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In allegato, anche i testi delle leggi 1150/1942 e 167/1962 aggiornati alla L 865/1971 (formati .doc e .pdf)

TITOLO I – PROGRAMMI E COORDINAMENTO DELL’EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA

artt. 1 – 8

TITOLO II – NORME SULL’ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

artt. 9 - 25

TITOLO III – MODIFICHE ED INTEGRAZIONI ALLE LEGGI 17 AGOSTO 1942, N. 1150, 18 APRILE 1962, N. 167 e 29 SETTEMBRE 1964, N. 847

artt. 26 – 47

TITOLO IV – PROGRAMMI PUBBLICI DI EDILIZIA RESIDENZIALE

artt. 48 – 71

TITOLO V – EDILIZIA AGEVOLATA. AGEVOLAZIONI FISCALI

artt. 72 – 76

TITOLO I – PROGRAMMI E COORDINAMENTO DELL’EDILIZIA RESIDENZIALE PUBBLICA

Art. 1

Per la realizzazione di programmi di interventi di edilizia abitativa e degli altri fini indicati nella presente legge, tutti i fondi stanziati a qualsiasi titolo dallo Stato, dalle aziende statali e dagli enti pubblici edilizi a carattere nazionale, destinati agli stessi scopi, anche se derivanti dalla stipulazione di mutui, dall'emissione di obbligazioni e dal versamento di contributi da parte di enti e di privati, sono impiegati unitariamente dallo Stato secondo le norme della presente legge.

(omissis - II comma)

Art. 2

É istituito, presso il Ministero dei lavori pubblici, il Comitato per l'edilizia residenziale (CER).

(omissis - commi II-IV)

Artt. 3 - 6

(omissis)

Art. 7

Alla data di entrata in vigore della presente legge, qualora non siano stati emanati, in materia urbanistica, i decreti delegati previsti dall'articolo 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281, sono trasferite alle Regioni a statuto ordinario le attribuzioni dell'Amministrazione dei lavori pubblici relative ai regolamenti edilizi; ai programmi di fabbricazione, ai piani di zona di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, ai piani particolareggiati di esecuzione del piano regolatore generale ed ai piani di lottizzazione.

Sono, altresì, trasferiti alle Regioni i poteri di cui agli articoli 6 e 7 della legge 6 agosto 1967, n. 765, quando si tratti di opere eseguite od autorizzate in violazione delle prescrizioni del programma di fabbricazione o delle norme del regolamento edilizio, nonché i poteri di nulla osta di cui all'articolo 3 della legge 21 dicembre 1955, n. 1357, quando si tratti di deroghe alle norme del regolamento edilizio e del programma di fabbricazione.

Per le procedure di annullamento in corso alla data di entrata in vigore della presente legge il termine stabilito dall'articolo 7, terzo comma, della legge 6 agosto 1967, n. 765, decorre dalla data suddetta.

Nell'esercizio delle attribuzioni indicate ai precedenti commi, le Regioni si avvalgono dei provveditorati regionali alle opere pubbliche e delle sezioni urbanistiche regionali.

Art. 8

(omissis - I comma)

Il CER, avvalendosi delle Regioni, predispone e realizza ogni due anni un censimento dei fabbisogni abitativi del Paese, accertando nel contempo la composizione dei nuclei familiari, i redditi e la reale situazione abitativa nonché la dislocazione territoriale delle abitazioni.

TITOLO II – NORME SULL’ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICA UTILITÀ

Art. 9

Le disposizioni contenute nella presente legge si applicano all'espropriazione degli immobili, disposta per la realizzazione degli interventi previsti nel precedente titolo, per l'acquisizione delle aree comprese nei piani di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria compresi i parchi pubblici e di singole opere pubbliche, per il risanamento, anche conservativo, degli agglomerati urbani, per la ricostruzione di edifici o quartieri distrutti o danneggiati da eventi bellici o da calamità naturali, per l'acquisizione delle aree comprese nelle zone di espansione, a termini dell'articolo 18 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, nonché per l'acquisizione degli immobili necessari per la costituzione di parchi nazionali.

Art. 10

Le amministrazioni, gli enti ed i soggetti legittimati a promuovere il procedimento di espropriazione per pubblica utilità depositano nella segreteria del comune, nel cui territorio sono compresi gli immobili da espropriare, una relazione esplicativa dell'opera o dell'intervento da realizzare, corredata dalle mappe catastali, sulle quali siano individuate le aree da espropriare, dall'elenco dei proprietari iscritti negli atti catastali, nonché dalle planimetrie dei piani urbanistici vigenti.

Il sindaco notifica agli espropriandi e dà notizia al pubblico dell'avvenuto deposito entro dieci giorni mediante avviso da affiggere nell'albo del comune e da inserire nel Foglio degli annunzi legali della provincia.

Decorso il termine di quindici giorni dalla data della inserzione dell'avviso nel Foglio degli annunzi legali, durante il quale gli interessati possono presentare osservazioni scritte, depositandole nella segreteria del comune, il sindaco entro i successivi quindici giorni trasmette tutti gli atti, con le deduzioni dell'espropriante e con le eventuali osservazioni del comune, al presidente della giunta regionale.

Art. 11

Entro trenta giorni dal ricevimento, il presidente della giunta regionale, con decreto costituente provvedimento definitivo, dichiara, ove occorra, la pubblica utilità nonché la indifferibilità e l'urgenza delle opere e degli interventi previsti nella relazione, ed indica la misura dell'indennità di espropriazione, da corrispondere a titolo provvisorio agli aventi diritto, determinata in base ai criteri di cui al successivo articolo 16. Con lo stesso decreto si pronuncia anche sulle osservazioni degli interessati.

Ove il presidente della giunta regionale non adempia entro il termine previsto dal precedente comma, il decreto è emesso dal Ministro per i lavori pubblici.

Il decreto è pubblicato per estratto nel Bollettino Ufficiale della Regione e nel Foglio degli annunzi legali della provincia.

L'ammontare dell'indennità provvisoria è comunicato ai proprietari espropriandi a cura del presidente della giunta regionale nelle forme previste per la notificazione degli atti processuali civili.

Art. 12

I proprietari, entro 30 giorni dalla notificazione dell'avviso di cui al quarto comma dell'articolo 11, possono convenire con l'espropriante la cessione volontaria degli immobili, per un prezzo non superiore del 10 per cento all'indennità provvisoria.

Nello stesso termine di cui al precedente comma, i proprietari comunicano al presidente della giunta regionale e all'espropriante se intendono accettare l'indennità provvisoria. In caso di silenzio l'indennità si intende rifiutata.

Decorso il termine di cui al precedente comma, il presidente della giunta regionale ordina all'espropriante, in favore degli espropriandi, il pagamento delle indennità che siano state accettate, ed il deposito delle altre indennità presso la Cassa depositi e prestiti.

La Cassa depositi e prestiti provvede, in deroga alle vigenti disposizioni, al pagamento delle somme ricevute in deposito a titolo di indennità di esproprio o di occupazione in base al solo nulla osta del prefetto, al quale compete l'accertamento della libertà e proprietà dell'immobile espropriato.

Art. 13

Il prefetto - su richiesta dell'espropriante, il quale deve fornire la prova di avere adempiuto a quanto prescritto dal terzo comma dell'articolo 12 - pronuncia, entro 15 giorni dalla richiesta, l'espropriazione sulla base dei dati risultanti dalla documentazione di cui all'articolo 10.

Il decreto del prefetto deve essere notificato ai proprietari nelle forme degli atti processuali civili, inserito per estratto nel Foglio degli annunzi legali della provincia e trascritto presso il competente Ufficio dei registri immobiliari in termini di urgenza.

Il decreto prefettizio costituisce provvedimento definitivo.

In caso di ricorso giurisdizionale, da presentarsi nei termini di legge, l'esecuzione dei provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, di occupazione temporanea e d'urgenza e di espropriazione impugnati può essere sospesa, ai sensi dell'articolo 36 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, nei soli casi di errore grave ed evidente nell'individuazione degli immobili ovvero nell'individuazione delle persone dei proprietari.

Art. 14

Pronunciata l'espropriazione, e trascritto il relativo provvedimento, tutti i diritti relativi agli immobili espropriati possono essere fatti valere esclusivamente sull'indennità, anche nel caso previsto nell'ultimo comma dell'articolo 13.

Art. 15

Qualora l'indennità non sia stata accettata nel termine di cui al primo comma dell'articolo 12, il presidente della giunta regionale richiede la determinazione dell'indennità al competente Ufficio tecnico erariale.

L'Ufficio tecnico erariale, entro trenta giorni dalla richiesta del presidente della giunta regionale, comunica l'indennità da esso determinata anche all'espropriante.

L'espropriante comunica le indennità ai proprietari degli immobili ai quali le stime si riferiscono, mediante avvisi notificati nelle forme degli atti processuali civili; deposita la relazione dell'Ufficio tecnico erariale nella segreteria del comune e rende noto al pubblico l'eseguito deposito nei modi previsti dal secondo comma dell'articolo 10.

Art. 16

L'Ufficio tecnico erariale determina ogni anno entro il 31 gennaio, nell'ambito delle singole regioni agrarie delimitate secondo l'ultima pubblicazione ufficiale dell'Istituto centrale di statistica, il valore agricolo medio, nel precedente anno solare, dei terreni, considerati liberi da vincoli di contratti agrari, secondo i tipi di coltura effettivamente praticati.

In sede di prima applicazione, tale determinazione viene effettuata entro novanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, con riferimento al precedente anno solare.

L'indennità di espropriazione, per le aree esterne ai centri edificati di cui al successivo articolo 18, è commisurata al valore agricolo medio di cui al primo comma, corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area da espropriare.

Nelle aree comprese nei centri edificati e nelle aree delimitate come centri storici dagli strumenti urbanistici, l'indennità è commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l'area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento su quella coltivata della regione agraria stessa. Tale valore è moltiplicato:

a) nelle aree delimitate come centri storici, per un coefficiente da 4 a 5 se l'area ricade nel territorio di comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti e per un coefficiente da 2 a 4 se l'area ricade nel territorio degli altri comuni; tali aree debbono essere destinate ad uso pubblico o comunque alla costruzione di edifici per pubblici servizi;

b) nelle aree delimitate come centri edificati, per un coefficiente da 2 a 2,50 se l'area ricade nel territorio di comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti e per un coefficiente da 1,1 a 2 se l'area ricade nel territorio degli altri comuni.

Per l'espropriazione delle aree che risultino edificate o urbanizzate ai sensi dell'articolo 8 della legge 6 agosto 1967, n. 765, l'indennità è determinata in base alla somma del valore dell'area, definito a norma dei precedenti commi, e del valore delle opere di urbanizzazione e delle costruzioni, tenendo conto del loro stato di conservazione. Se la costruzione è stata eseguita senza licenza o in contrasto con essa o in base ad una licenza annullata e non è stata ancora applicata la sanzione pecuniaria prevista dall'articolo 41, secondo comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 e successive modificazioni, ne deve essere disposta ed eseguita la demolizione ai sensi dell'articolo 26 della stessa legge e l'indennità è determinata in base al valore della sola area.

Nella determinazione dell'indennità non deve tenersi alcun conto dell'utilizzabilità dell'area ai fini dell'edificazione nonché dell'incremento del valore derivante dalla esistenza nella stessa zona di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e di qualunque altra opera o impianto pubblico.

L'indennità determinata a norma dei commi precedenti è aumentata della somma eventualmente corrisposta dai soggetti espropriati, fino alla data dell'espropriazione, a titolo di imposta sugli incrementi di valore delle aree fabbricabili ai sensi della legge 5 marzo 1963, n. 246, nonché delle somme pagate dagli stessi per qualsiasi imposta relativa all'ultimo trasferimento dell'immobile precedente l'espropriazione.

Art. 17

Nel caso che l'area da espropriare sia coltivata dal proprietario diretto coltivatore, l'indennità di espropriazione determinata ai sensi dell'articolo 16 è raddoppiata.

Nel caso invece che l'espropriazione attenga a terreno coltivato dal fittavolo, mezzadro, colono o compartecipante, costretto ad abbandonare il terreno stesso, ferma restando l'indennità di espropriazione determinata ai sensi dell'articolo 16 in favore del proprietario, uguale importo dovrà essere corrisposto al fittavolo, al mezzadro, al colono o al compartecipante che coltivi il terreno espropriando almeno da un anno prima della data del deposito della relazione di cui all'articolo 10.

L'indennità aggiuntiva prevista dai precedenti commi è determinata in ogni caso in misura uguale al valore agricolo medio di cui al primo comma dell'articolo 16, corrispondente al tipo di coltura effettivamente praticato, ancorché si tratti di aree comprese nei centri edificati o delimitate come centri storici.

Le maggiorazioni di cui al primo e secondo comma del presente articolo vengono direttamente corrisposte ai suindicati soggetti nei termini previsti per il pagamento delle indennità di espropriazione.

Art. 18

Entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, i comuni, ai fini dell'applicazione del precedente articolo 16 procedono alla delimitazione dei centri edificati con deliberazione adottata dal consiglio comunale. In pendenza dell'adozione di tale deliberazione, il comune dichiara con delibera consiliare, agli effetti del procedimento espropriativo in corso, se l'area ricade o meno nei centri edificati.

Il centro edificato è delimitato, per ciascun centro o nucleo abitato, dal perimetro continuo che comprende tutte le aree edificate con continuità ed i lotti interclusi. Non possono essere compresi nel perimetro dei centri edificati gli insediamenti sparsi e le aree esterne, anche se interessate dal processo di urbanizzazione.

Ove decorra inutilmente il termine previsto al primo comma del presente articolo, alla delimitazione dei centri edificati provvede la Regione.

Art. 19

Entro trenta giorni dall'inserzione dell'avviso del deposito della relazione dell'Ufficio tecnico erariale nel Foglio degli annunci legali della provincia, i proprietari e gli altri interessati al pagamento dell'indennità possono proporre opposizione alla stima dell'Ufficio tecnico erariale davanti alla corte d'appello competente per territorio, con atto di citazione notificato all'espropriante.

L'opposizione può essere proposta anche dall'espropriante.

Art. 20

L'occupazione di urgenza delle aree da espropriare è pronunciata con decreto del prefetto. Tale decreto perde efficacia ove l'occupazione non segua nel termine di tre mesi dalla sua emanazione.

L'occupazione può essere protratta fino a cinque anni dalla data di immissione nel possesso.

L'Ufficio tecnico erariale provvede, su richiesta del prefetto, alla determinazione dell'indennità di occupazione in una somma pari, per ciascun anno di occupazione, ad un ventesimo dell'indennità che sarebbe dovuta per l'espropriazione dell'area da occupare, calcolata a norma dell'articolo 16 ovvero, per ciascun mese o frazione di mese di occupazione, ad un dodicesimo della indennità annua.

Contro la determinazione dell'indennità gli interessati possono proporre opposizione davanti alla corte d'appello competente per territorio, con atto di citazione notificato all'occupante entro trenta giorni dalla comunicazione dell'indennità a cura del sindaco nelle forme prescritte per la notificazione degli atti processuali civili.

Art. 21

Qualora venga a cessare la destinazione alla realizzazione di un interesse pubblico delle aree espropriate in base alle disposizioni contenute nel presente titolo, i comuni, entro e non oltre 180 giorni dalla cessazione della succitata destinazione, hanno diritto alla prelazione sulle aree comprese nel loro territorio dietro pagamento di un corrispettivo determinato ai sensi dello articolo 16 e seguenti. In caso di disaccordo il corrispettivo è determinato dall'Ufficio tecnico erariale ad istanza anche di uno solo degli interessati. Avverso la stima può essere proposta opposizione, entro trenta giorni dalla relativa comunicazione, davanti la corte di appello competente per territorio.

Le aree acquisite al comune fanno parte del suo patrimonio indisponibile.

Il comune utilizza direttamente le aree occorrenti per l'esecuzione delle opere di sua competenza e dà in concessione le aree occorrenti per la realizzazione di opere o di interventi di pubblica utilità.

Artt. 22 - 24

(omissis)

Art. 25

La delega al presidente della giunta regionale degli adempimenti previsti dal presente titolo ha efficacia fino alla data di entrata in vigore dei decreti delegati da emanarsi ai sensi dell'articolo 17 della legge 16 maggio 1970, n. 281.

A tal fine il presidente della giunta regionale si avvale del competente provveditorato alle opere pubbliche.

TITOLO III – MODIFICHE ED INTEGRAZIONI ALLE LEGGI 17 AGOSTO 1942, N. 1150, 18 APRILE 1962, N. 167 e 29 SETTEMBRE 1964, N. 847

Art. 26

I comuni hanno facoltà di espropriare, entro le zone di espansione dell'aggregato urbano, le aree inedificate e quelle su cui insistono costruzioni che siano in contrasto con la destinazione di zona ovvero abbiano carattere provvisorio, secondo quanto previsto dall'articolo 18, primo comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, fatta eccezione per le aree comprese nei piani di lottizzazione convenzionali autorizzati dal comune dopo la entrata in vigore della legge 6 agosto 1967, n. 765. Ai fini di un'organica utilizzazione delle zone di espansione il comune entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, se fornito di piano regolatore generale, o dalla data di approvazione del medesimo, delibera un programma per gli scopi di cui al presente comma e nei limiti previsti dal comma seguente; tale programma può essere aggiornato ogni cinque anni.

La deliberazione consiliare, con la quale i comuni decidono di avvalersi della suddetta facoltà, indica la delimitazione dei comprensori di aree da espropriare, la cui estensione non può essere superiore al 20 per cento delle zone di espansione previste dal piano regolatore, al di fuori di quelle già comprese nei piani di zona ai sensi della legge 18 aprile 1962, n. 167.

Tale deliberazione comporta il vincolo delle aree da espropriare per un periodo non superiore ad un quinquennio.

Entro tale periodo è formato il piano particolareggiato, alla cui approvazione - ai sensi delle disposizioni vigenti - è subordinata la esecuzione delle espropriazioni a norma del precedente titolo II.

Sono abrogati i commi secondo, terzo e quarto dell'articolo 18 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e l'articolo 19 della stessa legge.

L'utilizzazione delle aree espropriate è disciplinata dalle norme contenute nel successivo articolo 35, salvo quanto previsto dalle seguenti disposizioni:

1) per le aree aventi prevalente destinazione residenziale: le caratteristiche costruttive e tipologiche degli edifici da realizzare sono quelle indicate dal piano particolareggiato. Le percentuali stabilite in termini volumetrici nell'undicesimo comma dell'articolo 35 vanno riferite all'estensione delle aree suddette. Per gli alloggi costruiti su aree cedute in proprietà non sono richiesti i requisiti soggettivi indicati nell'undicesimo, nel sedicesimo e nel diciottesimo comma dell'articolo 35;

2) per le aree aventi prevalenti destinazioni non residenziali: la quota da cedere in proprietà non può essere superiore al 50 per cento, in termini volumetrici, delle aree comprese nel piano particolareggiato ed aventi le destinazioni innanzi indicate; la cessione in proprietà di tali aree e la concessione del diritto di superficie per le altre aree sono effettuate previo esperimento di asta pubblica e la convenzione è stipulata con l'aggiudicatario della gara.

La base d'asta è pari al costo di acquisizione delle aree, nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione in proporzione al volume edificabile. La somma eccedente la base d'asta è destinata dal comune alla esecuzione di opere di urbanizzazione.

Art. 27

I comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione approvati possono formare, previa autorizzazione della Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi.

Le aree da comprendere nel piano sono delimitate, nell'ambito delle zone destinate a insediamenti produttivi dai piani regolatori generali o dai programmi di fabbricazione vigenti, con deliberazione del consiglio comunale, la quale, previa pubblicazione, insieme agli elaborati, a mezzo di deposito presso la segreteria del comune per la durata di venti giorni, è approvata con decreto del presidente della giunta regionale.

Il piano approvato ai sensi del presente articolo ha efficacia per dieci anni dalla data del decreto di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato d'esecuzione ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni.

Per quanto non diversamente disposto dalla presente legge, alla deliberazione del consiglio comunale e al decreto del presidente della giunta regionale si applicano, in quanto compatibili, le norme della legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni.

Le aree comprese nel piano approvato a norma del presente articolo sono espropriate dai comuni o loro consorzi secondo quanto previsto dalla presente legge in materia di espropriazione per pubblica utilità.

Il comune utilizza le aree espropriate per la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico, in misura non superiore al 50 per cento mediante la cessione in proprietà e per la rimanente parte mediante la concessione del diritto di superficie. Tra più istanze concorrenti è data la preferenza a quelle presentate da enti pubblici e aziende a partecipazione statale nell'ambito di programmi già approvati dal CIPE.

La concessione del diritto di superficie ad enti pubblici per la realizzazione di impianti e servizi pubblici, occorrenti nella zona delimitata dal piano, è a tempo indeterminato; in tutti gli altri casi ha una durata non inferiore a sessanta anni e non superiore a novantanove anni.

Contestualmente all'atto di concessione, o all'atto di cessione della proprietà dell'area, tra il comune da una parte e il concessionario o l'acquirente dall'altra, viene stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale vengono disciplinati gli oneri posti a carico del concessionario o dell'acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza.

Art. 28

L'ultimo comma dell'articolo 1 della legge 18 aprile 1962, n. 167, è sostituito dai seguenti:

“Più comuni limitrofi possono costituirsi in consorzio per la formazione di un piano di zona consortile ai sensi della presente legge.

La Regione può disporre, a richiesta di una delle amministrazioni comunali interessate, la costituzione di consorzi obbligatori tra comuni limitrofi per la formazione di piani di zona consortili”.

Art. 29

Il primo comma dell'articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 167, è sostituito dal seguente:

“L'estensione delle zone da includere nei piani è determinata in relazione alle esigenze dell'edilizia economica e popolare per un decennio e non può eccedere quella necessaria a soddisfare il 60 per cento del fabbisogno complessivo di edilizia abitativa nel periodo considerato.”.

Art. 30

Sono fatte salve le previsioni dei piani di zona approvati prima dell'entrata in vigore della presente legge, dimensionati in misura superiore a quanto previsto dal precedente articolo 29 della presente legge.

Art. 31

La percentuale del fabbisogno complessivo di edilizia abitativa di cui all'articolo 29 della presente legge si applica anche nei casi in cui i comuni o loro consorzi procedono all'aggiornamento dei piani di zona già approvati.

Art. 32

Il terzo comma dell'articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 167, è sostituito dal seguente:

“Possono essere comprese nei piani anche le aree sulle quali insistono immobili la cui demolizione o trasformazione sia richiesta da ragioni igienico-sanitarie ovvero sia ritenuta necessaria per la realizzazione del piano.”.

Art. 33

L'ultimo comma dell'articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 167, è sostituito dai seguenti:

“Qualora non esista piano regolatore approvato, le zone riservate all'edilizia economica e popolare ai sensi dei precedenti commi sono comprese in un programma di fabbricazione il quale è compilato a norma dell'articolo 34 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni, ed è approvato a norma dell'articolo 8 della presente legge.

I comuni possono comprendere tali zone anche in un piano regolatore soltanto adottato e trasmesso ai competenti organi per l'approvazione. In tale ipotesi il piano delle zone suddette, approvato con le modalità di cui al comma precedente, è vincolante in sede di approvazione del piano regolatore”.

