il manifesto, 10 marzo 2017. Con riferimenti
La giunta dell’Emilia-Romagna il 27 febbraio ha deliberato il disegno di una nuova legge urbanistica regionale, proponendolo all’approvazione dell’Assemblea legislativa.
Secondo l’assessore alla programmazione territoriale Raffaele Donini, che l’ha presentata, la nuova legge sarebbe fondamentale per affermare il principio del consumo di suolo a saldo zero, promuovere la rigenerazione urbana e la riqualificazione degli edifici, semplificare il sistema di disciplina del territorio, garantire la legalità. Sono slogan che mascherano l’obiettivo essenziale del disegno di legge, ovvero l’impianto di un regime privilegiato a favore delle iniziative immobiliari private.
Proclamando risparmio di suolo e qualificazione urbana, la legge va in senso opposto. Il limite del tre per cento posto all’espansione dei territori urbani, già in sé molto elevato, è aggiuntivo, non alternativo all’ulteriore occupazione di suolo che i piani urbanistici ammettono. E l’«addensamento» indiscriminato, concepito e ribadito come unico modo della rigenerazione urbana, non promette qualità, ma ecomostri.
La realizzazione di nuovi insediamenti residenziali, produttivi, commerciali, e le operazioni di addensamento e rigenerazione urbana mediante la demolizione e ricostruzione di edifici o di interi isolati, sarebbero esenti da qualsiasi condizionamento e disciplina urbanistica cogenti, e interamente rimesse ad «accordi operativi» congegnati a esclusivo vantaggio della parte privata.
Ai comuni sarebbe tassativamente vietato disporre una disciplina urbanistica cogente per i nuovi insediamenti e per la «rigenerazione» di parti urbane.
Esautorati dai poteri di pianificazione urbanistica e obbligati a raggiungere l’accordo con i privati entro scadenze brevi e perentorie, i comuni non avrebbero modo di impedire né selvagge intensificazioni in aree urbane già congestionate, né lo sparpagliamento di strutture commerciali, stabilimenti industriali, insediamenti residenziali attorno ai centri urbani. E per di più sarebbero defraudati di contributi oggi dovuti per questo genere di iniziative dai privati proprietari, che la proposta di legge intenderebbe invece esonerare, in tutto o in parte secondo i casi.
Le implicazioni per le centinaia di comuni di minore dimensione nella nostra regione, e per sistemi insediativi policentrici o diffusi, come nelle realtà montane, sono totalmente ignorate.
Sostanzialmente invariata resterebbe invece la condizione delle trasformazioni diffuse del patrimonio edilizio esistente. L’adeguamento di abitazioni, capannoni, uffici e negozi alle esigenze di famiglie e attività economiche resterebbe soggetto alle consuete e non sempre razionali limitazioni disposte dalla disciplina urbanistica ed edilizia, e ai consueti oneri.
L’autentico intento dalla proposta legge sta dunque nell’impianto di un doppio regime urbanistico, in cui le iniziative immobiliari poste in atto da imprese di costruzione e promotori godrebbero di privilegi e arbitrio inusitati, lasciando le esigenze di famiglie e attività economiche soggette ai vecchi dispositivi, del cui rinnovamento è in certa misura avvertita la necessità, ma non sono nemmeno intravisti i modi.
Con queste finalità il disegno di legge non esita a porsi in frontale contrasto con l’ordinamento nazionale, e violare con ciò la Costituzione. La diffusione di leggi analoghe in altre regioni andrebbe a soverchiare i fondamentali istituti di tutela e disciplina del territorio nel nostro paese, dalla periferia riuscendo in ciò che ripetuti tentativi parlamentari hanno fallito.
Non serve una nuova legge urbanistica regionale. La legge 20/2000, dall’origine mal compresa, peggio attuata e poi variamente pasticciata, ha certamente bisogno di una robusta rielaborazione, ma per fermare il dispendio di suolo e qualificare il territorio, in particolare quello urbano, servono buone politiche di cui i comuni siano attori principali, con rinnovati strumenti e nel quadro di solidi riferimenti nel piano territoriale regionale e nei piani di area vasta. La consegna del territorio agli interessi della speculazione fondiaria va in senso del tutto opposto.
***Firmatari: Ilaria Agostini, Pier Giovanni Alleva, Rossanna Benevelli, Jadranka Bentini, Antonio Bonomi, Paola Bonora, Sergio Caserta, Piero Cavalcoli, Pierluigi Cervellati, Mauro Chiodarelli, Vezio De Lucia, Paolo Dignatici, Marina Foschi, Mariangiola Gallingani, Michele Gentilini, Giulia Gibertoni, Giovanni Losavio,Tomaso Montanari, Ezio Righi, Giovanni Rinaldi, Piergiorgio Rocchi, Edoardo Salzano, Maurizio Sani, Sauro Turroni, Daniele Vannetiello
Riferimenti
Una prima puntuale ed ampia analisi critica del progetto di legge è contenuta nel documento della sezione emiliano-romagnola di Italia nostra, che trovate qui in eddyburg. Vi segnaliamo anche, sempre su eddyburg, la lettera aperta ai governanti della Regione E-R, e gli articoli di Enzo Righi, di Ilaria Agostini e di Giovanni Lo Savio, scritti per i nostri frequentatori, nonchè i seguenti articoli: Un esercizio di filologia urbanistca, di Ilaria Agostini, Demolizione e ricostruzione e di Paola Bonora.
"Pianificazione di area vasta: come orientarsi dopo il referendum? Millennio urbano, 26 febbraio 2017
Pianificazione di area vasta: come orientarsi dopo il referendum?
2. Tra conformazione della proprietà e tutela dei beni comuni
Il buon governo del territorio esige di trattare i piani nei diversi livelli istituzionali come strumenti tra loro integrati, non come entità separate a sé stanti. Ma richiede anche di mantenere una chiara distinzione tra la funzione di pianificazione urbanistica ed edilizia comunale e la funzione di pianificazione territoriale di livello sovracomunale, evitando di fonderle in un tutt’uno indistinto.
Nel furore per la semplificazione, che domina oggi le agende politiche di qualunque colore, separazione e distinzione rischiano di essere assunte come sinonimi. La stessa legge Delrio ne fornisce esempio, facendo passare la credenza che una semplificazione possa in modo naturale derivare dalla riduzione dei livelli di governo da 4 a 3. Non tiene così conto che annullando il livello intermedio (la provincia), che è snodo e collegamento tra i livelli regionale e comunale, il risultato potrebbero essere opposto, di maggiore complessità e confusione.
La semplificazione non consegue dalla mera riduzione del numero dei livelli di governo, bensì dalla realizzazione di processi decisionali più lineari, determinabili nei tempi, chiari e affidabili nello svolgimento e negli esiti. Potrebbe anche in parte derivare dalla riduzione del numero di livelli istituzionali, ma il livello da cancellare dovrebbe essere scelto con attenzione. In ogni caso risultati molto più incisivi si otterrebbero con la riorganizzazione delle modalità di raccordo tra i livelli esistenti, e l’accorpamento degli enti che sono troppo piccoli e inadeguati per svolgere le funzioni fondamentali previste dalle leggi.
La riforma della costituzione non si è completata, ma la Legge Delrio, con l’inserimento degli amministratori comunali negli organi della provincia e della città metropolitana, ha portato molto avanti il processo, probabilmente oltre il punto di non ritorno, con il concreto rischio di annichilire il livello intermedio, fagocitato da quello comunale. La riforma è coerente con una provincia destinata ad ampliare la propria funzione di servizio di supporto tecnico e amministrativo dei comuni, come in effetti la legge auspica, ma per la quale non prevede adeguati strumenti attuativi. Le province sono tuttavia chiamate a svolgere anche funzioni di area vasta, come la pianificazione territoriale di coordinamento, che necessitano di un adeguato grado di autonomia rispetto agli interessi locali.
Il comune deve partecipare alla pianificazione territoriale sovracomunale, è un diritto ma anche un dovere, non può sottrarsi all’obbligo di contribuire al raggiungimento degli obiettivi sovracomunali (1). Agendo all’interno degli organi della provincia la partecipazione è ancora più diretta, e in via teorica più efficace se si riesce ad evitare di cortocircuitare e bruciare ogni distinzione tra comunale e sovracomunale. E’ necessario a tale fine comprendere bene come il sovracomunale si caratterizzi, quali siano gli aspetti distintivi rispetto al comunale. Una possibile strada potrebbe partire dal ragionare sulle diverse competenze, e dal riscontro che queste potrebbero trovare nell’organizzazione dello spazio geografico. Vediamo come nelle righe che seguono.
Grazie alle direttive internazionali, e anche al dibattito di questi anni sul consumo di suolo, alcune delle norme più recenti hanno iniziato a riconoscere e considerare il suolo tra i beni comuni. Lo stesso diritto amministrativo si sta evolvendo; accanto alla conformazione dei beni privati sta recentemente acquisendo sempre più riconoscimento la funzione sociale della proprietà di cui all’art 42 Cost. e quindi la tutela dei beni comuni (2).
Passando alla disciplina di pianificazione, anche qui sta sempre più emergendo una distinzione, tra conformazione degli usi del suolo e consumo della risorsa suolo, dove quest’ultimo è tema sovracomunale, da regolare nei piani di area vasta per garantirne una visione unitaria. Il consumo di una risorsa scarsa e non rinnovabile interessa la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, competenza esclusiva dello Stato (art 117 Cost. c. 2, lett. s).
Alcuni dei piani territoriali provinciali più innovativi (3) non si limitano a regolare il solo consumo di suolo, ma lo inquadrano in una più generale strategia di contenimento del consumo di risorse scarse e non rinnovabili, tra le quali: l’acqua, l’energia da fonti fossili, la qualità dell’aria. Dove non esistono norme nazionali e regionali i riferimenti per limitare i consumi possono essere trovati nelle convenzioni internazionali. In alcune regioni le norme hanno inoltre messo in evidenza che anche la tutela del comparto produttivo agricolo richiede una visione unitaria sovracomunale, propria degli strumenti di area vasta.
La distinzione introdotta in queste righe potrebbe avere un parallelo e speculare riscontro nello spazio geografico, dove in modo più diretto possono intervenire gli strumenti di pianificazione territoriale. La legge urbanistica nazionale del 1942 all’articolo 7 afferma che il piano regolatore generale del comune, ente esponenziale della propria comunità, deve interessare la totalità del territorio amministrato, per rappresentare e contemperare in modo organico tutti gli interessi, sia privati che pubblici. Tuttavia in alcuni casi la discrezionalità decisoria del singolo comune può comportare effetti rilevanti sui comuni confinanti o sul più ampio ambito di area vasta. Pur senza venire meno a quanto afferma l’articolo 7 della LUN, la discrezionalità del singolo comune deve, quando necessario, essere armonicamente rapportata con analoghi interessi delle altre comunità territoriali (4).
Recentemente alcune norme regionali hanno delineato una modalità operativa per risolvere queste potenziali situazioni di conflitto, che è basata sul disegno del perimetro del tessuto urbanizzato e sulla definizione di due distinti regimi di intervento dentro e fuori tale perimetro. All’interno ha priorità la competenza urbanistica comunale, anche se non in via assoluta, in quanto taluni interventi di recupero e rigenerazione urbana possono avere effetti sovracomunali.
All’esterno del perimetro la competenza comunale deve essere contemperata in modo equilibrato con gli interessi sovracomunali afferenti alla pianificazione di area vasta. Un eccessivo schematismo va ovviamente evitato: la distinzione non deve, come già detto, diventare separazione. Al comune non può essere sottratta la possibilità di intervenire sull’intero suo territorio, ma allo stesso tempo all’esterno del perimetro priorità potrebbe essere data a quegli aspetti tematici che necessitano di una visione unitaria, di area vasta, come quelli ambientali e agricoli. In aree ad intensa urbanizzazione, dove le interazioni reciproche tra comuni sono molto più intense, la priorità potrebbe essere ampliata anche ad altri temi, infrastrutturali e insediadiativi.
Nella legge Toscana sul governo del territorio (LR 65-2014, articolo 25), e in alcuni dei piani provinciali più innovativi, il consumo della risorsa suolo esterna al perimetro viene considerato come eccezione, che il comune deve motivare adeguatamente, in apposita conferenza di copianificazione con gli enti di area vasta e i comuni limitrofi, a fronte di esigenze che non possono essere soddisfatte da interventi rigenerativi interni al perimetro. Soluzioni analoghe sembrano gradualmente guadagnare credito anche nelle più recenti proposte di modifica alle norme sul governo di territorio di altre regioni, come la Lombardia e l’Emilia-Romagna.
Le modalità sopra descritte di tutela degli aspetti sovracomunali derivano da ragionamenti maturati nelle discipline del diritto e dell’urbanistica, ma possono trovare utile applicazione all’interno delle nuove province e delle città metropolitane. Mantenere una chiara distinzione tra comunale e sovracomunale è essenziale per il buon funzionamento degli organi dell’ente intermedio, dove le decisioni discrezionali degli amministratori comunali potrebbero interferire con le questioni di area vasta. Rimane da capire, ma ci torneremo sopra presto, come la struttura provinciale possa essere riorganizzata per mantenere viva ed efficace questa distinzione nell’operatività quotidiana.
Riferimenti
La prima parete del saggio, dal titolo "Autonomia, discrezionalità e funzioni fondamentali" è raggiungibile in eddyburg qui
lavoce.info, 21 febbraio 2017 (c.m.c.)
Cosa sono gli oneri di urbanizzazione
Dal 2018 i sindaci non potranno più utilizzare gli oneri di urbanizzazione per ripianare i bilanci comunali. Lo prevede la legge di stabilità per il 2017.
Chi vuole costruire un nuovo edificio (cambiarne la destinazione d’uso urbanistico o ampliarlo) deve contribuire alle spese che il comune sostiene (o ha sostenuto in passato) per dotare la zona di strade, parcheggi, acquedotti, fognature, infrastrutture degli altri servizi a rete, spazi di verde attrezzato (urbanizzazioni primarie) e di scuole, palestre e campi da calcio, luoghi di culto, mercati rionali e altre attrezzature (urbanizzazioni secondarie). In sostanza, i privati devono concorrere al finanziamento degli investimenti per le infrastrutture pubbliche che valorizzano e rendono più vivibili le loro proprietà.
L’ammontare degli oneri di urbanizzazione (e del contributo di costruzione) è commisurato alla dimensione dell’intervento e può variare in base alla destinazione d’uso dell’immobile e alla dimensione demografica del comune. L’articolo 12 della legge 10/1977 (la legge Bucalossi sull’edificabilità dei suoli) vincolò i proventi, e quelli derivanti dalle sanzioni sulle violazioni delle norme sull’edilizia, esclusivamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione, al risanamento dei complessi edilizi nei centri storici e all’acquisizione di aree sulle quali realizzare anche programmi di edilizia economica e popolare, i famosi Peep.
Un finanziamento per la spesa corrente
Il vincolo di destinazione degli oneri di urbanizzazione è cessato con l’entrata in vigore del testo unico sull’edilizia (Dpr 380/2001), che ha abrogato l’articolo 12. In seguito, la legge finanziaria per il 2008 ha autorizzato i comuni a impiegare fino al 50 per cento di quegli introiti per finanziare la spesa corrente e un altro 25 per cento per la manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
Così è stato fino a tutto il 2015, quando il governo Renzi, per il 2016 e il 2017, ha dato ai sindaci la possibilità di elevare la percentuale fino al 100 per cento (includendo, tra quelle finanziabili, anche le spese per la progettazione delle opere pubbliche), potendo, ovviamente, continuare a decidere di destinare il 50 per cento alla spesa corrente.
