggioranza degli ex vendoliani di Gennaro Migliore, che ieri hanno votato la fiducia – di gran lunga il peggior decreto dell’era Renzi. Un breve riassunto aiuterà a capire: lo Sblocca Italia contiene un incredibile prolungamento delle concessioni autostradali fino al 2038 (in cambio di 10 miliardi di investimenti che avrebbero dovuto essere già realizzati) criticato tanto dall’Autorità Antitrust che da quella dei Trasporti; restano nel testo pure tutte quelle semplificazioni autorizzative negli appalti che hanno spinto Bankitalia e l’Autorità Anticorruzione a parlare di un rischio di aumento delle mazzette; il ministero delle Infrastrutture (ai danni di Ambiente e Beni culturali) avrà l’ultima parola sul via libera ai cantieri in aree archeologiche (la Metro C di Roma); i controlli ambientali e i vincoli paesaggistici vengono indeboliti; si affida ai fondi immobiliari la cementificazione del demanio pubblico inutilizzato; si incentiva la trivellazione dello Stivale per raddoppiare la produzione di petrolio; si dichiarano tanto le trivelle che gli inceneritori “opere strategiche di interesse nazionale” ; si concede al Tesoro il potere di indicare le linee guida per investire i 20 miliardi di risparmio postale amministrati da Cassa depositi e prestiti (in “opere strategiche” peraltro). L’elenco potrebbe continuare, ma anche questo basta a dar ragione al portavoce dei Verdi, Angelo Bonelli: “Se questo decreto l’avesse firmato Berlusconi, il Pd sarebbe sceso in piazza”. Ma l’uomo nero non c’è più, sono rimasti quelli grigi.
Nessuno dei molteplici disparati “casi” contemplati nei 45 articoli di questo decreto “sblocca Italia” può dirsi “straordinario”e investito “di necessità e urgenza”, come è stato con attenzione in altra sede osservato. Un’eccezione pregiudiziale di legittimità costituzionale che travolge l’intero provvedimento.
Se può essere riconosciuto come “caso” – ci torneremo subito - il “comprensorio di Bagnoli – Coroglio” considerato nell’undicesimo (e nei due consecutivi finali) comma dell’art.33, di “caso” non si può certo parlare per quanto dispongono i precedenti dieci commi che dettano la disciplina generale delle aree di rilevante interesse nazionale ai fini della bonifica ambientale. Una disciplina innovativa che va ad integrare quella del testo unico dell’ambiente (che nell’art. 252 prevede i “siti di interesse nazionale” individuati secondo specifici criteri di selezione assai restrittivi, attribuendo l’identificazione e la procedura di bonifica alla competenza del ministero dell’ambiente) e opererà dunque come corpo normativo a regime.
Scavalcate le attribuzioni del ministero dell’ambiente, l’art. 33 rimette la individuazione delle aree di rilevante interesse nazionale alla deliberazione del consiglio dei ministri (ma non indica alcun criterio che orienti la speciale selezione al riguardo, a differenza della stringente previsione dell’art.252 del testo unico) ed è al Governo attraverso i suoi commissari straordinari che spettano le funzioni amministrative del procedimento di bonifica ambientale “per assicurarne l’esercizio unitario” “sulla base dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”. Certo può muoversi un rilievo di irragionevolezza nella adozione del modello del commissario straordinario per affrontare situazioni di fatto (deve necessariamente intendersi) bisognevoli di bonifica, non identificate però neppure per criteri generali. Ed è fondata pure la contestazione di merito su opportunità – efficacia di una formula organizzativa di esasperato accentramento, che riflette una considerazione negativa della idoneità al riguardo di regione ed enti locali. Ma se fosse superata, in ipotesi, la pregiudiziale del difetto del caso straordinario di necessità e urgenza e la disciplina di bonifica ambientale per aree dichiarate di interesse nazionale fosse introdotta attraverso l’iniziativa che spetta al Governo, con la presentazione alle camere di un disegno di legge, si tratterebbe tuttavia dell’esercizio di una potestà legislativa esclusiva dello Stato nella materia di “tutela dell’ambiente” secondo l’art. 117, comma 2, lettera s), Cost.
Ma la rottura dell’ordine costituzionale di attribuzione della potestà legislativa è operata dall’art. 33 là dove esso si propone di disciplinare, nelle medesime forme e contestualmente alla bonifica ambientale, “la rigenerazione urbana” delle aree che saranno dichiarate “di rilevante interesse nazionale”, costruendo un modello normativo speciale di pianificazione territoriale finalizzato, oltre al risanamento ambientale, “alla riconversione delle aree dismesse e dei beni immobili pubblici, al superamento del degrado urbanistico ed edilizio, alla dotazione dei servizi personali e reali e dei servizi a rete, alla garanzia della sicurezza urbana”.
Si tratta dunque di una dichiarata invasione nella potestà legislativa di “governo del territorio” che spetta alle regioni nella materia di legislazione concorrente, essendo riservata alla legislazione dello Stato la sola “determinazione dei principi fondamentali”(art. 117, comma 3, Cost.). L’art. 33 rifiuta di dettare principi fondamentali di orientamento e vincolo per la legislazione regionale e direttamente interviene per costruire uno speciale strumento di governo del territorio rigidamente accentrato e gestito da “commissario straordinario del governo” e “soggetto attuatore”, con i contenuti propri della pianificazione urbanistica, come “localizzazione delle opere infrastrutturali per il potenziamento della rete stradale e dei trasporti pubblici e le altre opere di urbanizzazione primaria e secondaria funzionale agli interventi pubblici e privati”, e perfino “la previsione urbanistico-edilizia degli interventi di demolizione e ricostruzione e di nuova edificazione e mutamento di destinazione d’uso dei beni immobili, comprensivi di eventuali premialità edificatorie”; “fermo restando il riconoscimento degli oneri costruttivi in favore delle amministrazioni interessate”. E, sigillo di chiusura del sistema, l’approvazione di un tale programma costituisce variante urbanistica automatica della vigente pianificazione.