Art. 34

All'articolo 8 della legge 18 aprile 1962, n. 167, è aggiunto il seguente comma:

“Le varianti che non incidono sul dimensionamento globale del piano e non comportano modifiche al perimetro, agli indici di fabbricabilità ed alle dotazioni di spazi pubblici o di uso pubblico, o costituiscono adeguamento delle previsioni del piano ai limiti ed ai rapporti di cui all'articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, sono approvate con deliberazione del consiglio comunale. La deliberazione diviene esecutiva ai sensi dell'articolo 3 della legge 9 giugno 1947, n. 530”.

Art. 35

Le disposizioni dell'articolo 10 della legge 18 aprile 1962, n. 167, sono sostituite dalle norme di cui al presente articolo.

Le aree comprese nei piani approvati a norma della legge 18 aprile 1962, n. 167, sono espropriate dai comuni o dai loro consorzi.

Le aree di cui al precedente comma, salvo quelle cedute in proprietà ai sensi dell'undicesimo comma del presente articolo, vanno a far parte del patrimonio indisponibile del comune o del consorzio.

Su tali aree il comune o il consorzio concede il diritto di superficie per la costruzione di case di tipo economico e popolare e dei relativi servizi urbani e sociali.

La concessione del diritto di superficie ad enti pubblici per la realizzazione di impianti e servizi pubblici è a tempo indeterminato; in tutti gli altri casi ha una durata non inferiore ad anni 60 e non superiore ad anni 99.

L'istanza per ottenere la concessione è diretta al sindaco o al presidente del consorzio. Tra più istanze concorrenti è data la preferenza a quelle presentate da enti pubblici istituzionalmente operanti nel settore della edilizia economica e popolare e da cooperative edilizie a proprietà indivisa.

La concessione è deliberata dal consiglio comunale o dall'assemblea del consorzio. Con la stessa delibera viene determinato il contenuto della convenzione da stipularsi, per atto pubblico, da trascriversi presso il competente Ufficio dei registri immobiliari, tra l'ente concedente ed il richiedente.

La convenzione deve prevedere:

a) il corrispettivo della concessione in misura pari al costo di acquisizione delle aree nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione se già realizzate;

b) il corrispettivo delle opere di urbanizzazione da realizzare a cura del comune o del consorzio, ovvero, qualora dette opere vengano eseguite a cura e spese del concessionario, le relative garanzie finanziarie, gli elementi progettuali delle opere da eseguire e le modalità del controllo sulla loro esecuzione, nonché i criteri e le modalità per il loro trasferimento ai comuni od ai consorzi;

c) le caratteristiche costruttive e tipologiche degli edifici da realizzare;

d) i termini di inizio e di ultimazione degli edifici e delle opere di urbanizzazione;

e) i criteri per la determinazione e la revisione periodica dei canoni di locazione, nonché per la determinazione del prezzo di cessione degli alloggi, ove questa sia consentita;

f) le sanzioni a carico del concessionario per l'inosservanza degli obblighi stabiliti nella convenzione ed i casi di maggior gravità in cui tale inosservanza comporti la decadenza dalla concessione e la conseguente estinzione del diritto di superficie;

g) i criteri per la determinazione del corrispettivo in caso di rinnovo della concessione, la cui durata non può essere superiore a quella prevista nell'atto originario.

Le disposizioni del precedente comma non si applicano quando l'oggetto della concessione sia costituito dalla realizzazione di impianti e servizi pubblici ai sensi del quinto comma del presente articolo.

I comuni ed i consorzi possono, nella convenzione, stabilire, a favore degli enti che costruiscono alloggi da dare in locazione, condizioni particolari per quanto riguarda gli oneri relativi alle opere di urbanizzazione.

Le aree di cui al secondo comma del presente articolo, destinate alla costruzione di case economiche e popolari, nei limiti di una quota non inferiore al 20 e non superiore al 40 per cento, in termini volumetrici, di quelle comprese nei piani, sono cedute in proprietà a cooperative edilizie ed ai singoli, con preferenza per i proprietari espropriati ai sensi della presente legge, sempre che questi ed i soci delle cooperative abbiano i requisiti previsti dalle vigenti disposizioni per l'assegnazione di alloggi economici e popolari.

Il prezzo di cessione delle aree è determinato in misura pari al costo di acquisizione delle aree stesse, nonché al costo delle relative opere di urbanizzazione in proporzione al volume edificabile.

Contestualmente all'atto della cessione della proprietà dell'area, tra il comune, o il consorzio, e il cessionario, viene stipulata una convenzione per atto pubblico la quale deve prevedere:

a) gli elementi progettuali degli edifici da costruire e le modalità del controllo sulla loro costruzione;

b) le caratteristiche costruttive e tipologiche degli edifici da costruire;

c) i termini di inizio e di ultimazione degli edifici;

d) i casi nei quali l'inosservanza degli obblighi previsti dalla convenzione comporta la risoluzione dell'atto di cessione.

I criteri di cui alle lettere e) e g) e le sanzioni di cui alla lettera f) dell'ottavo comma, nonché i casi di cui alla lettera d) del precedente comma dovranno essere preventivamente deliberati dal consiglio comunale o dall'assemblea del consorzio e dovranno essere gli stessi per tutte le convenzioni.

L'alloggio costruito su area ceduta in proprietà non può essere alienato a nessun titolo, nè su di esso può costituirsi alcun diritto reale di godimento per un periodo di tempo di 10 anni dalla data del rilascio della licenza di abitabilità.

Decorso tale periodo di tempo, l'alienazione o la costituzione di diritti reali di godimento può avvenire esclusivamente a favore di soggetti aventi i requisiti per la assegnazione di alloggi economici e popolari, al prezzo fissato dall'Ufficio tecnico erariale, tenendo conto dello stato di conservazione della costruzione, del valore dell'area su cui essa insiste, determinati ai sensi del precedente articolo 16 e prescindendo dalla loro localizzazione, nonché del costo delle opere di urbanizzazione posto a carico del proprietario.

Dopo 20 anni dal rilascio della licenza di abitabilità, il proprietario dell'alloggio può trasferire la proprietà a chiunque o costituire su di essa diritto reale di godimento, con l'obbligo di pagamento a favore del comune o consorzio di comuni, che a suo tempo ha ceduto l'area, della somma corrispondente alla differenza tra il valore di mercato dell'area al momento dell'alienazione ed il prezzo di acquisizione a suo tempo corrisposto, rivalutato sulla base delle variazioni dell'indice dei prezzi all'ingrosso calcolato dall'Istituto centrale di statistica. Detta differenza è valutata dall'Ufficio tecnico erariale ed è riscossa all'atto della registrazione del contratto dal competente Ufficio del registro, che provvede a versarla al comune o consorzio di comuni. La somma è destinata all'acquisto di aree per la costruzione di case economiche e popolari.

L'alloggio costruito su area ceduta in proprietà può essere dato in locazione, sino a che non sia stata pagata a favore del comune o consorzio di comuni la somma di cui al comma precedente, esclusivamente a soggetti aventi i requisiti per l'assegnazione di alloggi economici e popolari, al canone fissato dall'Ufficio tecnico erariale secondo i criteri di cui al sedicesimo comma del presente articolo. Il versamento della somma può essere effettuato, decorso il termine di 20 anni, direttamente dal proprietario, al comune o consorzio di comuni, indipendentemente dal trasferimento della proprietà dell'alloggio.

Gli atti compiuti in violazione delle disposizioni contenute nei quattro precedenti commi sono nulli. Detta nullità può essere fatta valere dal comune o da chiunque altro vi abbia interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice.

Chiunque in virtù del possesso dei requisiti richiesti per l'assegnazione di alloggio economico o popolare abbia ottenuto la proprietà dell'area e dell'alloggio su di essa costruito, non può ottenere altro alloggio in proprietà dalle amministrazioni o dagli enti indicati nella presente legge o comunque costruiti con il contributo o con il concorso dello Stato a norma dell'articolo 17 del decreto del Presidente della Repubblica 17 gennaio 1959, n. 2.

Art. 36

Le disposizioni contenute nell'articolo precedente non si applicano alle aree che alla data di entrata in vigore della presente legge siano state acquisite, previa assegnazione, da enti pubblici o da cooperative o siano state cedute, anche in superficie, dal comune a privati, o per le quali, alla medesima data, sia intervenuta l'assegnazione e sia in corso il procedimento di espropriazione da parte di detti enti o cooperative. Gli atti del procedimento di espropriazione non definiti alla data di entrata in vigore della presente legge sono assoggettati alle norme contenute nel precedente titolo secondo.

Art. 37

Nel caso di procedimento esecutivo sull'immobile costruito su area in concessione superficiaria o in proprietà, l'immobile potrà essere aggiudicato, in concessione superficiaria o in proprietà, a soggetti aventi i requisiti per l'assegnazione di case economiche e popolari.

In tutti i casi in cui si verifichi la decadenza dalla concessione e la conseguente estinzione del diritto di superficie di cui all'ottavo comma, lettera f) dell'articolo 35, ovvero la risoluzione dell'atto di cessione in proprietà di cui al tredicesimo comma, lettera d) dell'articolo medesimo, l'ente che ha concesso il diritto di superficie o che ha ceduto la proprietà subentrerà nei rapporti obbligatori derivanti da mutui ipotecari concessi dagli istituti di credito per il finanziamento delle costruzioni sulle aree comprese nei piani approvati a norma della presente legge, con l'obbligo di soddisfare sino all'estinzione le ragioni di credito dei detti istituti.

I pagamenti da effettuare in adempimento di quanto previsto al comma precedente saranno considerati come spese obbligatorie da iscrivere in bilancio da parte degli enti obbligati, i quali sono tenuti a vincolare agli stessi pagamenti le rendite derivanti dalle costruzioni acquisite per devoluzione o risoluzione della cessione in proprietà.

Art. 38

Le disposizioni dell'articolo 11 della legge 18 aprile 1962, n. 167, sono sostituite dalle norme del presente articolo.

I piani hanno validità decennale e sono attuati a mezzo di programmi pluriennali i quali debbono indicare:

a) l'estensione delle aree di cui si prevede l'utilizzazione e la correlativa urbanizzazione;

b) la quota delle aree da cedere in proprietà entro i limiti stabiliti dall'articolo 35 della presente legge;

c) la spesa prevista per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e delle opere di carattere generale;

d) i mezzi finanziari con i quali il comune o il consorzio intendono far fronte alla spesa di cui alla precedente lettera c).

I programmi di attuazione e le varianti di aggiornamento annuale sono approvati con deliberazione del consiglio comunale.

Art. 39

Gli articoli 12, 13, 14, 15, 16, 17 e 18 della legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, sono abrogati.

Art. 40

All'articolo 19 della legge 18 aprile 1962, n. 167, le parole: “... utilizzate in proprio dagli enti di cui al terzo comma dell'articolo 10” sono sostituite con le parole: “... utilizzate dagli enti pubblici istituzionalmente operanti nel settore dell'edilizia economica e popolare e da cooperative edilizie”.

Artt. 41 - 43

(omissis)

Art. 44

All'articolo 4 della legge 29 settembre 1964, n. 847, è aggiunto il seguente comma:

“Le opere di cui all'articolo 1, lettera c), sono le seguenti:

a) asili nido e scuole materne;

b) scuole dell'obbligo;

c) mercati di quartiere;

d) delegazioni comunali;

e) chiese ed altri edifici per servizi religiosi;

f) impianti sportivi di quartiere;

g) centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie;

h) aree verdi di quartiere”.

Artt. 45 - 47

(omissis)

TITOLO IV – PROGRAMMI PUBBLICI DI EDILIZIA RESIDENZIALE

Art. 48

Nel triennio 1971-1973 i programmi pubblici di edilizia residenziale di cui al presente titolo prevedono: la costruzione di alloggi destinati alla generalità dei lavoratori ed a coloro che occupano abitazioni improprie, malsane e fatiscenti da demolire; la costruzione di alloggi destinati a soddisfare i fabbisogni abitativi di zone colpite da calamità naturali; la costruzione di case-albergo per studenti, lavoratori, lavoratori immigrati e persone anziane, nonché di alloggi destinati ai cittadini più bisognosi, anche riuniti in cooperative edilizie; la costruzione di alloggi in favore di lavoratori dipendenti emigrati all'estero e di profughi, anche se riuniti in cooperative edilizie; la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria relative agli interventi di edilizia abitativa; l'esecuzione di opere di manutenzione e di risanamento del patrimonio di abitazioni di tipo economico e popolare dello Stato e degli enti di edilizia economica e popolare, escluso quello ceduto ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 17 gennaio 1959, n. 2; l'integrazione dei contributi concessi agli istituti autonomi per le case popolari per la realizzazione di programmi edilizi.

I programmi sono predisposti secondo le disposizioni contenute nel titolo I della presente legge.

Una quota non inferiore al 5 per cento dell'importo complessivo dei programmi suddetti è destinata all'esecuzione di opere di edilizia sociale.

Nella ripartizione degli interventi una quota non inferiore al 45 per cento degli importi complessivi è riservata ai territori di cui all'articolo 1 del testo unico delle leggi sul Mezzogiorno approvato con il decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1967, n. 1523.

(omissis - commi V e VI)

Art. 49

(omissis)

Art. 50

Nei comuni che abbiano provveduto alla formazione dei piani di zona ai sensi della legge 18 aprile 1962, n. 167, le aree per la realizzazione dei programmi pubblici di edilizia abitativa previsti dal presente titolo sono scelte nell'ambito di detti piani.

Art. 51

Nei comuni che non dispongono dei piani previsti dalla legge 18 aprile 1962, n. 167, i programmi costruttivi sono localizzati su aree indicate con deliberazione del consiglio comunale nell'ambito delle zone residenziali dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione, sempre che questi risultino approvati o adottati e trasmessi per le approvazioni di legge.

Con la stessa deliberazione sono precisati, ove necessario, anche in variante ai piani regolatori ed ai programmi di fabbricazione vigenti, i limiti di densità, di altezza, di distanza fra i fabbricati, nonché i rapporti massimi fra spazi destinati agli insediamenti e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico ed a parcheggio, in conformità alle norme di cui al penultimo comma dell'articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765.

La deliberazione del consiglio comunale è adottata entro trenta giorni dalla richiesta formulata dalla Regione oppure dagli enti costruttori e diventa esecutiva dopo l'approvazione dell'organo di controllo che deve pronunciarsi entro venti giorni dalla data di trasmissione della delibera, con gli effetti nel caso di silenzio stabiliti dall'articolo 20 della legge 6 agosto 1967, n. 765.

Qualora il consiglio comunale non provveda entro il termine di cui al comma precedente, la scelta dell'area è effettuata dal presidente della giunta regionale.

La deliberazione del consiglio comunale o il decreto del presidente della giunta regionale comporta l'applicazione delle norme in vigore per l'attuazione dei piani di zona.

Art. 52

Le opere comprese nei programmi previsti dal presente titolo sono a tutti gli effetti dichiarate di pubblica utilità e i lavori sono dichiarati urgenti e indifferibili.

Art. 53

(omissis)

Art. 54

Gli istituti autonomi per le case popolari provvedono a demolire le baracche ed a rendere inagibili gli altri alloggi impropri o malsani, già occupati dagli assegnatari dei nuovi alloggi non appena questi ultimi sono stati consegnati.

Qualora le baracche, grotte, caverne e simili si trovino su suoli di proprietà privata, il prefetto diffida, con proprio decreto, il proprietario ad effettuare, entro il termine di quindici giorni, i lavori di demolizione e di ostruzione, autorizzando l'Istituto autonomo per le case popolari a sostituirsi al proprietario, qualora questi lasci decorrere inutilmente il termine anzidetto.

(omissis - commi III-V)

Art. 55 - 59

(omissis)

Art. 60

Gli enti ed istituti, incaricati dell'attuazione dei programmi previsti dalla presente legge, acquisiscono dai comuni le aree all'uopo occorrenti; gli stessi enti ed istituti possono tuttavia procedere direttamente all'acquisizione delle aree in nome e per conto dei comuni, d'intesa con questi ultimi.

Artt. 61 - 71

(omissis)

TITOLO V – EDILIZIA AGEVOLATA. AGEVOLAZIONI FISCALI

Artt. 72 - 76

(omissis)

Potrebbe finalmente essere questa la legislatura buona per la legge di riforma urbanistica che prenderebbe il posto di quella varata in piena seconda guerra mondiale (1942) per poi essere parzialmente modificata nel 1967. Nelle prossime settimane infatti il governo comincerà la discussione della proposta di disegno di legge presentata da Rifondazione ed elaborata da un gruppo di architetti e urbanisti che gravita intorno all’associazione Eddyburg. Il “caso” infatti ha voluto che la discussione partisse proprio da questa proposta e non dalle altre (attualmente in attesa ce ne sono almeno altre 3: quella sponsorizzata da Ds e in parte dalla Margherita, quella della Margherita stessa e infine quella del deputato di Forza Italia Lupi riciclata e riproposta dal partito di Berlusconi e che nella scorsa legislatura solo in extremis è stata bloccata).

Vezio De Lucia, urbanista di fama internazionale e tra i protagonisti che hanno elaborato la proposta Eddyburg, è la persona forse più adatta per spiegare qual è la situazione oggi in Italia, partendo proprio dallo “scampato pericolo”, cioè l’affossamento del disegno di legge riproposto oggi da Forza Italia.

«Era un disegno di legge terrificante, basato sostanzialmente sulla privatizzazione dell’urbanistica, perché prevedeva che ogni atto di trasformazione urbanistica avrebbe dovuto essere approvato sempre d’intesa con la proprietà fondiaria. Le parole testuali, mi par di ricordare erano “sostituire atti autoritativi con atti negoziali”, quindi sarebbe stata una vera e propria cancellazione del governo pubblico del territorio e della preminenza dell’interesse pubblico su quello privato. Altre due perle erano la cancellazione degli standard urbanistici e l’incentivazione a consumare nuovo territorio, togliendo ulteriori spazi alla natura».

Perché la proposta non passò?

«Guardi, un po’ tutti davano l’approvazione per scontata, anche nel centrosinistra che allora era all’opposizione. Anche perché l’Inu con il suo presidente Federico Oliva era sostanzialmente d’accordo. Noi di Eddyburg ci battemmo per impedirne l’approvazione della Lupi, pubblicammo anche il libro “La controriforma urbanistica” che fu presentato in molte città italiane e soprattutto alla commissione che stava discutendo la proposta. Ebbene, siamo riusciti ad evitare l’approvazione consapevolizzando alcuni deputi di Alleanza Nazionale sul disastro che si rischiava di compiere».

Sarà anche un disastro evitato, però intanto siamo ancora senza legge e con una pletora di proposte tutte da discutere…

«Il risultato importante è avere affossato definitivamente quella proposta che annullava il ruolo del pubblico: meglio nessuna risposta che una controriforma del genere. Anche perché da lì nasce il testo che Rifondazione ha poi portato in Senato: quando la Lupi fu bloccata dall’Inu ci “invitarono” a farla noi e così abbiamo fatto».

Il presidente dell’Inu però, quando ha saputo che la discussione sarebbe partita dalla proposta di Rifondazione e non da quella dei Ds, è andato su tutte le furie, sostenendo che questo governo non approverà mai la riforma “vista al composizione della compagine governativa, con troppe teste che la pensano in maniera diversa”.

«Non sono d’accordo con il pessimismo di Oliva perché il nostro testo e quello presentato dai Ds sono molto vicini fra loro: Lupi è stato finalmente rinnegato mentre credo che sarà piuttosto semplice integrare le due proposte che arrivano da Rifondazione e Ds perché le basi di partenza sono le stesse, ovvero la riproposizione dell’assoluta prevalenza dell’interesse pubblico, la conferma degli standard urbanistici e la loro estensione come il diritto all’abitare. C’è il recepimento piano della valutazione ambientale strategica nell’ambito della direttiva europea e c’è

il principio del contenimento del consumo del suolo, cioè di ridurre al minimo l’ulteriore sottrazione di spazi al territorio. Su quest’ultimo punto, anche se nella proposta dei Ds non è perentorio come nel nostro testo, ci giochiamo il futuro del Paese e non a caso anche nel programma di Prodi c’era l’impegno a una soluzione legislativa per contenere al costruzione di nuove abitazioni».

Se i testi sono così vicini, perché non avete lavorato insieme fin da subito? Con una proposta unica e condivisa da larghi settori della maggioranza la discussione procederebbe più speditamente.

«Forse a freddo non avremmo cominciato a elaborare un testo del genere, ma dopo l’affossamento della Lupi siamo stati quasi sfidati e quando poi, contemporaneamente all’elaborazione, abbiamo cominciato a ricevere apprezzamenti e contributi e nuovi stimoli da parte degli ambienti specialistici, non potevamo più tirarci indietro. Ma le ripeto e glielo assicuro: Oliva si sbaglia, con una commissione ristretta sarà facilissimo arrivare a un testo condiviso».

La riforma urbanistica è necessaria per uniformare e coordinare la materia finora disciplinata in modo diverso dalle singole regioni. Eppure proprio da queste leggi regionali si è tratto molto.

«Esattamente, anche perché la questione delle competenze regionali è forse la più delicata, ma comunque, a mio parere, non è la più importante. Mi spiego: è vero che una legge di principio serve, ma non c’è più quell’urgenza che ci poteva essere prima, perché molte regioni hanno già adottato contenuti importanti che infatti oggi sono ripresi nelle varie proposte. La legge toscana per esempio, che è una delle più avanzate, influenza fortemente la proposta dei Ds ed è quindi molto vicina anche alla nostra».

Intanto però la Toscana è finita sulla graticola per il caso Monticchiello e per i molti casi di cementificazione delle coste o delle colline, magari attraverso la realizzazione di seconde case mascherate per qualche anno da Rta

«Giustamente in Toscana si sollevano le cose che non vanno e non sono certo io a tirarmi indietro nel criticare certe operazioni urbanistiche tutt’altro che sostenibili. Però i singoli casi toscani non sono confrontabili con quello che accade oggi dal Lazio in giù, nella quasi totale insensibilità della stampa. Lo sfascio della Campania non è solo i rifiuti, ma anche il governo del territorio non esiste più e ci sono comuni in cui le richieste di condono sono più dei cittadini».

Sul disegno di legge urbanistica eddyburg

In allegato anche il testo della L. 1150/1942 aggiornato alla L 765/1967 (formati .doc e .pdf)

Art. 1

Il primo comma dell'articolo 8 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"I Comuni hanno la facoltà di formare il piano regolatore generale del proprio territorio. La deliberazione con la quale il Consiglio comunale decide di procedere alla formazione del piano non è soggetta a speciale approvazione e diviene esecutiva in conformità dell'articolo 3 della legge 9 giugno 1947, n. 530; la spesa conseguente è obbligatoria.".

Il quarto, quinto e sesto comma del medesimo articolo sono sostituiti dai seguenti:

"I Comuni compresi negli elenchi di cui al secondo comma devono procedere alla nomina dei progettisti per la formazione del piano regolatore generale entro tre mesi dalla data del decreto ministeriale con cui è stato approvato il rispettivo elenco, nonché alla deliberazione di adozione del piano stesso entro i successivi dodici mesi ed alla presentazione al Ministero dei lavori pubblici per l'approvazione entro due anni dalla data del sopracitato decreto ministeriale.

Trascorso ciascuno dei termini sopra indicati il prefetto, salvo il caso di proroga non superiore ad un anno concessa dal Ministro per i lavori pubblici su richiesta motivata del Comune, convoca il Consiglio comunale per gli adempimenti relativi da adottarsi entro il termine di 30 giorni.