Secondo l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili), che è contraria a questo loro utilizzo, tra il 2008 e il 2015, i comuni hanno impiegato 8,1 miliardi di euro provenienti da oneri per pagare stipendi, acquistare beni di cancelleria, erogare sevizi e per altre poste di spesa corrente. Ai sindaci, in sostanza, è stata data la possibilità di impiegare somme rilevanti provenienti dagli oneri di urbanizzazione per compensare i tagli ai trasferimenti statali.
In questo modo, però, gli amministratori comunali hanno trovato una fonte di entrate che diventa tanto più consistente quante più case, uffici e capannoni si costruiscono, anche se la loro offerta eccede la domanda effettiva. Oltre che essere un incentivo diretto, la possibilità di destinare a spesa corrente il 50 per cento degli oneri ha anche un effetto moltiplicatore indotto dell’offerta.
Le zone destinate alla costruzione degli immobili devono essere, naturalmente, dotate dell’insieme delle urbanizzazioni la cui realizzazione richiede investimenti pari almeno all’intero importo degli oneri; compresa, quindi, la parte di essi tramutata in spesa corrente. Per far quadrare il cerchio, i comuni, in genere, concordano con gli operatori che realizzano gli interventi edilizi, la concessione di diritti edificatori aggiuntivi, per equilibrare, economicamente, il pagamento di oneri extra rispetto alle loro tariffe ordinarie.
Dal 2018 destinazione vincolata
Il comma 460 dell’articolo 1 della legge 232/2016 dovrebbe ostacolare questo meccanismo di amplificazione della produzione edilizia. Elenca dettagliatamente, infatti, le opere alla cui realizzazione devono essere destinati “esclusivamente e senza vincoli temporali” gli oneri di urbanizzazione. La lista comprende la realizzazione e la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione, il risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, interventi di riuso e di rigenerazione edilizia, interventi di demolizione di costruzioni abusive, acquisizione e realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, interventi di tutela e riqualificazione dell’ambiente e del paesaggio, interventi volti a favorire l’insediamento di attività di agricoltura nell’ambito urbano.
La possibilità di destinare le entrate da oneri a spesa corrente non è totalmente esclusa. Ma, al di là della loro classificazione contabile, sarà possibile realizzare solo opere relative alle infrastrutture urbane del territorio e alla salvaguardia del patrimonio edilizio esistente. Per ora, è una buona notizia; dal prossimo 1° gennaio diventerà anche una buona pratica, se nel frattempo il Parlamento non avrà cambiato idea.
Accoglienza. In Spagna, Catalogna, non in Italia, Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio . Sull'altra sponda dello stesso mare, ma molto lontani. il Fatto Quotidiano online 21 febbraio 2017
Barcellona è una città in contro-tendenza rispetto a quella parte di Europa ammaliata dalle sirene del nazionalismo, delle barriere e della xenofobia. Un fiume in piena di gente – 160.000 per le autorità di polizia, 350.000 per gli organizzatori – si è presa il centro della città catalana per una marcia festosa in favore dei rifugiati e per la solidarietà. Prou excuses. Acollim ara! (Basta scuse. Accogliamo ora!) è stato lo slogan che ha riunito il popolo della solidarietà, in quella che, dall’inizio della crisi dei rifugiati, è da considerarsi come la più grande manifestazione continentale per l’integrazione.
"Casa nostra, casa vostra" è l’associazione organizzatrice della campagna, un’unione di cooperanti, operai, studenti e professionisti – tra essi giornalisti, architetti e avvocati – con esperienza nei campi di rifugiati installati nelle zone di frontiera tra la Grecia e la Macedonia. Il manifesto dell’associazione è un inno all’inclusione, un richiamo alla necessità di un’applicazione piena dei principi contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei valori fondanti dell’Unione europea.
Le oltre 72.000 adesioni al manifesto pubblicato sul sito degli organizzatori costituivano un buon presagio per la riuscita dell’evento, tuttavia nemmeno i più ottimisti potevano sperare in una manifestazione così partecipata, con rappresentanti di oltre 200 associazioni a sfilare dalla centralissima piazza Urquinaona – situata a poche centinaia di metri dalle Ramblas – verso la Via Laietana, principale arteria cittadina. Sindacati, Ong, delegati di gruppi universitari, associazioni come No més morts, obrim fronteres (“Non più morti, apriamo le frontiere”), Catalunya, terra d’acollida (“Catalogna, terra d’accoglienza”), SOS Racisme e Stop Mare Mortum a precedere politici di ogni schieramento, rappresentanti di formazioni indipendentiste, socialisti federalisti, o forze collocate più a sinistra, come Podemos.
Ada Colau è il sindaco che dal giorno del suo insediamento ha fatto apporre lo striscione “Refugees welcome” sul balcone del Municipio, nella monumentale plaça Sant Jaume, sabato ripeteva con orgoglio di essere il primo cittadino della Capitale internazionale della pace e dei diritti umani. Una manifestazione che ha riunito decine di migliaia di persone – di sabato pomeriggio quando scuole, università e uffici sono chiusi – per reclamare a gran voce principi che toccano direttamente la sfera di altri.
Com’è lontana l’Italia bloccata sui social a lamentarsi di tutto, come sono lontane le sparate del leghista Salvini che proprio il 18 febbraio ha parlato della necessità di “una pulizia di massa, strada per strada”. Eppure, anche lui, al tempo di “Roma ladrona” era un fiero sostenitore dell’indipendentismo catalano, movimento però, da sempre solidale, da sempre europeista.
La storia del futuro di Tangentopoli, analisi spietata e coraggiosa non solo sul sistema corruttivo dei lavori pubblici ma anche sul coinvolgimento del suo mondo di provenienza, le coop emiliane, e sui rapporti tra imprese e criminalità organizzata». il Fatto Quotidiano Blog 20 febbraio 2017.
L’espressione retorica “vuoto incolmabile” trova dolorosa concretezza nella scomparsa di Ivan Cicconi, morto ieri nella sua Fermo. A maggio avrebbe compiuto 70 anni. A fianco della sua famiglia e dei nipotini che – la sua ultima sfida professionale, il mestiere di nonno intrapreso con entusiasmo giustappunto infantile – rimangono smarriti giornalisti, attivisti, politici, dirigenti pubblici e privati, magistrati talvolta, tutti quelli insomma che non sapranno più a chi telefonare per sciogliere un dubbio nella complicatissima palude degli appalti.
Ricorderemo Cicconi come ingegnere comunista, le due cose sempre insieme. Quando ti spiegava una cosa c’era sempre la passione del militante a temperare il cinismo del tecnico, e mai l’analisi professionale si concludeva senza un giudizio politico. Sempre lo slancio militante (una vita nel Pci e poi dopo la Bolognina il passaggio a Rifondazione comunista) restava aggrappato al necessario rigore delle conoscenze tecniche su cui fondare l’iniziativa politica. Ciò che gli consentiva di accompagnare la spiegazione documentata e stringente con il giudizio morale, che non mancava mai alla fine del discorso, espresso con eleganza e abbassando la voce, per rimarcare l’importanza e la dignità del punto di vista etico, così demodè per tanti sedicenti uomini di mondo.
Laureato in Ingegneria a Bologna, dove è rimasto per decenni, ha fatto a lungo il dirigente nel mondo delle coop rosse delle costruzioni, poi la sua dimensione è diventata quella del consulente e dell’analista indipendente. Ha raggiunto notorietà nazionale nel 1998 con La storia del futuro di Tangentopoli, analisi spietata e coraggiosa non solo sul sistema corruttivo dei lavori pubblici ma anche sul coinvolgimento del suo mondo di provenienza, le coop emiliane, e sui rapporti tra imprese e criminalità organizzata. Quel libro contiene una profezia sull’esito dell’operazione Alta velocità, la grande opera passata indenne attraverso l’inchiesta Mani pulite e destinata a costare allo Stato sei volte il preventivo. Nel 2011 Cicconi ha pubblicato a puntate su ilfattoquotidiano.it Il libro nero dell’Alta velocità, il suo terrificante consuntivo dell’operazione.
Nel 2000 aveva fatto il capo della segretaria tecnica di Nerio Nesi, ministro dei Lavori pubblici nel governo Amato. Con Nesi cercarono di fermare lo scandalo Mose, ma furono sconfitti dalle resistenze del Parlamento e di Palazzo Chigi. Nel tempo era diventato il punto di riferimento dei movimenti NoTav e degli ambientalisti che in ogni angolo d’Italia si battono contro gli imbrogli di cemento. A tutti forniva generosamente le munizioni tecniche per combattere battaglie sensate.
Ho un ricordo personale che fissa il valore di una persona straordinaria. Qualche anno fa mi telefonò e mi propose di accompagnarlo a Nuoro a tenere una conferenza sull’incredibile caso dell’ospedale costruito in project financing che stava costando tre o quattro volte il necessario. Gli risposi che sarei andato di corsa, perché c’era di mezzo la Sardegna e perché me lo chiedeva lui. Poi gli chiesi: «Ma tu piuttosto, con tutto quello che hai da fare, dove la trovi la voglia di andare fino a Nuoro?». Rimase un istante in silenzio, poi borbottò: «Be’, sai com’è, quei ragazzi me l’hanno chiesto». Tanto bastava, al generoso maestro, per correre al più vicino aeroporto.
La prima parte di un saggio in due puntate«Il territorio è unico e richiede una visione unitaria e organica per essere governato, ricavabile dalla stretta e leale collaborazione tra livelli istituzionali». millenniourbano, 11 febbraio 2017 (c.m.c.)
Parte prima
Autonomia, discrezionalità e funzioni fondamentali
La Legge Delrio (Legge 56/2014), anticipatrice della riforma costituzionale sottoposta a referendum (1), prevede la pianificazione territoriale di coordinamento tra le funzioni fondamentali della provincia. Per alcuni anni la pianificazione è stata quasi ferma, in quanto legata al destino tracciato per questo ente dal dDecreto "Salva Italia" del dicembre 2011. Probabilmente un aggiustamento della Legge Delrio interverrà nel corso del 2017 per risolvere alcune carenze attuative manifestatesi nei primi tre anni. Molto improbabile è invece una cancellazione completa con ritorno all’elezione diretta degli organi. Sulla costituzionalità degli organi ad elezione indiretta si era peraltro già espressa la Corte costituzionale con sentenza n.50 del 26 marzo 2015.
Le modifiche introdotte fino ad oggi dalla norma hanno in ogni caso profondamente modificato scopo e organizzazione dell’ente intermedio. Tra le funzioni vengono enfatizzate quelle di servizio e assistenza tecnico amministrativa ai comuni, già previste dal Tuel (testo unico degli enti locali, d.lgs 267/2000), ma ora decisamente ampliate e maggiormente articolate. Vengono anche confermate alcune funzioni strategiche, inerenti il governo dei temi di area vasta (2), come la pianificazione territoriale, anche se l’impostazione dei PTCP (piani territoriali di coordinamento provinciale) dovrà essere rivista rispetto a quelli vigenti sviluppati antecedentemente al Decreto Salva Italia.
La coincidenza delle cariche istituzionali di amministratore provinciale e comunale nella stessa persona ha creato le condizioni per un potenziale corto circuito decisionale. Non è semplice in queste condizioni mantenere l’autonomia, il distacco dagli interessi locali, che è necessaria per affrontare i problemi di area vasta. Nelle righe che seguono, e in successivi articoli, si cercherà di mettere a fuoco i contorni della questione e delineare una possibile strada da seguire.
Il comma 1 dell’art 118 della Costituzione (3) attribuisce, in via ordinaria, tutte le funzioni al livello comunale, a meno di quelle che sono di competenza degli altri livelli sulla base dei tre principi fondamentali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. La formula scelta per introdurre la seconda parte della frase, ossia la dizione “salvo che”, sembra volere delineare un’eccezione, o deroga, rispetto alla via ordinaria. Il comma 2 è coerente nei contenuti con il comma 1, tuttavia nella sfumatura del testo il conseguente significato appare diverso.
La Legge Delrio sposta il peso sulla prima parte del comma 1, attribuendo di fatto al livello comunale il controllo sia sulle funzioni di prossimità che su quelle di area vasta. Il controllo è tuttavia cosa ben diversa dall’attribuzione di titolarità delle funzioni, e quelle di area vasta rimangono nella responsabilità del solo livello intermedio.
Se la distinzione formale nelle attribuzioni viene garantita, è indubbio che nella pratica operativa quotidiana può essere problematico rispettare i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Per mantenere anche nei fatti la distinzione tra le due polarità, comunale e sovracomunale, e quindi evitare il corto circuito decisionale, una possibile strada passa dalla definizione, attraverso regole più chiare, delle condizioni di deroga, ad evitare incertezza e arbitrio, che facilmente portano a decisioni amministrative discrezionali.
A tale fine può essere sufficiente richiamare quanto già da lungo tempo presente nella normativa nazionale. Non serve intervenire ampliando o riducendo le competenze dei due livelli istituzionali.
Si può partire dall’art 19 c.1 della Legge 135/2012, che elenca le funzioni fondamentali dei comuni, e al punto d) distingue tra una competenza di pianificazione urbanistica ed edilizia che è in capo al comune, ed una di pianificazione territoriale di livello sovracomunale alla quale il comune fornisce il proprio apporto partecipativo (4). Esistono dunque aspetti di livello sovracomunale che non possono essere attribuiti al comune, e che spettano ad altri livelli istituzionali.
Analoga distinzione si riscontra nella legge urbanistica nazionale vigente, sempre quella del 1942, che individua distinti strumenti di pianificazione territoriale e pianificazione comunale, rispettivamente art 5 e art 7. Mentre dunque dopo la Legge Delrio le figure fisiche dell’amministratore comunale e provinciale coincidono, le cariche istituzionali che la stessa persona esercita sono distinte. Le funzioni di area vasta, gli aspetti sovracomunali, la pianificazione territoriale, anche se ricadono sulla stessa persona, non possono essere sviluppati nella sede municipale.
Distinguere è diverso da separare. Il territorio è unico e richiede una visione unitaria e organica per essere governato, ricavabile dalla stretta e leale collaborazione tra livelli istituzionali.
L’art.19 sopra citato afferma che il comune “partecipa” alla pianificazione sovracomunale. Tale diritto è riconosciuto nelle norme regionali, con modalità diverse da regione a regione, ma tutte con la finalità di garantire il coinvolgimento fattivo dei comuni nella formazione dei piani provinciali. Partecipare alla pianificazione sovracomunale è anche un obbligo per il comune, non è una semplice opzione volontaria o arbitraria. Un obbligo che non si esaurisce con il rispetto dei vincoli sovraordinati, ma che implica anche la partecipazione attiva al raggiungimento degli obiettivi fissati dalla pianificazione sovracomunale.
(parte 1, continua)
Note:
(1) Anticipatrici, si ricorda infatti l’incipit dei commi 5 e 51 art.1 della Legge 56/2014 “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione, ….”
(2) Il termine “area vasta” con riferimento agli enti intermedi sostitutivi delle province viene utilizzato dalla Legge 56/2014 e dalla Legge di Riforma Costituzionale.
(3) Art 118 Cost. comma 1: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”, e comma 2: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
(4) Art 19 c.1 lettera d) della Legge 135/2012: “la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla Pianificazione territoriale di livello sovracomunale”.
Pubblichiamo l'intervento di Paola Bonora al convegno "Fino alla fine del suolo. La nuova disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio" tenutosi a Bologna, presso la Regione Emilia-Romagna, il 3 febbraio 2017. 5 febbraio 2017 (p.d.)