L’insistita lettura dell’art.33 con la puntuale ripresa dei contenuti propri di questo anomalo modello di intervento statale ci è servita fin qui per non lasciar dubbi che non di determinazione di principi fondamentali nella materia di governo del territorio si tratta. E dunque è offesa la potestà legislativa delle regioni. Ma la considerazione di quei contenuti ci dice che insieme è offesa la titolarità di funzioni amministrative proprie di cui i Comuni sono titolari (art. 118, comma 2, Cost.). L’espresso richiamo (comma 2 dell’art. 33) alla esigenza di esercizio unitario della funzione, perciò avocata al più alto livello della amministrazione (al Governo dello Stato!), “sulla base dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”, se mai possa valere per gli interventi di bonifica ambientale dagli inquinamenti, non può dare legittimo fondamento alla espropriazione della forse più qualificante, anzi fondante, attribuzione comunale di pianificazione territoriale, la potestà urbanistica, che ben può, e quindi deve, essere esercitata nei modi ordinari pure sulle aree oggetto di bonifica ambientale: rifiutata la tentazione di pagare la bonifica ambientale con la rivalutazione delle aree di risulta, attraverso le “premialità edificatorie” sinistramente evocate a strumento proprio dello speciale programma. Come se la rigenerazione urbana di vaste zone di sofferenza ambientale possa essere programmata nei modi dell’intervento speciale, protesi estranea al coerente disegno di generale pianificazione della complessiva città.
Veniamo infine al precipitato degli ultimi tre commi che l’art.33 dedica alle “aree comprese nel comprensorio Bagnoli – Caroglio” dichiarate con lo stesso provvedimento di rilevante interesse nazionale “per gli effetti di cui ai precedenti commi”, di immediata applicazione dunque per questo comprensorio. Anzi non è arbitrario riconoscere che tutto l’impalcato dell’articolo sia costruito in questa esclusiva funzione e che il modello generale dei primi dieci commi, rimesso a una attuazione libera da tempi stringenti (a contraddire l’urgenza!), sia destinato a rimanere altrimenti inerte. E quanto sia perverso il sistema è rivelato proprio da questa applicazione che giungerebbe a vanificare una stagione di virtuosa e ancora vigente pianificazione di quella essenziale parte dell’insediamento urbano, la cui rigenerazione urbana era stata responsabilmente programmata attraverso la conversione al verde (un grande parco di 120 ettari!), al servizio pubblico – cioè - di cui la città è dolorosamente carente.
Sull'art. 33 dello Sblocca-Italia, su eddyburg: Bagnoli negata
Colto in flagrante sull’impostazione dello Sblocca Italia che stanzia 110 milioni per la difesa idrogeologica (comma 8 dell’art. 7) e 3.890 milioni per i cementificatori e asfaltatori d’Italia (comma 1 dell’art. 3), il primo ministro Renzi ha richiamato su Facebook i pilastri del suo disegno di riforma del paese: «Si chiamano Sbloccaitalia, riforma della P.A., riforma costituzionale, riforma della giustizia, cantieri dell’unità di missione le priorità per l’Italia che vogliamo». In questo modo si è dato la zappa sui piedi perché le cifre sono quelle che abbiamo riportato: alla salvaguardia dalle alluvioni vengono destinate risorse pari al 3% di quanto si regala alle consorterie delle grandi opere.
«Userò la stessa determinazione per spazzare via il fango della mala burocrazia», ha poi affermato Renzi. Dietro questa frase c’è la filosofia che ha ispirato lo Sblocca Italia con la cancellazione di regole e controlli. È una cura fallimentare: i ricorsi contro gli appalti per la riduzione del rischio idrogeologico di Genova non sono stati infatti presentati da «comitatini o professoroni». L’impresa che si è vista sfuggire l’appalto è infatti di proprietà di una tra le maggiori imprese di Genova. E se un imprenditore arriva a denunciare una gara è perché a furia di semplificare, gli appalti in Italia vengono assegnati nella più assoluta discrezionalità da parte della politica. Per importi fino a 500 mila euro è sufficiente una gara informale ed è evidente che un sindaco può far vincere chi vuole. Negli ultimi venti anni si sono alterate le regole del gioco economico e della trasparenza in favore della discrezionalità.
Del resto, è stato proprio Renzi che — in seguito agli scandali che hanno fatto emergere la facilità con cui i privati potevano agire in piena discrezionalità e rubare cifre gigantesche nella realizzazione delle grandi opere — ha nominato uno straordinario magistrato come Raffaele Cantone a capo della Civit, l’autorità nazionale anticorruzione, e commissario alla realizzazione dell’Expo 2015. Il governo “commissaria” le grandi opere per ricostruire le regole e con lo Sblocca Italia estende il modello discrezionale a tutte le opere pubbliche. Non c’è chi non comprenda la follia di questa prospettiva.
La tragedia di Genova dimostra che lo Stato dovrebbe concentrare tutte le risorse nell’opera di risanamento idrogeologico del paese. Dall’inizio del 2014 le grandi alluvioni sono state 10, hanno causato 11 morti e immense devastazioni. Se il governo avesse a cuore il destino dell’Italia dovrebbe cambiare agenda e impiegare tutte le intelligenze che abbiamo in campo tecnico per l’immensa opera di risanamento idraulico e geologico di un paese che sta franando sotto i colpi del cambiamento climatico.
In questo campo, la fretta e la semplificazione non sono le migliori consigliere. Nel campo idrogeologico è necessaria una visione di lungo periodo per ricostruire l’equilibrio del territorio, così come era previsto nella legge sulla difesa del suolo (183/89) che imponeva di fare i piani di bacino idrografico in Italia. È stata la politica a non volerla attuare, la difesa del suolo è stata sconfitta dai cementificatori e per questo le nostre città sono spazzate via dalla furia delle acque. Altro che burocrazia.
Franco Gabrielli, capo della protezione civile, conosce per il ruolo che svolge l’insostenibilità dello stato del territorio: qualche mese fa, dopo l’ennesima alluvione, aveva azzardato l’ipotesi della moratoria del cemento per rimettere in ordine l’ambiente. Se Renzi vuole davvero cambiare verso al paese lo nomini ministro per la Cura del Territorio e licenzi Maurizio Lupi, il convinto amico del cemento.