Decorso quest'ultimo termine il prefetto, d'intesa con il provveditore regionale alle opere pubbliche, nomina un commissario per la designazione dei progettisti, ovvero per l'adozione del piano regolatore generale o per gli ulteriori adempimenti necessari per la presentazione del piano stesso al Ministero dei lavori pubblici.

Nel caso in cui il piano venga restituito per modifiche, integrazioni o rielaborazioni al Comune, quest'ultimo provvede ad adottare le proprie determinazioni nel termine di 180 giorni dalla restituzione. Trascorso tale termine si applicano le disposizioni dei commi precedenti.

Nel caso di compilazione o di rielaborazione d'ufficio del piano, il prefetto promuove d'intesa con il provveditore regionale alle opere pubbliche l'iscrizione d'ufficio della relativa spesa nel bilancio comunale.

Il piano regolatore generale è approvato entro un anno dal suo inoltro al Ministero dei lavori pubblici.".

Art. 2

I Comuni già compresi negli elenchi, di cui al secondo comma dell'articolo 8 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, approvati con decreto ministeriale prima dell'entrata in vigore della presente legge, provvedono agli adempimenti relativi alla formazione del piano regolatore generale entro sei mesi, trascorsi i quali si applicano nei loro confronti le disposizioni dell'articolo 1 della presente legge.

Art. 3

Dopo il primo comma dell'articolo 10 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, sono inseriti i seguenti commi:

"Con lo stesso decreto di approvazione possono essere apportate al piano, su parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici e sentito il Comune, le modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, tali cioè da mutare le caratteristiche essenziali del piano stesso ed i criteri di impostazione, le modifiche conseguenti all'accoglimento di osservazioni presentate al piano ed accettate con deliberazione del Consiglio comunale, nonché quelle che siano riconosciute indispensabili per assicurare:

a) il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento a norma dell'articolo 6, secondo comma;

b) la razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse dello Stato;

c) la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici;

d) l'osservanza dei limiti di cui agli articoli 41-quinquies, sesto e ottavo comma e 41-sexies della presente legge.

Le modifiche di cui alla lettera c) sono approvate sentito il Ministro per la pubblica istruzione, che può anche dettare prescrizioni particolari per singoli immobili di interesse storico-artistico.

Le proposte di modifica, di cui al secondo comma, ad eccezione di quelle riguardanti le osservazioni presentate al piano, sono comunicate al Comune, il quale entro novanta giorni adotta le proprie controdeduzioni con deliberazione del Consiglio comunale che, previa pubblicazione nel primo giorno festivo, è trasmessa al Ministero dei lavori pubblici nei successivi quindici giorni.

Nelle more di approvazione del piano, le normali misure di salvaguardia di cui alla legge 3 novembre 1952, n. 1902 e successive modificazioni, sono obbligatorie.".

Art. 4

L'ultimo comma dell'articolo 11 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è soppresso.

Art. 5

Il primo e secondo comma dell'articolo 16 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, sono sostituiti dai seguenti:

"I piani particolareggiati di esecuzione del piano regolatore generale sono approvati con decreto del provveditore regionale alle opere pubbliche, sentita la Sezione urbanistica regionale, entro 180 giorni dalla presentazione da parte dei Comuni.

Con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con i Ministri per l'interno e per la pubblica istruzione può essere disposto che l'approvazione dei piani particolareggiati di determinati Comuni avvenga con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. Le determinazioni in tal caso sono assunte entro 180 giorni dalla presentazione del piano da parte dei Comuni.

I piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 1 giugno 1939, n. 1089, sulla tutela delle cose d'interesse artistico o storico, e alla legge 29 giugno 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza ovvero al Ministero della pubblica istruzione quando sono approvati con decreto del Ministro per i lavori pubblici.

Le eventuali osservazioni del Ministero della pubblica istruzione o delle Soprintendente sono presentate entro novanta giorni dall'avvenuta comunicazione del piano particolareggiato di esecuzione.".

Dopo il terzo comma dello stesso articolo 16 sono inseriti i seguenti commi:

"Con il decreto di approvazione possono essere introdotte nel piano le modifiche che siano conseguenti all'accoglimento di osservazioni o di opposizioni ovvero siano riconosciute indispensabili per assicurare:

1) la osservanza del piano regolatore generale;

2) il conseguimento delle finalità di cui al secondo comma, lettere b), c), d) del precedente articolo 10;

3) una dotazione dei servizi e degli spazi pubblici adeguati alle necessità della zona.

Le modifiche di cui al punto 2), lettera c), del precedente comma, sono adottate sentita la competente Soprintendenza o il Ministro per la pubblica istruzione a seconda che l'approvazione avvenga con decreto del provveditore regionale alle opere pubbliche oppure del Ministro per i lavori pubblici.

Le modifiche di cui ai precedenti commi sono comunicate per la pubblicazione ai sensi dell'articolo 15 al Comune, il quale entro novanta giorni adotta le proprie controdeduzioni con deliberazione del Consiglio comunale che, previa pubblicazione nel primo giorno festivo, è trasmessa nei successivi quindici giorni al Provveditorato regionale alle opere pubbliche od al Ministero dei lavori pubblici che adottano le relative determinazioni entro 90 giorni.".

Art. 6

L'articolo 26 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"Quando siano eseguite, senza la licenza di costruzione o in contrasto con questa, opere non rispondenti alle prescrizioni del piano regolatore, del programma di fabbricazione od alle norme del regolamento edilizio, il Ministro per i lavori pubblici, per i Comuni capoluoghi di Provincia, o il provveditore regionale alle opere pubbliche, per gli altri Comuni, possono disporre la sospensione o la demolizione delle opere, ove il Comune non provveda nel termine all'uopo fissato. I provvedimenti di demolizione sono emessi, previo parere rispettivamente del Consiglio superiore dei lavori pubblici e del Comitato tecnico amministrativo, entro cinque anni dalla dichiarazione di abitabilità o di agibilità e per le opere eseguite prima dell'entrata in vigore della presente legge entro cinque anni da quest'ultima data.

I provvedimenti di sospensione o di demolizione sono notificati a mezzo dell'ufficiale giudiziario, nelle forme e con le modalità previste dal Codice di procedura civile, al titolare della licenza o in mancanza di questa al proprietario della costruzione, nonché al direttore dei lavori ed al titolare dell'impresa che li ha eseguiti o li sta eseguendo e comunicati all'Amministrazione comunale.

La sospensione non può avere una durata superiore a tre mesi dalla data della notifica. Entro tale periodo di tempo il Ministro per i lavori pubblici, o il provveditore regionale alle opere pubbliche, nel caso di cui al primo comma del presente articolo, adotta i provvedimenti necessari per la modifica delle costruzioni o per la rimessa in pristino, in mancanza dei quali la sospensione cessa di avere efficacia.

I provvedimenti di sospensione e di demolizione vengono resi noti al pubblico mediante affissione nell'albo pretorio del Comune.

Con il provvedimento che dispone la modifica delle costruzioni, la rimessa in pristino o la demolizione delle opere è assegnato un termine entro il quale il trasgressore deve procedere, a sue spese e senza pregiudizio delle sanzioni penali, alla esecuzione del provvedimento stesso. Scaduto inutilmente tale termine, il Ministro per i lavori pubblici, o il provveditore regionale alle opere pubbliche nel caso di cui al primo comma del presente articolo, dispone la esecuzione in danno dei lavori.

Le spese relative all'esecuzione in danno sono riscosse con le norme stabilite dal testo unico sulla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, approvato con regio decreto 14 aprile 1910, n. 639. Al pagamento delle spese sono solidalmente obbligati il committente, il titolare dell'impresa che ha eseguito i lavori e il direttore dei lavori qualora non abbia contestato ai detti soggetti e comunicato al Comune la non conformità delle opere rispetto alla licenza edilizia.".

Art. 7

L'articolo 27 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"Entro dieci anni dalla loro adozione le deliberazioni ed i provvedimenti comunali che autorizzano opere non conformi a prescrizioni del piano regolatore o del programma di fabbricazione od a norme del regolamento edilizio, ovvero in qualsiasi modo costituiscano violazione delle prescrizioni o delle norme stesse possono essere annullati, ai sensi dell'articolo 6 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l'interno.

Per le deliberazioni ed i provvedimenti comunali anteriori alla entrata in vigore della presente legge, il termine di dieci anni decorre dalla data della stessa.

Il provvedimento di annullamento è emesso entro diciotto mesi dall'accertamento delle violazioni di cui al primo comma, ed è preceduto dalla contestazione delle violazioni stesse al titolare della licenza, al proprietario della costruzione e al progettista, nonché all'Amministrazione comunale con l'invito a presentare controdeduzioni entro un termine all'uopo prefissato.

In pendenza delle procedure di annullamento il Ministro per i lavori pubblici può ordinare la sospensione dei lavori, con provvedimento da notificare a mezzo di ufficiale giudiziario, nelle forme e con le modalità previste dal Codice di procedura civile, ai soggetti di cui al precedente comma e da comunicare all'Amministrazione comunale. L'ordine di sospensione cessa di avere efficacia se, entro sei mesi dalla sua notificazione, non sia stato emesso il decreto di annullamento di cui al primo comma.

Intervenuto il decreto di annullamento si applicano le disposizioni dell'articolo 26.

Il termine per il provvedimento di demolizione è stabilito in sei mesi dalla data del decreto medesimo.

Al pagamento delle spese previste dal penultimo comma dell'articolo 26 sono solidalmente obbligati il committente ed il progettista delle opere.

I provvedimenti di sospensione dei lavori e il decreto di annullamento vengono resi noti al pubblico mediante l'affissione nell'albo pretorio del Comune.".

Art. 8

Il primo e secondo comma dell'articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, sono sostituiti dai seguenti:

"Prima dell'approvazione del piano regolatore generale o del programma; di fabbricazione di cui all'articolo 34 della presente legge è vietato procedere alla lottizzazione dei terreni a scopo edilizio.

Nei Comuni forniti di programma di fabbricazione ed in quelli dotati di piano regolatore generale fino a quando non sia stato approvato il piano particolareggiato di esecuzione, la lottizzazione di terreno a scopo edilizio può essere autorizzata dal Comune previo nulla osta del provveditore regionale alle opere pubbliche, sentita la Sezione urbanistica regionale, nonché la competente Soprintendenza.

L'autorizzazione di cui al comma precedente può essere rilasciata anche dai Comuni che hanno adottato il programma di fabbricazione o il piano regolatore generale, se entro dodici mesi dalla presentazione al Ministero dei lavori pubblici la competente autorità non ha adottato alcuna determinazione, sempre che si tratti di piani di lottizzazione conformi al piano regolatore generale ovvero al programma di fabbricazione adottato.

Con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con i Ministri per l'interno e per la pubblica istruzione può disporsi che il nulla-osta all'autorizzazione di cui ai precedenti commi venga rilasciato per determinati Comuni con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con il Ministro per la pubblica istruzione, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici.

L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda:

1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate all'articolo 4 della legge 29 settembre 1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;

2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessario per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;

3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata la esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;

4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione.

La convenzione deve essere approvata con deliberazione consiliare nei modi e forme di legge.

Il rilascio delle licenze edilizie nell'ambito dei singoli lotti è subordinato all'impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi.

Sono fatte salve soltanto ai fini del quinto comma le autorizzazioni rilasciate sulla base di deliberazioni del Consiglio comunale, approvate nei modi e forme di legge, aventi data anteriore al 2 dicembre 1966.

Il termine per l'esecuzione di opere di urbanizzazione poste a carico del proprietario è stabilito in dieci anni a decorrere dall'entrata in vigore della presente legge, salvo che non sia stato previsto un termine diverso.

Le autorizzazioni rilasciate dopo il 2 dicembre 1966 e prima dell'entrata in vigore della presente legge e relative a lottizzazioni per le quali non siano stati stipulati atti di convenzione contenenti gli oneri e i vincoli precisati al quinto comma del presente articolo, restano sospese fino alla stipula di dette convenzioni.

Nei Comuni forniti di programma di fabbricazione e in quelli dotati di piano regolatore generale anche se non si è provveduto alla formazione del piano particolareggiato di esecuzione, il Sindaco ha facoltà di invitare i proprietari delle aree fabbricabili esistenti nelle singole zone a presentare entro congruo termine un progetto di lottizzazione delle aree stesse. Se essi non aderiscono, provvede alla compilazione d'ufficio.".

Art. 9

L'articolo 30 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"Il piano regolatore generale, agli effetti del primo comma dell'articolo 18, ed i piani particolareggiati previsti dall'articolo 13 sono corredati da una relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per la acquisizione delle aree e per le sistemazioni generali necessarie per l'attuazione del piano.".

Art. 10

L'articolo 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"Chiunque intenda nell'ambito del territorio comunale eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti ovvero procedere all'esecuzione di opere di urbanizzazione del terreno, deve chiedere apposita licenza al Sindaco.

Per le opere da eseguire su terreni demaniali, compreso il demanio marittimo, ad eccezione delle opere destinate alla difesa nazionale, compete all'Amministrazione dei lavori pubblici, d'intesa con le Amministrazioni interessate e sentito il Comune, accertare che le opere stesse non siano in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore generale o del regolamento edilizio vigente nel territorio comunale in cui esse ricadono.

Per le opere da costruirsi da privati su aree demaniali deve essere richiesta sempre la licenza del Sindaco.

Gli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale sono nulli ove da essi non risulti che l’acquirente era a conoscenza della mancanza di una lottizzazione autorizzata.

La concessione della licenza è comunque e in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni dell'attuazione delle stesse nel successivo triennio o all'impegno dei privati di procedere all'attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto della licenza.

Le determinazioni del Sindaco sulle domande di licenza di costruzione devono essere notificate all'interessato non oltre 60 giorni dalla data di ricevimento delle domande stesse o da quella di presentazione di documenti aggiuntivi richiesti dal Sindaco.

Scaduto tale termine senza che il Sindaco si sia pronunciato, l'interessato ha il diritto di ricorrere contro il silenzio-rifiuto.

Dell'avvenuto rilascio della licenza edilizia viene data notizia al pubblico mediante affissione nell'albo pretorio, con la specificazione del titolare e della località nella quale la costruzione deve essere eseguita. L'affissione non fa decorrere i termini per l'impugnativa.

Chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione.

La licenza edilizia non può avere validità superiore ad un anno; qualora entro tale termine i lavori non siano stati iniziati l'interessato dovrà presentare istanza diretta ad ottenere il rinnovo della licenza.

L'entrata in vigore di nuove previsioni urbanistiche comporta la decadenza delle licenze in contrasto con le previsioni stesse, salvo che i relativi lavori siano stati iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio.

Il committente titolare della licenza, il direttore dei lavori e l'assuntore dei lavori sono responsabili di ogni inosservanza così delle norme generali di legge e di regolamento come delle modalità esecutive che siano fissate nella licenza edilizia.".

Art. 11

Il secondo comma dell'articolo 35 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dai seguenti:

"Qualora entro sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge, non sia stato adempiuto a quanto stabilito dagli articoli 33 e 34 e dal precedente comma del presente articolo, il prefetto, salvo il caso di proroga non superiore a sei mesi concessa dal Ministro per i lavori pubblici su richiesta del Comune, convoca il Consiglio comunale per gli adempimenti relativi da adottarsi entro il termine di 30 giorni.

Decorso questo ultimo termine il prefetto nomina un commissario per la designazione dei progettisti, di intesa con il provveditore regionale alle opere pubbliche, ovvero per la adozione del regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione o per gli ulteriori adempimenti necessari per la presentazione del regolamento stesso al Ministero dei lavori pubblici.

Nel caso in cui il regolamento edilizio e l'annesso programma di fabbricazione, redatti dal Comune, ovvero d'ufficio, vengano restituiti per modifiche o rielaborazioni al Comune stesso, questo provvede, nel termine di 90 giorni dalla restituzione, ad adottare le proprie determinazioni. Trascorso tale termine, si applicano le disposizioni di cui ai commi precedenti.

Nel caso di compilazione d'ufficio, il prefetto promuove d'intesa con il provveditore regionale alle opere pubbliche la iscrizione d'ufficio, nel bilancio comunale, della spesa occorrente per la redazione o rielaborazione del regolamento edilizio e del programma di fabbricazione.".

Art. 12

L'articolo 36 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"I regolamenti edilizi dei Comuni sono approvati con decreto del provveditore regionale alle opere pubbliche sentita la Sezione urbanistica regionale e la competente Soprintendenza entro il termine di 180 giorni dalla presentazione.

Il Ministro per i lavori pubblici di concerto con il Ministro per l'interno e per la pubblica istruzione può disporre l'approvazione del regolamento edilizio di determinati Comuni con proprio decreto, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici e il Ministero della pubblica istruzione.

Con il decreto di approvazione possono essere introdotte nel regolamento edilizio e nel programma di fabbricazione le modifiche che siano ritenute indispensabili ai fini di cui al secondo comma, lettere b), c), d), dell'articolo 10.

Le modifiche di cui alla lettera c) sono approvate sentita la competente Soprintendenza o il Ministro per la pubblica istruzione a seconda che l'approvazione avvenga con decreto del provveditore regionale alle opere pubbliche oppure del Ministro per i lavori pubblici.

Le modifiche di cui al precedente comma sono comunicate al Comune interessato, il quale entro 60 giorni adotta le proprie controdeduzioni con deliberazione del Consiglio comunale che, previa pubblicazione nel primo giorno festivo, è trasmessa al Ministero dei lavori pubblici nei successivi quindici giorni.

Il Ministero per i lavori pubblici o il provveditore regionale alle opere pubbliche adottano i provvedimenti di loro competenza entro 90 giorni dalla presentazione del progetto del regolamento edilizio con annesso programma di fabbricazione.".

Art. 13

L'articolo 41 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"Salvo quanto stabilito dalle leggi sanitarie, per le contravvenzioni alle norme dei regolamenti locali di igiene, si applica:

a) l'ammenda fino a lire un milione per l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste nell'articolo 32, primo comma;

b) l'arresto fino a sei mesi e l'ammenda fino a lire due milioni nei casi di inizio dei lavori senza licenza o di prosecuzione di essi nonostante l'ordine di sospensione o di inosservanza del disposto dell'articolo 28.

Qualora non sia possibile procedere alla restituzione in pristino ovvero alla demolizione delle opere eseguite senza la licenza di costruzione o in contrasto con questa, si applica in via amministrativa una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Ufficio tecnico erariale.

La disposizione di cui al precedente comma trova applicazione anche nel caso di annullamento della licenza.

I proventi delle sanzioni pecuniarie previste dal presente articolo sono riscossi dal Comune e destinati al finanziamento delle opere di urbanizzazione, ovvero dallo Stato rispettivamente nelle ipotesi di cui al secondo e terzo comma.".

Art. 14

Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, dopo l'articolo 41 è aggiunto il seguente articolo 41-bis:

"I professionisti incaricati della redazione di un piano regolatore generale o di un programma di fabbricazione possono, fino alla approvazione del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione, assumere nell'ambito del territorio del Comune interessato soltanto incarichi di progettazione di opere ed impianti pubblici.

Ogni violazione viene segnalata al rispettivo Consiglio dell'ordine per i provvedimenti amministrativi del caso.".

Art. 15

Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, dopo l'articolo 41, è aggiunto il seguente articolo 41-ter:

"Fatte salve le sanzioni di cui agli articoli 32 e 41, le opere iniziate dopo l'entrata in vigore della presente legge, senza la licenza o in contrasto con la stessa, ovvero sulla base di licenza successivamente annullata, non beneficiano delle agevolazioni fiscali previste dalle norme vigenti, nè di contributi o altre provvidenze dello Stato o di Enti pubblici. Il contrasto deve riguardare violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che eccedano per singola unità immobiliare il due per cento delle misure prescritte, ovvero il mancato rispetto delle destinazioni e degli allineamenti indicati nel programma di fabbricazione, nel piano regolatore generale e nei piani particolareggiati di esecuzione.

É fatto obbligo al Comune di segnalare all'Intendenza di finanza, entro tre mesi dall'ultimazione dei lavori o della richiesta della licenza di abitabilità o di agibilità, ovvero dall'annullamento della licenza, ogni inosservanza alla presente legge comportante la decadenza di cui al comma precedente.

Il diritto dell'Amministrazione finanziaria a recuperare le imposte dovute in misura ordinaria per effetto della decadenza stabilita dal presente articolo si prescrive col decorso di tre anni dalla data di ricezione, da parte della Intendenza di finanza, della segnalazione del Comune.

In caso di revoca o decadenza dai benefici suddetti il committente è responsabile dei danni nei confronti degli aventi causa.".

Art. 16

Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, dopo l'articolo 41, è aggiunto il seguente articolo 41-quater:

"I poteri di deroga previsti da norme di piano regolatore e di regolamento edilizio possono essere esercitati limitatamente ai casi di edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico e sempre con l'osservanza dell'articolo 3 della legge 21 dicembre 1955, n. 1357.

L'autorizzazione è accordata dal Sindaco previa deliberazione del Consiglio comunale.".

Art. 17

Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, dopo l'articolo 41, è aggiunto il seguente articolo 41-quinquies:

"Nei Comuni sprovvisti di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, la edificazione a scopo residenziale è soggetta alle seguenti limitazioni:

a) il volume complessivo costruito di ciascun fabbricato non può superare la misura di un metro cubo e mezzo per ogni metro quadrato di area edificabile, se trattasi di edifici ricadenti in centri abitati, i cui perimetri sono definiti entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge con deliberazione del Consiglio comunale sentiti il Provveditorato regionale alle opere pubbliche e la Soprintendenza competente, e di un decimo di metro cubo per ogni metro quadrato di area edificabile, se la costruzione è ubicata nelle altre parti del territorio;

b) gli edifici non possono comprendere più di tre piani;

c) l'altezza di ogni edificio non può essere superiore alla larghezza degli spazi pubblici o privati su cui esso prospetta e la distanza dagli edifici vicini non può essere inferiore all'altezza di ciascun fronte dell'edificio da costruire.

Per le costruzioni di cui alla legge 30 dicembre 1960, n. 1676, il Ministro per i lavori pubblici può disporre con proprio decreto, sentito il Comitato di attuazione del piano di costruzione di abitazioni per i lavoratori agricoli dipendenti, limitazioni diverse da quelle previste dal precedente comma.

Le superfici coperte degli edifici e dei complessi produttivi non possono superare un terzo dell'area di proprietà.

Le limitazioni previste ai commi precedenti si applicano nei Comuni che hanno adottato il piano regolatore generale o il programma di fabbricazione fino ad un anno dalla data di presentazione al Ministero dei lavori pubblici. Qualora il piano regolatore generale o il programma di fabbricazione sia restituito al Comune, le limitazioni medesime si applicano fino ad un anno dalla data di nuova trasmissione al Ministero dei lavori pubblici.

Qualora l'agglomerato urbano rivesta carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale sono consentite esclusivamente opere di consolidamento o restauro, senza alterazioni di volumi. Le aree libere sono inedificabili fino all'approvazione del piano regolatore generale.

Nei Comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione, nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze superiori a metri 25, non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona stessa.

Le disposizioni di cui ai commi primo, secondo, terzo, quarto e sesto hanno applicazione dopo un anno dall'entrata in vigore della presente legge. Le licenze edilizie rilasciate nel medesimo periodo non sono prorogabili e le costruzioni devono essere ultimate entro due anni dalla data di inizio dei lavori.