Potete scaricare qui il testo dal titolo "La città pubblica tradita", scritto da Paola Bonora ed apparso su “il Mulino”, 6/2016, pp. 958-966.
Finalmente, dopo la sezione Emiliana di Italia Nostra ed l'associazione eddyburg una voce nazionale contro la nuova urbanistica emiliana, cavallo di Troia per un ulteriore peggioramento in tutta la penisola. Aspettiamo INU, WWF, Legambiente, LIPU, Forum difesa del paesaggio....
Il Consiglio nazionale di Italia Nostra chiede di bloccare la nuova Legge Urbanistica che la regione Emilia Romagna sta per approvare:
“Il testo presentato tradisce i due principali obiettivi che hanno ispirato la nuova legge, ovvero il contenimento del consumo di suolo e la rigenerazione delle città”. Italia Nostra Emilia Romagna, con l’architetto Pier Luigi Cervellati, Paola Bonora – Università di Bologna, Ezio Righi – responsabile Urbanistica del consiglio regionale Emilia Romagna e i due consiglieri nazionali, Ilaria Agostini e Giovanni Losavio, hanno posto l’accento sulla pericolosità di una legge che esalta il privatismo e il liberismo immobiliare, nega la potestà comunale a pianificare e aumenta, anziché frenarlo, il consumo di territorio.
Il vantato limite del 3% posto all’ulteriore consumo di suolo è già in sé molto elevato: le città di Ferrara, Modena, Parma, Ravenna, Reggio Emilia, ad esempio, si amplierebbero di circa due chilometri quadrati ciascuna. Inoltre, con tutte le eccezioni disposte nelle sue maglie, l’effettiva trasformazione di campagna coltivata in aree urbane, complessi industriali o grandi infrastrutture, che non sono computate nel consumo di suolo, potrà facilmente raddoppiare o triplicare il già eccessivo contingente del 3% di suolo ritenuto urbanizzabile.
Le norme nazionali in materia di densità, altezze, distanze sono rese liberamente derogabili, e la dotazione di verde e servizi, che oggi per la residenza deve essere di almeno trenta metri quadrati per abitante, è azzerata; addirittura possono essere omessi i parcheggi pubblici.
Alla tutela e riqualificazione dei centri storici e del patrimonio edilizio di interesse culturale non è dedicato neppure un articolo, ma solo qualche riga in quello sul territorio urbanizzato.
Scompaiono gli obblighi in materia di edilizia residenziale sociale disposti dalla legge regionale in vigore, che impone a tale scopo la cessione gratuita di un quinto delle nuove aree edificabili per residenza, e sulle altre destinazioni un robusto contributo finanziario.
La proposta di legge vieta poi perentoriamente ai comuni di stabilire la capacità edificatoria e dettagliare i parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili nelle aree urbane da riqualificare e rigenerare, e pertanto di valutarne sistematicamente la sostenibilità nel territorio urbano. Apparentemente svincolati dall’obbligo di pianificare le trasformazioni intensive del loro territorio, i comuni sono in realtà esautorati da ogni potere cogente e asserviti all’iniziativa e alle scelte incontrollabili dei più forti interessi privati immobiliari. Un sovvertimento totale delle politiche urbane e territoriali molto grave che potrebbe costituire un precedente pericoloso: qualora approvata, infatti, questa legge – anche a causa dell’autorità riconosciuta per decenni all’Emilia Romagna nell’ambito urbanistico – potrebbe costituire l’apripista a nuove normative regionali dello stesso conio inaugurando, dunque, una nuova stagione di “mala urbanistica”.
«La liberazione delle acque italiane è iniziata così, nel cuore sismico del Paese, nel punto in cui il Sangro, sceso dalle balze del Parco nazionale d’Abruzzo, curva verso l’Adriatico sotto le montagne del Molise». comune-info, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)
«Il bulldozer affonda i cingoli nella corrente, pianta il braccio snodabile nel muro dell’argine e in un fracasso infernale aziona la perforatrice. Appena il primo pezzo di cemento crolla, ecco l’acqua appenninica nuovamente libera, trovare una strada tra i massi. La senti cantare, respirare, spumeggiare, come una volta». Potrebbe essere l’incipit di un libro di fantascienza, invece è il resoconto poetico e autentico che il giornalista e scrittore Paolo Rumiz riporta su “Il Venerdì” di Repubblica per raccontare quanto accaduto nel comune virtuoso di Scontrone, seicento abitanti in provincia dell’Aquila.
Quest’anno il Comune di Scontrone ha vinto il Premio Comuni Virtuosi nella categoria Gestione del territorio, per un’operazione che in Italia suona come una specie di rivoluzione: restituire spazio e terra ai fiumi, lavorando sulla prevenzione.
«Il progetto cha abbiamo candidato racconta di come, dopo trent’anni, il fiume Sangro abbia vinto la sua battaglia contro il cemento – dice la sindaca Ileana Schipani, dottoressa in scienze ambientali. Negli anni Ottanta, infatti, il tratto di fiume Sangro che scorre nel nostro territorio, tra Villa Scontrone e Castel di Sangro, venne canalizzato e cementificato per sei chilometri. Un intervento di grande impatto, con il quale l’assetto naturale del corso d’acqua fu completamente modificato, il fiume raddrizzato e sagomato con opere artificiali, il bosco ripariale distrutto».
Un’opera da trenta miliardi di vecchie lire finanziata – si motivava all’epoca – per evitare che il fiume straripasse nelle vicine campagne durante i periodi di piena. Oggi, dopo tanti anni di convivenza incivile tra fiume e cemento, è stato finalmente avviato un progetto integrato dal punto di vista idraulico e ambientale, finanziato attraverso fondi comunitari. «Si tratta – continua la sindaca – sostanzialmente di un intervento che punta a ridurre il rischio idraulico, restituendo spazio al corso d’acqua e quindi migliorando l’ambiente fluviale».
In particolare, i lavori mirano a consentire una dinamica fluviale che abbandoni la logica della canalizzazione: nel progetto si è infatti scelto di procedere alla demolizione dei muri e delle difese spondali in cemento ormai rovinati; per proteggere i centri abitati è stata prevista la realizzazione di rilevati arginali a ridosso delle aree già urbanizzate, senza sottrarre spazio alle aree di potenziale esondazione; in alcuni punti si è ritenuto di riprofilare le sponde per ricostituire un adeguato gradiente di riconnessione tra l’alveo attivo e la piana alluvionale adiacente, così da consentire una naturale laminazione delle acque di piena nelle aree alluvionali di natura demaniale (e non urbanizzate) presenti lungo il corso d’acqua.
«A tutt’oggi, il progetto in corso di realizzazione può essere annoverato come esempio unico nel panorama regionale e probabilmente nazionale, e può costituire un precedente importante, da imitare anche in altre realtà simili con corsi d’acqua resi artificiali».
Chiedo quali sono state le difficoltà maggiori che l’amministrazione ha incontrato nella realizzazione di un progetto che ha richiesto tempo, e quindi pazienza e lungimiranza per essere messo in cantiere. «Il progetto ha richiesto un’intensa e costante interazione tra i soggetti coinvolti diversi, e un elevato di livello di competenze tecniche e di conoscenza del territorio. Partivamo da un progetto preliminare del Genio civile regionale, che prevedeva di mitigare il rischio idraulico attraverso interventi volti a riportare il canale in cemento alla sua condizione originaria (cioè quella della costruzione degli anni Ottanta). La capacità dell’Amministrazione comunale di avanzare una proposta alternativa e concreta, e sostenibile dal punto di vista ambientale, ha probabilmente giocato un ruolo decisivo per arrivare agli interventi sopra descritti».
Il comune ha ragionato in un’ottica di area vasta, cercando alleanze e sinergie con i comuni limitrofi, trovando una governance che tenesse conto del disegno di insieme di un intero territorio.
La cementificazione del fiume Sangro prese il via proprio negli anni Ottanta, e trovò da subito una forte opposizione delle popolazioni locali, ciò che blocco a metà il nefasto intervento. «Si può dire che quella fu una tra le prime proteste ambientaliste contro la cementificazione dei fiumi. È facile quindi comprendere come la presenza del canale sia stata considerata fin dall’inizio un elemento estraneo alla comunità e poi, col passare degli anni e il progressivo degrado dell’opera, sempre più come un detrattore ambientale. Non a caso, nei programmi elettorali amministrativi da oltre un decennio si parlava di ‘rinaturalizzazione del fiume Sangro’ come di un importante obiettivo da perseguire. C’è stato quindi un generale consenso della comunità locale intorno a questo nuovo progetto. Nel periodo precedente l’intervento sono stati realizzati diversi momenti di informazione e di coinvolgimento della popolazione per illustrare, discutere e condividere gli aspetti progettuali».
Ileana Schipani è un sindaco giovane. Tra le vene scorre passione pura per un mestiere che è il più bello e complicato del mondo, in barba a tutte le maldicenze che riforniscono di carburante l’auto della demagogia. Com’è oggi fare i sindaci di una piccola comunità? «È senza dubbio un’esperienza umanamente straordinaria, perché in una piccola realtà la partecipazione attiva della comunità alla vita del paese è l’elemento determinante per provare a costruire prospettive di sviluppo locale, soprattutto in un contesto come quello della montagna appenninica. Quindi l’impegno principale, al là dell’amministrazione ordinaria, sta proprio nel farsi venire buone idee e nel prodigarsi per la loro realizzazione. Che in fondo è proprio ciò che provano a fare ogni giorno i cosiddetti Comuni virtuosi».
Cosa dovrebbe fare la politica nazionale per essere di aiuto alle periferie dell’impero? «Se penso all’amministrazione di un piccolo comune come il mio, senza dubbio chiederei alla politica di saper fare distinzione tra le diverse realtà degli enti locali: spesso ci troviamo a dover applicare procedure e norme o ad assolvere ad adempimenti burocratici che risultano completamente slegati dalla realtà, con il risultato che gli stessi spesso contribuiscono ad aggravare le criticità della macchina amministrativa invece che semplificarla. Chiederei regole generali certe, ma più autonomia nell’azione volta a dare risposte alle aspettative della nostra comunità, anche e soprattutto al fine di invertire la rotta dello spopolamento e dell’abbandono della montagna».
«La liberazione delle acque italiane è iniziata così, nel cuore sismico del Paese, nel punto in cui il Sangro, sceso dalle balze del Parco nazionale d’Abruzzo, curva verso l’Adriatico sotto le montagne del Molise». Se a dirlo è Paolo Rumiz allora possiamo crederci per davvero. (Il progetto di rinaturalizzazione in sintesi).
In occasione del quarantesimo anniversario dall'approvazione della legge Bucalossi sul regime dei suoli, pubblichiamo un estratto da Fondamenti di urbanistica. La Storia e la Norma che sintetizza i contenuti della legge e i suoi nodi irrisolti (m.b.)
da Fondamenti di urbanistica. La Storia e la Norma, di Edoardo Salzano, Laterza editori, Roma-Bari 20074,,p 178-200
Spezzoni di riforma
Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero senza che fosse assunta alcuna concreta iniziativa e si fu così costretti, nell’ultimo giorno utile, ad approvare un’altra proroga biennale. Nel novembre 1975 ancora un rinvio di un anno. Questa volta è però accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente, dopo un’ultima proroga di tre mesi, è approvato nel gennaio 1977. È la legge 28 gennaio 1977, n. 10, più nota come legge Bucalossi, dal nome del Ministro repubblicano per i lavori pubblici che ne fu l’autore.
Alla base della legge c’è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà. In verità, sullo “scorporo” del diritto di edificare dal diritto di proprietà la Dc non dà mai un’adesione convinta. L’intesa fra i partiti di governo si realizza soprattutto grazie all’impegno di Pietro Bucalossi che minaccia le dimissioni (e quindi la crisi di governo) in caso di mancata approvazione del disegno di legge. Il principio della separazione viene però affermato in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile al partito della proprietà, se è vero che qualche esponente della proprietà edilizia che aveva prima parlato “di una vera confisca (sic), giustificata dal troppo evidente inganno che la proprietà rimane nella titolarità dei proprietari”, dopo l’approvazione del consiglio dei ministri, afferma - peraltro con la medesima superficialità del primo giudizio - che “la legge non esprime più l’adozione di quel principio sovversivo[1].
Il disegno di legge Bucalossi è approvato dal Consiglio dei ministri il 29 novembre 1975 e presentato al Parlamento 1’11 dicembre. Gli elementi portanti della riforma sono l’istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell’edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.
Il regime di concessione onerosa ha come presupposto la riserva pubblica del diritto di edificare. L’ente pubblico assente la concessione di questo diritto al proprietario dell’area, ovvero a chi ne ha la legittima disponibilità, per l’edificazione di opere conformi agli strumenti urbanistici. La concessione non incide sulla proprietà - che resta privata - dell’immobile realizzato. L’onerosità della concessione è parziale, nel senso che il contributo di concessione non costituisce il corrispettivo dell’intero plusvalore dell’area. Il contributo è infatti formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.
Il convenzionamento dell’edilizia abitativa dovrebbe essere uno dei punti qualificanti della legge. Esonerando l’edilizia convenzionata dagli oneri di concessione si possono favorire gli imprenditori disposti a concordare con il comune i prezzi di vendita ed i canoni di locazione degli alloggi da destinare alle categorie meno abbienti, e quindi esercitare consensualmente un controllo del mercato delle locazioni.
Il programma poliennale di attuazione degli strumenti urbanistici serve ad evitare una delle più macroscopiche distorsioni che hanno accompagnato la crescita delle città, e cioè la contemporanea diffusione dell’attività edilizia in tutte le direzioni possibili e senza alcuna correlazione con gli interventi volti alla realizzazione delle infrastrutture e attrezzature. In tal modo i comuni sono stati costretti ad inseguire la disordinata diffusione delle iniziative private, sostenendo ingenti spese per la costruzione delle reti di urbanizzazione e per assicurare i minimi servizi (si pensi ai trasporti). Il programma poliennale di attuazione consente invece ai comuni di definire quali delle opere previste dal piano regolatore si possono realizzare in un determinato periodo, organizzando per tempo, ed in rapporto alle proprie disponibilità finanziarie, gli interventi pubblici necessari.
La nuova normativa contro l’abusivismo, fenomeno già allora in forte espansione, prevede, nei casi di maggior gravità, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’opera abusiva. La demolizione resta l’unica sanzione quando l’abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il fatto che l’acquisizione al patrimonio comunale non sia una facoltà ma un atto dovuto per il comune sembra il deterrente decisivo. Ma, come vedremo, l’abusivismo esploderà più violento di prima.
Il dibattito in parlamento rinfocola i contrasti. Il disegno di legge è in parte migliorato. Non vengono invece chiariti i nodi relativi al regime di proprietà delle aree edificabili.
La mancata esplicitazione del principio della separazione costituisce un grave errore - anche politico - perché le riforme non si fanno con le riserve mentali (se c’è separazione, come c’è, non si vede per quale motivo non Si debba dirlo chiaramente), perché non ci può essere confusione su un principio che costituisce il presupposto del regime concessori (senza la separazione, infatti, la concessione si ridurrebbe ad un fatto meramente nominalistico), perché infine si potrebbe rischiare di incorrere in una nuova declaratoria di incostituzionalità (la logica della sentenza n. 55, è bene ricordarlo, è stata ribadita dalla Corte in una recente pronuncia)[2].