E infine le risorse. Per uscire dalla miseria dei 110 milioni previsti nello sblocca Italia (solo per riparare i danni di Genova ne dovremo spendere 400) il primo ministro ha azzardato che utilizzerà al più presto i 2 miliardi per la difesa del territorio non spesi «per colpa della burocrazia». Non è vero, ma non fa nulla: per cambiare verso stanzi davvero cifre pari a quelle che regala alle grandi opere. Con i 4 miliardi previsti per i tanti inutili Mose, si potrebbe riportare in pochi anni la sicurezza nel territorio italiano. È l’ultima occasione per salvare l’Italia dal fango che la sta sommergendo.
jolly spazza comitatini: la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera prevista. I Comitatini, intanto, si sono dati appuntamento per il 15 e 16 ottobre a Montecitorio“. Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2014
Come annunciato apriamo una parentesi per approfondire il pessimo Sblocca Italia.
Il decreto che il tweet premier ha partorito, insieme soprattutto al ministro Lupi, sotto la dettatura ideologica del partito del cemento e delle lobbies del petrolio, dell’energie e degli inceneritori.
Era partito da lontano Matteo Renzi. Qualche mese fa annunciava la propria determinazione a sbarazzarsi dei tanti comitatini che si oppongono nel paese al modello di sviluppo da lui perfettamente incarnato. L’ha fatto ovviamente con un bel colpo mediatico. A un paese stanco ed in crisi profonda, ha indicato i comitatini come un intralcio per le sue riforme e per la sua energia: “È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata.
«Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei tranquillamente raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini».
Ecco fatto. “Volete il lavoro? Volete energia? Io sono rapido e potrei fare questo, quello e quest’altro, ma ci sono i comitatini che me lo impediscono!”
Partiamo da qui. Partiamo da quello che lo Sblocca Italia, prima ancora di vomitare asfalto e cemento sulle campagne e di penetrare con trivelle la terra e il mare tanto amato da viaggiatori e poeti, deve portare a casa come una premessa necessaria, un lavoretto preliminare: azzerare la partecipazione dei cittadini e dei sindaci per imporre - seguendo una logica verticale, dall’alto verso il basso - tutte le “pillole” di devastazione e saccheggio di territorio e bellezza.
Il decreto è munito di una splendida e meravigliosa “arma letale” un specie di jolly spazza comitatini: la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera prevista. Ciò significa che utilizzando il jolly si partirà veloci con l’esproprio e ogni opposizione sarà rimossa, ogni contestazione tacitata, e se i comitatini o i sindaci continueranno a mettersi di traverso, saranno guai. Sono interventi strategici, sono per il bene del Paese. E se qualcuno si oppone interviene la celere. L’Italia sarà un’enorme Val di Susa? Lo vedremo.
I Comitatini, intanto, si sono dati appuntamento per il 15 e 16 ottobre a Montecitorio.
Il 90% dell’archeologia di scavo è oggi archeologia d’emergenza o preventiva. Ormai da molti anni, lo scavoarcheologico non è più, se non in minima percentuale, lo strumento di un progetto di ricerca, deciso a priori nelluogo, nei tempi, nella metodologia, bensì un “effetto collaterale” di attività sul territorio che hanno altrefinalità rispetto alla ricerca storico scientifica.
In Paesi di straordinaria stratificazione storica come il nostro, si tratta di un “incidente di percorso” frequentissimo: secondo il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, cui compete in sede esclusivala gestione/coordinamento di tali operazioni, gli scavi diquesto tipo ammontano a circa 6-7.000 l’anno.
Parlare di archeologia preventiva (o d’emergenza) significa quindi parlare di archeologia, tout court, della situazione del precariato giovanile, del legame -inscindibile e tuttora largamente incompiuto- fra tutela del patrimonio e pianificazione territoriale.
Nata alla fine degli anni 70, l’archeologia preventiva ha di fatto provocato, almeno in gran parte degli altri Paesieuropei, un radicale ripensamento metodologico della disciplina, introducendo nuove pratiche e la nascita dinuove figure professionali che sono chiamate a gestire i cantieri archeologici, coordinate in Italia dal personale del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo che, anche a causa delle note carenze di personale, non riesce a condurre direttamente gli scavi.
Nel 1992, in concomitanza con l’avvio dei grandi progetti continentali di infrastrutturazione -i corridoi transna-zionali tuttora in costruzione- il Consiglio d’Europa, con grande tempismo, emanò un innovativo documentomirato alla tutela del patrimonio archeologico, noto come Convenzione di Malta. La ratifica ed introduzione dellaConvenzione di Malta in quasi tutti i Paesi europei ha contribuito, almeno fino allo scoppio dell’attuale crisieconomica, all’evoluzione decisiva, in termini metodologici e di opportunità lavorative, di questo settoreprofessionale per migliaia di archeologi e ricercatori di discipline correlate.
A distanza di 22 anni l’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione di Malta e purtroppo, neppure il nostro Codice dei Beni culturali ha saputo adeguare le normative di tutela all’evoluzione della disciplina: l’archeologia del Codice è ancora quasi esclusivamente una disciplina accademica di matrice ottocentesca. Ma, elementoancor più grave, le procedure di archeologia preventiva previste (articolo 28, comma 4), caso unico in Europa,sono circoscritte alle sole opere pubbliche, mentre la proprietà privata ne rimane a tutt’oggi esente. L’accenno fugace del Codice ha reso necessarie poi ulteriori precisazioni normative (legge 109/2005 e articoli 95 e96 del d.lgs 163/2006) che però hanno lasciato pesanti lacune interpretative tuttora non risolte.
Ambiguità e incertezze normative hanno favorito un rapporto squilibrato (per usare un eufemismo) fra università e cooperative di scavo o ditte specializzate, ma soprattutto un contesto che non assicura condizioni di lavoro sufficientemente dignitose (si parla ormai, per ricercatori plurispecializzati, di tariffe orarie di 5 euro)agli archeologi professionisti, e, sul piano della tutela del patrimonio archeologico lascia irrisolti i problemilegati alla valorizzazione del patrimonio emerso e alla gestione dei depositi del materiale scavato.
Su questa situazione non certo ottimale si sono abbattuti in rapida successione gli innumerevoli provvedimentilegislativi che, dall’inizio della crisi economica, con l’obiettivo (pretesto?) di far ripartire l’economia (masi legge edilizia), hanno di fatto eroso mano mano gli spazi d’azione degli organismi di tutela in particolareper quanto riguarda le attività sul territorio.