In tutti i Comuni, ai fini della formazione di nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, debbono essere osservati limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi.

I limiti e i rapporti previsti dal precedente comma sono definiti per zone territoriali omogenee, con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con quello per l'interno, sentito il Consiglio superiore dei lavori pubblici. In sede di prima applicazione della presente legge, tale decreto viene emanato entro sei mesi dall'entrata in vigore della medesima.".

Art. 18

Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, dopo l'articolo 41, è aggiunto il seguente articolo 41-sexies:

"Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione.".

Art. 19

Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, dopo l'articolo 41, è aggiunto il seguente articolo 41-septies:

"Fuori del perimetro dei centri abitati debbono osservarsi nella edificazione distanze minime a protezione del nastro stradale, misurate a partire dal ciglio della strada.

Dette distanze vengono stabilite con decreto del Ministro per i lavori pubblici di concerto con i Ministri per i trasporti e per l'interno, entro sei mesi dalla entrata in vigore della presente legge, in rapporto alla natura delle strade ed alla classificazione delle strade stesse, escluse le strade vicinali e di bonifica.

Fino alla emanazione del decreto di cui al precedente comma, si applicano a tutte le autostrade le disposizioni di cui all'articolo 9 della legge 24 luglio 1961, n. 729. Lungo le rimanenti strade, fuori del perimetro dei centri abitati è vietato costruire, ricostruire o ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie a distanza inferiore alla metà della larghezza stradale misurata dal ciglio della strada con un minimo di metri cinque.".

Art. 20

Alla legge 17 agosto 1942, n. 1150, è aggiunto il seguente articolo 41-octies:

"Il controllo della Giunta provinciale amministrativa sulle deliberazioni dei Consigli comunali, assunte ai sensi della presente legge, viene esercitato entro il termine di 90 giorni dalla data di trasmissione della deliberazione. In mancanza di provvedimenti entro detto termine la deliberazione si intende approvata.".

Art. 21

Le disposizioni della presente legge si estendono, in quanto applicabili, alle Regioni a Statuto speciale e alle provincie di Trento e di Bolzano salve le competenze legislative ed amministrative ad esse spettanti ai sensi dei rispettivi Statuti e delle norme di attuazione.

Art. 22

La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Quando nella presente legge in articoli o commi sostitutivi o aggiuntivi o comunque inseriti nella legge 17 agosto 1942, n. 1150, si fa riferimento alla “entrata in vigore della presente legge”, il riferimento medesimo si intende fatto alla data di cui al primo comma del presente articolo.

In allegato anche il testo della L. 1150/1942 aggiornato alla L 1187/1968 (formati .doc e .pdf)

Art. 1

L’articolo 7 della legge 17 agosto 1942, n, 1150 è sostituito dal seguente:

"Il piano regolatore generale deve considerare la totalità del territorio comunale.

Esso deve indicare essenzialmente:

1) la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti;

2) la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona;

3) le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù;

4) le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale;

5) i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico;

6) le norme per l’attuazione del piano.".

Art. 2

Le indicazioni del piano regolatore generale, nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all'espropriazione od a vincoli che comportino l'inedificabilità, perdono ogni efficacia qualora entro cinque anni dalla data di approvazione del piano regolatore generale non siano stati approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionati. L'efficacia dei vincoli predetti non può essere protratta oltre il termine di attuazione dei piani particolareggiati e di lottizzazione.

Per i piani regolatori generali approvati prima della data di entrata in vigore della presente legge, il termine di cinque anni di cui al precedente comma decorre dalla predetta data.

Art. 3

L'applicazione delle misure di salvaguardia per i piani particolareggiati è, in ogni caso, obbligatoria dalla data della deliberazione di adozione.

Art. 4

Le misure di salvaguardia di cui al precedente articolo continuano ad applicarsi entro il periodo di tempo indicato nell’articolo 3 della legge 5 luglio 1966, n. 517, ai piani particolareggiati adottati dopo l’entrata in vigore della presente legge e non approvati nel termine di cinque anni di cui all’articolo 2.

Art. 5

Il primo comma dell’articolo 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, è sostituito dal seguente:

"Nessun indennizzo è dovuto per le limitazioni ed i vincoli previsti dal piano regolatore generale nonché per le limitazioni e per gli oneri relativi all’allineamento edilizio delle nuove costruzioni.".

Art. 6

La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Da : "Un italiano scomodo", a cura di M.P.Guermandi, V.Cicala, Bologna, BUP, 2007.

Gli anniversari possono rivelarsi scadenze ambigue, a volte ingombranti o pretestuose, che si appiattiscono in formali commemorazioni, funzionali ai rituali accademici; a volte invece divengono necessarie rivisitazioni e analisi rese più lucide dal decantarsi delle contingenze. Talvolta, anche, si tramutano in tagliole della memoria in cui si impigliano ricordi, rimpianti e qualche senso di colpa. Due lustri sono in fondo uno spazio temporale adeguato per una prima decantazione che possa enucleare i motivi fondanti di un’opera, evidenziarne i metodi e dall’altro lato per verificarne la validità in tutto o in parte. E per tentare dei bilanci, anche quelli così limitati e così manichei, di vittorie e sconfitte. In questo anno di commemorazioni uno dei leit motiv che hanno percorso tante delle riletture dell’opera cederniana è costituito proprio da questa ansia di bilanci: credo che questo si debba innanzi tutto al fatto che Cederna è stato, prima di ogni altra definizione, un combattente di una infinita battaglia per la civiltà.

In fase di elaborazione del percorso di ricerca che è all’origine di questo volume ho cominciato in maniera frammentaria per modalità, ma sistematica per ampiezza, la lettura del corpus cederniano edito: mi accompagnavano in queste letture i racconti personali di alcuni dei suoi compagni di viaggio, molti dei quali qui riuniti ad analizzarne percorsi, iniziative, aree d’intervento oppure (o assieme) semplicemente a restituirci un ricordo dell’uomo Cederna.

La sua produzione letteraria, costituita per lo più da articoli su quotidiani e settimanali, poteva ben prestarsi ad un esercizio, per contingenze personali, un po’ discontinuo. Eppure, rileggendo quelle pagine, assieme al disagio crescente spesso provocato da talune descrizioni, risultato certo dell’efficacia della sua prosa, ma ancor più dell’ineluttabilità e dell’evidenza, così attuale e così scomoda, di certe conclusioni e di molte previsioni, uno dei caratteri che mi hanno più colpito è che l’opera di Cederna, pur procedendo per episodi circoscritti - per carattere editoriale e diversificazione di soggetti - possiede una propria straordinaria organicità tanto da risultare persino monolitica quanto a coerenza ideologica.

Cederna tende, fin dalla prima fase della sua attività, a inquadrare gli episodi che descrive, i fenomeni che analizza, in un orizzonte più vasto, per risalire alle cause, certo, e perché possiede una concezione sistemica del territorio e dei suoi problemi. Il territorio è quindi un sistema complesso e fragile in quanto tale, perché in esso ogni elemento che vi viene alterato ne scompone tutto l’equilibrio come nel più delicato degli ecosistemi. E di conseguenza i centri storici sono da interpretare non come insieme di monumenti eccellenti, ma nell’insieme del loro tessuto connettivo, come articolazione organica, complesso contesto di strade e palazzi e così i beni culturali non come emergenze isolate, ma inseriti nel problema più complesso delle città e del paesaggio.

Allo stesso modo Cederna contesta, come arretrata e dannosa, la visione della natura come paesaggio, quando sia inteso come sommatoria di panorami e quindi quasi esclusivamente interpretato nelle valenze estetiche. Possiede, è stato detto, una visione strategica dell’urbanistica nella quale individua lo strumento privilegiato per il governo del territorio. E’ stato detto che Cederna fosse un vero e proprio urbanista: in realtà egli non fu mai (e non ne ebbe mai l’intenzione) un professionista della pianificazione [1], ma seppe portare la divulgazione dei temi urbanistici a un tale livello di chiarezza e inquadrarne i problemi in una visione della città così coerente e ribadita nel tempo da diventare per certo una delle figure di riferimento dell’urbanistica italiana. Fra i primi a capire, con assoluta tempestività di analisi, che le arretratezze delle nostre città in campo urbanistico sono il perverso effetto della costante difesa della rendita fondiaria a livello politico – legislativo; in anticipo su tutti, a livello di comunicazione di massa, diffuse concetti come quello della irriproducibilità e fragilità del suolo. E in controtendenza con il provincialismo che caratterizzava la nostra stampa (e la nostra cultura) pose da subito grande attenzione alle esperienze più avanzate, in campo urbanistico, di ambito europeo - Amsterdam, Stoccolma, Copenaghen, Zurigo - a più riprese additate come modelli a cui ispirarsi. All’ imprinting culturale ereditato dalla borghesia lombarda di stampo illuminista occorrerà far risalire senz’altro la sua vocazione divulgativa e la tenacia assertiva.

Tutti questi elementi connotano l’evidenza della sua attualità, tante volte proclamata e raramente interpretata, forse perché fastidioso sintomo della nostra cattiva coscienza di cittadini distratti e della nostra pigrizia intellettuale. Cederna è attuale non solo perché molte delle sue battaglie sono purtroppo ancora aperte, perché molte delle sue accuse e delle sue descrizioni potrebbero essere riproposte tal quali a venti, trenta, quarant’anni di distanza, lo è ancor più proprio nella capacità di inquadrare i tanti episodi e fenomeni, per lo più negativi, riportandoli sempre ad una analisi complessiva e a ragioni strutturali con le quali ci ritroviamo a fare i conti ancor oggi.

E bisogna leggerle, le date di questi articoli in cui sulla stampa periodica e quotidiana Cederna veniva componendo il suo ritratto - Iliade e Odissea assieme - dell’Italia del dopoguerra, del boom economico, di tangentopoli.

Né apocalittico, né integrato, Cederna, come è stato sottolineato in molti contributi di questo volume, non fu mai solo un critico e un oppositore del mutamento, ma fu studioso in grado di proporre anche soluzioni operativamente efficaci e concretamente realizzabili (il parco dell’Appia, la proposta di legge per Roma Capitale). E i suoi scritti di sintesi si concludono quasi sempre con un’agenda propositiva, in cui il primo punto è invariabilmente dedicato alla necessità di censire, studiare, documentare: conoscere di più per fare meglio: “non si salva, ciò che non si conosce” [2]. La sua azione sempre combattiva e dispensatrice di idee, di iniziative, di alternative non è quella di un semplice conservatore: è per lo sviluppo guidato dalla mano pubblica, per una città moderna ispirata ai criteri dell’urbanistica di stampo nordico che vive accanto alla città storica e per questo ne permette la conservazione nella maniera migliore e più congrua per uno sviluppo ordinato e vitale delle proprie funzioni e in cui la qualità della vita sia garantita a livelli decorosi per tutti.

Né marxista, né crociano, non fu mai contro la proprietà privata intesa come possesso giuridico di un bene, criticando nel marxismo, soprattutto, la sottovalutazione dei problemi del territorio intesi come sovrastrutturali e nell’idealismo la concezione del paesaggio come visione estetica e relegata ad un’apparenza soggettiva e inafferrabile.

Proverbiale la sua pignoleria nella documentazione e nell’elaborazione scritta (sette ore a cartella, il minimo prescritto per ottenere un risultato decente) e l’attenzione che si percepisce per il materiale iconografico, non accessorio, ma parte integrante delle sue analisi. Alla base delle sue inchieste sempre ripetuti sopralluoghi oltre che il vaglio di innumerevoli materiali di prima mano: arrivò a studiare l’olandese per tradurre il piano urbanistico di Amsterdam e poterlo illustrare con precisione d’analisi. Frequentatore attentissimo di convegni, dei quali proponeva accurati resoconti critici, degni, per contenuto, di pubblicazioni specialistiche, ma esemplari per chiarezza e capacità di individuazione degli snodi culturali.

Nel 1949 comincia la collaborazione a “Il Mondo” [3] sulle cui pagine prende a denunciare, fra l’altro, l’urbanizzazione selvaggia che si scatena negli anni delle ricostruzioni postbelliche. L’attività di Cederna, così come è stato messo in rilievo da Francesco Erbani, è perfettamente complementare all’ideologia progressista e laica del periodico di Pannunzio, che in quegli anni veniva denunciando le arretratezze culturali della classe politica e di quella accademica, quando non la loro acquiescenza agli interessi privati più retrivi ed aggressivi e i guasti di un capitalismo distorto, che si poneva al riparo dal rischio d’impresa, rifugiandosi nella passività della rendita immobiliare e fondiaria o nella corruzione [4].

Intanto nasce Italia Nostra (è il 1955) e Cederna ne è tra i fondatori e sarà sempre uno dei soci più attivi in veste di presidente della sezione romana: per Italia Nostra, negli anni, scriverà alcune delle sue sintesi più efficaci e di assoluto rilievo storico [5].

Nel 1956 esce la prima raccolta degli articoli pubblicati su “Il Mondo”, I vandali in casa, dove già presenti sono le tesi di fondo che saranno incessantemente ripercorse e riproposte nell’arco di oltre quarant’anni: quelle per una pianificazione come metodo imprescindibile e garanzia di trasparenza e democraticità; per la tutela della natura e del territorio nel suo complesso perché bene non reintegrabile; il nesso di complementarietà fra antico e moderno per cui, per salvare l’antico, bisogna saper costruire il moderno secondo i criteri di un’urbanistica modernamente intesa. L’incipit de I vandali in casa è una chiamata alle armi a partire da una separazione netta fra chi è vandalo e chi non lo è. Cederna si propone di organizzare contro i distruttori del bello una vera e propria ‘persecuzione metodica e intollerante’ [6]. E inizia una delle battaglie di fondo che caratterizzerà la sua attività nel tempo: quella per la diffusione di una cultura, urbanistica e non, più moderna e per l’incremento di una sensibilità più attenta e profondamente motivata per i temi della tutela dei beni culturali e, in sostanza, per l’allargamento, nell’opinione pubblica, del sentimento di riappropriazione del patrimonio collettivo di città e paesaggio.

Ma nell’introduzione-manifesto de I vandali in casa è anche l’esposizione di uno dei suoi temi privilegiati: la conservazione integrale dei centri storici, premessa obbligata alla loro tutela: la città è cultura, ‘civiltà stessa del vivere e del costruire’ [7]. Da questi assunti trovano linfa, ad esempio, le straordinarie vittorie contro gli sventramenti del tessuto storico di via Vittoria, progettati dalle giunte capitoline dei primi anni Cinquanta e sventati grazie agli appelli di un gruppo di intellettuali, fra i quali Cederna, e assieme la denuncia, quasi solitaria, della progressiva distruzione del centro storico milanese. E inizia, con un famoso articolo del 1953, su “Il Mondo”, I gangsters dell’Appia, la battaglia di una vita, quella per la tutela dell’Appia antica.

Nella furia accusatoria Cederna non fa sconti a nessuno: gerarchie ecclesiastiche, organi di tutela deboli e neghittosi, amministrazioni pubbliche (quella capitolina in primis), classi politica e accademica nel loro complesso, fra cui spiccano, per ignoranza e boria, gli architetti.

Ma oltre che per la solidità e la novità dei contenuti, la polemica cederniana si distingue e si distinguerà sempre per la cifra stilistica che la connota e che ne costituisce elemento di efficacia e riconoscibilità immediato. Nella sua prosa di carattere oratorio e dall’aggettivazione incalzante, i toni variano dall’indignazione all’ironia più acuminata, al sarcasmo vero e proprio: in certi casi Cederna predispone, con le sue descrizioni, quasi una scenografia di una commedia all’italiana di stampo monicelliano, quando non si apparenta alle disarmonie inquietanti di Hieronymus Bosch.

Nei suoi scritti egli dà sfoggio di un uso sapiente degli strumenti retorici finalizzati a dar voce ad uno sdegno in cui l’icasticità della scrittura riproduce la forza emotiva che anima i contenuti. Quelli dell’ironia: tropoi, metalessi, domande retoriche, antifrasi e quelli dell’invettiva: anafore, iperboli, amplificazioni e accumulazioni caotiche, enumerazioni e climax in progressione semantica. E nella reiterazione non esiste quasi mai ripetizione pedissequa, fra un testo e il successivo: Cederna aggiunge sempre qualcosa, approfondisce un’analisi, incrementa i dati documentali, colora di nuovi aspetti la descrizione di un evento, di una situazione, ne definisce più in profondità le conseguenze, ne amplia i paralleli e i confronti. E potremmo in fondo riconoscervi anche in questo caso, l’uso, per così dire espanso, della figura retorica della commoratio: l’indugio ripetitivo sulle idee comunicate finalizzato al loro arricchimento concettuale. Certo i concetti ritornano, e Cederna stesso ammetteva, con civetteria provocatoria: “Scrivo da sempre lo stesso identico articolo, finchè le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose” [8], ma il ricorrere dei concetti è una sorta di necessità reiterativa dovuta al loro carattere episodico, ma ancor di più all’intento pedagogico che lo anima.

Parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustrante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo non poteva essere descritto o definito. L’Italia è, di volta in volta, ‘paese a termine’, ‘espressione topografica delle manovre della speculazione e della rapina privata’, ‘crosta repellente di cemento e asfalto’. E la ‘città a macchia d’olio’ costituisce la prima definizione italiana di sprawl urbano. Gli sventramenti dei centri stirici sono come i clisteri per i medici di Molière, gli obelischi di via della Conciliazione come vecchi candelieri su un comò di campagna. L’assimilazione del Colosseo ad uno spartitraffico è di Cederna, in Mirabilia Urbis [9]. I beni culturali sono vacche sacre: intangibili, ma indesiderati; crosta Adriatica è la riviera romagnola. Espressioni che abbiamo usato tutti, prima o poi, tanto efficaci e lapidarie da diventare insostituibili.

E così le sue unità di misura costruite per evidenziare l’enormità di eventi, progetti e situazioni e la gravità delle loro conseguenze: l’albergo Hilton come misura di ecomostri e lottizzazioni in genere [10]; due sigarette la spesa annuale dello Stato per abitante destinata alle indagini geologiche; mezzo foglio di carta protocollo la dotazione di verde per ogni cittadino romano fra il 1945 e il 1960.

All’inizio degli anni Sessanta Cederna diviene strenuo sostenitore del disegno di legge urbanistica Sullo (è il 1962) di cui sottolinea la novità e la capacità di riallineamento della nostra legislazione alle più progredite normative e prassi europee, riconoscendone anche il merito di aver inserito, per la prima volta, la tutela del paesaggio e dei centri storici all’interno della pianificazione urbanistica [11].

Nel frattempo continua a dedicare molta parte della sua attività giornalistica e non, a Roma, da lui amatissima, pur non essendone la città d’origine e pur così lontana dalla sua impostazione culturale ispirata ad un’etica severa, ma senza moralismi. E a Roma è dedicata la seconda raccolta: Mirabilia Urbis (è il 1965). In essa scopriamo fin da subito l’analista di spietata acribia di documenti ministeriali, il narratore satirico di interminabili sedute comunali capitoline [12] e il ritrattista di feroce sarcasmo di personaggi politici o accademici: valga per tutti l’insuperabile descrizione del “sindaco nero” Cioccetti [13].

In Mirabilia Urbis è la cronaca sempre più dolente dello stravolgimento del piano urbanistico del 1957, ‘il piano degli urbanisti’, elaborato da tecnici competenti e che avrebbe potuto ridare una dignità di pianificazione ad una città preda della speculazione e dell’anarchia edilizia postbellica. Su quel fallimento si innesta la decomposizione urbanistica di Roma ed il definitivo assalto speculativo dei grandi costruttori oltre che l’ammasso delle periferie più tetre e degradate di Europa (le borgate di pasoliniana memoria), al destino dei cui abitanti Cederna riserverà sempre accorati accenti di indignazione sociale.

La raffinata sovracopertina einaudiana anticipa il testo dei risvolti e, nel volume, la sequenza fotografica iniziale - ad opera della moglie Maria Grazia - sintetizza visivamente, con tecnica panoramica precinematografica, l’assunto di fondo dell’insieme testuale: la degradazione della capitale in cui si è già realizzato, nel 1965, lo stravolgimento ironicamente preannunciato nel titolo. E Cederna denuncia anche il totale disinteresse dell’amministrazione nei confronti del problema del verde urbano, la svendita dei parchi delle ville patrizie, lo scempio della costruzione dell’Hilton. E continua la battaglia per l’Appia.

Agli esempi romani sono infine dedicati i primi mirabilia urbis: sorta di vademecum turistici al contrario, di guide rosse dello sfacelo e del degrado che Cederna andrà compilando, nel tempo, col puntiglio del topografo (Appia antica, Campi Flegrei, Palermo, la penisola sorrentina), segnalando abusi, incurie, rovine.

Con l’arrivo al “Corriere” (è il 1967), durante gli anni di Giulia Maria Crespi [14], il suo raggio d’azione si allarga, anche perché nel frattempo è divenuto il vero e proprio collettore di denunce, segnalazioni, proposte che gli provengono da ogni parte d’Italia, il punto di riferimento di quella opinione pubblica ‘qualificata’ (oppure, con termine di nobili ascendenze e di rinnovato successo, ‘società civile’) che va cominciando a formarsi anche per merito della sua attività.

Palermo, Venezia, Firenze, Lucca, Selinunte, Bologna, la situazione dei parchi naturali, delle coste, dei musei. Vere e proprie pagine di storia urbanistica di esemplare documentazione sono gli articoli inchiesta su Napoli del 1974 [15]. Tanto che Leonardo Benevolo ebbe a dire, in quegli anni, scherzosamente:“pensate cosa sarebbe l’Italia se Cederna non fosse pigro”.

La distruzione della natura in Italia, raccolta a tematica più dichiaratamente ambientalista, è del 1975 (dieci anni prima della Galasso): Cederna, che ironizza sugli ecologisti e guarda con sospetto al termine ‘paesaggio’, vi antepone la sintesi ‘Lo sfacelo del Bel Paese’ in cui si scaglia contro il paese delle eterne emergenze, delle calamità che ‘naturali’ sono solo per ipocrita convenzione, che scopre l’urbanistica solo dopo il crollo di Agrigento e la geologia dopo l’alluvione di Firenze. In quelle pagine bacchetta anche i padri costituenti perché disinteressati, nella stesura dell’articolo 11, al problema della conservazione della natura, nelle sue implicazioni urbanistiche e sociali [16]; denuncia ancora “la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria e della rapina privata” [17], il rifiuto delle politiche di piano in ogni settore e la rincorsa, da parte di una classe di governo miope e ottusa, ad un profitto facile e immediato per lo più a vantaggio del privato. Quale rimedio vi contrappone – ancora e sempre – la pianificazione urbanistica come regola suprema di governo del territorio e la conservazione della natura come obiettivo primario di ogni società civile. Talune considerazioni paiono persino anticipare temi degli studiosi della postmodernità, Rifkin in particolare [18].

A seguire, un’analisi senza sconti dei parchi nazionali dell’epoca e della loro gestione, la denuncia della cementificazione delle coste ridotte, per chilometri e chilometri, a informi ‘città lineari’, del dilagare insensato dei porti turistici e degli impianti di risalita e infine, un tema a lui caro, il verde urbano, ridotto nelle nostre ‘città omicide’ a percentuali da prefisso telefonico. Evidenzia, ancora una volta in anticipo su tutti, i danni della ‘valorizzazione (termine che non gli piace) turistica’ in Costa Smeralda, del turismo elitario e di rapina che non regala che briciole all’economia locale e si trasforma in una forma di colonizzazione.