Facile profezia. Nel gennaio 1980, a tre anni dalla Bucalossi, la Corte costituzionale si pronuncerà ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica. [Con la sentenza n. 5/1980 la Corte affermò infatti che, nonostante la diversa denominazione data dal legislatore «ildiritto di edificare continua ad inerire alla proprietà» - n.d.r.].
Note
[1] M. Martuscelli, nell’introduzione a: F. Bottino, V. Brunetti, Il nuovo regime dei suoli, Edizioni per le autonomie, Roma 1977, p. 20.
[2] Ivi, p 27.
Riferimenti
Qui potete scaricare il capitolo introduttivo al libro di F. Bottini, V. Brunetti, Il nuovo regime dei suoli, scritto da Michele Martuscelli, allora direttore generale del Ministero dei Lavori Pubblici. E' un saggio di notevole interesse: nella prima parte inquadra i contenuti nella legge nel percorso di riforma urbanistica, tentato e mai portato a compimento. Nella seconda parte, fornisce un primo bilancio dell'attuazione, affidata - con tutte le conseguenze del caso - all'iniziativa delle Regioni.
In occasione della giornata di studio "Fino alla fine del suolo, La nuova disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio", indetta dai gruppi consiliari del Movimento 5 Stelle e de L'Altra ER" l'associazione di promozione sociale eddyburg . ribadisce le sue posizioni sulla devastante proposta. Riferimenti in calce
Per molti urbanisti italiani l’esperienza dell’Emilia Romagna, anche prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, ha rappresentato un modello fertile e virtuoso, e senza confronti nel nostro Paese, di buona pianificazione urbanistica e territoriale. Basti ricordare la prestigiosa Consulta urbanistica regionale che contribuì in modo determinante alla formazione del decreto ministeriale sugli standard del 1968. In anni più recenti, in attuazione della cosiddetta legge Galasso, la regione Emilia Romagna (assessore Felicia Bottino) si è dotata di un esemplare piano paesistico che ha tutelato con rigore le risorse storiche e ambientali della regione. Anche i comuni sono stati protagonisti di buone pratiche: in primis Bologna – in particolare al tempo degli assessori Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati – , ma anche Modena, Reggio Emilia e altre realtà locali che sono state a lungo un riferimento obbligatorio della cultura urbanistica, non solo italiana.
Ma a partire dagli anni Ottanta del Novecento, il primato dell’Emilia Romagna è andato progressivamente in crisi: gli strumenti urbanistici dell’ultima generazione hanno ceduto alla filosofia della globalizzazione, del privatismo, della contrattazione. È stata anche cancellata la tutela integrale dei centri storici che da Bologna era stata esportata in tutto il mondo.
Ed eccoci all’ultimo progetto di legge regionale sulla tutela e l’uso del territorio che compie un irresponsabile svolta deregolativa che, di fatto, delegittima la stessa disciplina urbanistica. Il progetto di legge, che nelle prossime settimane dovrebbe essere approvato dalla Giunta regionale, prevede una strumentazione urbanistica comunale articolata in: piano urbanistico generale (Pug) e accordi operativi. Spetterebbe al Pug stabilire “la disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” (art. 29, c. 1, lettera a). Ma come? La novità dirompente è che “il Pug “non può [corsivo nostro] stabilire/definire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quelle di nuova urbanizzazione, né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili, con la sola eccezione degli interventi attuabili per intervento diretto” (art. 32, c. 4 e art. 37, c.1).
Quindi, ed è bene sottolinearlo, secondo il progetto di legge alla “disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” è addirittura inibito di “stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quello urbanizzabile, né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili”.
Com’è possibile? A chi spetta allora, se non al piano urbanistico comunale, di definire la capacità edificatoria e i parametri urbanistici? La risposta sta nel testo di legge: spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che abbiano presentato al comune un’apposita proposta (art. 37, c. 3), da approvare in 60 giorni: in tempi evidentemente proibitivi per i comuni! E siffatti accordi “sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo, comunque denominato” (art. 29, c. 1, lettera b). La conseguenza è un piano urbanistico comunale privo di contenuti dimensionali e localizzativi: in pratica, non si saprà quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze, le attività produttive, le attrezzature e i servizi.
Un altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica è quello relativo al contenimento del consumo del suolo. Il testo di legge statuisce che ogni comune potrà prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio” (art. 5, c. 2). Non sono consentite nuove edificazioni residenziali, a meno che non siano destinate ad attivare interventi di rigenerazione del territorio urbanizzato e per interventi di edilizia residenziale sociale (art. 5 c. 3).
Non sono invece computati ai fini del calcolo del 3%: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative; gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge (art. 6, c. 5). Si mettono così al sicuro i cosiddetti diritti acquisiti, ed è stato calcolato che, alla fine, tenendo conto anche delle discutibili modalità di individuazione della superficie urbanizzata, il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione.
Trascuriamo altri contenuti del progetto di legge – in particolare quelli relativi al possibile ridimensionamento degli standard e alle complicazioni che il nuovo labilissimo assetto della strumentazione comunale determinerà nei riguardi della pianificazione sovraordinata –. Tornando agli accordi operativi, secondo la proposta di legge potranno essere elaborati e presentati esclusivamente dalla proprietà fondiaria. Al comune spetteranno soltanto l’assurda verifica di conformità nei confronti di una pianificazione di fatto delegittimata in quanto priva di disposizioni cogenti, e la negoziazione con i privati in materia di dotazioni, infrastrutture e servizi. In assenza di proposte private, il comune non potrà dunque decidere alcunché, meno che mai elaborare propri piani urbanistici.
Si tratta di un progetto di legge che renderà leggendaria l’autonoma capacità d’intervento, il talento e l’inventiva dei comuni e degli enti locali dell’Emilia Romagna dei trascorsi decenni.
Di fronte a questo ennesimo tentativo di rottamazione della pianificazione, eddyburg sollecita le associazioni nazionali che hanno tra i loro obiettivi la tutela del territorio in tutte le sue componenti (naturalistche, storiche, paesaggistiche, culturali,) ad attivarsi per evitare che la proposta della RER, diventi il cavallo di Troia per l'ulteriore imbarbarimento della legislazione italiana in materia
Riferimenti
Una puntuale ed ampia analisi critica del progetto di legge è contenuta nel documento della sezione emiliano-romagnola di Italia nostra, che trovate qui in eddyburg. Vi segnaliamo anche, sempre su eddyburg, la lettera aperta ai governanti della Regione E-R, e gli articoli di Enzo Righi, di Ilaria Agostini e di Giovanni Lo Savio., scritti per i nostri frequentatori
In Lombardia, l'amministrazione leghista vuole consentire per legge l'utilizzo dei seminterrati, in deroga ai piani urbanistici, per abitazioni e attività produttive, con postilla (m.c.g.)
Il governo leghista della Regione Lombardia, con il disegno di legge (n. 0258) dedicato alrecupero ad uso abitativo, commerciale o terziario dei piani seminterrati, conferma ancora una volta di non riuscire a segnare una reale discontinuità rispetto al ventennio di Formigoni, nonostante una campagna elettorale, quella del 2013, fatta dall'attuale Governatore con tanto di ramazze e scope di saggina per indicare un cambiamento che, di fatto, non si è verificato.
Nel 1996, all'inizio del primo mandato di Formigoni, c'era stato il tema dei sottotetti che, in deroga alle previsioni dei piani regolatori, potevano essere trasformati in nuove unità immobiliari con funzioni residenziali. Oggi la Giunta leghista ne offre la versione "underground", con il primo comma dell'articolo 1 che é proprio il copia e incolla della L.R. 15/96. La proposta di legge in discussione ha l'obiettivo di consentire l'uso degli attuali seminterrati (sì, proprio quelli che a ogni acquazzone si allagano) per fini abitativi, commerciali e terziari.
È bene ricordare che questi spazi, attualmente, non sono conteggiati nella volumetria che si edifica e infatti non hanno i requisiti minimi di abitabilità previsti dalle norme igienico-sanitarie: hanno soffitti più bassi, hanno meno luce e meno aria, spesso hanno problemi di umidità, tant'è che sono definiti come "locali accessori", cioè senza permanenza fissa di persone. Inoltre sono proprio quei locali che, in occasione di temporali o forti piogge, si allagano, essendo a una quota inferiore rispetto al piano stradale e molte volte anche al sistema fognario.
È da anni che la maggioranza del Pirellone parla di riformare la legge urbanistica, una legge (elaborata alla fine del secondo mandato di Formigoni) che ha generato una iper-produzione di piani urbanistici comunali ognuno dei quali, in modo del tutto autoreferenziale, ha fatto previsioni insediative spesso molto creative, slegate da concrete politiche di sviluppo territoriale e in assoluta assenza di un coordinamento di scala superiore. Il risultato di oltre un decennio di applicazione di quella norma sta nelle migliaia (circa 400.000) di metri quadrati che, oggi, i quasi 1.500 PGT lombardi si portano dietro e la cui realizzazione sembra comunque garantita da una legge sul contrasto del consumo di suolo la cui attuazione rimane molto controversa.
È evidente che all'attuale maggioranza lombarda manchino le idee o la forza politica (o entrambe le cose) per portare avanti un disegno di legge complessivo sul tema del governo del territorio. Basta vedere i provvedimenti parziali che sono stati approvati in questi anni (L.R. 31/2014 per il contrasto al consumo di suolo, L.R. 4/2016 per la mitigazione del rischio idrogeologico, Strategia regionale per l'adattamento climatico del 2014) su iniziativa di Direzioni Organizzative differenti, indicatore di una mancanza di coordinamento interno, tecnico oltre che politico, su questi temi che oggi più che mai richiederebbero invece collaborazione tra chi si occupa di ambiente, di gestione idrica, di agricoltura, di energia, di urbanistica e di sviluppo sostenibile.
Un ultimo punto interrogativo rimane poi riguardo a quale domanda abitativa, commerciale e terziaria sia rivolta questa proposta. Quali bisogni si vogliono soddisfare in un territorio, come quello lombardo, in cui l'offerta immobiliare ha da tempo superato la domanda, tanto che uno dei temi urbanistici più problematici è la gestione di una sovraproduzione edilizia di aree che in molti casi rischiano di diventare abbandonate e degradate senza neppure essere state occupate?
postilla
“Vado a vivere in cantina” potrebbe essere il titolo del disegno di legge (n. 0258) promosso dalla regione Lombardia. Qui potete scaricare il testo, composto da soli tre articoli.
Secondo l'autopropaganda della regione E-R «la Regione frena il consumo di suolo: taglio a nuove previsioni di espansione, saldo zero, rigenerazione urbana e adeguamento sismico con regole più semplici, legalità e trasparenza» (dal sito ER territorio). Invece...
Non c’è risparmio di suolo, non c’è qualificazione urbana. Per tutto quanto concerne le iniziative immobiliari per nuovi insediamenti o di rigenerazione urbana, è soppressa la possibilità stessa di una cogente disciplina urbanistica preventiva, sottraendo meticolosamente ai comuni ogni potere e strumento per governarli.
L’interesse pubblico alla qualità e funzionalità del territorio è ignorato, e la massima attenzione è dedicata a disporre le condizioni di maggior vantaggio per la rendita fondiaria nelle realtà urbane maggiori.
1 Non c’è risparmio di suolo
Secondo l’assessore Donini, limitando al tre per cento il possibile ampliamento urbano, i 250 chilometri quadrati di espansioni urbanistiche oggi già possibili si ridurrebbero a 70.
Non è così. Ai proprietari di quei 250 chilometri quadrati sarebbero concessi tre anni (o forse cinque) per metterne perpetuamente al sicuro la classificazione urbanistica, stipulando accordi operativi a cui i comuni non avrebbero reale possibilità di sottrarsi. Come potrebbe un comune negare la conferma di un’edificabilità disposta dal piano vigente al di fuori di un formale procedimento di variante, sulla base della semplice delibera di indirizzo indicata dalla proposta di legge?
Il vantato limite del tre per cento all’incremento del territorio urbano sarebbe quindi aggiuntivo alle espansioni urbanistiche già vigenti e confermabili, e comunque elevato in sé: con un incremento del tre per cento ciascuna delle città di Ferrara, Modena, Parma, Ravenna, Reggio crescerebbe di due chilometri quadrati, sufficienti ad accogliervi altri ventimila abitanti.
2 Non c’è qualificazione urbana
Gli interventi di riuso e rigenerazione nel territorio urbanizzato sarebbero interamente ed esclusivamente rimessi all’ iniziativa delle proprietà, che sola avrebbe titolo per sviluppare progetti del tutto arbitrari in quanto:
- esenti da qualsiasi limitazione o regola preventiva su volume, superficie utile, morfologia, uso, dotazioni e geometria
- in deroga agli standard nazionali e locali in materia di verde, servizi pubblici e parcheggi
- in deroga alle norme nazionali e locali in materia di densità edilizia, altezze e distanze dagli altri fabbricati: ad esempio nuove costruzioni su aree liberate da demolizioni potrebbero mantenere la posizione delle demolite, anche se solo a un metro e mezzo dal confine e molto più alte di quelle, mentre il vicino nella sua casetta sarebbe invece tenuto a rispettare tutte le norme urbanistiche locali e nazionali su distanze, altezze, libera visuale, densità...
- senza alcun obbligo di valutare la sostenibilità ambientale e territoriale di quanto progettato.
É ovvio che progetti di rigenerazione sviluppati in queste condizioni ricercherebbero il massimo vantaggio economico privato, e sarebbe illusorio accreditarli di sensibilità e attenzione all’interesse pubblico. Nulla impedisce che interventi concepiti in queste condizioni producano selvaggi aumenti di volumi, indifferenti all’impatto prodotto sulla circolazione e sui servizi, privi di dotazioni essenziali e anzi congestivi e parassitari sul contesto urbano. Le parti più sofferenti delle città esigono politiche di diradamento, non di quell’addensamento che appare l’unico intento e la sola prospettiva della proposta di legge.
Oltre a tutto questo la nuova legge elargirebbe a queste operazioni sostanziali agevolazioni economiche a carico dei comuni, esonerandole dall’obbligo del contributo straordinario (che può arrivare fino a metà dell’incremento di valore apportato dalla classificazione urbanistica) e da almeno un quinto del contributo di costruzione. Contributi regionali assisterebbero la bonifica di suoli privati contaminati, e sarebbero abrogati tutti gli obblighi di contribuzione all’edilizia residenziale sociale disposti dall’attuale legge regionale.
Per questa via non si arriva alla qualificazione della città esistente, ma al suo contrario.
3 Riguardo all’esautoramento dei comuni
3.1 I poteri di pianificazione generale
I comuni rimarrebbero titolari di un unico strumento urbanistico, il piano urbanistico generale (PUG).
Per gli interventi di rigenerazione urbana previsti nel territorio urbanizzato sarebbe tassativamente vietato al PUG di stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale... o dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili (articolo 32, comma 4), la cui definizione spetterebbe esclusivamente ad accordi operativi. Qualsiasi altro intervento nel territorio urbano resterebbe invece soggetto alla normale disciplina urbanistica ed edilizia.
I nuovi insediamenti nei 250 chilometri quadrati di espansioni urbanistiche sarebbero regolati dagli accordi operativi stipulati nei primi tre o cinque anni di efficacia della nuova legge.
Per gli ulteriori nuovi insediamenti localizzazioni, dimensioni, destinazioni, caratteri, sarebbero esclusivamente definiti da accordi operativi, in quanto la funzione del PUG in materia di nuove urbanizzazioni consisterebbe esclusivamente nel ricostruire la griglia degli elementi strutturali che connotano il territorio extraurbano e che costituiscono riferimento necessario per le nuove previsioni.