Quasi inevitabile che proprio l’archeologia preventiva, in grado di bloccare i lavori per tempi spesso anche lun-ghi e non sempre circoscrivibili, sia nel mirino di chi sta conducendo una campagna volta alla delegittimazione delle pratiche di tutela.
Lo Sblocca-Italia rischia di essere il colpo definitivo che annichilisce una disciplina in Italia mai compiutamente decollata: innanzi tutto perché, come ben spiegato da altri interventi qui raccolti, procede ad un sistematico ribaltamento delle gerarchie costituzionali. Le esigenze del patrimonio devono cedere il passo sempre e comunque alle opere infrastrutturali, di cui il patrimonio archeologico rappresenta uno degli ostacoli più insidiosi.D’altro canto, nella farraginosa congerie di opere più o meno “grandi” indicate nel decreto, la quasi totalità, dalle tratte ferroviarie a quelle autostradali, dagli impianti di reti, agli aeroporti e alle metropolitane (oltre a Roma, Napoli e Torino si parla di Palermo e Cagliari) sarebbe appunto interessata dalle procedure di archeologia preventiva che, proprio per questo, occorre delimitare accuratamente.
Oltre alla compressione del dissenso nelle conferenze di servizio (nella grande maggioranza dei casi espresso proprio dagli organismi di tutela, articolo 1 comma 4, articolo 4 comma 1), quindi, si generalizza il ricorso al silenzio-assenso e si attribuisce un carattere di “atto di alta amministrazione” alla deliberazione del consiglio dei ministri (articolo 25).
Stricto sensu, e al contrario di come è stata spesso interpretata in Italia dal ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, fare archeologia preventiva non significa scavare tutto ciò che di valore archeologico emerge nel corso di interventi sul territorio, ma, piuttosto, attraverso metodi e strumentazioni adeguate, riuscire a definire in anticipo il “rischio” (o meglio potenzialità) archeologico di un’area interessata da un progetto in modo da modificarlo, nel tracciato, nelle dimensioni, nelle modalità d’impatto e da tutelare così il patrimonio archeologico “radicalmente”, senza ricorrere a scavi estensivi che sono in ogni caso episodi distruttivi e che, come sottolineò per prima la raccomandazione UNESCO del 1956, abbiamo il dovere di ridurre al massimo, soprattutto nell’incertezza sulla loro gestione successiva. Ciò non sempre è possibile, ma è certamente un obiettivo che può essere perseguito, innanzitutto attraverso la pianificazione territoriale: è solo a questo livello, infatti, così come segnalava già la Convenzione di Malta nel 1992 (articolo 5) che possono essere definite strategie di tutela del patrimonio archeologico efficaci perché intraprese “a monte” e quindi realmente preventive.
Lo Sblocca-Italia, al contrario, rappresenta la negazione in radice delle pratiche di pianificazione, comunque intese, giungendo a sospendere la valenza di piani urbanistici e paesistici (articoli 7 e 33), e per conseguenza le loro garanzie di tutela. Oltre a ciò, l’intervento degli organismi di tutela è rigidamente e sistematicamente compresso sia in termini temporali, sia negli ambiti decisionali: trattati come ospiti indesiderati, i rappresentanti della tutela subentrano -quando è loro concesso- solo a “cose fatte”: negata loro qualsiasi possibilità di intervento a livello progettuale, anche in fase di verifica la loro azione è predefinita nelle finalità e al più può essere quindi di “mitigazione del danno”, mai di opposizione radicale (articolo 1 comma 4).
Invece che inserire, come vorrebbe la Convenzione di Malta, gli organismi di tutela fin nelle prime fasi progettuali, lo Sblocca-Italia li espelle dai tavoli decisionali, confinandoli ad un ruolo marginale e mai inappellabile e sancendo, a livello legislativo, la sudditanza delle ragioni del patrimonio rispetto ad esigenze “altre”.
Così, quando nel decreto troviamo l’ingiunzione secondo la quale entro dicembre prossimo, dovranno essere emanate quelle linee guida di regolamentazione delle procedure “di verifica preventiva dell’interesse archeologico” (articolo 25 comma 4), previste già dal d. lgs 163 del 2006 (dopo 8 anni di inutili tentativi si pretenderebbe quindi di emanarle in qualche settimana), i sospetti si fanno fortissimi: secondo voi nella discussione fra i due ministeri coinvolti -Infrastrutture e trasporti versus Beni culturali- quali ragioni prevarranno?
Convenzione di Malta
Articolo 5
Ogni Parte si impegna:
i. a cercare di conciliare e articolare i bisogni dell’archeologia e della pianificazione, facendo in modo che degli archeologi partecipino:
a. alle politiche di pianificazione volte a definire delle strategie equilibrate di protezione, conservazione e valorizzazione dei siti di interesse archeologico;
b. allo svolgimento delle diverse fasi dei programmi di piani- ficazione;
ii. a garantire una consultazione sistematica tra archeologi, urbanisti e pianificatori del territorio, al fine di permettere:
a. la modifica dei progetti di pianificazione che rischiano di alterare il patrimonio archeologico [...]
l Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2014
Dal mare tropicale alle montagne innevate in soli due minuti. Fondi caraibici e la pista di slalom gigante. Una funivia avrebbe collegato la spiaggia ai monti, il caldo al freddo, il sole alla neve. Sembra di essere tornati all’inizio degli anni Settanta quando Calogero Mannino radunò in piazza i cittadini di Sciacca e annunciò: “Dite ai vostri figli di tornare in città. C’è lavoro per tutti, finalmente”. Sembra che Matteo Renzi abbia preso molto dalla filosofia del potente democristiano siciliano. Ha creato Italia sicura, che deve preservare il nostro Belpaese dai dissesti idrogeologici, deve curare le ferite di mezzo secolo di devastazione e però ha firmato il decreto Sblocca Italia che consegna lo stesso Paese devastato ai devastatori, traveste i costruttori in commissari delle grandi opere pubbliche, ed elimina nella sostanza ogni forma di controllo pubblico. “Padrone in casa tua”, disse Berlusconi in uno dei suoi formidabili slogan che perforarono il cuore di tanti cittadini in attesa. Padrone in casa tua, ripete oggi Renzi. Anzi lo scrive: nero su bianco.