E non manca l’attenzione alle implicazioni economiche: è più vantaggioso risanare, conservare che costruire ex-novo, è più economico prevenire, studiare, che fronteggiare i danni del dissesto idrogeologico. Il recupero dei centri storici creerà nuovi posti di lavoro in quantità maggiore e più qualificati rispetto alla nuova edilizia.

Intanto si schiera a sostegno delle iniziative bolognesi di Sarti e Cervellati per il recupero dell’edilizia abitativa in centro storico [19], denuncia lo ‘scorticamento’ della sua Valtellina, l’assedio del cemento ai siti archeologici, in particolare Paestum; sua l’idea, assieme a Paolo Ravenna, dell’addizione verde di Ferrara che porterà al restauro delle mura cittadine.

Accusatore implacabile del carattere retrogrado e passatista della nostra archeologia della prima metà del ‘900: un coacervo di eruditi incapaci di ergersi a difensori dell’antico contro la montante speculazione e assertori di una concezione retriva e nazionalista della romanità di impronta spesso scopertamente fascista. Per questo lui, archeologo, si scaglia, fin dai primi interventi, contro i retori dell’archeologia e dell’antichità. Summa delle sue battaglie il volume monografico del 1979, Mussolini urbanista nel quale attraverso l’analisi minuziosa delle cronache e degli avvenimenti che ridisegnarono il volto della capitale nel ventennio littorio, Cederna ricostruisce, di fatto, il quadro culturale di un’epoca, e non solo dal punto di vista archeologico-urbanistico. Il risultato di quelle operazioni e i danni irrimarginabili procurati al tessuto urbano e agli stessi monumenti archeologici che si volevano esaltare, sono raccontati con autentico dolore, tanto che le descrizioni cederniane delle ‘povere reliquie disastrate’, dei monumenti come denti cariati’, ‘macerie e ossami calcinati’ sono ormai divenute proverbiali. Ma Cederna non dimentica che il risultato dell’ ‘abbellimento’ del centro storico fu anche e soprattutto il processo di espulsione e ghettizzazione degli abitanti delle classi popolari, condannati, con il trasferimento nelle fatiscenti borgate periferiche, alla marginalità urbana e sociale.

Il volume uscirà in un clima di rinnovata attenzione al patrimonio archeologico romano gravemente minacciato dall’inquinamento: sarà la miccia per accendere il dibattito sul riassetto dell’area archeologica centrale, che vedrà Cederna fra i protagonisti e fra i più accesi fautori della rimozione di via dei Fori Imperiali e dell’elaborazione del progetto Fori che lo vedrà impegnato, quale protagonista, accanto ad Argan prima e a Petroselli poi e a un drappello di urbanisti e intellettuali, nel sostegno del più innovativo progetto urbanistico che Roma abbia conosciuto nell’ultimo secolo, connesso topograficamente e ideologicamente alla creazione del Parco dell’Appia antica, battaglia che continua dopo il successo (temporaneo) del decreto Mancini di destinazione a parco di 2500 ettari di campagna dell’Appia (è il 1965). Nel “Progetto Fori”, al contrario di altri intellettuali, Cederna vede l’archeologia - quella stratigrafica, ‘progressista’, che, ereditando la lezione di Bianchi Bandinelli, prende piede in Italia a partire dai tardi anni sessanta e si raccoglie soprattutto attorno alla rivista “I Dialoghi di Archeologia” - come mezzo per perseguire una finalità urbanistica e come parte di un ragionamento sull’insieme dell’assetto urbano. Il progetto costituirà uno dei punti cardine della proposta di legge per Roma Capitale presentata da Cederna nel 1989 in veste di deputato della Sinistra indipendente: in esso ci si misurava non solo con una visione nuova di Roma, ma la forma urbis diviene l’immagine di una rinnovata ideologia del governo della città.

Più difficili gli anni di “la Repubblica” (dal 1982 al 1996 [20]), più complicati, frastagliati, i rapporti. Come lo stesso Cederna rileva ormai nell’amarissima introduzione a Brandelli d’Italia, l’ultima raccolta (è il 1991), l’attenzione della stampa quotidiana è ormai spasmodicamente tesa alla notizia intesa come evento, catastrofe, disastro. Al contrario Cederna disprezza il “culto maniacale della notizia”, il giornalismo per lui è sempre stato “battaglia costante, continua, tempestiva e preventiva” [21], non semplice registrazione e al più deplorazione di un tragico evento. La continuità della sua denuncia, lo slancio che vi immette avevano fatto dei suoi articoli delle vere e proprie campagne stampa. Negli anni del “Corriere”, in specie, Cederna riesce ad imporre un livello di attenzione per questi problemi impensabile per la stampa odierna, non solo quella quotidiana: nel 1972, in 12 giorni, trasmette 9 articoli sulla conferenza ecologica ONU a Stoccolma . Adesso, negli ultimi anni, lui, urbanista ad honorem, comincia a scontrarsi con il muro di opacità nei confronti dei problemi dell’urbanistica e si deve adeguare ad un sistema mediatico ormai incapace di proporre visioni e analisi complessive e dove è finito il giornalismo d’inchiesta e che si limita a richiamare solo gli eventi spettacolari e mediaticamente spendibili, relegando per lo più i temi urbanistici alle cronache locali.

Persino il linguaggio muta, l’ironia sarcastica che si esaltava nell’aggettivazione a volte feroce e nell’accumulo definitorio in crescendo, lascia il posto ad una amarezza dolente e senza sorriso, come si avverte nei commenti a corredo degli articoli riuniti in Brandelli d’Italia.

Nonostante questo, le sue battaglie conoscono ancora episodi di grande clamore e successi insperati, come quella contro la cementificazione della piana di Castello a Firenze[22]. Sostiene la legge Galasso, ritorna a più riprese a illustrare lo stato di degrado dei musei, in particolare la situazione del museo Torlonia e della Galleria Nazionale di Palazzo Barberini. E’ fra i pochi oppositori delle costruzioni per il Mundial del 1990. E da ultimo, la vittoria, al termine di una appassionata, notturna perorazione di fronte al consiglio comunale capitolino, per lo spostamento del futuro Auditorium al Flaminio[23].

“Conosciamo i giornalisti, si stancano presto”[24]: così la previsione di un funzionario della Pubblica Istruzione, riportata da Cederna stesso, sulle polemiche da lui innescate a proposito del degrado della regina viarum su “Il Mondo” (è il 1953). Oltre 140 gli articoli che scriverà sull’Appia in quarant’anni di infinita battaglia[25]. Censita in ogni metro, ogni centimetro, come quando (L’Appia in polvere) Cederna compila, da perfetto archeologo, il puntiglioso catalogo dei frammenti archeologici abusivamente impiegati a decorazione del muro di cinta della villa di una nota attrice, al civico 223. Sull’Appia seppe mantenere alta l’attenzione fin dai primi anni Cinquanta, quando più arrembante era l’assalto della speculazione, fino alle prime, contrastate vittorie e all’istituzione del Parco Regionale (è il 1988)[26]. Ancora oggi si succedono sull’Appia episodi di degrado, mentre ancora intatte - anche in presenza di ordini di demolizione - permangono alcune delle costruzioni abusive contro cui egli si battè. Solo il 5% del Parco dell’Appia è di proprietà pubblica e continua lo stillicidio delle costruzioni abusive che ha tratto nuova lena dal condono del 2003. A questo le risibili risorse della Soprintendenza poco possono opporre. Però quando Cederna cominciò la sua battaglia, l’Appia era sentita come terreno privilegiato per l’urbanizzazione di alto livello, mentre ora, nella coscienza dei romani, è ormai vissuta come il Parco dell’Appia: patrimonio della città e dei suoi cittadini. E da qualche mese (luglio 2006) è stata inaugurata, nella villa di Capo di Bove lungo l’Appia, recentemente acquisita dallo Stato, la sede destinata ad ospitare la Fondazione Cederna.

‘Cederna non ha vinto. Non poteva vincere’. Così scrisse nel suo necrologio Nello Ajello [27] Certo nello scorrere di una contabilità spicciola tante sono state le sconfitte e, per loro natura, più rumorose delle vittorie e se la sensibilità della cultura nei confronti delle distruzioni dei singoli monumenti e dei beni culturali nel loro complesso è sicuramente aumentata, in altri campi le sue battaglie sono ancora apertissime.

Il prevalere della rendita fondiaria come motore privilegiato di produzione di ricchezza, è ancora un tarlo che mina nel profondo non solo la nostra economia, condannandola in un limbo di arretratezza, ma anche una più sana dinamica sociale e financo democratica. E molto Cederna si preoccuperebbe di questa liaison dangereuse che oggi collega i nostri beni culturali al turismo, in un abbraccio soffocante e in cui riaffiora, al di sotto della nuova patina garantista, la nefasta equazione “beni culturali come petrolio” di una indimenticata, ma non indimenticabile stagione politica e culturale che egli combattè aspramente [28].

Però la diffusione di una più matura consapevolezza culturale della fragilità del nostro patrimonio e del nostro territorio è da annoverare come uno dei risultati più importanti e duraturi della sua attività. Cederna in fondo rappresenta, ante litteram, uno dei migliori esponenti di quella società civile che egli stesso contribuisce a creare e che pur faticosamente si affaccia sulla scena politica e culturale italiana, società civile intesa come insieme di cittadini che credono che perché l’Italia possa divenire un paese moderno e progredito occorre che ciascuno dia il proprio contributo.

Anche grazie a lui, certi scempi non sono più possibili e molto Cederna si sarebbe rallegrato dell’abbattimento del Fuenti (tre asterischi nella sua guida rossa al contrario).

Si sarebbe compiaciuto del recentissimo piano paesaggistico della Sardegna che si propone, fra l’altro, una tutela integrale di quelle coste sulle quali Cederna, fra i primissimi, aveva fatto scattare l’allarme e intravisto tutti i possibili danni di una speculazione miope e senza ritorni per gli abitanti dell’isola.

Come pure avrebbe festeggiato per il recentissimo ampliamento e la riapertura in una sede finalmente consona, della Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini.

Per concludere, non casuale appare che di questo omaggio alla memoria di Cederna si sia fatto carico il nostro Istituto che pur vive una situazione non semplice di transizione, nella quale forse più acutamente diventano necessarie le figure di riferimento, quasi a conforto di un cammino che pare ancora non privo di difficoltà. Lo spirito di Cederna è in fondo molto vicino alle iniziative e attività che l’Istituto Beni Culturali (IBC), anche se con profilo più istituzionale, ha svolto in questi anni e Cederna stesso guardò sempre con molto apprezzamento alla nostra vicenda[29]. Molti di quelli che annoveriamo fra i nostri padri fondatori ne hanno condiviso l’amicizia e le battaglie, da Andrea Emiliani a Pierluigi Cervellati, da Giovanni Losavio a Lucio Gambi[30].

Al termine di questo percorso, ci pare adesso che il sottotitolo prescelto per il nostro volume – attualità e necessità di Antonio Cederna -sia da leggersi in realtà come un’endiadi: Cederna ci è necessario perché è tuttora attuale e la sua attualità risiede soprattutto nell’inalterata necessità di proseguire la sua battaglia di civiltà.

Sull’attualità di Cederna non tutti convengono: soprattutto in campo urbanistico la sua visione sembra attardata e poco moderna in tempi di concertazione propugnata in varie accezioni. Secondo questi parametri, Cederna, che rivendicò sempre sui temi del governo del territorio il primato del pubblico, è visto come un arcaico. Eppure il dibattito politico di questi ultimi mesi, almeno ad alto livello, ha riproposto il tema del ‘bene pubblico’, dell’ ‘interesse generale’ inteso come tutto quello che il singolo (individuo o gruppo) non può tutelare da solo, nei tempi lunghi e diviene quindi, per definizione, interesse e cura della res publica, delle sue leggi e delle sue istituzioni; Cederna, fra i primissimi in Italia, individuò nel territorio e nel patrimonio culturale uno di questi preziosissimi beni comuni: anche per questo Cederna il ‘visionario’, come fu definito tante volte con accentazione negativa, semplicemente ci ha anticipato. E’ tempo di raggiungerlo.

Riferimenti bibliografici e documentari

Testi

A. Cederna, I vandali in casa, Roma-Bari, Laterza, 1956, Seconda edizione, Laterza, 2006 (prefazione e postfazione di Francesco Erbani).

A.Cederna, Mirabilia Urbis, Torino, Einaudi, 1965.

A.Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975.

La Difesa del territorio. Testi per Italia Nostra di Antonio Cederna, Italo Insolera, Fulco Pratesi, Milano, Mondadori, 1976

A.Cederna, Mussolini Urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso, Roma-Bari, Laterza, 1979;seconda edizione Venezia, Corte del Fontego, 2006 (prefazione di Adriano La Regina, postfazione di Mauro Baioni).

A.Cederna, Brandelli d’Italia, Roma, Newton Compton, 1991.

G. Gallerani, C. Tovoli (a cura di), In nome del bel Paese. Scritti di Antonio Cederna sull’Emilia Romagna (1954-1991), Bologna, Quaderni IBC, 1998.

CD

Beni culturali, urbanistica e paesaggio nell’opera di Antonio Cederna, a cura di Ministero per i beni e le Attività Culturali e Centro di Documentazione Antonio Cederna, 1999 (con dossier)

In rete:

Sul sito IBC: Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna. Scritti on-line a cura di Maria Pia Guermandi

Sul sito eddyburg: Antonio Cederna

Sul sito del Parco dell’Appia Antica: Antonio Cederna e la nascita del Parco

Meritorio, anche se non esaustivo e con qualche imprecisione, il censimento degli articoli di Cederna usciti sulle principali testate, pubblicato da Italia Nostra all’indomani della sua scomparsa:

Bollettino Italia Nostra n. 331, agosto 1996: Il Mondo

Bollettino Italia Nostra n. 332, settembre 1996: L’Espresso

Bollettino Italia Nostra n. 333, ottobre 1996: Il Corriere della Sera

Bollettino Italia Nostra n. 334, novembre 1996: la Repubblica

[1] Assieme a Leonardo Benevolo, i suoi interlocutori privilegiati, in questo ambito rimarranno, sopra tutti gli altri, Pierluigi Cervellati a partire dall’esperienza bolognese del risanamento conservativo nel centro storico e Vezio De Lucia, per il piano delle periferie napoletane e le varianti urbanistiche della prima consiliatura Bassolino.

[2] A. Cederna, Territorio, ambiente e dintorni, in Il “rovescio” della città. Catalogo della mostra, Bologna, 13 luglio -23 agosto 1987, Bologna, Labanti & Nanni,1987, p. 14.

[3] La collaborazione con “Il Mondo” terminerà nel 1966, quando la testata chiude; dal 1966 al 1969 Cederna scriverà anche per le riviste “Abitare” e “Casabella”.

[4] F.Erbani, Introduzione, in A. Cederna, I vandali in casa. Cinquant’anni dopo, II ed., Roma-Bari, Laterza, 2006.

[5] Cfr. soprattutto i due dossier a ciclostile, diffusi, nei primi anni Settanta, dalla sezione milanese di “Italia Nostra”, dal titolo, Città senza verde e Appunti per un’urbanistica moderna, pubblicati, nel 1975, nel volume miscellaneo La difesa del territorio, Milano, Mondadori.

[6]A. Cederna, Introduzione, in I vandali in casa, Roma-Bari, Laterza, 1956, p. 31.

[7]Ibidem, p.4.

[8] Si tratta della parafrasi di una citazione da Voltaire. Cfr. C.Cederna, Il mondo di Camilla, Milano, Feltrinelli, 1980, p.241.

[9] Cfr.A. Cederna, in Mirabilia Urbis, Torino, Einaudi, 1965, p. 219. La definizione, ripresa più volte, entrerà poi nell’uso comune.

[10] La cubatura dell’Hilton a Monte Mario contro la costruzione del quale Cederna si era inutilmente battuto, diviene metro di paragone per eccellenza per determinare l’impatto di costruzioni in genere, cfr., ad esempio, a tal proposito, la variante Fiat Fondiaria di Firenze il cui ingombro è misurato in “cinquanta alberghi Hilton di Roma”, v. A. Cederna, Editoriale, in “Bollettino di Italia Nostra”, n. 255, gennaio-febbraio 1988, p.4.

[11] Cfr., fra gli altri, A. Cederna, La difesa del territorio, cit., pp. 69 ss.

[12] Cederna sedette nel Consiglio Comunale capitolino una prima volta dal 1958 al 1961 e, successivamente, dal 1989 al 1993.

[13] Cfr., soprattutto, A. Cederna, Il sindaco nero, in Mirabilia Urbis, cit., pp. 84-95.

[14] Cederna scriverà per il “Corriere” dal 1967 ai primi mesi del 1982.

[15] Si tratta in particolare degli interventi usciti fra giugno e luglio del 1974 e riuniti nel capitolo Napoli città omicida, in Brandelli d’Italia, Roma, Newton Compton, 1991, pp.141-160.

[16] Cfr. A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975, pp. 7 ss.

[17] Cfr Ibidem, p. 11.

[18] Cfr. soprattutto J.Rifkin, The Age of Access, New York, Penguin Putnam Inc., 2000.

[19] Cfr. il capitolo La conservazione dei centri storici in Italia, in G.Gallerani, C. Tovoli (a cura di), In nome del Bel Paese, Quaderni “IBC”,Bologna, Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia Romagna, 1998, pp. 53 ss., che raccoglie gli articoli di Cederna usciti sul “Corriere della Sera” nel novembre 1972.

[20] Nel 1986 inizierà anche la collaborazione con “L’Espresso”, mentre carattere più saltuario ebbero i suoi interventi su “l’Unità”, risalenti, soprattutto, agli anni dell’attività parlamentare in veste di deputato della Sinistra Indipendente: 1987 -1992.

[21] Cfr. A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, cit., p.XV; A. Cederna, Notizia, maledetta notizia, in “Oasis”, 1993 e l’Editoriale, in “Bollettino di Italia Nostra”, 325, dicembre 1995.

[22] Si tratta dell’opposizione contro la variante urbanistica della Fiat Fondiaria presso Firenze, sostenuta in particolar modo da “Italia Nostra” e sulla quale cfr. l’Editoriale di Cederna in “Bollettino di Italia Nostra”, 255, gennaio-febbraio 1988, interamente dedicato alla vicenda.

[23] Cfr. A. Cederna, Coscienza urbanistica, in “il manifesto”, 9 giugno 1991.

[24] Cfr. A.Cederna, La valle di Giosafat, in “Il Mondo”, 2 novembre 1954.

[25] Sull’Appia cfr. in rete, la sezione a lui dedicata nel sito del Parco dell’Appia Antica.

[26] Nel 1993 Cederna fu nominato Presidente dell’Azienda Consortile per il Parco dell’Appia antica e si adoperò in ogni modo perché il progetto del parco decollasse, a volte con contrasti anche aspri con l’amministrazione Rutelli.

[27] N.Ajello, L’uomo che voleva sconfiggere il cemento, in “la Repubblica”, 28 agosto 1996.

[28] Sul tema cfr. M.P.Guermandi, Turisti, eventi, metropolitane e beni culturali: o delle relazioni pericolose, in “IBC”, XIV, 4, 2006, pp. 38-40.

[29] Cfr. soprattutto A. Cederna, Un “fondo europeo per i monumenti” forse potrà salvare i centri storici, in “la Repubblica, 22 ottobre 1983 e A. Cederna, l’Italia che finisce, in “la Repubblica”, 2 ottobre 1984.

[30] Ad un’idea di Lucio Gambi, primo presidente dell’IBC recentemente scomparso, si deve il volume che raccoglie gli scritti di Cederna sull’Emilia Romagna, nel 1998: G. Gallerani, C. Tovoli (a cura di), In nome del bel Paese, cit.

La laurea in architettura l’ha presa solo nel 2004. Honoris causa. Ippolito Pizzetti, il più illustre fra i progettisti di giardini, disegnatore di forme e di profili paesaggistici, oltreché botanico, in realtà si era laureato in Letteratura italiana con Natalino Sapegno, anno accademico 1950. Argomento: Cesare Pavese. E la formazione umanistica ha sempre condizionato il suo sguardo sulla natura.

Pizzetti è morto ieri a Roma. Aveva ottantun anni. «Sono diventato naturalista quasi per caso», ha raccontato una volta. «Come Vita Sackville West», diceva. Il suo sogno era quello fin da quand’era bambino, ma con il passare degli anni nella sua vita è comparsa la letteratura, sono apparsi Goethe e Stifter, Lawrence e Thomas Hardy. «Non mi rendevo conto che diventavo un paesaggista leggendo Etruscan places di Lawrence oppure Nachsommer di Stifter».

Pizzetti è stato un cultore del paesaggio come luogo al quale si accede da molti punti d’osservazione, ma la cui fisionomia mescola le competenze, scioglie le discipline che rischiano, se fossilizzate, di sezionarlo a seconda se chi lo percepisce è un esperto di fiori, di architettura o di estetica. È stato il primo in Italia a ritagliare uno spazio specifico, dal punto di vista culturale, per la cura, la manutenzione e il restauro del verde. Pizzetti è stato insegnante universitario (prima a Roma, Venezia, Palermo, ora a Ferrara) e autore di saggi ( Il libro dei fiori del 1968, diventato poi una Garzantina nel 1998, Piccoli giardini, Robinson in città. Vita privata di un giardiniere matto). Gran parte della sua popolarità è legata alla collaborazione a giornali e riviste (dal 1975 al 1985 ha curato la rubrica "Pollice verde" sull’ Espresso, ma ha scritto anche per il Corriere della Sera, per La Stampa e molto per Repubblica), diventando divulgatore in un senso pieno del termine. Infine è stato progettista, da solo e con celebri architetti: fra gli altri, Ludovico Quaroni, Giancarlo De Carlo, Gino Valle, Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino. In tutte queste occasioni ha saputo offrire di un paesaggio e di un giardino un’immagine unitaria, un assetto definito nei suoi aspetti fisici e compositivi. Di essi ha fornito la narrazione viva, scrutandoli nella loro storia, nella storia dei loro elementi, nelle relazioni che intessono con il contesto.

Nel paese in cui il cemento avanza con andatura militaresca, Pizzetti non ha fatto mancare la sua voce quando si è trattato di difendere i diritti del verde - il verde inteso sia nella sua componente più naturale che in quella di artificio. È stato lui, ad esempio, a denunciare insieme ad altri la distruzione del patrimonio di ulivi secolari in Puglia.

Era nato a Milano, figlio di Ildebrando, musicista di grande notorietà durante il fascismo, operista e organizzatore culturale. Ma ha vissuto quasi sempre a Roma. Dopo la laurea, si è impegnato come traduttore. Si racconta sia stato Pietro Citati, un giorno, verso la metà degli anni Sessanta, a chiedergli un parere su un libro di orticoltura che stava per essere pubblicato da Garzanti. Pizzetti lo giudicò noiosissimo. «Perché non lo scrivi tu?». Nacque così Il Libro dei fiori, seguito dalla collaborazione all’ Espresso.

Negli ultimi anni Pizzetti abitava fra la Cassia e Corso Francia, in una palazzina con un grande terrazzo esposto a mezzogiorno. Un giardino può vivere anche sul terrazzo di un quartiere residenziale, teorizzava. Perché il giardino è l’espressione di una poetica. E questa può realizzarsi ovunque. Ma il suo paesaggio ideale era un paesaggio del Nord, ha detto una volta in una intervista. «Penso alla quercia e all’ornello, che sono le piante del Nord, come quelle del Sud sono l’ulivo, la sughera e il carrubo». Aveva in mente un bosco profondo, ormai scomparso.