La Strategia per la qualità urbana ed ecologico ambientale, che secondo l’articolo 33 dovrebbe costituire l’asse portante del PUG, è destituita di ogni efficacia cogente. Per quanto forzatamente generiche, secondo il comma 2 del medesimo articolo le sue indicazioni di massima possono essere modificate in sede di accordo operativo senza che ciò costituisca variante al PUG.
In buona sostanza, se la proposta fosse tradotta in legge, il risultato sarebbe un ordinamento sdoppiato:
1. le trasformazioni diffuse nel territorio urbano e nel territorio rurale rimarrebbero soggette a una disciplina urbanistica cogente, si tratti di nuove edificazioni su lotti di completamento, di ampliamenti, ristrutturazioni, modifiche interne o dell’uso, manutenzioni; in sostanza, tutti gli interventi posti in atto da famiglie e imprese per dotarsi di spazi adeguati resterebbero regolati dalla consueta e perfettibile disciplina urbanistica ed edilizia, e pienamente soggetti ai contributi di costruzione dovuti a vario titolo;
3.2 I poteri di pianificazione esecutiva
Con la legge proposta sarebbero interdetti tutti i piani urbanistici attuativi di iniziativa pubblica disposti dalla legislazione nazionale (piani particolareggiati, piani di recupero, PEEP, PIP...), di cui prenderebbe integralmente il posto il solo istituto dell’accordo operativo, appositamente inventato.
Solo i proprietari avrebbero titolo per proporre accordi operativi per nuovi insediamenti e per rigenerazioni urbane, quando e come volessero, presentando un progetto, uno schema di convenzione e una relazione economico finanziaria, non supportati da alcuna valutazione di sostenibilità. L’articolo 37, comma 4, imporrebbe al comune il compito paradossale, nel termine perentorio di sessanta giorni, di verificarne la conformità a un PUG le cui indicazioni di massima, mai cogenti, sarebbero comunque modificabili in sede di accordo operativo. Anche la conformità alla pianificazione territoriale vigente sarebbe indeterminata e aleatoria per effetto dell’articolo 72, che intende confermare l’efficacia dei piani territoriali di coordinamento provinciali (PTCP) solo per i vaghi e genericissimi contenuti previsti dall’articolo 40 per i piani territoriali di area vasta (PTAV).
In mancanza dell’appoggio di qualsiasi dispositivo cogente, e pressato dal termine perentorio di sessanta giorni, il comune non avrebbe modo alcuno di respingere la proposta di accordo, per quanto indecente, senza incorrere in ricorsi e azioni di risarcimento. E gli amministratori sarebbero esposti a ogni sorta di sospetto e insinuazione.
In sostanza tutte le più rilevanti trasformazioni del territorio urbano risulterebbero liberamente decise dai soli privati proprietari, nei contenuti, nelle forme, nei tempi e nei modi di attuazione di iniziative immobiliari.
La soppressione di qualsiasi strumento attuativo di iniziativa pubblica toglie poi ai comuni ogni potere di intraprendere politiche ed azioni di qualificazione urbana nelle situazioni più bisognose, attraverso pazienti interventi di ricomposizione fondiaria, coordinamento delle energie positive e rimozione delle inerzie, che l’esperienza ha largamente dimostrato indispensabili, e che l’iniziativa privata da sola non è in grado di condurre.
4 Conclusioni
Gli interessi immobiliari hanno da tempo usurpato a proprio vantaggio gli obiettivi del risparmio di suolo e della qualificazione del territorio urbano, tradendoli nei fatti.
Invocando il risparmio di suolo, imprese di costruzioni e immobiliari intendono proteggere le zone di espansione già possedute dalla concorrenza di ulteriori previsioni urbanistiche. E pretese ragioni di risparmio di suolo servono a spacciare per rigenerazione urbana l’addensamento indiscriminato, e ad avallare selvaggi aumenti di volume e l’evasione delle più essenziali e consolidate regole urbanistiche ed edilizie.
Mistificando i valori del risparmio di suolo e della rigenerazione urbana, il sistema degli interessi immobiliari è riuscito ad assumere un ruolo egemone nella produzione della proposta di legge urbanistica regionale, come un confronto fra il testo della proposta di legge e il documento dell’ANCE del febbraio 2016 basta a dimostrare. Ha così ottenuto una proposta di legge che semplicemente annulla la disciplina urbanistica in tutto quanto riguarda la realizzazione di nuovi insediamenti e gli interventi più rilevanti di rigenerazione urbana, in funzione della massima ulteriore valorizzazione dei terreni edificabili e dei fabbricati urbani già posseduti.
Il congegno risponde pienamente alla casistica completa delle posizioni di interesse immobiliare, proprietarie sia di zone di espansione che di fabbricati nel territorio urbano, e dei modi in cui può essere perseguito il loro maggior vantaggio:
- le zone di espansione urbanistica già previste potrebbero essere poste irreversibilmente al sicuro, attraverso accordi operativi che i comuni non avrebbero reale possibilità di negare;
- gli interventi di riuso e rigenerazione nel territorio urbanizzato verrebbero sottratti a qualsiasi limitazione cogente di origine nazionale o locale, e interamente rimessi all’arbitrio delle iniziative immobiliari;
- un qualsiasi pezzo di campagna (nel vantato limite del tre per cento) sarebbe liberamente utilizzabile per trasferirvi l’edificabilità non convenientemente utilizzabile sul posto (premialità varie comprese) dagli interventi di rigenerazione urbana; o per attuarvi imprecisati programmi di edilizia residenziale sociale, comunque apportatori di rendita e utili per negoziare altri vantaggi.
Va notata come sintomatica l’accuratezza con cui nella proposta di legge sono esautorati e impastoiati i poteri pubblici e ricercati i più minuti vantaggi e garanzie per gli attori di iniziative immobiliari, in contrasto stridente con la quantità di contraddizioni, omissioni, dissimulazioni e assurdità diffuse nelle disposizioni concernenti la futura pianificazione urbanistica e territoriale, e la transizione dall’attuale sistema al nuovo.
Concludendo, non è riconoscibile alcun interesse pubblico che giustifichi questa estromissione dei pubblici poteri dal governo delle trasformazioni intensive del territorio.
È scandaloso che i nobili obiettivi del risparmio di suolo e della qualificazione del territorio urbano siano mistificati e asserviti a interessi puramente speculativi. Per fermare lo spreco di suolo e qualificare il territorio, in particolare quello urbano, servono rinnovate politiche, di cui i comuni siano attori principali, nel quadro di solidi riferimenti del piano territoriale regionale e dei piani di area vasta.
Preoccupa gravemente che questa proposta sia l’avanguardia di un tentativo di sovvertire la legislazione urbanistica nazionale dal basso, attraverso la proliferazione di leggi regionali che la contraddicono.
Il disegno di legge urbanistica della Regione Emilia Romagna (DdL ER) presentato nel novembre 2016 sarà presto in Consiglio. Il testo merita – non per la sua qualità letteraria, bensì per l’autorità delle fonti che vi sono confluite – di costituire l’oggetto di un esercizio di critica testuale: quale il suo stemma codicum, quale il suo albero genalogico?
Tentiamo dunque di scoprire la genesi delle locuzioni di matrice neoliberista che l’atto legislativo farebbe precipitare nella pratica pianificatoria, depotenziandola fino a renderla prevedibilmente inefficace; di ricostruire come giungono nel corpo del DdL gli enunciati inerenti l’esautorazione dei Comuni a pianificare, competenza loro attribuita dalla Costituzione; da dove discendono infine le proposizioni riguardanti il suolo agricolo consumabile entro il 2050.
Per avviare l’indagine filologica occorre illustrare le fonti documentarie. La prima è il DdL S3519 promosso da Maurizio Lupi, deputato di Forza Italia, nel 2005; il “Lupi I” è bloccato in extremis dall’opposizione delle destre che vedevano minacciata l’onorabilità della vigente legge urbanistica n. 1150 del 1942. Nel 2014 Lupi, ministro alle infrastrutture nel governo Renzi, produce un nuovo DdL, più tossico del precedente: il Lupi II – come il I – non ha esito alcuno, travolto – assieme al ministro – nello scandalo “Grandi Opere”.
Un terzo documento, firmato Ance Emilia Romagna (costruttori edili di Confindustria), attiene a un contesto linguistico affine alle prime due fonti ed è indispensabile alla presente collazione: nelle Riflessioni e proposte per la definizione della nuova legge regionale sul governo del territorio (febbraio 2016) si ritrovano le più interessanti enunciazioni del DdL ER.
Iniziamo l’indagine dalla voce «negoziazione». Sinonimo di «contrattazione pubblico-privato», la voce è già presente nel Lupi I che, in nome della semplificazione, promuoveva «atti negoziali in luogo di atti autoritativi [cioè pianificatori]» (art. 5, c. 4). L’appena citato comma risuona in apertura del DdL ER: «la presente legge valorizza le capacità negoziali dei Comuni» (art. 1). «Capacità» messe alla prova nell’istituto degli «accordi operativi» (89 ricorrenze nel testo del DdL), in Ance 2016 denominati «accordi», con registro amicale. Lo scenario manifestato dagli industriali in forma non mediata – «superare i vecchi Piani urbanistici attuativi» (p. 8) – traspare nel DdL ER: «Gli accordi sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo» (art. 29, lett. b). Nella sostituzione della pianificazione con la contrattazione, ivi espressa, si può vedere anche il contributo del Lupi II, art. 15 (Accordi urbanistici).
Strumenti urbanistici comunali «ridotti e semplificati» richiede l’Ance (p. 9). Semplificati, come detto sopra, e ridotti ai «contenuti minimi inderogabili» (ibidem). Tale enunciato è tradotto in termini “regressivi” nel DdL ER, dove si legge che il PUG (piano urbanistico generale comunale) «non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili» (art. 32, c. 4). Viene da chiedersi cosa resti in capo al Comune.
Riconosciamo al Lupi I la paternità della finanziarizzazione tossica (vedi anche Lupi II, art. 12) presente nel DdL emiliano. I «diritti edificatori [...] trasferibili e liberamente commerciabili» (Lupi I, art. 9, c. 3) funzionano da motore per il passaggio dall’ambito semantico della pianificazione a quello del gioco in borsa. Tale scarto è meglio individuabile nel più recente Ance 2016 laddove esso tratta il meccanismo perequativo che, com’è noto, dà vita ai cosiddetti “volumi edilizi in atterraggio” su suoli agricoli: alla «perequazione tradizionale», poco adattabile alla crisi edilizia, gli industriali contrappongono l’auspicata «perequazione virtuale» (Ance, p. 13) che meglio si confà al mercato oggi vòlto alla riqualificazione intra muros. Bisogna riconoscere a questo punto l’originalità del DdL ER quando sopprime la voce “perequazione” (dall’ancorché vago significato sociale) e la semplifica nei più versatili «incentivi» e «premialità» (art. 8), a loro volta riconducibili a quelle «leve incentivanti» (indispensabili ad «agevolare le operazioni di riqualificazione e recupero») che si rinvengono in Ance 2016.
L’appena richiamata voce «recupero» è trasformata nel più moderno lessema «rigenerazione», che ricorre nell’articolato del DdL ER per sessantanove volte. Si noti che con tale lessema, di matrice biologica, si vuole prioritariamente rappresentare, non senza forzatura semantica, il processo squisitamente meccanico di demolizione e ricostruzione. Ricostruzione che si intende «anche non fedele e in sedime diverso, con eventuali aumenti di volumetria per consentire di rendere economicamente convenienti tali operazioni» (Ance, p. 8). L’assunto è trasposto in lessico urbanistico nell’art. 9, c. 1, lett. c del DdL: gli «interventi di addensamento e sostituzione urbana non sono tenuti all’osservanza dei limiti di densità edilizia e di altezze degli edifici [di cui al DM 1444/1968]». In tema di obliterazione del 1444/1968, il testo denuncia un’evidente contaminazione con Lupi I e II, che prevedevano l’abolizione degli standard urbanistici, trasformati ora nell’ossimorico sintagma «standard urbanistici differenziati» (DdL ER, art. 9). Sì, standard «differenziati».
L’attività edilizia troverà il suo ambito di azione preferenziale nei centri urbani (il concetto di «centro storico» è trascurato quanto lo fu in Lupi II laddove si disciplinavano gli interventi di «rinnovo urbano», artt. 17-18). Ciò non esclude tuttavia la costruzione su aree agricole, da attuare con particolare attenzione allo «sfidante tema» [sic] del consumo di suolo, come riconosciuto dagli industriali, tradizionalmente sensibili al tema. Nel loro documento essi scongiurano il «saldo zero» (obbiettivo comunitario al 2050) richiamando la Regione a non assumere un’«impostazione di sostanziale blocco del consumo di suolo» (p. 7). Influssi di tale affermazione si riconoscono nel passaggio in cui il DdL ER prevede, in assenza di giustificazione tecnico-scientifica, un’ulteriore quota di «suolo consumabile» pari al 3% della superficie urbanizzata (riecheggia qui la lezione di Realacci nel DdL C2039 sul consumo di suolo, art. 3).
Ricorre nei testi in esame l’attenzione alla «fase transitoria». «Tre anni» (DdL ER) dall’entrata in vigore della legge (torna in mente l’annata funesta che seguì il varo, nel 1967, della legge Ponte). Per «governare con coraggio e progressività questa prima fase di lavoro», è ritenuto necessario «tutelare i legittimi affidamenti fondati sulle previsioni di pianificazione già approvate e per le quali sono state spesso fornite garanzie agli Istituti di credito» (Ance 2016, p. 3). Nel citato art. 6 della vulgata emiliana se ne riscontra la pronta traduzione: nel 3% di suolo consumabile «non sono computate le aree utilizzate per l’attuazione delle previsioni dei piani urbanistici previgenti»: naturalmente al fine di «garantire il fisiologico sviluppo delle aree urbane» (Ance, p. 2), dichiarazione che assurge in questo contesto a valore di archetipo.
Resta da augurarsi che tale archetipo non corrompa l’intero contesto linguistico peninsulare.
il manifesto, 13 gennaio 2017
La Gazzetta Ufficiale n. 268/2016 ha pubblicato lo schema di regolamento edilizio tipo previsto dall'articolo 17 della legge 164/2014 (di conversione del d. l. 133/2014, noto come "decreto sblocca Italia"). La sua redazione è una delle azioni previste dall'Agenda della semplificazione 2015-2017 del ministro Madia.
L'intesa governo-regioni-comuni, che ha dato il via libera al testo dello schema, è arrivata con un anno di ritardo rispetto alle previsioni e dopo due di lavoro. Dalla sua adozione da parte dei comuni ci si attende una semplificare delle procedure amministrative per la realizzazione degli interventi edilizi.
I requisiti prestazionali degli edifici, che dovrebbero essere definiti dal regolamento tipo, costituendo «livelli essenziali delle prestazioni concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali» devono essere gli stessi su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo è, quindi, di intervenire sull’attuale varietà di regole vigenti nei singoli comuni, offrendo a cittadini, professionisti e imprese di costruzioni, una normativa tecnica uniforme, da un capo all’altro della penisola. Proviamo a valutare se e in che misura il recepimento dell’intesa produrrà la semplificazione e l’unificazione sperate delle normative edilizie comunali.