Oggi che Genova offre questo ennesimo spettacolo di distruzione e di morte, frutto soprattutto di cattivi piani urbanistici figli di interessi immobiliari diffusi e deviati, oggi che costruzioni e ostruzioni di massa allagano la città e la rendono permanentemente pericolosa, il premier spiega qual è il problema: “Fare presto, sbloccare le opere che devono salvare la città”. È un proponimento all’apparenza giusto, perché circa 35 milioni di euro per la messa in sicurezza di alcuni corsi d’acqua sono fermi grazie alle postille burocratiche, ai ricorsi amministrativi, agli appelli e alle contese. Se per un attimo Renzi volesse approfondire il tema capirebbe che i cavilli, nove volte su dieci, sono armi speciali autorizzate e legalizzate in mano a quei costruttori che lui medesimo sta eleggendo a commissari. Per fare un esempio: la Metro C di Roma è costata grazie ai cavilli 600 milioni di euro (varianti, arbitrati, aggiornamenti prezzi) e dieci anni di ritardi. Il governo ha eliminato il problema eliminando i controlli. Scrive Salvatore Settis su Rottama Italia (scaricabile gratuitamente su altreconomia.it ), un libro di vari autori che documentano le continue devianze dal diritto a cui sarà sottoposto il paesaggio italiano: “Col silenzio-assenso ogni richiesta si intende accolta. Anche se comporta la distruzione di un’area archeologica, lo sventramento di un palazzo barocco, la riconversione di una chiesa medievale in discoteca, l’edificazione di un condominio su una spiaggia”. O anche – come a Genova – alla foce di un torrente, potremmo aggiungere. Tutto è permesso, in ragione della costruzione. Nel decreto Sblocca Italia le lentezze sono opera della burocrazia inetta e non figlie di norme volute dal Parlamento, destinate esattamente al loro scopo. Ritardare, arzigogolare, rallentare, negoziare. In Italia si spende un milione di euro al giorno per far fronte solo alle varie emergenze. E questo governo interpreta sia la vittima che il carnefice: manda in scena oggi il ministro dell’Ambiente Galletti (“No ai condoni”), mentre il suo collega Lupi, quello delle Infrastrutture, rade al suolo la concessione edilizia e codifica una certificazione autonoma del privato cittadino. È il privato che sancisce se è violato o meno l’interesse pubblico e il privato che garantisce che il suo cemento non reca danno, non ostruisce, non danneggia. In Italia sono circa sei milioni di cittadini che vivono in luoghi altamente a rischio e circa settemila comuni dal territorio fragile.
Rottama Italia. 16 testi d'autore, 13 vignette d'artista
Il progetto per il recupero di Bagnoli — luogo di antica e mitica bellezza, sotto le falesie di Posillipo, affacciato su Nisida e sulle isole del Golfo — fu in seguito perfezionato nel nuovo piano regolatore e nel piano attuativo che fecero seguito agli indirizzi del 1994. Ed è bene ricordare che, seppure fondate su previsioni a bassa densità e di minima nuova edificazione, fu anche autorevolmente verificata la redditività e la convenienza delle trasformazioni previste. Nel 1999 un vincolo di tutela del ministero dei Beni culturali, molto circostanziato (mirabilmente scritto da Antonio Iannello, uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano), confermò, consacrandole, se così posso dire, le previsioni urbanistiche comunali. Ma intanto si era messo mano a un’estenuante e sconclusionata operazione di bonifica comandata dal ministero dell’Ambiente. Cominciò così ad appannarsi e poi, a mano a mano, a dissolversi il sogno della nuova Bagnoli. Fra ritardi nei finanziamenti, inettitudini e peggio, la bonifica non è mai finita. Altrettanto deplorevole la storia della Bagnolifutura, la società ad hoc formata dal comune che però ha operato come un corpo separato, in parte sinecura, in parte serpe in seno, fino al maggio scorso quando il tribunale di Napoli ne ha dichiarato il fallimento.
Diciamoci la verità, il progetto Bagnoli degli anni Novanta non è mai piaciuto a chi conta davvero a Napoli e in Italia, e cioè al mondo della finanza e degli interessi immobiliari. Il parco di oltre cento ettari, in una città nota in letteratura per la quasi totale assenza di verde pubblico, è stato considerato uno spreco e una follia: architetti da passeggio, economisti e giornalisti con il cervello intriso di cemento e di asfalto, e con essi la destra di ogni sfumatura, hanno fatto a gara per diffamare la nuova Bagnoli. Se n’è avuta prova nel 2003, quando Napoli si candidò a ospitare nel mare di Bagnoli la 32esima edizione dell’America’s Cup, dichiarandosi disponibile a ogni modifica del progetto. Per fortuna vinse Valencia. Alla fine, a far piazza pulita di una politica pasticciata e inconcludente, ma anche del sogno napoletano di un grande spazio pubblico sul mare, ci hanno pensato Matteo Renzi, Maurizio Lupi e gli altri autori del decreto Sblocca Italia il cui art.33 riguarda proprio la bonifica ambientale e la rigenerazione urbana di Bagnoli e Coroglio. Gli interventi sono affidati a un Commissario straordinario del Governo e a un Soggetto Attuatore dotati di enormi poteri (che altri valuteranno dal punto di vista della legittimità). In particolare, all’incognito Soggetto Attuatore sono assegnate le aree della Bagnolifutura e le funzioni proprie del comune in materia di formazione dei progetti e di gestione degli interventi. Qui interessa mettere in chiaro che l’abbinamento di bonifica e rigenerazione urbana in capo al governo nazionale è subdolo, e tutt’altro che scontato. Perché il governo deve occuparsi di “opere di urbanizzazione primaria e secondaria” (comma 3 dell’art. 33), “di demolizione e ricostruzione e di nuova edificazione e mutamento di destinazione d’uso dei beni immobili comprensivi di eventuali premialità edificatorie”, nonché di “modelli privatistici consensuali” (comma 8)? Se l’obiettivo fosse stato, come sarebbe stato logico, di accelerare il completamento del progetto Bagnoli, il decreto doveva limitarsi a fissare precetti per mettere fine alla bonifica e agli interventi di trasformazione senza bisogno di un nuovo piano d’assetto, reso invece obbligatorio dal comma 3. Che il comune di Napoli disponga di un progetto urbanistico regolarmente approvato e vigente il decreto lo ignora, accredita anzi il convincimento che si sia all’anno zero e si debba cominciare daccapo. Determinando così le condizioni per una grande abbuffata, restituendo il comando agli energumeni del cemento armato – comunque vestiti – affossando per sempre le speranze dei napoletani.