Nelle sue fibre si agitava una vena polemica che si condensava in una scrittura asciutta e colta, tagliente e argomentata. «È assurdo», diceva, «ma in Italia i giardini non hanno alcun rapporto con le piante del luogo. I parchi pubblici, in Emilia, sono pieni di conifere. Le ha volute la moda, il gusto dell’altro, il rifiuto di piante che sentissero le stagioni». Cercava di bandire i luoghi comuni. Detestava i boschi costruiti, diceva, dalla forestale, da improvvisati botanici «che distruggevano il paesaggio delle coste piantando forsennatamente eucalipti». Un’avversione, quella per gli eucalipti, che faceva il paio con quella per le ossessioni geometriche. «Fin dall’infanzia ho avuto un profondo orrore per la geometria», e ciò lo rendeva diffidente verso il giardino all’italiana. Il giardino era ai suoi occhi come l’otium dei latini, il luogo di un piacere privato, un piacere che si esaltava nella cultura araba perché si nutriva di odori e di tatto. «Invece nella tradizione cattolica un giardino può essere bellissimo, ma resta un luogo di peccato, come quello di Klingsor, nel Parsifal».

Fino a che non gli hanno dato la laurea honoris causa era un paesaggista non architetto. Non la sentiva come una diminuzione. «I giardini io non li disegno, io vado sul luogo e decido come mettere le piante, poi magari faccio anche fare un disegno: ma per me è molto più importante conficcare dei bastoncini nel terreno e dire: qui ci va questo, qui quest’altro».

Fiorentino Sullo è una figura tragica ed emblematica della vicenda urbanistica italiana che ha determinato anche la sua biografia personale e politica. Nato a Paternopoli (Avellino) il 29 marzo 1921 è morto a Salerno il 3 luglio del 2000. Laureato in giurisprudenza e in lettere. Deputato per 41 anni, dalla I alla XI legislatura. È stato il più giovane deputato all’Assemblea costituente. Uno dei capi storici della Democrazia cristiana, fondatore della corrente di Base. Più volte sottosegretario, ministro dei Trasporti nel governo Tambroni del 1960, si dimise quando quel governo ottenne la fiducia con i voti determinanti del Movimento sociale italiano. Il suo nome resta però legato alla proposta di riforma urbanistica, basata sull’esproprio preventivo delle aree fabbricabili, presentata quando era ministro dei Lavori pubblici nel quarto governo Fanfani (1962-1963) e nel successivo governo Leone (1963). Sconfessato dal suo partito, fu ancora ministro per la Pubblica istruzione (1968-1969), per la Ricerca scientifica (1972) e per l’Attuazione delle regioni (1972-1973), ma lentamente e progressivamente emarginato dalla vita politica che abbandonò definitivamente nel 1987.

La proposta di riforma urbanistica che porta il nome di Fiorentino Sullo e la cronaca della sua clamorosa bocciatura sono illustrate nei documenti che seguono. Qui interessa soprattutto mettere in luce la “lunga durata” della sua dannazione. Ancora oggi non mancano politici e amministratori che di fronte a scelte urbanistiche coraggiose si tirano indietro sostenendo che non intendono fare la fine del ministro Sullo. Tant’è che penso di poter motivatamente sostenere che nel 1963 fu compromessa per sempre la possibilità di dotare il nostro paese di una legislazione moderna in materia di urbanistica.

La prima inquietante dimostrazione della forza di chi si opponeva alla riforma fu il tentato colpo di stato da parte di esponenti delle forze armate nell’estate del 1964 al tempo della formazione del secondo governo Moro (1964-1966). Nel dicembre dell’anno prima, nelle dichiarazioni programmatiche alla Camera del dicembre 1963, in occasione del primo governo Moro (1963-1964), lo statista dedicò molto spazio alla nuova legislazione sui suoli, che riprendeva in larga misura le linee della proposta Sullo. Moro dichiarò infatti, tra l’altro, che tra gli obiettivi da perseguire era compresa:

l’avocazione alla collettività nella misura massima possibile delle plusvalenze comunque determinatesi e la creazione di un meccanismo che eviti la formazione di nuove rendite per il futuro. Il governo ritiene che la strumentazione atta al raggiungimento dei fini della politica economica e sociale che coinvolgano l’utilizzazione del territorio debba trovare il suo fondamento nel regime pubblicistico del mercato della aree fabbricabili.

Nel programma del secondo governo Moro (luglio 1964), la riforma urbanistica è invece del tutto cancellata. Che era successo? Quarant’anni dopo, all’inizio del 2004, polemizzando con Paolo Mieli che riteneva infondata l’ipotesi del colpo di stato del luglio 1964, Eugenio Scalfari scrisse che il complotto c’era stato: “Il business italiano, già colpito dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica, tremava al pensiero che i socialisti volessero attuare la nazionalizzazione dei suoli edificabili, che avrebbe spezzato la speculazione sulle aree ed avrebbe impresso un corso diverso allo sviluppo delle città, delle coste, insomma del Paese”. L’analisi di Scalfari non è una novità. Nella Storia e cronaca del centro-sinistra di Giuseppe Tamburrano si legge che “la nazionalizzazione dell’industria elettrica non suscitò le ostilità degli ambienti economici che incontrò invece la riforma urbanistica”. Lo stesso Tamburrano ricorda quanto scrisse Pietro Nenni nel suo diario a proposito degli interminabili incontri con la Dc nel luglio 1964: “La bomba scoppiò quando Moro disse, col suo solito tono distaccato, che il presidente della repubblica non avrebbe mai firmato una legge la quale comportasse l’esproprio generalizzato dei suoli urbani”. Nenni intravide un “balenar di sciabole” e indusse i socialisti a ripiegare.

Un altro episodio, ancor più tragico e tenebroso, addebitabile agli oppositori della riforma furono le bombe di Milano e Roma del 12 dicembre1969 che misero in moto la strategia della tensione. Attenti osservatori (per primo Antonio Cederna) videro in essa il tentativo di ostacolare, innanzi tutto, le ipotesi di riforma urbanistica e dell’intervento pubblico in edilizia che erano state imposte dalla possente manifestazione sindacale che si svolse in occasione dello sciopero nazionale del 19 novembre del 1969.

La nuova legge urbanistica sembrò realizzata nel 1977, per merito di un altro importante ministro riformatore, il repubblicano Pietro Bucalossi. Ma tre anni dopo, all’inizio del 1980, la prima di una serie di sentenze della Corte costituzionale obliterò non solo i contenuti innovativi della legge Bucalossi ma anche le norme che agevolavano il ricorso all’esproprio per pubblica utilità del 1971. Comincia così, con gli anni Ottanta, la lunga stagione della controriforma urbanistica, che non finisce mai. I portatori degli interessi fondiari e speculativi hanno ormai vinto, le intimidazioni e le trame eversive non sono state inutili.

I nostri lettori sanno che nel 2005, alla fine della XIV legislatura, quella del secondo governo Berlusconi, la Camera dei deputati ha approvato (con il voto favorevole di 32 deputati del centro sinistra) il cosiddetto disegno di legge Lupi, dal nome del deputato di Forza Italia Maurizio Lupi, che intendeva sancire definitivamente la privatizzazione dell’urbanistica, rendendo addirittura obbligatoria l’intesa con la proprietà per qualsivoglia trasformazione urbanistica. Siamo esattamente agli antipodi della proposta Sullo. L’approvazione del testo Lupi da parte del Senato, che era data per scontata, fu scongiurata anche (e forse soprattutto) grazie alla mobilitazione organizzata da eddyburg.

I testi proposti dall’antologia in questa Pagina di Storia



Il Discorso al Senato con cui il ministro dei Lavori pubblici sottolinea come la riforma urbanistica sarà nelle sue intenzioni uno dei pilastri: dell’azione ministeriale e di quella complessiva del governo. Da Edilizia Popolare , maggio-giugno 1962.



Tre diversi articoli, tutti estratti da Urbanistica n. 36-37, 1962, a partire dall’ampia introduzione al progetto di legge di Giovanni Astengo dal titolo Urbanistica in Parlamento, poi la Relazione illustrativa della proposta di legge, così come elaborata dalla Commissione presieduta da Sullo, e infine l’articolato del Progetto di Legge urbanistica, così come elaborato nel giugno 1962 e proposto all’attenzione del CNEL.



Un piccolo gruppo di note, dalla stampa di partito dell’aprile 1963, che documentano come la Democrazia Cristiana si dissocia dal suo ministro, iniziando a ufficializzarne l’emarginazione, prima politica e poi, gradualmente, anche personale (estratti dal volume di documenti a cura dello stesso Sullo, Lo scandalo Urbanistico , Vallecchi 1964).

Un altro estratto da Lo Scandalo Urbanistico, in cui Sullo argomenta (presumibilmente col senno di poi) la sua idea di Interesse pubblico e privato nei piani regolatori.



Due articoli dal periodico “ideologico” del PCI, Rinascita. Uno di Lucio Magri, del 24 agosto 1963, intitolato Una legge per le Città, in cui si confrontano le intenzioni di Sullo, gli equilibri nel suo partito, le posizioni della sinistra e gli interessi reali del paese. Uno di Aldo Natoli, del 25 aprile 1964, Parabola di Sullo, in cui la recensione dell’appena pubblicato Lo Scandalo Urbanistico diventa occasione per riflettere sulla contingenza politica italiana che ha determinato la radicalizzazione dello scontro e il naufragio della legge urbanistica.



Un estratto da Fondamenti di Urbanistica , di Edoardo Salzano, Laterza 2003 (2° ed. accresciuta) in cui si riassumono in una prospettiva storica La proposta di Fiorentino Sullo e la sua sconfitta.

L’on. Fiorentino Sullo, ministro dei Lavori pubblici nel primo governo di centro-sinistra, diretto dall’on. Fanfani, ha raccolto nel volume Lo Scandalo Urbanistico (Firenze, Vallecchi 1964) la documentazione del sorgere e del tramontare in seno alla DC delle illusioni riformatrici nel campo dell’urbanistica. È una parabola che inizia dal congresso di Napoli e dalla successiva formazione del governo Fanfani, che ha il suo corso più rapido e ascendente durante l’estate del 1962, raggiunge il punto più elevato alla fine di settembre, al Congresso ideologico della Democrazia cristiana a San Pellegrino e, subito dopo, inverte la propria direzione e precipita miseramente insieme, del resto, a tutto il castello programmatico del primo governo di centrosinistra.

Il 30 settembre 1962 l’on. Sullo, parlando a San Pellegrino non lesinava l’audacia delle sue affermazioni: “La legge urbanistica sarebbe più rivoluzionaria, non dirò della legge di nazionalizzazione dell’industria elettrica, che è proprio nulla rispetto a una seria legge urbanistica, ma persino della legge di riforma agraria”, ed individuando possibile una prossima soluzione aggiungeva: “Sarebbe veramente una grande vittoria per la Democrazia cristiana se non aspettasse altre legislature per porre a fuoco questo problema sotto la pressione di altre forze politiche”.

Non sappiamo fino a che punto l’on. Sullo, pronunciando queste parole, si cullasse nelle sue generose illusioni, ovvero intendesse, così, di esercitare una pressione sulle potenti forze che già si erano messe in movimento (e lui lo sapeva) per insabbiare lo schema di una nuova legge urbanistica che, durante l’estate, era stato approntato dalla Commissione di studio da lui stesso nominata. Questo schema costituiva allora, senza dubbio, il punto più avanzato cui era giunta l’elaborazione della cultura urbanistica, partita alla fine del ’60, dalla impostazione del “Codice dell’Urbanistica” del X Congresso dell’INU. Nel quadro dell’ordinamento regionale e integrata con la programmazione economica, la nuova disciplina dello sviluppo urbano era fondata su tre punti essenziali, annunziatori di una vera e propria riforma dell’assetto proprietario del suolo urbano: l’esproprio generalizzato, l’agganciamento delle indennità di espropriazione al prezzo dei terreni agricoli, l’introduzione del diritto di superficie. Sembra probabile che Sullo – le sue parole di San Pellegrino lo indicano – pensasse di giungere attraverso l’instaurazione del regime pubblicistico del suolo urbano e di un titolo di possesso precario di esso, ad una sorta di nazionalizzazione del settore. Dalla lettura attenta della sua prefazione e dal riscontro dei documenti raccolti nel volume risulta però in modo inoppugnabile che, mentre egli pronunciava le parole che abbiamo sopra riportate, aveva già rinunciato a parte del suo programma ed aveva avuto anche numerose occasioni di registrare segni non equivoci di resistenza ed opposizioni insuperabili. Anzitutto Moro, allora segretario della DC, si era opposto all’introduzione del diritto di superficie. Sullo, sia pure riluttante, aveva accettato di rinunziarvi. Ma ciò non era bastato. Come si sa, lo schema di legge non fu mai discusso dal Consiglio dei ministri: Fanfani si diceva d’accordo con il testo studiato e infatti le osservazioni tecniche della presidenza del Consiglio, riportate nel volume, non riguardano che minori questioni di dettaglio, senza toccare la struttura dello schema. Fanfani, a quel che dice Sullo, fece sempre riferimento ad una opposizione più generale di Moro, che funzionò come un vero e proprio veto e che colse come risultato il dirottamento dello schema di legge al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, dove esso doveva rimanere definitivamente insabbiato.

Invero – scrive Sullo a p. 15 della prefazione – nell’ottobre 1962 avevo ancora qualche illusione sull’iter della legge. Mi sembrava che convenisse al governo Fanfani almeno approvare in Consiglio dei ministri il disegno di legge. Certo, il Parlamento non avrebbe avuto il tempo per discutere il testo. E la legge sarebbe stata rinviata alla ventura legislatura. Nondimeno in sede governativa, si sarebbe potuto precisare sul piano politico il punto di vista del governo”.

Curiosa e patetica confessione. Dunque erano bastati pochi giorni dal convegno di San Pellegrino (30 settembre) perché Sullo fosse costretto ad abbandonare l’illusione che “ la Democrazia cristiana non aspettasse altre legislature per porre a fuoco il problema”. Ciò malgrado, egli si illudeva ancora che lo schema innovatore di legge urbanistica potesse diventare elemento qualificante del programma del governo e della politica di centro-sinistra, anche, è evidente, in viste delle elezioni ormai prossime.

Al Consiglio nazionale della DC, il 12 novembre 1962, Sullo aveva cercato di contrastare l’attacco doroteo condotto da Rumor, Colombo e Piccoli, diretto a bloccare il programma del governo relativo all’approvazione delle leggi per l’ordinamento regionale. Non mancò anche di fare un cenno alla legge urbanistica: “ Vi è sul tappeto una proposta di legge urbanistica. La DC la accetta? La rigetta? La emenda? Se manca la nostra iniziativa, gli altri colmeranno il vuoto” (dal resoconto del Popolo, 12 dicembre 1962).

Nessuna risposta ebbero questi angosciosi interrogativi. L’anno e mezzo trascorso da allora ci permette, stando nella favorevole posizione di chi non ha che da ricapitolare avvenimenti recenti, di constatare come le speranze dell’on. Sullo fossero completamente ingiustificate e potessero essere formulate solo perché egli non si rendeva conto di essere del tutto isolato all’interno del suo partito.

Egli non aveva ancora avvertito che il colpo d’arresto alla politica e “avanzata” del centro-sinistra, era stato già deciso e veniva solo consacrato in quel Consiglio nazionale per condurre alla liquidazione del programma del governo nel gennaio 1963 e ad una campagna elettorale nella quale la politica del centro-sinistra era ormai ridotta ad un nome vano. Era dunque fatale che, durante quella campagna elettorale, la DC nella fretta di sbarazzarsi di zavorra progressista, per ritrovare la grande massa dei suoi elettori di destra, gettasse a mare il ministro dei Lavori pubblici, per darlo in pasto agli squali della speculazione edilizia, schierati con il partito liberale. Raramente è capitato di vedere un caso come questo, di spregiudicato, meglio sarebbe dire cinico linciaggio di un uomo politico. Obbediente alle direttive di Moro, Sullo, nella seduta della Camera dei deputati del 23 ottobre 1962, aveva pur chiarito che il diritto di superficie “ poteva essere omesso” dalla legge. Ma ciò non bastò, perché la DC e il suo segretario Moro sentissero se non il dovere, almeno il bisogno di difendere e sostenere il ministro dei Lavori pubblici del governo in carica di fronte all’attacco furioso e demagogico della speculazione. Al contrario, egli fu pubblicamente sconfessato. Non si può fare a meno di fare un confronto con la condotta seguita dalla DC nei confronti di altri suoi esponenti, da Togni a Colombo a Jervolino, coinvolti e corresponsabili in gravissimi episodi di disordine amministrativo e tuttavia strenuamente difesi, e mantenuti a galla, costi quel che costi.

Ma Sullo, nel 1962, agli occhi del segretario dc, era colpevole di ben altro: leader di una corrente della sinistra dc, aveva avuto il torto di credere ingenuamente al contenuto rinnovatore del Congresso di Napoli e del programma del governo Fanfani; aveva voluto realizzare nel settore urbanistico una riforma al cui confronto, la stessa nazionalizzazione dell’energia elettrica sarebbe apparsa “proprio nulla” e ciò proprio nel momento in cui le forze moderate, neocentriste della DC, erano già passate al contrattacco, lanciando lo slogan “mai più nazionalizzazioni”. Sullo, sorpreso in contropiede, non poteva che finire in fuorigioco. Ciò era inevitabile, soprattutto per il modo con cui egli era giunto a farsi assertore della riforma urbanistica. La DC, come partito di governo del paese e della maggioranza dei comuni, aveva sempre dimostrato la più completa e opaca sordità di fronte ai problemi dello sviluppo urbano. Al contrario, più volte era apparsa direttamente compromessa, o addirittura protagonista degli scandali clamorosi della speculazione. Esemplare, il caso del comune di Roma. Tutta l’azione per la riforma urbanistica era stata condotta, per un decennio, dalle sinistre, comunisti in prima fila. Fu soltanto nel 1961 che l’on. Zaccagnini, ministro dei Lavori pubblici nel governo Fanfani “delle convergenze”, iniziò per la prima volta lo studio della riforma urbanistica. Ma tale studio si concluse con la redazione di un progetto di legge che era un passo indietro rispetto allo schema presentato alla fine del 1960 al congresso dell’INU. Esso fu seppellito senza cerimonie nella primavera del 1962, quando l’on. Fanfani presentò al Parlamento il programma del governo di centro-sinistra. A questo punto entrava in scena Sullo, neofita ed entusiasta di fronte ai problemi urbanistici. L’errore, il vero, grave errore di Sullo consisté, e consiste, nell’aver creduto di poter varare la riforma solo grazie all’aiuto di una commissione di saggi, di tecnici, di illuminati. Abbiamo già dato un giudizio positivo sul lavoro di quella commissione. Ma come poteva sperare Sullo che una riforma così complessa, che investiva il rinnovamento della struttura statale attraverso l’attuazione delle regioni; che presupponeva il varo della programmazione; che colpiva frontalmente gli interessi parassitari della proprietà fondiaria urbana – così intimamente collegata con certi gruppi dirigenti del partito dc e, soprattutto, con l’amministrazione di potenti istituti religiosi e della stessa S. Sede - , come poteva Sullo illudersi che una riforma simile sarebbe passata senza una dura lotta politica nel seno stesso del suo partito e del governo; senza una inevitabile scelta delle forze politiche capaci di sostenerla, prima ancora che nel Parlamento, nel pese!

Nelle 500 pagine del volume si cercherebbe invano un solo indizio che un barlume di tale consapevolezza abbia mai fugacemente illuminato i ragionamenti e l’azione politica dell’on. Sullo. Per questo, nell’autunno del 1962, egli non riusciva a capire le “ obiezioni teoretiche” di Moro e le esitazioni di Fanfani: per questo, nella campagna elettorale del 1963, lo sfrenato attacco scatenato contro di lui dalle “ grandi immobiliari” gli appare come una “ allucinazione generale”, che gli fa vivere la vita di ogni giorno in un “ tragico clima pirandelliano”.

In realtà egli, ingenuo apprenti sorcier, non poteva che divenire il capro espiatorio nel momento del riflusso centrista che scuoteva la DC. Con gelido cinismo, Moro, che pure aveva già ottenuto da lui la rinuncia al famigerato diritto di superficie, disponeva la pubblica dissociazione delle responsabilità della DC da quelle del suo ministro dei Lavori pubblici. Dopo il 26 aprile, a conclusione della vicenda, lo stesso Moro, nel compromesso della Camilluccia, proponeva a Nenni (che accettava) l’abbandono delle velleità riformatrici di Sullo e la rinuncia ad ogni azione innovatrice nel settore urbanistico.

La vicenda che risulta dalla documentazione raccolta da Sullo e dalla prefazione che la precede, in quanto espressione degli orientamenti politici prevalenti del gruppo dirigente della DC, alla luce degli avvenimenti che hanno portato alla costituzione del governo Moro-Nenni e all’esperienza dei cinque mesi, da allora trascorsi, non può che portare a preoccupanti considerazioni circa gli sbocchi della crisi attualmente in corso. Sintomatico e sconcertante in vista del Congresso della DC deve essere considerato l’ingresso dello stesso Sullo nella corrente unificata moro-dorotea, dove sono raccolti tutti i più convinti avversari della riforma urbanistica, cui si sono contemporaneamente associati uomini come Pella e Andreotti. Con questo passo si direbbe che Sullo abbia tratto dalla amara esperienza degli anni 1962-1963 la lezione peggiore, quella che toglie valore di protesta morale e politica alla sua denuncia e tende a ridurla a un mero espediente tattico nella lotta per il potere all’interno della DC.

Ciò segna anche l’inizio del suo tramonto come capo politico, forte di un certo margine di autonoma determinazione, e lo incammina sulla melanconica strada di quei notabili, di cui è così ricca la provincia democristiana.

La proposta del ministro Sullo

Autore della proposta che risolve alla radice il problema della rendita fondiaria urbana è Fiorentino Sullo ministro democristiano dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962. Preso atto che “la stragrande maggioranza degli urbanisti non si dichiarava d’accordo” con lo schema elaborato dalla commissione insediata da Zaccagnini, ricostituisce la stessa commissione, integrandola con giuristi, economisti, sociologi[1].

Il disegno di legge Sullo è pronto nel giugno 1962. La riforma è impostata su basi completamente nuove ed originali. Per quanto riguarda i rapporti tra programmazione economica e pianificazione urbanistica, il progetto stabilisce che l’indirizzo e il coordinamento della pianificazione urbanistica debbono attuarsi nel quadro della programmazione economica nazionale ed in riferimento agli obiettivi fissati da questa. In attesa della costituzione degli organi che saranno preposti all’attuazione del piano economico è prevista l’istituzione di uno speciale comitato di ministri che provvede ad impartire le direttive.

La pianificazione urbanistica si articola, sia nella fase regionale che statale, agli stessi livelli e con gli stessi dispositivi previsti dal progetto Zaccagnini: piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato.

Il piano regolatore generale e quello comprensoriale - quando questo ha valore di piano generale - sono obbligatoriamente attuati per mezzo di piani particolareggiati, le cui prescrizioni hanno valore a tempo indeterminato e nel cui ambito il comune promuove l’espropriazione di tutte le aree inedificate (fatta eccezione per quelle demaniali) e delle aree già utilizzate per costruzioni se l’utilizzazione in atto sia sensibilmente difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato, nonché delle aree che successivamente all’approvazione del piano particolareggiato vengano a rendersi edificabili per qualsiasi causa.