Uno schema senza contenuti
Lo schema di regolamento sul quale lo stato, le regioni e i comuni sono riusciti a mettersi d’accordo è un contenitore vuoto. Fornisce ai comuni solo indicazioni sulle modalità di redazione dei loro regolamenti edilizi, che devono essere strutturati in due parti. Nella prima vanno richiamate, senza riportarle, le norme statali e regionali da applicare. Per la seconda parte, lo schema si limita a proporre un indice degli oggetti e delle tematiche delle quali il regolamento deve occuparsi, senza fornire, però, nessuna disposizione, qualitativa e quantitativa, circa i requisiti tecnici da rispettare nella costruzione.
In sostanza, lo schema stabilisce un elenco degli argomenti del regolamento e, per semplificarne la consultazione e garantirne l’uniformità dell'impianto, indica una "struttura generale uniforme" per la loro esposizione, senza indicarne i contenuti e senza entrare nel merito dei requisiti tecnici e della disciplina delle modalità per la realizzazione delle costruzioni. Probabilmente questa decisione è stata una condizione necessaria per arrivare all’intesa. Per farsi un’idea dell’incertezza sui tempi che sarebbero stati necessari per trovare un accordo sulla sostanza, si consideri che è stato necessario quasi un anno per proporre una formulazione condivisa della definizione di 42 parametri edilizi (superfici, volume, distanze, pertinenze ecc.); lasciando, comunque, a ogni regione una certa libertà di interpretazione di ognuna di esse.
L’uniformità parziale
Il perseguimento dell’obiettivo dell’uniformità territoriale dei regolamenti edilizi è reso problematico dalla stessa intesa istituzionale che ha dato il via libera allo schema: la sua applicazione non è prevista su tutto il territorio nazionale. Le cinque regioni a statuto speciale, infatti, recepiranno lo schema dell’intesa solo se non contrasta con i loro statuti e le loro normative di attuazione. Nulla però garantisce neanche che le regioni a statuto ordinario e i comuni recepiscano il regolamento tipo senza avvalersi dei gradi di autonomia che l’intesa riconosce loro.
È previsto, infatti, che le regioni «nel rispetto della struttura generale uniforme dello schema di regolamento tipo approvato possono specificare e/o semplificare l’indice». Ma i regolamenti comunali potranno differire tra di loro non solo per gli indici ma anche per la sostanza di ogni suo paragrafo. Ogni comune individua, infatti, l’obiettivo prestazionale da raggiungere con le diverse tipologie di trasformazioni edilizie; e stabilisce i livelli numerici dei requisiti costruttivi e le «azioni e comportamenti progettuali da rispettarsi» per raggiungerlo. Nella loro autonomia i comuni possono, inoltre, individuare requisiti tecnici integrativi e complementari rispetto a quelli elencati nell’indice del regolamento tipo.
Regole e iter
L’intesa tra stato-regioni-comuni su uno schema di regolamento edilizio tipo, non sembra proporsi di condizionare i comuni relativamente alla sostanza dei loro regolamenti edilizi, ma lascia un certo margine di manovra anche nella definizione della lista dei requisiti che devono essere rispettati dagli edifici. È anche possibile che, in alcuni casi, l’adozione integrate dell’indice del regolamento tipo possa comportare un appesantimento dei regolamenti vigenti.
Peraltro, è lecito chiedersi se per l’obiettivo la riduzione dei costi burocratici in edilizi, posto nell’agenda della semplificazione, è più importante lo sfoltimento degli iter per realizzare una casa o ristrutturare un capannone (e l’accelerazione dei tempi del loro espletamento) oppure l’uniformità territoriale della regolamentazione di situazioni che possono differire anche molto l’una dall’altra.
il manifesto, 7 gennaio 2017 (c.m.c.)
Nella sua ultima lunga intervista rilasciata nel 2011 a Francesco Erbani, Leonardo Benevolo racconta di essere approdato alla scelta di diventare architetto attraverso la curiosità e l’attrazione per il paesaggio. Quando giunge a Roma nel 1941 da Novara lo affascina la geometria descrittiva, la sola disciplina in grado, attraverso il calcolo matematico, di impossessarsi dello spazio tridimensionale.
Questo profondo interesse per la scienza unito alla passione per la storia sono i due poli entro i quali graviterà nel corso degli anni l’impegno professionale di Benevolo, non solo quello di storico, ma anche quello di progettista di architetture e urbanista. Come rappresentante di quella figura ormai desueta di architetto-storico, ma più in generale di architetto-intellettuale, egli è stato tra i primi, nel 1960 – quattro anni dopo l’ottenimento della sua docenza a Roma (1956) – a scrivere una Storia dell’architettura moderna che non fosse «avversa» – come riconobbe Bruno Zevi – al Movimento Moderno.
Lo storico Giovanni Klaus Koening scrisse che la Storia di Benevolo – per lui in assoluto «la più letta al mondo» – fu «un enorme sforzo di documentare con foto di prima mano delle architetture conosciute solo sulle riviste» scoprendo, per esempio, nelle sue «esplorazioni» il cattivo stato di conservazione del Bauhaus a Dessau di Gropius. La sua passione e impegno nell’attività di storico e di insegnante non gli impediscono di svolgere la sua attività professionale. In sodalizio con Carlo Melograni e Tommaso Giura Longo progetta la nuova sede della Fiera di Bologna (1964-1965), ma pochi anni dopo dà alle stampe Storia del Rinascimento (1968) e a distanza di un po’ di tempo, ma con progressione, Storia della città (1975) e Storia della città orientale (1988) tutte edite dall’editore Laterza.
Alla fine degli anni Cinquanta Benevolo si avvicina sempre più ai temi della tutela e conservazione del patrimonio culturale e ambientale aderendo alle iniziative provenienti dai gruppi più vicini al movimento moderno. Aderisce all’Associazione dell’Architettura Organica (Apao) e attraverso l’esperienza del programma del Cepas e Unrra-Casas per l’Abruzzo – l’agenzia promossa dalle Nazioni Unite e dagli americani per la ricostruzione delle zone bombardate durante la guerra – ha l’opportunità di conoscere il mondo di Adriano Olivetti: stringe amicizia con Paolo Volponi, Attilio Bertolucci e Pasolini, lavora al fianco di Angela Zucconi e Manlio Rossi-Doria.
È in quel contesto di umili genti alle prese con la costruzione di una scuola e le infrastrutture necessarie a uno sviluppare iniziative turistiche a supporto della modesta produzione agricola che Benevolo matura la convinzione «che l’architettura non dovesse nascere da altra architettura. Né per conformarsi né per contrastarla. E che invece dovesse formarsi in una realtà esterna, oggettivamente considerata».
In questa comprensione di ciò che si sarebbe dovuto chiamare «realismo», l’impegno (politico) di Benevolo proseguirà con le sue ricerche per il Progetto 80 e sullo «spreco edilizio» insiemi ad altri architetti e urbanisti «compagni di strada»: da Quaroni a Campos Venuti, da Giancarlo De Carlo a Italo Insolera, da Francesco Indovina a Giovanni Astengo. Il lavoro di Benevolo, sempre più segnato dall’impegno sociale, si muove nel non perdere un momento per denunciare la cattiva gestione del territorio. Lo stesso che sul piano giornalistico farà Antonio Cederna o su quello politico Fiorentino Sullo.
Negli anni dell’insegnamento romano che durerà fino al 1976, anno delle sue polemiche dimissioni poco più che cinquantenne, si dedicherà molto ai problemi urbanistici ed edilizi della capitale. In un numero memorabile di Urbanistica, insieme ad altri (Insolera, Tafuri, Manieri Elia, ecc.) cerca di raccontare il nuovo piano regolatore di Roma, il primo dopo quello piacentiniano del 1931.
Un piano che firmato da Piccinato e Quaroni doveva configurarsi «funzionale e moderno» ma che Benevolo riconobbe di recente «una cantonata» perché al momento della sua attuazione il piano restò inapplicato nelle sue linee-guida di crescita verso est, per salvaguardare il centro storico «attrezzando» infrastrutture e servizi nella periferia orientale della capitale. In questa riconosciuta inadeguatezza a occuparsi degli aspetti sia amministrativi sia economici dell’attuazione delle procedure di pianificazione Benevolo, forse, ci ha lasciato una profetica avvertenza dei rischi che oggi come ieri corriamo nel pensare il futuro di Roma.
La presenza dell’economia finanziaria, oggi più scaltra dei proprietari fondiari di un tempo, con le sue numerose società immobiliari che si contendono ogni ettaro di suolo della capitale, è ancora lì a decidere la forma urbis romae. Benevolo ha sempre creduto nel pensiero olivettiano sull’urbanistica che veniva concepita «come una disciplina essenziale per le sorti di una democrazia».
Quando nel 1970 Luigi Bazoli (Dc) lo incarica per Brescia di redigere la variante generale al piano regolatore dimostra cosa significa interpretare in termini complessi un territorio, intrecciando dati fisici, sociali ed economici, sullo sfondo di una «comunità» di cittadini che vive e lavora. A Brescia Benevolo mette in atto una pianificazione che permette a Bazoli di «spezzare l’alleanza dei costruttori con gli utenti, emarginando i proprietari terrieri» complici dei costruttori.
L’esperimento riuscì permettendo di salvaguardare il territorio comunale dallo scempio visto in altri città di un’edificazione senza controllo rispetto ai fabbisogni reali di crescita. È degli anni Settanta la realizzazione del Quartiere residenziale S. Polo (1973-1975): purtroppo solo in parte realizzato secondo le previsioni mancando il parco urbano. Tuttavia negli stessi anni si avvia anche il recupero di circa ottocento alloggi del centro storico ritornati dopo il restauro a essere occupati dalle famiglie che li possedevano senza produrre alcun effetto di gentrificazione.
Per concludere non possiamo ricordare la figura e l’insegnamento di Benevolo senza menzionare, forse, il progetto che più l’ha tenuto impegnato fino ad oggi insieme al piano particolareggiato per il centro storico di Palermo (con Pier Luigi Cervellati e Insolera): la sistemazione dell’area archeologica centrale di Roma, altrimenti detto «progetto Fori» (1985-88).
È probabile che quella sfida, della stessa natura di «groviglio inestricabile» del quale è fatta ogni pagina dell’urbanistica romana, restata aperta per mille questioni, perde oggi il suo principale protagonista. Se vorremo in un prossimo futuro ancora interessarci a come superare «l’incompatibilità fisica» tra l’antico e il moderno a Roma non si potrà che ritornare al lavoro di Leonardo Benevolo, ai suoi scritti e ai suoi disegni.
In un suo pamphlet del 1996, L’Italia da costruire, un programma per il territorio riferendosi alle «poche speranze» che il dibattito faceva presagire comunque esortava a non rinunciare, citando uno dei suoi maestri De Menasce, a «proposte utopistiche tecnicamente fondate». Quell’esortazione non può cadere nel vuoto.
La Repubblica online, 6 gennaio 2017 (p.d.)
Storico dell’architettura, architetto, urbanista, una sterminata bibliografia che ha formato generazioni di studiosi e di professionisti, Leonardo Benevolo era soprattutto un uomo grandemente colto, capace di raccogliere in poche espressioni argomenti e progetti complessi e di dare con un numero assai esiguo di parole l’essenza di un’epoca, di uno stile, di un personaggio, di un mondo. Benevolo si è spento a 93 anni nella sua Cellatica, vicino a Brescia, diventata sua dopo che, nato a Orta in provincia di Novara nel 1923, e vissuto a Roma dai primi anni Quaranta, dalla capitale se n’era andato sbattendo la porta nel 1976, quando con altrettanto sdegno lasciò l’insegnamento all’università. Sua era diventata anche Brescia, che in quello scorcio di anni Settanta, gli anni della solidarietà nazionale, diventò il luogo per sperimentare una pratica urbanistica e politica che andava sostenendo da tempo e che gli consentì di portare ad effetto le proprie convinzioni. Brescia la poteva guardare dal giardino della casa che si era disegnato da sé, spingendosi fino al bordo di un grande prato che sembra una terrazza e che termina con una dolce scarpata.
A Brescia l’aveva chiamato Luigi Bazoli, assessore all’urbanistica in giunte democristiane che guardavano a sinistra. Il padre di Bazoli, avvocato, era stato socio di studio del fratello di papa Montini. Cattolicesimo democratico, solidarismo, don Primo Mazzolari: gli stessi riferimenti di Benevolo. Il quale per alcuni decenni realizzò importanti operazioni urbanistiche, ma non solo: ridusse a un decimo le previsioni edificatorie di un vecchio piano regolatore, fece comprare dal Comune i terreni sui quali si intendeva far crescere la città, li dotò delle infrastrutture e vendette ai costruttori il diritto a edificarvi concordando un prezzo che garantiva il pareggio dell’operazione. In questo modo tagliò le unghie a chi speculava sul valore delle aree e calmierò i prezzi. Le aree pubbliche vennero edificate con la regia del Comune, quelle private molto meno. Una rivoluzione: Benevolo realizzò nei fatti quel che la riforma del ministro Fiorentino Sullo proponeva per via legislativa - ma quella riforma fu fatta fallire prima di essere varata.
«Io non faccio letteratura urbanistica», diceva. Benevolo si dava come traguardo solo quello che era realizzabile, senza mai piegarsi, però, a un riformismo esangue, fatto di pragmatismo spiccio, amministrazione dell’esistente e piccoli compromessi con gli interessi privati. Guardava alle esperienze europee, la sua città doveva crescere pensata e pianificata, come un sistema in cui tutto si tiene, affidata al controllo pubblico e non alla speculazione. Fu il protagonista e il teorico di operazioni che in quegli anni si praticarono anche altrove, a Bologna, a Modena, a Bergamo e che fecero pensare a una svolta nella sorte già compromessa delle città italiane. Quelle operazioni restarono eccezioni: e anche a Brescia la Dc, pressata da interessi privati, liquidò Bazoli e annacquò l’iniziativa di Benevolo. Che però, misurando vittorie e sconfitte, non si è mai fatto prendere dallo scoramento: «Ho lavorato, come dice Le Corbusier, per il mio fratello uomo e il poco che ho fatto sopravvive nella vita di qualcun altro, che pure non mi conosce».
Le esperienze di cui Benevolo è stato protagonista formano una corona che abbraccia l’intera seconda metà del Novecento. I suoi libri sulla storia della città, sulla città europea, sulla storia dell’urbanistica e dell’architettura dal Rinascimento all’età contemporanea, sul concetto di infinito (editi da Laterza) sono un vademecum indispensabile per chi si occupa di queste discipline. «Il mio mestiere è l’architettura», diceva, aggiungendo che l’architettura si fa in vari modi, progettando edifici, disegnando piani regolatori, insegnando, collaborando alla redazione di leggi, scrivendo libri. «Non ho potuto scegliere di fare una sola di queste cose, perché lo scopo che questa disciplina si pone, vale a dire migliorare anche solo di poco l’ambiente fisico in cui vive la gente, è troppo importante e difficile per tentare di raggiungerlo in un unico modo».
Benevolo s’impegnò anche in avventure apparentemente lontane dall’architettura. Negli anni Cinquanta insegnò al Cepas, la scuola per assistenti sociali fondata da Guido e Maria Calogero. E lì conobbe Paolo Volponi, Anna Maria Levi, la sorella di Primo, Angela Zucconi. Con la Zucconi e Manlio Rossi-Doria, partecipò al Progetto Abruzzo, un’iniziativa olivettiana in paesi distrutti dai bombardamenti. Il programma faceva riferimento al community development, lo sviluppo della comunità. Si organizzava la scuola per i bambini o si immaginavano forme alternative di turismo.