La natura eversiva dell’operazione Bagnoli è confermata dalle procedure per l’approvazione dei programmi e dei progetti per la bonifica e la rigenerazione urbana (commi 9 e 10). Le decisioni sono accentrate nelle mani del presidente del Consiglio dei ministri e del presidente della regione Campania Stefano Caldoro – lampante ennesima dimostrazione della sant’alleanza Renzi Berlusconi – mentre è perfidamente escluso il sindaco di Napoli che, piaccia o non piaccia, è il garante dell’urbanistica cittadina. Anche qui, altri valuteranno la rispondenza delle norme alla Costituzione. Per quanto mi riguarda, non si tratta di difendere Luigi De Magistris, ora sospeso, o chiunque sia al suo posto, ma di chiedersi se e è democraticamente concepibile l’esclusione di un sindaco dalle decisioni riguardanti il futuro della città che lo ha eletto.
E' necessario «superare l’idea che il paesaggio e l’ambiente siano un settore. Con il PIT toscano il paesaggio e l’ambiente diventano elementi con i quali confrontarsi per la definizione di scelte di pianificazione territoriale, degli indirizzi strategici e per lo sviluppo socio economico». Il Corriere fiorentino, 8 ottobre
L’adozione del nuovo Piano di indirizzo territoriale regionale (PIT), chiamato Piano paesaggistico forse per sminuirlo, ha scatenato reazioni da parte di gruppi di interesse, associazioni, Enti locali, sindacati, professionisti più basate su un immaginario piuttosto che sugli effettivi contenuti del piano, tanto da ritenere che vi sia un interesse nel demolirlo, estraneo alla propria funzione. Basti pensare che il Piano si suddivide in due parti: Statuto del territorio e Strategia dello sviluppo delle quali solo la prima è stata modificata, mentre la seconda è rimasta invariata rispetto al PIT del 2007, con tutti i vari porti, approdi turistici, corridoi autostradali, aeroporti, (molti programmati negli anni 80 del secolo scorso), dei quali niente si è sentito dire dai vari critici. La più significativa di queste proteste è stata quella dei viticoltori, un vero e proprio regalo al Piano, in quanto accreditato del potere di condizionare scelte agronomiche che mai uno strumento a carattere territoriale si è sognato o è riuscito a fare. In effetti il Piano non dà nessuna prescrizione, si limita a dire che sarebbe opportuno contenere l’erosione dei suoli limitando le sistemazioni secondo la massima pendenza (il famoso ritto-chino che già il Testaferrata nel periodo della costruzione del bel paesaggio toscano sconsigliava). Avendo imparato a trasformare porcilaie in villette o a sbancare colline per realizzare cantine si sono probabilmente stupiti che qualcuno osasse mettere bocca sulla disposizione dei filari.
La più strana, per lo meno nei modi, è quella dell’ordine dei Geometri di Lucca, i quali si sono affidati ad una lettera-fiume aperta a Renzi in un avviso a pagamento pubblicato su Repubblica. Si capisce da alcune espressioni tipo paesaggi-fossili che ci si riferisce ad un presunto conservatorismo del Piano, ma la lamentela resta sul generico, giustificandosi dietro la scusa della complicazione (concetti difficili) e della mole del piano (3000 pagine). In realtà corposo nel Piano è il Quadro conoscitivo (è stato definito una Treccani), ma la parte effettiva di indirizzi, direttive e prescrizioni è piuttosto scarna e riassunta per schede d’ambito territoriale, per cui basta leggersi quella del proprio contesto territoriale per capirne i contenuti. Nel caso dei geometri di Lucca, la Provincia è stata divisa in tre ambiti per cui è sufficiente la lettura di 6 (sei) paginette, nelle quali viene concentrata la Disciplina d’uso che resta sempre ad un livello di indicazione territoriale (scala 1/50.000) e concettuale di stimolo alla progettazione più attuativa, con larghi margini di adattamento e interpretazione, come sempre quando si passa dalla visione territoriale a quella più minuta delle trasformazioni urbane ed edilizie. Meglio avrebbero fatto i geometri a riflettere sul ruolo che hanno avuto nel qualificare o peggiorare il paesaggio.
Merito del Piano è superare l’idea che il paesaggio e l’ambiente siano un settore, rientrino in valutazioni che interessano ad una porzione limitata della società. Con il piano in discussione il paesaggio e l’ambiente, vale a dire la natura e la storia, le regole profonde che hanno caratterizzato la costruzione delle nostre comunità, diventano elementi con i quali confrontarsi per la definizione di scelte di pianificazione territoriale, degli indirizzi strategici e per lo sviluppo socio economico. Ne dovrebbe conseguire che il territorio non è più tutto trasformabile, non è un’area bianca in attesa di valorizzazione economica tramite le previsioni e le trasformazioni urbanistiche. Diventa invece un palinsensto nel quale è scritto il codice genetico dell’intera comunità, da dove veniamo e dove vogliamo andare. La fine della mezzadria, del lavoro nei campi e l’inurbamento hanno prodotto una crisi culturale: non siamo più capaci, o fra poco non saremo più capaci, di gestire il territorio. Quello che prima era una cultura diffusa, il lavoro nei campi che garantiva il presidio paesaggistico, ora diventa un progetto da studiare, capire e governare. I problemi legati al tempo meteorologico bene evidenziano questi temi. Ogni volta gli eventi sono straordinari, per cui non si è potuto dimensionare o prevedere le contromisure adeguate. In realtà l’esperienza ci dice che non tutto il territorio è trasformabile e soprattutto non è trasformabile seguendo interessi o aspettative di breve respiro.