Acquisite le aree, il comune provvede alle opere di urbanizzazione primaria e cede, con il mezzo dell’asta pubblica, il diritto di superficie sulle aree destinate ad edilizia residenziale, che restano di proprietà del comune. A base d’asta viene assunto un prezzo pari all’indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione e di una quota per spese generali. Quando si tratta di aree richieste da enti pubblici operanti nel settore edilizio, da società cooperative aventi gli stessi fini, ovvero nel caso in cui le aree siano adibite ad utilizzazioni industriali, la cessione avviene a trattativa privata.

L’indennità di espropriazione è determinata, per i terreni non edificati e non aventi destinazione urbana prima dell’approvazione del piano, in base al prezzo agricolo; per i terreni non edificati, ma aventi già destinazione urbana, in base al prezzo dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione, aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo fissato dal comitato dei ministri, e infine, per i terreni edificati, in base al valore di mercato della costruzione.

In sintesi, lo schema Sullo modifica profondamente il regime proprietario delle aree: di proprietà privata resta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree - edificate o edificabili - passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani.

Il 14 luglio del 1962, la presidenza del Consiglio dei ministri - a cui Sullo aveva trasmesso il disegno di legge - comunica di “condividere in linea di massima i criteri informatori della nuova disciplina urbanistica” e muove solo osservazioni di natura tecnica. Del suo disegno di legge Sullo parla pubblicamente in più occasioni: al convegno ideologico della DC a San Pellegrino, nel settembre. a chiusura del dibattito parlamentare sul bilancio del Ministero dei Lavori Pubblici, in ottobre; ed al IX congresso dell’Inu, a Milano, nel novembre. Nessuna particolare reazione viene suscitata dalla pubblicità che gli urbanisti, e lo stesso Sullo, organizzano intorno alla proposta di riforma.

In attesa di un parere del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), il Consiglio dei ministri, però, rinvia l’esame del provvedimento[2]. Ci si avvicina così alla scadenza della legislatura ed alle elezioni politiche della primavera del 1963.

La sconfitta del 1963

È nell’aprile del 1963 (le elezioni sono fissate per il 28 aprile) che si scatena “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa (in primo luogo“Il Tempo”, di Roma) contro il Ministro dei lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. È lo stesso Sullo che racconta:

“A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa. […] Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento, nell’ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie. Si sarebbe potuto fare a meno. Non c’era che una strada: spiegare al video a milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito dalle mie. Fui sbalordito per l’oggettiva ingiustizia morale verso di me”[3].

Con una “dolorosa nota” del 13 aprile “Il Popolo” comunica che la DC dissocia la propria responsabilità dall’operato del ministro Sullo. “Se i lavoratori - commenta Sullo - non erano sufficientemente mobilitati a favore della legge, la mobilitazione dei proprietari di case era invece massiccia”

“Le grandi immobiliari trovarono terreno fertile nella primavera del 1963. E lo trovano ancora. La sociologia ci aiuta a individuare i loro alleati, che non sono immaginari. L’invenzione del pericolo della proprietà della casa fu l’arma più forte, ma non la sola. A parte l’allucinazione sulla pretesa rivoluzione del diritto di proprietà, bisogna riconoscere che il clima del “miracolo economico” aveva (ed ha) creato aspettative in tutti i proprietari potenziali di aree, anche periferiche e suburbane, soprattutto i più piccoli. E questi hanno reagito. Ora non c’è nulla di peggio che un sogno infranto. Ho ricevuto lettere, in questi mesi, che sono rivelatrici di un diffuso stato d’animo. Dalla Romagna, un cittadino si lagnava perché la legge urbanistica gli avrebbe “confiscato” un ettaro di terreno sul quale aveva sperato di costruire la dote delle figliole! Non ci si rende conto che il moltiplicarsi di questi “sogni ad occhi aperti” dei piccoli proprietari terrieri suburbani è incompatibile con altre richieste che gli stessi proprietari fanno allo Stato democratico, in quanto cittadini che aspirano, ad esempio, al diffondersi della scuola ed ad un più razionale sistema di sicurezza sociale. I “sognatori ad occhi aperti” sono tuttavia lottatori furibondi per la realizzazione del sogno, mentre i lavoratori che hanno bisogno dell’area a basso prezzo sembrano rassegnati all’attesa. E lottano debolmente per la legge urbanistica”[4].

Sullo resta ministro dei Lavori pubblici nel “governo ponte” presieduto da Leone nell’estate del 1963, ma alla costituzione del primo governo organico di centro sinistra viene sostituito dal socialista Pieraccini[5]. Negli accordi tra i partiti per la formazione del governo Moro, viene concordato che la riforma urbanistica deve assicurare la preminenza dell’interesse pubblico, attraverso l’acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie e la posizione di “indifferenza” dei proprietari rispetto alle scelte di piano. Su queste basi viene elaborato il disegno di legge Pieraccini: si conserva il principio dell’esproprio generalizzato, l’indennizzo però non è pari al prezzo agricolo ma è rapportato al valore di mercato del 1958. Il diritto di superficie è abolito e sono esonerati dall’esproprio le aree interessate da progetti presentati prima del 12 dicembre 1963. Mentre la proposta di legge cadeva insieme al governo, in tutta Italia vengono rilasciate una valanga di licenze edilizie.

Nella vicenda della riforma urbanistica aveva vinto in definitiva quello che Valentino Parlato, qualche anno dopo, definirà “il blocco edilizio”: un blocco sociale ed economico nel quale, attorno agli stati maggiori della proprietà fondiaria urbana, della grande proprietà immobiliare e del capitale imprenditoriale e finanziario (volta a volta alleati alle forze della rendita o in timido conflitto con loro), si aggregano le “fanterie” dei piccoli proprietari di case o aspiranti tali, dei risparmiatori, degli artigiani e dei lavoratori legati alla produzione edilizia[6].

[1] La commissione, presieduta dall’on. Sullo è costituita dal presidente di sezione del Consiglio di stato Roehrssen (vice presidente), dai giuristi Benvenuti, Giannini, Savarese e Rubino, dagli urbanisti Astengo, Piccinato e Samonà, dai sociologi Ardigò e Compagna, dai funzionari ministeriali Valle e Spanò. Segretari sono Mario D’Erme e Aurelio Prestianni. Cfr. F. Sullo, Lo scandalo urbanistico, Firenze, 1964, p. 287.

[2] “Sa Iddio come avvenne, invece, che in Consiglio dei ministri il testo del disegno di legge non giungesse mai. Io posso attestare che, in numerosi colloqui con me, Fanfani si dichiarò sempre personalmente favorevole al testo studiato, ma ogni volta concludeva esortandomi a convincere Moro, segretario politico del partito di maggioranza relativa, a fare opera di persuasione su Moro! Ed io rispondevo che avevo già accolto da Moro l’invito a rinunciare al diritto di superficie. E che altre obiezioni di fondo (prima del 28 aprile 1963) non c’erano state, da parte di Moro. Vincendo le mie esitazioni, Fanfani dispose l’invio del progetto al Cnel. Molti oppositori vollero vedere in questa disposizione un tentativo di affossamento. Espressi, nell’ambito parlamentare, opinioni opposte: si voleva spianare la strada al progetto evitando errori tecnici e soprattutto rassicurando implicitamente l’opinione pubblica che non si sarebbe ripetuto il dibattito-lampo (o dibattito-fulmine) della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Rimase in me il dubbio sui “lunghi tempi” che furono consentiti al Cnel, me nolente, e sulla decisione (che neppure fu mia) di non discutere (anche a fine gennaio) il disegno di legge in Consiglio dei ministri con che si sarebbe lasciato, come Campilli suggeriva, al Cnel di fornire direttamente, come fu fatto per i disegni di legge agricoli, il parere alle Camere” (F. Sullo, cit., pp. 15-16). Il parere del Cnel, successivamente predisposto da Petrilli e Senin, è favorevole ai princìpi della proposta Sullo. Ivi, pp. 383-439.

[3] Ivi, pp. 17-18.

[4] Ivi, p. 21.

[5] “Avevo desiderio di rimanere ministro dei lavori pubblici per fare la legge urbanistica e per provare che le paure della primavera del 1963 erano grossolane: che si viveva in un clima rovente di passioni e di allucinazioni. Credevo di aver diritto a dimostrare non solo la buona fede, ma il mio realismo. E tuttavia, avrei cercato di non affossare i princìpi fondamentali della riforma. Altri non ha apprezzato sufficientemente gli aspetti morali di questa mia richiesta e le cose sono andate diversamente!” (Ivi, p. 24).

[6] Valentino Parlato, Il blocco edilizio, in “il manifesto”, nn.3-4, 1970. Ripubblicato in: “Lo spreco edilizio”, a cura di F. Indovina, Marsilio, Padova 1972.

La legge urbanistica

La legge più importante sarà la legge urbanistica, sulla quale vi sono tante attese nel Paese, e che, a mio avviso, vale quanto una riforma di struttura. Abbiamo avuto un rigoglio imprevisto di alcune nostre città; abbiamo un trasferimento continuo di gente che dalla campagna si addensa in grandi metropoli. La legge urbanistica del 1942 è giunta a vecchiezza senza essere giunta a giovinezza. Ha cominciato ad essere applicata negli anni 1953-1955 ed allora era già come un abito stretto per la struttura demografica del Paese. La legge urbanistica è studiata prima da una Commissione nominata dal mio predecessore onorevole Zaccagnini. Ho dovuto però, utilizzando in parte gli elementi di quella Commissione ed in parte immettendone i nuovi, far studiare di bel nuovo il problema alla luce di criteri nuovi da una nuova Commissione. Debbo ringraziare da questo banco tutti i valorosi docenti universitari, gli uomini pratici del diritto, della tecnica e dell'economia che hanno partecipato con tanta passione ai lavori della Commissione: in particolare i tre architetti che già facevano parte della precedente Commissione, Astengo, Piccinato e Samonà; l'economista Lombardini; i sociologi Compagna e Ardigò; i giuristi Giannini e Guarino. A tutti debbo rivolgere il più vivo ringraziamento, senza escludere naturalmente i valorosissimi funzionari e ausiliari dell' Amministrazione, come il Consigliere di Stato Roehrssen, l'avvocato dello Stato Savarese, il Presidente di Sezione Valle. Come il senatore D'Albora ha ricordato, la legge urbanistica in primo luogo deve essere configurata come una legge quadro nei confronti delle Regioni. É una necessità. Se è giusto che le Regioni abbiano il compito di definire la politica urbanistica, non si può consentire che tale compito . possa snaturarsi con lo stabilire un sistema di espropriazioni e di vincoli terrieri diverso dalla Sicilia alla Toscana e alla Lombardia. Il costituente, decentrando l'urbanistica, non ha inteso attribuire poteri che riguardano diritti costituzionali che non possono che essere uguali per tutti i cittadini italiani. Questi aspetti debbono essere chiariti nell'ambito di una legge-quadro a carattere unitario. Ma noi, senatore D'Albora - dico noi perchè come Presidente della Commissione, anche se l'ho presieduta soltanto all'inizio e alla fine, credo di avere avuto una parte nei lavori della Commissione - non abbiamo lavorato intorno a una legge la quale badi soltanto al futuro. Vi è una parte della legge che verrà attuata immediatamente a prescindere dalla istituzione delle Regioni. La legge dovrà funzionare dal momento in cui sarà approvata dal Parlamento: sia prima che le Regioni abbiano deliberato in materia, sia successivamente, quando le Regioni abbiano finalmente deliberato. Vi è una parte che ha carattere transitorio. Bisognerà fare in modo che si eviti la speculazione terriera e nello stesso tempo attenui la sperequazione tra i proprietari. Oggi un proprietario vincolato deve pagare le imposte e un proprietario non vincolato tende a costruire fino a livelli impossibili per ottenere la massima valorizzazione del suolo. Questo è elemento di perturbazione ai fini di un'articolazione razionale della città. Fino a quando ci sarà la corsa di chi vuole utilizzare il suolo per ottenere il massimo in contrasto con chi invece si trova ad essere sfortunato perchè vincolato, la città non si potrà costruire organicamente. O si adotta il sistema del comparto, che però occupa determinati aspetti negativi, o si adotta il sistema proposto dalla Commissione per cui i Comuni comprano, lottizzano, urbanizzano e poi vendono all'asta anche a privati.

Non voglio anticipare una discussione. Desidero soltanto assicurare che la legge è stata studiata con accuratezza, e non con intenti oppressivi nei confronti di questa o quella classe, di questa o quella categoria, ma con la visione realistica di chi vuole che le città si accrescano in maniera organica e la corsa alla speculazione cessi. Una armonica crescita delle città veramente tutti desideriamo. Il Parlamento italiano voglia favorirla con una politica urbanistica coerente.

Lo schema predisposto consta di 87 articoli suddivisi in 5 titoli.

Alcune norme, quelle di carattere generale, stabiliscono i rapporti tra la programmazione economica nazionale e la pianificazione urbanistica, affermando il principio della preminenza della programmazione economica nazionale e della necessità che la pianificazione e l'attività urbanistica si adeguino a tutto ciò che forma oggetto del programma economico. Fino a quando non sarà stato costituito apposito organo di programmazione, le direttive saranno formulale da un Comitato di Ministri presieduto dal Presidente del Consiglio.

La pianificazione urbanistica viene distinta in 4 gradi dipendenti l'uno dall'altro e cioè: piani regionali, piani comprensori, piani regolatori generali comunali e piani particolareggiati.

Tale suddivisione, pur non discostandosi gran che dalla ripartizione attuale, si differenzia sostanzialmente da essa sia perchè il contenuto e l'efficacia dei vari piani sono profondamente aggiornati, sia perché, per taluni di essi, l'adozione diventa obbligatoria.

Naturalmente, diversi sono gli organi preposti all'attuazione ed all'approvazione dei quattro tipi di piano a seconda che essi vengano adottati prima o dopo l'attuazione delle regioni e la emanazione, da parte di queste, delle relative leggi urbanistiche.

Si è previsto, in ogni caso, che i piani regionali, i quali hanno indubbiamente un contenuto che supera quello meramente urbanistico e si permea di notevoli addentellati economici, vengano approvati con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il parere del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, su deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Per la disciplina delle aree fabbricabili nelle zone di espansione urbana e della conseguente attività edilizia, lo schema prevede nell'ambito di ciascun piano particolareggiato, obbligatorio per i Comuni espressamente individuati in sede di piano comprensoriale, l'espropriazione di tutte le aree edificabili da parte del Comune, il quale è tenuto ad attuare sulle stesse, prima di devolverle all'utilizzazione edilizia, le opere di urbanizzazione primaria. Successivamente il Comune procede alla vendita all'asta dello ius ad aedificandum sulle aree urbanizzate: con possibilità, peraltro, di cessione diretta di tale diritto ad Enti che operano nel settore dell'edilizia economica e popolare.

Il problema finanziario connesso a tale disciplina è risolto col sistema del pagamento dell'indennità di espropriazione, che, al pari della materiale apprensione dei beni, può essere differito entro un anno; tale termine appare sufficiente per mettere in moto un meccanismo di rotazione delle somme occorrenti ai Comuni.

L’attuazione del sistema è altresì garantita da una speciale gestione urbanistica prevista per i Comuni, i quali dovranno farvi affluire ed attingervi, rispettivamente, i prezzi di vendita ed i prezzi di acquisto dei suoli.

Infine, altre norme fondamentali previste nel progetto riguardano l'esclusione di qualsiasi deroga in materia edilizia rispetto ai piani approvati ed ai regolamenti edilizi comunali; nonché una più drastica normativa sanzionatoria per l'ipotesi di violazione alle concesse autorizzazioni a costruire, la quale può arrivare sino alla confisca delle parti costruite in difformità. Il disegno di legge dovrà essere discusso con i competenti Ministeri e portato allo esame del Consiglio dei Ministri. In questa fase ogni suggerimento ed ogni critica, anche della stampa e degli organismi specializzati e delle associazioni interessati, saranno attentamente vagliati.

Il secondo semestre del ‘62 è caratterizzato, per quanto riguarda l’urbanistica nel nostro Paese, da due fatti fondamentali: l’entrata in vigore della legge 18 aprile 1962, n. 167, e la ultimazione del progetto per la nuova legge urbanistica.. compilato dalla commissione nominata e presieduta dal Ministro Sullo.. e sottoposto in questi mesi al parere del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.

La legge 167 sull’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare rappresenta 10 sbocco, in vero assai tardivo.. di un disegno di legge che, presentato dapprima dal Ministro Romita, quindi riportato in Parlamento dal Ministro Togni, ha impiegato sette anni per superare il vaglio di due legislature e di varie commissioni parlamentari. Confrontando il testo finale con quello iniziale c’è da domandarsi se gli emendamenti apportati durante il lungo iter costituiscano effettivi e sostanziali benefici per il pubblico interesse, tali da giustificare la lentissima gestazione, o se non sarebbe stato assai più efficace, per la finalità stessa della legge, approvare celermente il testo primitivo.

Non si deve infatti dimenticare che la proposta di legge è uscita originariamente dal Ministero dei Lavori Pubblici quando i Comuni già si trovavano in difficoltà per il reperimento di aree a basso costo, in quantità ed ubicazione adeguata, per l’edilizia statale promossa, a getti discontinui e sovrapposti, dalle numerose leggi allora operanti, quando l’INA-Casa, esaurito il programma del primo settennio, stava ormai impostando quello per il secondo periodo settennale, quando l’esigenza del coordinamento operativo dell’edilizia statale e sovvenzionata aveva già trovato una sua embrionale espressione con la formazione del CEP (1954), quando, cioè, era facilmente constatabile che la legge stessa, anche se resa immediatamente operante, sarebbe giunta in ritardo, tenuto conto dei tempi tecnici di attuazione, rispetto al momento di massima piena degli stanziamenti statali.

La stessa durata ristretta del piano e la procedura d’urgenza, istituita per la sua redazione, pubblicazione ed approvazione, erano misure eccezionali, rispondenti a questa esigenza di bruciare le tappe, di ricuperare il tempo perso, di stimolare indirettamente la formazione dei piani comunali generali, per garantire ai vari stanziamenti statali, sia pure nella loro fase discendente e finale, una possibilità di corretto impianto urbanistico a costi ragionevoli.

L’appoggio dell’INU al disegno di legge Romita volle allora significare il consenso ad uno strumento semplificativo delle procedure normali, adeguato a situazioni contingenti, e che, se pure imperfetto (basti ricordare la clausola della variante automatica dei piani regolatori per mezzo del piano settoriale dell’edilizia popolare, fin dall’inizio denunciata come inaccettabile) poteva tuttavia servire di innesco per la redazione dei primi piani particolareggiati, facilitandoli con la riduzione del temuto piano finanziario ad una semplice previsione di spesa, e per la formazione di una prima rata di demanio comunale, con procedura abbreviata rispetto all’art. 18 della legge urbanistica.

Queste prospettive sono cadute nel nulla a causa, come è noto, dell’infausto abbinamento, in sede parlamentare, fra una legge elementare, come quella a favore dell’acquisizione delle aree fabbricabili per l’edilizia popolare, ed una complessa e controversa come quella per l’imposta sulle aree fabbricali, abbinamento che, anziché a favore, si è in definitiva risolto tutto a danno della prima.

L’aver richiamato le situazioni di partenza e d’arrivo della legge 167, che nasce, come era del resto prevedibile, scompagnata dalla sua gemella adottiva, ci è parso utile non tanto come motivo di rimpianto, quanto per cercare di capire quale possa essere oggi la funzione di questa legge nel quadro della mutata situazione odierna: ad esaurimento di quegli stessi fondi, per il più razionale e spedito utilizzo dei quali era stata predisposta, ma anche alla vigilia di un nuovo programma decennale, ancora in elaborazione, di investimenti statali nel settore dell’edilizia).

Si può cosi amaramente constatare che la 167 giunge talmente in ritardo rispetto ai programmi di edilizia statale e sovvenzionata degli anni ‘50, da essere per lo meno in anticipo rispetto a quelli degli anni ‘60.

A parziale compenso del tempo e delle occasioni perdute abbiamo oggi una formulazione indubbiamente più estensiva di quella originaria, nella finalità e nei mezzi della legge. Due sono le innovazioni sostanziali: la estensione della applicazione alla edilizia economica, sia sovvenzionata che di libera iniziativa, ed il riferimento, per l’indennità di espropriazione, al valore che / i terreni avevano due anni prima del piano, con la stabilizzazione dodecennale di tale valore.

Sull’utilità sociale della prima non vi possono essere dubbi: che a fruire dell’acquisto a prezzo di costo delle aree espropriate, pianificate ed urbanizzate, siano non solo gli Enti statali e parastatali, ma anche cooperative ed Enti statutariamente privi di scopo di lucro e che, inoltre, agli stessi benefici possano accedere, entro certe condizioni e misure, anche i privati è certo un fatto positivo, che apre e sviluppa te finalità stesse della legge ed incita le Amministrazioni locali a darsi un programma edilizio decennale.

Non si possono tuttavia tacere alcune perplessità sul blocco dodecennale del prezzo dei terreni ricadenti nel piano. Originato dal lodevole proposito di frenare l’ascesa dei prezzi delle aree edificabili, particolarmente acuta negli ultimi anni, e di garantire all’edilizia economica e popolare l’acquisto di aree scevre da rialzi speculativi, stabilizzando al tempo stesso i prezzi in modo da consentire una più tranquilla attuazione degli investimenti, il congegno escogitato appare tuttavia non immune da difetti e tale da creare situazioni di grave sperequazione. Basta infatti considerare che, quando il piano blocca terreni esterni non ancora rivalutati da operazioni speculative o da lottizzazioni, si determina all’istante una situazione di sperequazione fra terreni bloccati e terreni liberi, sperequazione che diventa particolarmente acuta ed evidente nel caso di proprietà contigue, l’una inserita nel piano (con utilizzazione rinviata magari agli ultimi elenchi annuali), e l’altra di libera utilizzazione, che fruirà, nel frattempo, degli incrementi di valore per le opere di urbanizzazione che il Comune è obbligato a provvedere a servizio dell’ area vicina.

Ne è da escludere, infine, il caso in cui il blocco dei prezzi giochi a sfavore della collettività, premiando paradossalmente gli alacri lottizzatori col garantir loro una stabilità di alti prezzi artificiosamente raggiunti; situazione, questa, tutt’altro che improbabile per i terreni siti nelle frangie semi-urbanizzate delle città, dove il gioco speculativo di questi ultimi anni ha ottenuto i massimi incrementi.

Infine, non sono da poco anche i motivi di perplessità di ordine strettamente operativo. Nei Comuni obbligati a redigere il piano per l’edilizia economica e popolare, e cioè in tutte le grandi città, la presentazione obbligatoria e simultanea, in limiti di tempo eccezionalmente brevi, di tutti i piani particolareggiati, relativi alle aree prescelte per una previsione decennale, non solo comporta comprensibili difficoltà redazionali, con tutti gli inconvenienti di una elaborazione affrettata ed eseguita per parti, ma anche il rischio di condizionare e di cristallizzare per un decennio le direttrici di espansione per l’intera città a mezzo di un piano settoriale troppo precipitosamente formato.