I suoi maestri, Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni e Giovanni Astengo gli raccontavano, disse una volta, «quasi solo sconfitte e fallimenti». L’Italia vedeva sparire paesaggi, le città crescevano senza regole, anzi con le regole dettate dalla proprietà fondiaria, la riforma del regime dei suoli veniva osteggiata fino a mettere in pericolo la democrazia. E lui era terrorizzato al pensiero di dover fare, da vecchio, un bilancio altrettanto disastroso. Ma il senso del concreto gli offriva un appiglio: «Si può essere rassegnati che molti tentativi, diciamo pure la maggior parte, vadano male, ma bisogna che qualcuno vada bene, per poter fare dei paragoni e perché le sconfitte medesime diventino istruttive».
Nel suo studio a Cellatica aveva appeso un disegno di Le Corbusier, in cui erano illustrati i tre doveri di un architetto. «Il faut se battre contre des moulins. Il faut renverser Troie. Il faut être cheval de fiacre, tous le jours». Questi ammonimenti lo hanno accompagnato nel lavoro, con Quaroni e Piccinato, al piano regolatore di Roma negli anni Sessanta (che poi sarebbe diventata altra cosa rispetto alle premesse), nella pianificazione di Venezia, del centro storico di Urbino e di Palermo (nella città siciliana insieme a Italo Insolera e Pierluigi Cervellati). Per tutti gli anni Settanta e anche oltre Benevolo è impegnato sul Progetto Fori, la ricomposizione dell’area archeologica centrale di Roma, da Piazza Venezia fino all’Appia Antica, con l’eliminazione della via dei Fori imperiali. Un imponente disegno, la creazione «di un sublime spazio pubblico». In quel progetto, redatto insieme a Vittorio Gregotti, ebbe come compagni il soprintendente Adriano La Regina, Insolera, il sindaco Luigi Petroselli e soprattutto Antonio Cederna, amico di tutta una vita. Il tema era, ed è, ambizioso come pochi: l’archeologia vissuta come parte essenziale della città, non più sfondo scenografico-monumentale, ma elemento quotidiano, che, nel suo contesto di paesaggio, connette il centro della capitale con le periferie del sud est metropolitano, finalmente affacciate su un’area verde e densa di storia. Una gigantesca opera di valorizzazione culturale, la creazione di un parco archeologico fra i più attraenti al mondo, e anche un intervento urbanistico che avrebbe cambiato il volto della città, rimescolato le gerarchie.
Non se ne fece nulla. «Il nostro progetto era troppo bello», disse forzando oltremisura la sua modestia. «Occorre essere pazienti», diceva ancora Benevolo, citando di nuovo Le Corbusier e rivolgendosi ai suoi colleghi più giovani, quei «protagonisti impazienti della scena attuale che arrivano al successo e si sentono prematuramente soddisfatti». «L’architettura», insisteva, «non è un’attività che si realizza producendo cose dall’oggi al domani».
Appello urgente contro le proroghe del Piano casa della regione Lazio. Carteinregola, online 30 dicembre 2016 (m.c.g.)
Carteinregola ha inviato un appello al Presidente Zingaretti contro proroghe in qualsiasi forma del Piano casa della Regione Lazio introdotte nel bilancio in discussione alla Pisana. Intanto giunge notizia di un maxiemendamento della maggioranza che contiene una proroga di qualche mese, come sembra anche confermare un articolo sul Giornale d’Italia di Francesco Storace, che attacca Sinistra Ecologia e Libertà* rea, secondo il consigliere regionale di La Destra, di costringere «i loro alleati [del PD NDR]a mendicare due mesi in più o in meno sulla poroga del Piano [casa]».
Comprensibile che il centrodestra e la destra, da cui il Piano casa in questione prende le mosse, si batta per la sua proroga. Meno comprensibile che lo faccia un partito – il PD – che nell’era Polverini era schierato con SEL e Radicali italiani contro quegli stessi articoli – Art 3 ter quater etc – che sono rimasti quasi identici nella versione che ora si vorrebbe di nuovo prorogare (AMBM)
L’appello :Basta con il piano casa della Polverini
Il 31 gennaio scadrà la Legge Regionale n. 21/09 – il cosiddetto “Piano Casa” – nella versione della Giunta Zingaretti, la PL 75, approvata e prorogata nella notte tra il 30 e Il 31 ottobre 2014. Un Piano che, per la parte edilizia, ha riproposto con poche modifiche la “mutazione genetica” introdotta dalla Presidente del centro destra Polverini. Basta confrontare i due “Piani Casa” Polverini e Zingaretti – in calce è scaricabile la versione con i due testi a fronte – per toccare con mano che si è continuato a consentire aumenti di cubatura e cambi di destinazione “in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici”, dando ai privati la possibilità di ampliare edifici ancora da costruire, o di cambiarne la destinazione d’uso, permettendo di trasformare capannoni industriali in appartamenti o addirittura in centri commerciali.
E tutto questo estromettendo i Comuni dalle decisioni che riguardavano il governo del loro territorio, quindi senza alcuna valutazione degli impatti degli interventi sull’ambiente, la mobilità, la qualità della vita dei residenti.
A pochi giorni dalla scadenza, apprendiamo che un emendamento del centro destra, facendosi portavoce delle tante sollecitazioni di alcuni ordini e categorie collegate al settore edilizio, ne chiede la proroga, da sei mesi a un anno e mezzo.
Chiediamo fermamente che non sia dato seguito né a tale proposta né ad alcuna analoga modifica che consenta il perpetuarsi di una normativa che privilegia l’interesse privato a scapito del governo pubblico del territorio, che piega la rigenerazione urbana alle esigenze del profitto, che restringe la democrazia e la partecipazione dei cittadini nei processi di trasformazione della città. Non a caso il Piano casa Polverini ha fatto scuola e trovato seguaci in molte Regioni a guida centrodestra.
Chiediamo al Presidente Zingaretti, alla sua Giunta e a tutti i consiglieri regionali che intendono tutelare i diritti della collettività, per uno sviluppo della nostra Regione compatibile con la qualità della vita dei cittadini e la tutela del nostro patrimonio ambientale e paesaggistico, di chiudere per sempre il capitolo del Piano Casa Polverini, senza ulteriori proroghe più o meno mascherate.
È dalla capacità di proposte innovative che i cittadini possono valutare positivamente l’operato dell’amministrazione regionale cui compete la regolamentazione del territorio e non dalla stanca riproposizione di norme pensate da altri e soprattutto un altre epoche.
Associazione Carteinregola, Italia Nostra Roma, VAS Roma…
Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Carlo Cellamare, Elio Rosati (Segretario Cittadinanzattiva Lazio), Emanuele Montini (Segretario generale Italia Nostra), Paola Bonora, Paolo Maddalena…
(L’appello sta raccogliendo varie adesioni di associazioni e urbanisti, giuristi e intellettuali che saranno man mano inserite nella pagina)
NOTA: Per valutare l’opportunità o meno di tale proposta sarebbe stato interessante conoscere l’incremento dei pesi insediativi nell’ambito del territorio comunale che doveva essere monitorato con il “Registro degli interventi”, istituito ai sensi dell’art. 3 c.9 della stessa legge, presso ciascun comune e i cui dati riepilogativi devono essere trasmessi annualmente alla stessa Regione. L’assenza di ogni informazione al riguardo non depone a favore della trasparenza e dell’equilibrio della proposta di proroga.
Scarica il confronto con il testo a fronte tra il paino casa Polverini e il paino casa Zingaretti definitivo.
Che cos’è il Piano casa e come si è trasformato nel Lazio
Il cosiddetto “Piano casa” nasce da un’Intesa Stato-Regioni del 2009, che introduce la possibilità di ampliamento delle cubature per “edifici residenziali uni-bi familiari”, o nell’ambito di “interventi straordinari di demolizione e ricostruzione”, per un periodo che non deve superare i 18 mesi. La Regione Lazio di Piero Marrazzo approva un Piano in linea con l’Intesa, ma con l’arrivo del centrodestra di Renata Polverini, nel marzo 2010, due successive leggi regionali (nel 2011 e nel 2012) modificano il Piano, estendendo a dismisura – allora unica Regione in Italia – le possibilità edificatorie dei privati, perfino in aree protette. Due diversi Ministri ai Beni Culturali impugnano i provvedimenti davanti alla Corte Costituzionale. L’opposizione PD, Radicali italiani, SEL, IDV, FdS, Verdi, insorge e minaccia referendum.
Ma quando torna il centrosinistra, nel febbraio 2013, la giunta Zingaretti, modificati gli articoli a rischio incostituzionalità con la PL 76, il 31 ottobre 2014, con il voto unanime della maggioranza (Pd, Sel, Lista e Listino Civico Zingaretti), approva la PL 75, che mantiene inalterati i capisaldi urbanistici del Piano Polverini.
Infatti, se si esclude l’abolizione della abnorme e ingiustificata premialità dispensata nei piani particolareggiati, e qualche modifica minore, si continuano a prevedere gli ampliamenti per edifici ancora da costruire, si consente il cambio di destinazione d’uso, trasformando ad esempio capannoni industriali in appartamenti o addirittura in centri commerciali, e soprattutto si continuano a estromettere i Comuni dalle decisioni che riguardano il governo del territorio.
La frase “in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici”, introdotta per 6 volte dal Piano Polverini, ricorre nelle stesse 6 occasioni nel Piano Zingaretti. E questo nonostante l’Intesa del 2009 prescrivesse chiaramente che le leggi regionali di applicazione del “Piano Casa” fossero scritte «in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale”.
Il Piano casa Polverini/Zingaretti è stato prorogato fino al gennaio 2017. Non sappiamo finora quanti interventi siano piovuti sulla città: con la sola eccezione di quelle zone di Roma che sono state escluse dal Piano Casa “in ragione di particolari qualità di carattere storico, artistico, urbanistico ed architettonico” in base a una Delibera approvata dall’Assemblea Capitolina nel gennaio 2012, nè il Comune nè i cittadini hanno potuto opporre alcuna obiezione di merito agli aumenti di cubatura e soprattutto cambi di destinazione d’uso decisi dai privati in possesso dei requisiti previsti.
Piano casa – Legge Polverini testo a fronte pl 75 approvata zingaretti
Vengono messe in soffitta, una e una, tutto le scienze del territorio, quando non possono essere impiegate (distorcendole) per l'unico uso del territorio che al capitalismo d'oggi interessa: sfruttarlo nel modo più conveniente alla minoranza che ci domina. La Repubblica, 27 dicembre 2016
«Viaggiamo con il navigatore ma non guardiamo più fuori dal finestrino, non capiamo più la realtà che ci circonda, in quale territorio viviamo — insiste Riccardo Morri, coordinatore del corso in Gestione e valorizzazione del territorio alla Sapienza — A chi mi chiede a cosa serve un geografo oggi rispondo che i miei colleghi lavorano ai piani di evacuazione del Vesuvio, intervengono in Africa per risolvere conflitti tribali sui confini. La nostra è una disciplina di sintesi che serve nella prevenzione, negli studi urbanistici, sociali ed economici ». Negli ultimi anni, i corsi di laurea in scienze geografiche hanno perso iscritti: erano 2.393 nel 2005, oggi si sono ridotti a 957 tra triennali e specialistiche. Una vera e propria emorragia, tamponata solo quest’anno da una ripresa delle immatricolazioni. La geografia in Italia sconta il pregiudizio e forse anche la noia di un certo insegnamento scolastico ridotto all’apprendimento di mari-monti-città. Alzi la mano chi non ha imparato a recitare tutti gli affluenti del Po da bambino. Sorride Giovannini: «Tutto vero, abbiamo pagato il prezzo di anni di nozionismo, la nostra è ora una battaglia culturale».
Il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2016 (p.d)
Dal 7 gennaio non possiamo garantire energia, riscaldamenti, ristrutturazioni e riparazioni in almeno 70 scuole. Mancano certificazioni sulla sicurezza e certificati di agibilità”. Caserta, provincia di 104 Comuni e oltre 900 mila abitanti. Il presidente facente funzioni è Silvio Lavornia, che ricopre l’incarico da quando il titolare è stato arrestato per un’inchiesta sul comune che amministrava. Spiega che nel 2017 la maggior parte delle scuole che dipendono dalla Provincia potrebbe essere chiusa. Niente di strano per enti che subiscono tagli pesanti dal 2010 (Berlusconi), pesantissimi dal 2012 (Monti) e parossistici ora (Renzi: 3 miliardi in tre anni dal 2015al 2017).Torniamo a Caserta: in estate era stata diramata una circolare del settore edilizia dell’ente che sottolineava “l’indisponibilità di risorse finanziarie”. Poi, l’urgenza del referendum ha congelato tutto. Ora il problema è lì e sta per esplodere.
“Siamo sul lastrico”. Lavornia racconta che non riuscirà a riequilibrare il bilancio neanche in 30 anni. La Provincia di Caserta è una delle tre ad aver dichiarato il dissesto con Vibo Valentia e Biella. Ha un passivo di 26 milioni di euro e tra il 2015 e il 2016 ha subito tagli per 42 milioni. “Nel 2014 – spiega Lavornia – avevamo 18 milioni di attivo”. Prima del 4 dicembre, i parlamentari campani (dal M5s al Pd) avevano presentato emendamenti alla legge di Bilancio per cercare almeno evitare i tagli nel 2017. La fiducia al Senato, però, li ha fatti cadere.
Questa è la situazione: “I dipendenti costano 18 milioni, altri 15 servono per pagare i mutui: i commissari liquidatori usano le entrate per gestire il dissesto. Dalla vendita degli immobili non ricaviamo più di 3 milioni. Non riusciamo a garantire neanche i servizi essenziali per le scuole: non mi prendo la responsabilità di aprirle nel 2017”.
Vibo Valentia,Calabria. Qui il dissesto finanziario è stato dichiarato dai commissari prefettizi nel 2011. Era una provincia con entrate per oltre 20 milioni di euro, oggi sono 2,8. “Gestiamo anche la viabilità – spiega il presidente Andrea Niglia – e aspettiamo ancora i soldi del Fondo Anas (100 milioni per la manutenzione straordinaria previsti in un decreto di giugno, ndr)”. I debiti ammontano a oltre 50 milioni di euro, le entrate non coprono neanche il costo del personale (500 mila euro al mese). “Il tentativo del governo di cancellare le province è stato un flop e noi abbiamo vissuto per anni in un limbo – dice Niglia – Ora ricominciamo: cercheremo di ripagare il debito, poi passeremo al risanamento. Abbiamo 900 km di strade distrutte e nelle scuole non riusciamo ad accendere i riscaldamenti”.
I tagli. A spiegare cosa è successo negli ultimi due anni è Achille Variati, presidente dell’Unione Province Italiane, che guida quella di Vicenza. Parte dal 2014, quando entra in vigore la cosiddetta Legge Delrio che le riorganizza: le province diventano enti di secondo livello (non elettivi) e ne vengono definite le “funzioni fondamentali” (strade, scuole, trasporti, dissesto idrogeologico più quelle che possono delegare le Regioni). In sostanza, hanno la gestione di oltre 100 mila km di strade e 5mila scuole (un bacino di 2,5 milioni di alunni), più un bel pezzo della manutenzione ordinaria del territorio. Il tutto da fare con il taglio della metà dei dipendenti: nel 2015 vengono messi in mobilità 23 mila lavoratori (circa 500 lo sono ancora). I finanziamenti statali sono passati dagli 11 miliardi del 2011 ai 6,4 miliardi del 2013 e saranno solo 3,4 del 2017: basti dire che le entrate proprie (un ’imposta sulla Rc Auto, un’altra sui passaggi di proprietà, più un tributo sui servizi ambientali) negli ultimi anni sono state sempre tra i 4 e i 5 miliardi. Lo Stato, insomma, sulle province ci guadagna. Come? Tenendosi i soldi, che infatti per strade, scuole e territorio non ci sono.