Finalmente, con il nuovo PIT e con il suo quadro conoscitivo, la Toscana non è più solo la collina delle immagini oleografiche, dei mulini bianchi, quella da vendere, ma è fatta anche di pianure, di coste, di monti che rappresentano storie e società locali varie, da guardare con una visione strategica aggiornata e più approfondita rispetto alle esperienze precedenti. È anche quella delle periferie urbane, di ambienti e paesaggi degradati, delle aree umide distrutte dagli interventi di trasformazione, con i quali è necessario confrontarsi e trovare gli strumenti per la loro rigenerazione. È questa una sfida decisiva sulla quale misurare la capacità di governo e invertire finalmente l’idea che si produca ricchezza solo con il consumo di suolo e di risorse ambientali. Dispiace quindi, ma speriamo che ci sia spazio nella fase di controdeduzione alle osservazioni, la timidezza con la quale vengono affrontati alcuni nodi delicati come il controllo delle trasformazioni d’uso, la riconversione delle aree produttive abbandonate, l’assetto delle coste con il tema dell’erosione, dei porti e degli approdi turistici che la provocano, la questione dei corridoio autostradale tirrenico.
Giovanni Maffei Cardellini, architetto urbanista. Ha progettato diversi piani regolatori e piani di centri storici, il Piano del Parco di Migliarino San Rossore con Pier Luigi Cervellati. Assessore all’urbanistica del Comune di Camaiore dal 1994 al 2002
La Repubblica, 9 agosto 2014
L’esecutivo Renzi si è già guadagnato l’etichetta di governo meno ambientalista mai espresso dal centrosinistra in Italia. I Verdi, polverizzati in tante sigle, inesistenti da sei anni in Parlamento e quindi politicamente fragili, sono pronti ad azioni comuni. Su molti fronti. Non c’è decreto, raccontano, dove in nome dello sviluppo rapido, della ricchezza da estrarre oggi e produrre domani, non si autorizzino nuovi buchi, cemento fresco, una deregulation su tutta la materia ambientale. «Renzi non ha asfaltato solo Berlusconi, sta asfaltando l’Italia», dice Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi rimasti. Lui sostiene diverse iniziative politiche del premier, «ma sull’ambiente è un disastro».
«Il fondatore di Slow food è tra gli autori di “Rottama Italia”, un libro denuncia sul decreto Sblocca Italia. Lo scritto di Petrini, che è possibile leggere integralmente scaricando gratuitamente il pdf del libro o acquistando l’ebook dal sito di Altreconomia, raccoglie alcuni passaggi molto critici rispetto al governo Renzi”. L'Espresso, 8 ottobre 2014
«C’è stato un momento in cui in molti hanno sperato che la “rottamazione”, al di là delle persone, avrebbe finalmente riguardato un certo modo di fare della politica e di quella parte di mondo dell’economia e delle imprese che vive in simbiosi con essa», scrive Petrini, «certo, nessuno si aspettava un Governo della decrescita felice: sembrava però prossima almeno l’apertura di una stagione politica in cui finalmente, anche nei palazzi di governo, fosse possibile criticare i fondamentali di un sistema che da anni non genera più benessere e ricchezza e a causa del quale, anzi, si è manifestata la più lunga crisi del secondo
dopoguerra».
Una delusione, è Renzi per Petrini, che evidentemente aveva sperato. Non che si fosse, illuso, sia chiaro: «Qualcuno, pur scettico, aveva concesso un minimo credito a questa paventata ondata di novità; qualcuno ci ha creduto un po’ più a lungo». Poi, però, «a mettere d’accordo tutti, a sgombrare qualsiasi dubbio, a svelare la distanza abissale tra gli auspicati buoni propositi e la realtà, ci ha pensato lo Sblocca Italia, in modo particolare per quanto concerne le misure dedicate all'edilizia e alla gestione di beni comuni».
Il giudizio di Petrini è netto e può apparire paradossale: «Oggipersino il Governo Monti, grazie all’iniziativa dell’allora Ministro dell’Agricoltura Mario Catania, può apparire più progressista e innovatore dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi». Il fondatore di Slow food ripercorre l’iter, mai concluso, della legge Catania.
E poi dell’iniziativa del governo Letta, arenata come la precedente: «il 3 febbraio 2014, riprendendo in buona sostanza l’impianto della proposta di Catania, fece la sua comparsa un nuovo disegno di legge, ancora una volta promosso dal titolare del dicastero dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo». «Di nuovo» continua Petrini, «non eravamo ancora all’impianto normativo ideale, quello su cui ancora insistono i cittadini che animano i forum per la protezione di quel bene che i padri costituenti vollero scolpito nell'articolo 9 della Carta», ma «sembrava confermarsi quell’indiscutibile cambio di rotta che per anni era stato inseguito senza esito, da tutti quei soggetti che ora iniziavano a partecipare ad audizioni parlamentari e incontri pubblici, dove almeno era possibile confrontarsi sulle diverse ricette che dovevano portarci al traguardo di azzerare il consumo di suolo: l’unico obiettivo credibile per un Paese, come il nostro, che ogni giorno divora 100 ettari di superficie agricola».
Ora, lo Sblocca Italia di Matteo Renzi, è «uno shock assoluto, un ritorno al passato che non ci riporta solo a prima dell’estate 2012: in realtà siamo saliti su una macchina del tempo destinata a farci rivivere tutti i momenti più brutti di una certa storia d’Italia». «Nello Sblocca Italia», spiega Petrini, «non vi è traccia di zero consumo di suolo», né c’è traccia, stranamente, di ciò che ci chiede l’Europa, «degli obiettivi che l’Unione Europea pone agli Stati Membri in termini di gestione del territorio: per Bruxelles si dovrà raggiungere l’occupazione di terreno pari a zero entro il 2050».
«Il Paese che Renzi racconta quando va all’estero a caccia di investitori, di credibilità», nota infine Petrini, «è il Paese fondato sulla bellezza dei nostri paesaggi, sulla diversità dei territori, sulla ricchezza di un patrimonio culturale, che si fondano in larghissima parte nella storia straordinaria, unica e irripetibile della nostra agricoltura e della nostra alimentazione». E come si combina il paese del Made in Italy con quello dello Sblocca Italia?
«Il condensato di opere proposte in blocco senza appello, di forzature, di deroghe alla normativa ordinaria, mi chiedo dove incroci anche solo una delle vocazioni del nostro Paese. Come può motivare un giovane a intraprendere un qualsiasi mestiere legato all’agricoltura, all’artigianato alimentare, alla piccola pesca, al turismo di qualità, tutti quanti messi definitivamente al bando dalla colata di cemento terminale che nel giro di pochissimi anni sarà scatenata dall’approvazione dello Sblocca Italia?».
Huffingtonpost.it, 8 ottobre 2014
«Accelerare e semplificare la realizzazione di opere infrastrutturali strategiche, indifferibili e urgenti, nonché per favorire il potenziamento delle reti autostradali e di telecomunicazioni e migliorare la funzionalità aeroportuale; (...) la mitigazione del rischio idrogeologico, la salvaguardia degli ecosistemi, l'adeguamento delle infrastrutture idriche e il superamento di eccezionali situazioni di crisi connesse alla gestione dei rifiuti, nonché di introdurre misure per garantire l'approvvigionamento energetico e favorire la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali; (..) la semplificazione burocratica, il rilancio dei settori dell'edilizia e immobiliare, il sostegno alle produzioni nazionali attraverso misure di attrazione degli investimenti esteri e di promozione del Made in Italy, nonché per il rifinanziamento e la concessione degli ammortizzatori sociali in deroga alla normativa vigente al fine di assicurare un'adeguata tutela del reddito dei lavoratori e sostenere la coesione sociale.»
Queste le circostanze straordinarie di necessità e urgenza riportate nel preambolo del decreto legge n. 133 del 2014 che ne giustificherebbero l'adozione. Un provvedimento vasto e complesso, composto da 45 articoli, per 'sbloccare' l'Italia. Sbloccare l'Italia. Abbiamo tutti la necessità di un forte cambiamento che ridia competitività al nostro Paese e crei occupazione, ma sono perplesso sulle soluzioni proposte in questo provvedimento perché siamo di fronte all'ennesimo intervento emergenziale, derogatorio ed eterogeneo con cui si bypassa il dibattito parlamentare.
La mia convinzione, basata anche sull'esperienza di 10 mesi di responsabilità istituzionale, è che se vogliamo realmente cambiare il Paese ingessato da una burocrazia che non risponde alle aspettative dei cittadini sia opportuno rivedere le procedure e le responsabilità. Ma sono convinto che occorra fare questo all'interno delle norme e non adottando come strumento di governo procedure d'urgenza che se da una parte possono accelerare i processi decisionali, troppe volte hanno dimostrato la loro fragilità e il pericolo di favorire la corruzione. Negli ultimi anni assistiamo ad una crescita sempre maggiore del ruolo del Governo nella legislazione con conseguente erosione delle competenze parlamentari. I dati sulla legislazione, in particolare la somma degli atti con forza di legge e dei disegni di legge di iniziativa governativa, mostrano un Governo dominus incontrastato della produzione normativa. Questo è un dato da non sottovalutare in un'analisi delle caratteristiche tipiche della normazione governativa, che sempre più appare insensibile alle regole di better regulation.
Lo 'Sblocca-Italia' risulta per molti aspetti un tipico esempio di cattiva legislazione. La carenza dell'istruttoria è testimoniata dall'assenza sia dell'analisi d'impatto della regolamentazione che dell'analisi tecnico normativa. Il mancato rispetto delle corrette procedure d'istruttoria può apparire un rilievo formale ma nella formazione delle leggi dello Stato la procedura è la garanzia del bilanciamento di interessi opposti, di democraticità e trasparenza delle scelte. Il decreto Sblocca-Italia non solo è stato approvato con un procedimento largamente derogatorio alle norme di better regulation ma dispone deroghe, talvolta rilevanti, al diritto vigente. L'urgenza non ha solo giustificato l'adozione di un decreto legge ma giustifica anche una serie di procedure abbreviate, di deroghe particolari e di nuove discipline da applicarsi in casi di urgenza.
Consapevole dell'incapacità della burocrazia di rispondere prontamente alle esigenze dei cittadini non posso però fare a meno di chiedere, a me stesso e al sistema politico, se siamo certi che la strada migliore per superare l'impasse sia aggirare, caso per caso, procedure nate per assicurare la ponderazione delle scelte. Perché non lavoriamo invece con coraggio per costruire un sistema semplificato, ragionato? Procedimenti certi, nei tempi e nei risultati, che possano applicarsi alla generalità degli interventi di cui il Paese necessita. Al contrario l'instabilità delle scelte fatte sull'onda dei casi singoli è testimoniata dalla continua modifica delle norme che spesso vigono solo per pochi mesi.
Sono convinto che se iniziassimo in Parlamento una discussione ampia e completa riusciremmo a dare risposte concrete in tempi brevi. Potremmo garantire la celerità dei procedimenti ma anche la certezza del diritto costruendo un sistema di regole che non ci costringerà più a disporre singole deroghe per raggiungere l'obiettivo più vicino. È in questo spirito che non condivido la natura e le finalità dello sblocca Italia, un provvedimento legislativo incautamente complesso, che deroga ma non chiarisce, tenta di semplificare ma produce stratificazioni normative e non tutela l'ordinamento e tutti gli interessi opposti all'urgenza. Quanto costa alla democrazia italiana una politica che interviene con un decreto legge di 45 articoli, relativi ad una pluralità di materie? In un bilanciamento di valori l'urgenza di intervenire può davvero prevalere sulla certezza del diritto e sulle procedure a tutela dei vincoli paesaggistici? È davvero necessario per 'sbloccare' l'Italia travolgere e stravolgere l'ordinamento con un provvedimento legislativo urgente di cui non si è valutato l'impatto e che il Parlamento discuterà in 60 giorni?
È necessario, a mio giudizio, legiferare per costruire un ordinamento stabile per il futuro, mentre è controproducente e miope regolare spinti dalla sola urgenza. Urgenza di intervenire che non può negarsi ma che deve essere affrontata con lungimiranza affinché il nostro Paese torni ad avere una visione di quello che sarà il nostro futuro.