Molte province stanno resistendo ai tagli solo grazie ad avanzi di amministrazione precedenti. E l’obbligo di redigere bilanci annuali, senza “spalmare” le spese, non consente programmazione: “In legge di Bilancio c’è un fondo di 960 milioni per gli enti locali che si spera venga destinato alle province – dice Variati – Altrimenti l’anno prossima quasi nessuna riuscirà a chiudere un bilancio”. La sua Vicenza è un esempio di virtuosità. È passata da 347 dipendenti a 147, da 100 dirigenti a 3, con tagli per 32 milioni all’anno: “Nel 2017 i risparmi dovrebbero arrivare a 51 milioni: semplicemente non li abbiamo”.
Le previsioni. In realtà, anche se nel 2017 i 960 milioni dovessero andare alle province, ci sarà comunque un disavanzo di 430 milioni. Si legge nelle note metodologiche del Sose (la società pubblica che si occupa di stabilire i criteri di efficienza della spesa dello Stato) che nel 2015 ha fornito al governo i dati su costi e fabbisogni standard delle province: le province delle Regioni a statuto ordinario dovevano tagliare 900 milioni, solo che 215 milioni non erano assorbibili. Peccato che lo studio sia stato commissionato solo dopo la decisione dei tagli.
Paradossi. Anche la provincia di Biella è in dissesto. Emanuele Ramella Pralungo ne è il presidente. “Biella è in dissesto da prima della legge Delrio e abbiamo un piano di rientro”. Il paradosso: se il percorso si potrà concludere entro il 2017 è solo perché Biella, essendo in dissesto, ha evitato i tagli. Il resto delle province piemontesi, spiega Pralungo, “l’anno prossimo rischiano di non chiudere il bilancio”. Novara è in pre-dissesto, il Verbano-Cusio-Ossola in pre-dissesto, la provincia di Vercelli si regge a stento. Quella di Cuneo è l’unica che il prossimo anno riuscirà a chiudere il bilancio, a patto che Roma mandi i soldi per le alluvioni di quest’inverno: “Calcolare i tagli basandosi sulle funzioni fondamentali va bene, ma è assurdo che lo spazzamento delle strade dalla neve non rientri in queste funzioni. Gestisco una provincia con 94 dipendenti contro i 280 degli anni d’oro, quando magari erano troppi. In più sono state prodotte norme deliranti, come l’omicidio stradale”.
In sintesi, i funzionari provinciali non hanno i soldi per la manutenzione delle strade, ma se qualcuno avesse un incidente stradale e dovesse morire su una strada dissestata della provincia, la procura aprirebbe un’indagine per omicidio stradale anche a carico del dirigente provinciale. Sarà pure per questo che le compagnie assicurative si rifiutano di assicurare questi enti.
Continua la denuncia del progetto di legge urbanistica della Regione Emilia Romagna: una mostruosità anche sul piano giuridico; ecco alcuni dei motivi che potrebbero richiedere l'intervento della Corte costituzionale se sciaguratamente la Regione E-R l'approvasse.
Questo progetto di legge è espressione della potestà legislativa della regione, concorrente con quella dello stato, cui l’art.117 cost. riserva la determinazione dei principi fondamentali. E’ vero che specie negli ultimissimi tempi i principi fondamentali nella “materia” del governo del territorio – urbanistica si sono venuti affievolendo sotto l’urgenza del proclamato “rilancio dell’economia” e della perseguita semplificazione in materia edilizia (ricordiamo il dirompente “decreto del fare” del 2013).
Ma almeno due essenziali principi sono rimasti fermi nella legislazione statale, benché rimasta contagiata dalla peggiore produzione normativa delle regioni sull’onda della pianificazione negoziata. Il principio innanzitutto della riserva della potestà urbanistica alle istituzioni pubbliche rappresentative delle comunità; e quello, a ben vedere dipendente, secondo cui i modi dell’edificare debbono corrispondere a regole normativamente predeterminate a fissarne i limiti che non possono essere affidati al libero accordo tra amministrazione comunale e privato costruttore.
Ebbene questo progetto di legge travolge l’uno e l’altro principio del governo del territorio della nostra unitaria repubblica. Al PUG, piano urbanistico generale, strumento unico di livello comunale, si nega (art. 32, comma 4) il compito di regolare la capacità edificatoria delle aree del territorio urbanizzato, la cui “rigenerazione” è indicata come l’obbiettivo primario del governo del territorio. Insomma, l’espresso divieto di pianificazione urbanistica (negata anche la definizione degli altri parametri urbanistici e edilizi degli interventi) sulle più rilevanti trasformazioni del territorio urbanizzato, rimesse al libero accordo operativo con i proprietari-costruttori. E’ la stessa urbanistica che così disponendo si nega.
La Regione ER intende dunque in questo modo profittare del varco aperto dal “decreto legge del fare”(convertito nella legge 98 del 2013) che consente alle regioni di “derogare” - con propria legge o proprio regolamento – alle disposizioni del decreto interministeriale 1444 del 1968 (dato in attuazione della disciplina introdotta dalla legge “ponte” dell’anno prima). Disposizioni che sono espressione di un principio fondamentale vincolante nell’esercizio della potestà legislativa regionale nella materia, anche là dove fissano limiti inderogabili alla densità edilizia, all’altezza degli edifici e alla distanza tra i fabbricati. Ma la facoltà di derogare a quelle specifiche misure non può certo significare, come invece pretende l’art. 9, lettera c) di questo progetto di legge, la liberazione da ogni prescrizione di densità edilizia, altezza degli edifici e distanza tra loro, la soppressione cioè di ogni limite. Si apre la porta agli ecomostri dentro la città esistente, come abbiamo osservato, parossistica realizzazione di quella operazione di “addensamento” cui il progetto di legge affida il compito primario di rigenerazione urbana. E paradossalmente questa disposizione che libera i privati – costruttori da ogni limite, si impone e prevale (art.10, comma 3) sulle diverse previsioni al riguardo nei vigenti strumenti di pianificazione urbanistica comunale.
Una vera e propria sopraffazione, come abbiamo osservato, lesiva della autonomia dei comuni in una materia tradizionalmente – storicamente – assunta nella loro competenza. La titolarità di una essenziale funzione amministrativa propria dei comuni e in concreto esercitata, garantita dall’art.118 della costituzione (“i comuni sono titolari di funzioni amministrative proprie”) che dunque da questa disposizione del progetto di legge è esplicitamente violato.
Se, come non è improbabile, questa proposta di legge sarà, nel testo oggi presentato, approvata dalla assemblea regionale, il governo (cui la nostra regione è politicamente molto vicina) sarà capace, ci domandiamo, del forte risentimento necessario per sollevare conflitto di attribuzione (per violazione di principi fondamentali della materia) davanti alla Corte costituzionale?
Riferimenti
Sul progetto di legge, vedi anche la lettera aperta pubblicata su eddyburg e il documento di analisi di Italia Nostra - Emilia Romagna
Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia–Romagnaperché rinuncino ad approvare senza un’ampia discussione una legge sbagliata
Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia–Romagna perché rinuncino ad approvare senza un’ampia discussione una legge sbagliata, che rischia di divenire un modello per le altre regioni italiane e per un’eventuale legge nazionale
Altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica riguarda il contenimento del consumo del suolo. Ogni comune può prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio” (art. 5, c. 2). Non sono consentite nuove edificazioni residenziali, a meno che non siano destinate ad attivare interventi di rigenerazione del territorio urbanizzato e per interventi di edilizia residenziale sociale (art. 5 c. 3). Non sono invece computati ai fini del calcolo del 3%: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative; gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge (art. 6, c. 5). Si mettono così al sicuro i cosiddetti diritti acquisiti, ed è stato calcolato che, alla fine, tenendo conto anche delle discutibili modalità di individuazione della superficie urbanizzata, il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione.
Trascuriamo altri contenuti del progetto di legge – in particolare quelli relativi al possibile ridimensionamento degli standard e alle complicazioni che il nuovo labilissimo assetto della strumentazione comunale determinerà nei riguardi della pianificazione sovraordinata – tornando agli accordi operativi che, secondo la proposta di legge possono essere elaborati e presentati esclusivamente dalla proprietà fondiaria. Al comune rimangono l’assurda verifica di conformità a una pianificazione superflua, priva di disposizioni cogenti, e la negoziazione con i privati in materia di dotazioni, infrastrutture e servizi. In assenza di proposte private il comune non può fare alcunché, meno che mai formare propri piani urbanistici.
Diventa leggendaria l’autonoma capacità d’intervento, il talento e l’inventiva dei comuni e degli enti locali dell’Emilia Romagna dei trascorsi decenni.
Ilaria Agostini
Paolo Baldeschi
Piergorgio Bellagamba
Donato Belloni
Rossana Benevelli
Paolo Berdini
Enrico Bettini
Ivan Blecic
Stefano Boato
Giuseppe Boatti
Paola Bonora
Ilaria Boniburini
Luisa Calimani
Pier Luigi Cervellati
Giancarlo Consonni
Alessandro Dal Piaz
Luigi De Falco
Vezio De Lucia
Marina Foschi
Maria Cristina Gibelli
Sergio Lironi
Giovanni Losavio
Alberto Magnaghi
Lodovico Meneghetti
Guido Montanari
Loredana Mozzilli
Domenico Patassini
Ezio Righi
Piergiorgio Rocchi
Sandro Roggio
Edoardo Salzano
Enzo Scandurra
Giancarlo Storto
Giulio Tamburini
Sauro Turroni
Graziella Tonon
12 dicembre 2016
Una puntuale ed ampia analisi critica del progetto di legge è contenuta nel documento della sezione emiliano-romagnola di Italia nostra, che trovate qui in eddyburg
Animatore infaticabile nella battaglia contro la devastante Autostrada della Maremma: oltre vent’anni di rigoroso impegno con osservazioni, iniziative pubbliche, denunce, contestazione dei tracciati. E con azioni per coinvolgere i cittadini e convincere le istituzioni e la politica ad opporsi ad un progetto sbagliato». Con postilla
Ci ha lasciato Valentino Podestà, scomparso il 1 dicembre 2016 a 78 anni, dopo una breve e devastante malattia. La sua morte ci riempie di tristezza perché se ne è andato un amico, una bella persona sensibile, generosa, competente ed anche un compagno tenace di battaglie comuni per la tutela dell’ambiente, del territorio e del paesaggio della Maremma. Da sempre animatore infaticabile nella battaglia contro la devastante Autostrada della Maremma: oltre vent’anni di rigoroso impegno con osservazioni, iniziative pubbliche, denunce, contestazione dei tracciati e dei loro impatti. E con azioni sul territorio capalbiese e grossetano per coinvolgere i cittadini e convincere le istituzioni e la politica ad opporsi ad un progetto sbagliato.
Nato a Milano, architetto ed urbanista, dalla fine degli anni 80 aveva scelto insieme alla compagna Corinna ed al figlio Beniamino di vivere in Maremma, mettendo in piedi un’azienda agricola biologica dal nome profetico “Il cerchio” ispirato dalla loro passione per la cultura degli indiani nativi d’America. E’ il cerchio sacro della natura in cui l’uomo è racchiuso e che non dovrebbe essere spezzato, come illustra anche il logo della loro azienda agricola.
Era diventato un maremmano a tutti gli effetti ma sempre aperto al mondo, alle sue novità ed alla politica ambientale, con la sua militanza dentro Italia Nostra e poi nella Rete dei Comitati di Asor Rosa. E’ stato molto impegnato a pianificare uno sviluppo basato sulla tutela del paesaggio e dei beni naturali, anche nella sua esperienza di Assessore all’Ambiente del Comune di Grosseto dal 1993 al 1997. Si opponeva con forza e coraggio alle ipotesi di guasti e aggressioni pericolose, dalle cementificazioni del territorio, alle assurde scelte infrastrutturali come l’autostrada. Sempre attento, meticoloso e puntuale a studiare documenti, tracciati e carte per poter rispondere in modo appropriato e pertinente, mettendo a frutto le sue competenze di urbanista, con un impegno volontario ed una visione ambientalista a tutto tondo.
La battaglia che abbiamo fatto insieme per oltre vent’anni lo ha visto protagonista insieme alla sua compagna Corinna, in stretta collaborazione con le principali associazioni ambientaliste come Italia Nostra, Legambiente, WWF, Comitato per la bellezza, Terra di Maremma, Verdi e Comitati di cittadini. Numerosi gli incontri pubblici, le riunioni e le serate dove insieme abbiamo affermato l’importanza di adeguare e mettere in sicurezza l’Aurelia, piuttosto che sventrare la Maremma con le varie ipotesi autostradali. Una lunga storia a puntate che non è ancora terminata. Proprio il giorno della sua morte, infatti, per uno strano scherzo del destino, ha avuto inizio il nuovo procedimento di Valutazione di Impatto Ambientale con l’ultima ipotesi di tracciato nel tratto Grosseto-Capalbio. E noi insieme a Valentino ed al Comune di Capalbio (da sempre in prima fila contro l’autostrada) avevamo già avuto un confronto su questo nuovo progetto ed il suo contributo era stato come al solito lucido, competente e pronto anche questa volta a scrivere e sottoscrivere i tanti punti critici del progetto.
Ci mancherai tanto Valentino e questa volta dovremo scrivere da soli le osservazioni, senza le tue analisi e i tuoi suggerimenti, la tua meticolosa capacità di entrare nel dettaglio, con la tua determinazione e le tue lunghe e articolate riflessioni. Ma proprio per questo ed anche per questo, continueremo le battaglie e le speranze che abbiamo vissuto insieme per difendere e amare la tua Maremma. Un pensiero commosso ed un abbraccio va alla compagna Corinna ed al figlio Beniamino, che insieme a te hanno condiviso la vita ed i suoi bellissimi sogni.
Ciao Valentino.
postilla
Non ricordo che anno era quando Valentino mi scrisse per informarmi che, con Corinna, avevano deciso di cambiare vita. Purtroppo non trovo la sua lettera, annidata tra le mie carte vagabonde di molti traslochi. Ero ancora presidente nazionale dell’INU (di un INU abissalmente lontano da quello di adesso), quindi doveva essere nella seconda metà degli anni Ottanta. Erano gli anni della polemica accesa contro quella che avevamo definita “urbanistica contrattata”.
Nella sua lettera Valentino mi spiegava le ragioni della loro difficile decisione: fare l’urbanista era diventato impossibile in una realtà nella quale, se rifiutavi di allinearti sotto le bandiere di una cordata al cui termine c’era un interesse immobiliare, non lavoravi.
Non sono molti, di questi tempi, i professionisti che si dimettono da un incarico per un conflitto tra gli interessi del loro committente e l’etica della loro professione, meno ancora quelli che hanno il coraggio di abbandonare la propria professione e la propria terra.
Ma Valentino non ha smesso, nella campagna maremmana, a fare l’urbanista. Lo ha fatto in un altro modo, compiendo tutte quelle feconde azioni da “urbanista militante” nella società e nel contesto in cui vive che Anna Donati ricorda. Facendo Politica come dovrebbe farlo il cittadino di una città “normale”: portando cioè il contributo del suo specifico sapere al servizio degli altri, di tutti gli altri. Perciò ha difeso il territorio dove era venuto a vivere utilizzando con generosità la sua capacità di leggere e comprendere il territorio, le sue qualità e le sue fragilità, e le conseguenze di scelte sbagliate, per metterlo invece al servizio della società di oggi e quella di domani. Grazie, indimenticabile Valentino. (e.s.)