I prossimi mesi ci diranno se e quanto erano giustificate queste apprensioni: per intanto segnaliamo che al 15 di novembre, data di scadenza dei 180 giorni fissati dalla legge per la redazione dei piani ai Comuni con oltre 50.000 abitanti 0 capoluoghi di provincia, e che interessano in complesso circa 20 milioni di cittadini italiani, un numero limitatissimo di piani sembra giunto a compimento poiché la maggior parte dei Comuni ha chiesto la proroga.

Il fatto è che la 167, perso il primitivo carattere di legge congiunturale a tempi brevi in funzione di precisi stanziamenti per l’edilizia statale e sovvenzionata, ha oggi assunto una ben più impegnativa funzione di obbligatoria formazione di piani particolareggiati per una rilevante aliquota dell’espansione residenziale; senonché a questa nuova dimensione, mentre si pone come elemento di rottura dell’immobilismo amministrativo, essa rivela al tempo stesso una intima fragilità, ne si dimostra in grado di risolvere i problemi e le contraddizioni che essa stessa suscita.

In definitiva, la 167 fornisce una ulteriore testimonianza sulla insufficienza delle soluzioni settoriali ed un’altra prova della improrogabile esigenza di una visione globale, quale solo la nuova legge generale urbanistica è in grado di prospettare.

La presentazione ai Ministeri interessati ed al CNEL della proposta di legge urbanistica che porta la firma del Ministro Sullo ha dato esca ad accese discussioni, sollevando opposizioni e consensi: in articoli di giornali e di riviste [1] si è giunti a tacciare la proposta di inefficienza e di incostituzionalità., accusandola di condurre alla paralisi edilizia assoluta, di favorire la corruzione e la persecuzione politica e di mirare all’annientamento della proprietà. Privata.

Quanto queste accuse siano fondate e legittime, e se siano mosse da una effettiva e disinteressata preoccupazione del bene pubblico o non piuttosto dalla trasparente difesa di ben precisi interessi di parte, non è difficile constatare purché si esamini con il dovuto distacco il testo della proposta che pubblichiamo nella sua versione integrale [2].

Per comprendere il disegno nella sua interezza occorre intanto tener presente che la proposta costituisce, essa stessa, una revisione del testo elaborato dalla Commissione interministeriale insediata dal Ministro Zaccagnini [3], revisione resasi necessaria per gli impegni assunti dal Governo di centro-sinistra in relazione alla programmazione economica ed alla istituzione delle Regioni. Orientamento, questo, destinato ovviamente ad incidere fortemente ed in modo definitivo sul contenuto dei piani, sulle procedure di formazione e di attuazione e sugli organi ad esse preposti e che le recenti decisioni governative in materia regionale [4], fanno ormai ritenere di imminente attuazione, rendendo pertanto inattuali quelle soluzioni a carattere unicamente interlocutorio e compromissorio in materia regionale che avevano informato il testo della Commissione Zaccagnini.

La proposta della nuova legge urbanistica, conformata per espressa direttiva del Ministro Sullo come “legge cornice”, appare oggi, non solo perfettamente aderente ai più recenti sviluppi del programma del governo, ma anche cosi tempestiva da poter offrire immediatamente un primo e basilare contenuto per l’attività normativa ed amministrativa delle istituende Regioni. Anche la stretta correlazione fra pianificazione urbanistica e programmazione economica, esplicitamente affermata dalla proposta di legge e chiaramente individuata negli scopi e negli organi, non sotto specie di subordinazione dell’una all’altra forma di pianificazione, ma come atto continuo di intesa fra i responsabili della vita pubblica nazionale e regionale, pone il disegno di nuova legge urbanistica come uno degli strumenti più attuali e più espansivi dell’attività economica e dell’intervento pubblico. Cosicché i piani urbanistici ai vari livelli e, di conseguenza, i procedimenti per la loro formazione, approvazione ed attuazione assumono nel processo di ammodernamento dell’ordinamento statale, sempre più il carattere di strumento fondamentale per la scelta democratica degli interventi pubblici e privati e per la loro corretta e razionale organizzazione spazio-temporale, e si rivelano sempre più indispensabili, quanto più accelerato e complesso diventa il ritmo di sviluppo economico e quanto più si estende il decentramento responsabile sul terreno delle autonomie locali.

Su questo punto di partenza non dovrebbero ormai esservi dubbi, ma giova tenerlo ben presente, per comprendere le varie dosature del contenuto dei piani. In sede nazionale il contenuto economico è preminente, in sede regionale l’economico e l’urbanistico si equilibrano, in sede comprensoriale il contenuto urbanistico prevale su quello economico, pur ancora ben presente, in sede comunale l’urbanistico è decisamente dominante. Il contenuto economico prevale per sua natura al vertice, s’interseca a metà strada con l’urbanistico e si affievolisce alla base, perché le scelte economiche reclamano una ampiezza di prospettiva ed una visione globale che sfuoca e svanisce man mano che si scende alla localizzazione territoriale, dove le scelte economiche ammettono spesso ampi gradi di libertà, mentre le scelte urbanistiche traggono la loro ragione d’essere proprio dalle particolarità territoriali: sono acutamente a fuoco alla base, sul terreno, ma diventano via via più sfumate ed approssimate man mano che i territori considerati si ampliano, ammettendo alla scala regionale e nazionale un maggior numero di alternative. La esatta compenetrazione dei due contenuti ai vari livelli si presenta dunque come elemento innovatore della legislazione e come fattore chiarezza e di propulsione nel processo deliberato delle varie Amministrazioni pubbliche.

Passando ora alla materia più strettamente urbanistica e non potendo ovviamente toccare tutti gli aspetti, ci limiteremo a coglierne alcuni essenziali, sia di carattere procedimentale, sia di carattere sostanziale.

Tra i primi è da illustrare brevemente la portata dei piani comprensoriali, cosi come configurati dal disegno di legge.

L’organo per la pianificazione comprensoriale è definitivamente il Consorzio dei Comuni interessati, i quali possono demandare al Consorzio stesso alcune loro funzioni urbanistiche. Il piano comprensoriale, che è essenzialmente un piano territoriale, funge anche da piano regolatore generale nei territori dei Comuni non tenuti alla sua formazione: da esso è quindi possibile discendere direttamente alla formazione dei piani particolareggiati, anche in Comuni non dotati di P.R.G. Con questo accorgimento si potranno conseguire notevoli risultati di snellimento procedurale e di rapido intervento localizzato, particolarmente utili nei piccoli Comuni privi di attrezzatura tecnica; inoltre lo stesso esercizio collegiale dei poteri di pianificazione, garantendo il reciproco controllo, dovrebbe agire da stimolo per l’espansione delle responsabilità e per la rottura delle visioni campanilistiche.

Alla tendenza spontanea, centripeta e congestionatrice, delle aree metropolitane potrebbero, in questo clima di rinnovamento, contrapporsi, con concreta possibilità di successo, le nuove tendenze di proiezione dell’urbanizzazione in una campagna organizzata.

Venendo ora all’esame delle norme relative alle limitazioni dell’uso della proprietà del suolo urbano, che costituisce il problema di fondo di ogni legislazione urbanistica, occorre rilevare che la proposta di legge è orientata ad eliminare, ed in ogni caso attenuare, nel limite del possibile, il processo delle multiple e successive sperequazioni che ogni forma di piano, che definisca e prescriva destinazioni d’uso del suolo, necessariamente determina nei confronti delle singole proprietà.

Com’è noto, il processo avviene, concettualmente, per gradi: alla prima scelta delle determinazioni d’uso per grandi classi, che discrimina sostanzialmente aree cui sono attribuite, o no, utilizzazioni urbane, ne subentra una seconda, in cui le grandi classi si suddividono in sottoclassi: le zone residenziali si articolano per differente indice di edificabilità ( spesso con un ventaglio di valori estremamente ampio) , quelle infrastrutturali in una serie, assai varia, di usi, determinando situazioni di accentuata sperequazione non solo nei valori, ma anche nella disponibilità stessa delle aree.

A questa seconda serie di sperequazioni se ne aggiunge una terza, spesso trascurata ma non meno reale, che riguarda il computo dell’indennità per le aree destinate a scopi o servizi di utilità pubblica e per le quali è ammesso, dalle leggi operanti in materia, il procedimento di espropriazione con differenti criteri di determinazione e con procedure più o meno lunghe, faticose e farraginose, che creano difficoltà non indifferenti agli Enti esproprianti, e disparità di trattamento nei confronti degli espropriati: buon’ultima la 167.

La legge urbanistica vigente, in tema di sperequazioni si limita ad affermare genericamente la non indennizzabilità dei vincoli di zona. Il principio, se applicato alla prima operazione di classamento fra suolo urbano e non urbano, è evidentemente accettabile, perché tale discriminazione dovrebbe sempre rispondere ad esigenze e scelte di esclusivo carattere superindividuale; il terreno agricolo, non modificando in perdita la sua destinazione d’uso attuale (salvo i casi, ben rari, di una limitazione anche di tale uso), non è quindi suscettibile di indennizzo. Il principio è in definitiva pacifico e lo si ritrova in tutte le legislazioni estere.

Senonché se si ammette che l’uso’urbano sia fonte di lucro, con valori proporzionali all’uso e commisurabili con i parametri della destinazione dell’intensità di fabbricazione e della giacitura, è inevitabile che ai margini della città, sulla linea di demarcazione urbano-non urbano, si scatenino le lotte e che, secondo gli elementari e secolari principi di tattica, la lotta tenda a spostarsi dalla linea di demarcazione per esser portata il più estesamente e profondamente possibile nelle retrovie: le lottizzazioni extraurbane confermano ampiamente questo stato di cose. All’interno della linea di demarcazione urbana non sono da meno le lotte intestine per l’ aggiudicazione di una redditizia destinazione d’uso o per l’elevazione degli indici di edificabilità. È una situazione ben nota, che intorbida la redazione dei piani, esplode nelle osservazioni in sede di pubblicazione, e sfocia in pressioni di ogni genere. Contro queste aggressioni dall’esterno e dall’interno, le Amministrazioni pubbliche sono oggi impotenti per carenza di legge.

Si è più volte affermato nei congressi, che si sarebbe usciti da questa situazione solo quando si . fossero resi i proprietari indifferenti al piano; ma non facile si presentava la soluzione.

Le proposte avanzate in questo campo, alla ricerca di sistemi riequilibratori, basati a volte su imposizioni fiscali proporzionate agli incrementi conseguiti o contemplanti compensazioni monetarie fra plus e minus valori creati dal piano, o, ancora, impostati sulla perequazione dei volumi edificabili, quale quello proposto dal nostro Istituto [5] e che la Commissione Zaccagnini aveva accettato, hanno rivelato, ad un esame più approfondito, difficoltà pratiche che ne hanno consigliato l’ applicazione generalizzata.

Infatti, come ha recentemente detto il Ministro Sullo alla Camera parlando della proposta di legge in sede di approvazione del bilancio dei LL.PP., “ l’introduzione di una imposta sulle aree fabbricabili ha la caratteristica di ridurre le diversità, senza eliminarle, perché è intrinseco allo stesso concetto di imposta di non costituire una confisca[6]. La compensazione monetaria è applicata in paesi ( come nella Germania federale) in cui vige la denuncia annuale del valore delle aree e dove l’Amministrazione pubblica si riserva il diritto di prelazione delle aree al prezzo denunciato. La ‘perequazione dei volumi sarebbe un istituto nuovo applicabile solo in sede di piano particolareggiato, necessariamente planovolumetrico, che non risolverebbe quindi le situazioni di saldatura o di conflitto tra piano e piano e che richiederebbe inoltre la istituzione di complessi e costosi servizi amministrativi. Infine, nessuno di questi sistemi è in grado di risolvere anche e contemporaneamente il problema dell’acquisizione delle aree per i pubblici servizi, secondo un criterio equo ed unificato.

La soluzione prospettata tende a risolvere contemporaneamente tutti questi problemi. “I criteri ai quali si ispira il progetto di legge predisposto sotto la mia presidenza - ha dichiarato il Ministro - si possono cosi riassumere:

a)procurare la certezza che i compilatori dei piani urbanistici nell’assolvere questo delicatissimo compito abbiano di mira esclusivamente gli interessi pubblici; liberare le autorità amministrative ed i tecnici urbanistici dalle pressioni degli interessi privati settoriali; rendere possibile una pianificazione rapida, efficiente, che sia adeguatamente elastica e possa essere coordinata con le esigenze di sviluppo economico dell’intera collettività;

b)consentire che i Comuni ed i soggetti pubblici interessati acquisiscano ad un prezzo equo le aree che siano indispensabili per i servizi pubblici e sociali; liberare cioè i Comuni dalla schiavitù rappresentata dagli insostenibili oneri finanziari attuali;

c)porre tutti i proprietari, in relazione agli effetti della legislazione urbanistica, su un medesimo piano di parità; impedire che la costruzione della città si traduca per gli uni in un danno, per altri in un enorme vantaggio;

d)semplificare al massimo i servizi urbanistici e contenerne il costo di gestione”.

Il sistema adottato dall’acquisizione preventiva delle aree e della loro urbanizzazione è, d’altra parte, quello stesso dell’art. 18 della legge urbanistica, e quello della 167, entrambi generalizzati e migliorati per ciò che concerne il criterio di valutazione dell’indennità di esproprio.

Con la generalizzazione cadono le sperequazioni residue tra aree di piano ed aree marginali e con il criterio di valutazione unificato scompaiono le sperequazioni derivanti dagli scopi della espropriazione, oggi esistenti per la pluralità di leggi al riguardo e che costituiscono una vera distorsione giuridica; diventa superfluo il criterio del blocco dodecennale istituito dalla 167 e cade infine ogni discriminazione di trattamento a seconda della dimensione dei Comuni.

Se si riflette poi alla estensione che l’applicazione della I67 sta assumendo nelle periferie delle grandi città ci si rende conto che l’urgenza di ristabilire un criterio unico ed equitativo è ormai indilazionabile.

L’accettazione del principio generalizzato dell’ acquisizione ed urbanizzazione preventiva delle aree di espansione porta alla conseguenza fondamentale ed innovatrice di conferire al Comune il compito e la responsabilità diretta e democraticamente controllata del processo di urbanizzazione.

Con tale attribuzione di poteri ed oneri la espansione urbanistica non sarebbe più, come oggi accade, subita passivamente dai Comuni che, anche quando sono dotati di piano generale approvato, sono costretti a consentire l’edificazione ovunque sia proposta ed a correre quindi dietro a voleri, capricci ed artifici dei singoli, per dotare qua e là le varie aree con strade e servizi, con uno sparpagliamento di mezzi che rende sempre insufficiente l’intervento comunale. Cesserebbe quindi nelle grandi città ogni manovra, oggi impudentemente giocata, per attirare i servizi in questa o in quella zona, per ampliare o restringere l’offerta di aree, a seconda del maggior lucro che si può trarre dall’operazione: cesserebbe una impari lotta, in cui il Comune non può che essere soccombente di fronte all’astuzia dei singoli.

Cadrebbero pure, di conseguenza, le varie iniziative di lottizzazione, sia effettive, sia fittizie o di comodo, che compromettono ormai ogni razionale utilizzazione di suolo periferico o esterno alle città grandi e piccole. E cadrebbe anche definitivamente il sistema delle convenzioni, che noi stessi anni addietro, in carenza di norme di legge, abbiamo illustrato e caldeggiato, ma che all’atto pratico si è dimostrato uno strumento discontinuo e insufficiente e, in definitiva, inadatto ad una generalizzazione.

Discontinuo e insufficiente perché, in assenza di norme sulla dotazione di opere di urbanizzazione primaria, non vi è stata unicità di indirizzo nella attribuzione degli oneri e nella consistenza delle opere stesse, con pochi casi di esemplare adempimento contro una maggioranza di palesi inadempienze. È ben vero che la materia potrebbe essere disciplinata con norme che stabiliscano rigidamente la consistenza e i tempi di attuazione delle opere di urbanizzazione, come avviene, ad esempio, in Francia [7]; ma gli abusi che di questo istituto stanno oggi compiendosi in vari Comuni.. con la richiesta di contropartite in natura o addirittura in denaro, sconsigliano di proseguire oltre su questa via. La lottizzazione convenzionata, anche se regolata da norme generali, resterebbe pur sempre un’operazione privatistica, tendente a dilagare sul territorio ed a contrastare le scelte razionali dettate da considerazioni sopraindividuali, scoprendosi come una nuova, se pur intelligentemente mimetizzata, forma di pressione che verrebbe ad influenzare negativamente la distribuzione territoriale e l’entità delle opere di urbanizzazione generale.

La forma di acquisizione e di urbanizzazione preventiva, infine, si pone come l’unica seria garanzia che si possa avere sia nei riguardi delle pubbliche Amministrazioni, che solo con questo strumento saranno in grado di calibrare effettivamente le aree occorrenti per i vari usi residenziali.. infrastrutturali e di lavoro, istituendo una gestione autonoma ed in partita di giro, sia nei riguardi degli utenti che dai difensori ad oltranza degli interessi precostituiti vengono sistematicamente ignorati.

Né i sistemi vigenti di libero mercato delle aree edificabili dentro o fuori dei P.R., né il sistema, sia pure razionalizzato e codificato, della lottizzazione convenzionata sono infatti in grado di fornire una adeguata garanzia agli utenti, obbligati oggi ad accettare aree lottizzate, ma non servite, o servite tardi e male.

E poiché le città si dovrebbero costruire non per il lucro dei proprietari di aree, ma per essere usate dagli abitanti, parrebbe che, anche a parità di sacrifici e di vantaggi, sia pubblici che privati, dovrebbe pur sempre prevalere quel sistema che offra serie garanzie di efficienza per gli abitanti.

Non è possibile evidentemente illustrare ora tutti gli aspetti della proposta di legge, su cui avremo ancora occasione di tornare più d’una volta, seguendone le vicende parlamentari.

Ma non possiamo non segnalare all’attenzione dei lettori almeno quel gruppo di norme che riguarda le opere di risanamento.. che per la prima volta vengono sistematicamente proposte e che interessano una gran parte del patrimonio edilizio ed urbanistico nazionale; sarà sufficiente notare che per le operazioni di rinnovamento urbano e per quelle di risanamento conservativo dei centri storico-artistici ed ambientali è richiesta, in prima istanza.. l’azione diretta dei proprietari degli immobili.

La legge non si propone cioè una compressione o un annientamento della proprietà privata, ma.. al contrario, una espansione dell’intervento privato. Sgombrato il campo dagli ostacoli e dai freni dell’urbanizzazione, innalzati oggi dalle proprietà frantumate e dalle lottizzazioni estensive, inserito il Comune come interr1zediario fra i primitivi proprietari ed i cessionari, il terreno urbanizzato si presenta libero e predisposto per l’impresa edilizia e per l’accesso di chi aspira ad edificarsi la casa o ad erigere un impianto di lavoro.

Si apre cioè la possibilità per tutti, privati ed enti pubblici, di realizzare ordinatamente l’espansione ed il rinnovamento urbano e l’organizzazione civile della campagna.. in forme razionali e seno sibili, non più condizionate e compresse da moventi extraurbanistici.

Non è una prospettiva da poco ed il prossimo futuro ci dirà se il Paese è maturo per questasvolta decisiva.

[1]Fra i vari sono da citare: Giornale dei Costruttori, n. 37, 20 settembre 1962; Rivista Giuridica dell'Edilizia, luglio-agosto 1962.

[2]Il testo, pubblicato per la prima volta e senza autorizzazione, su Documentazione Italiana, conteneva infatti errori ed ommissioni.

[3]La prima commissione interministeriale per la riforma della legge urbanistica, nominata dal Ministro Togni ed insediata dal Ministro Zaccagnini il l0/12/1960, aveva ultimato i propri lavori nell'agosto del 1961 e formalmente consegnato il testo definitivo il 26 settembre 1961.

La seconda commissione per la riforma delle legge urbanistica, nominata e presieduta dal Ministro Sullo è stata insediata il 28 marzo 1962 ed ha presentato ufficialmente il testo finale il 12 giugno scorso.

Di entrambe hanno fatto parte, come membri dell'INU, i professori Giovanni Astengo, Luigi Piccinato e Giuseppe Samonà.

[4]Approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, di quattro disegni di legge concernenti la costituzione delle Regioni a statuto ordinario: Roma, 16 novembre 1962.

[5]Art. 55 della “Proposta di legge generale per la pianificazione urbanistica”.

[6]Dal testo del discorso del Ministro Sullo stralciamo il seguente passo di importanza basilare perla comprensione della proposta di legge: “Nei confronti di istituti quali la perequazione dei volumi o la imposizione sulle aree fabbricabili sono poi da aggiungersi due critiche di fondo, che ne dimostrano la limitata utilità.

La prima è che gli istituti stessi, pur riducendola, lasciano tuttavia che continuino a sussistere in una sensibile misura la disparità di trattamento e, con essa, il conflitto di interessi. La perequazione, come si è detto, non elimina le differenze tra l'una e l'altra zona; l'imposta sui fabbricati assorbe solo una parte del plusvalore provocato dalle misure urbanistiche. Ancora più rilevante è il considerare che questi istituti operano non nel momento stesso in cui le determinazioni urbanistiche sono adottate, ma in un momento successivo; esse cioè intervengono solo quando queste determinazioni devono essere applicate, e si propongono, per l'appunto, di attenuarne gli effetti.

Questo significa che, nella fase della adozione dei piani che; come già si è visto, è la più importante dal punto di vista urbanistico, gli istituti in esame lasciano che sopravviva il conflitto di interessi con tutta la sua incidenza negativa sulla adozione delle norme. Anche se gli istituti in esame eguagliassero in modo completo le posizioni (il che non è ne può essere), essendo tale livellamento rinviato al futuro, la tendenza dei proprietari sarebbe non di disinteressarsi del contenuto del piano, ma al contrario di procurarsi vantaggi urbanistici e a capitalizzarsi subito, prima cioè dell'entrata in funzione del meccanismo perequatore. Non è da escludere che perequazioni dei compensi ed imposte sulle aree accrescano la tensione al momento della deliberazione del piano, anziché diminuirla. Il che conferma che questi istituti rispondono, sia pure in modo imperfetto, alla finalità di attenuare le disuguaglianze, ma non eliminano gli ostacoli che si presentano da un punto di vista propriamente urbanistico.

La soluzione rappresentata da compensi nei volumi e nella imposizione fiscale sulle aree e in secondo luogo contrastata dalla esigenza di acquisire al minor prezzo possibile le molte aree che sono indispensabili per i servizi pubblici e sociali. Si presentano al riguardo due possibilità: la prima è che i Comuni acquistino le aree agli stessi .prezzi ai quali le aree sarebbero cedute dai proprietari ai privati. Questa soluzione è però ingiusta ed inopportuna. Sembra infatti assurdo che il Comune debba pagare al proprietario il plusvalore che è determinato non dall'abilità o dall'attività dello stesso proprietario, ma esclusivamente dagli atti amministrativi adottati dal Comune. Se poi le aree dovessero essere acquisite a prezzo di mercato, non resterebbe al Comune altra possibilità fuor di quella di rinunciare a tutte le aree non strettamente indispensabili, e ciò per mancanza di mezzi finanziari. La situazione attuale che è rappresentata dalla assoluta insufficienza di aree aventi finalità sociali (parchi, palestre, scuole ed asili, circoli ricreativi per bambini) è da attribuirsi principalmente a queste difficoltà; e questa situazione si riprodurrebbe inevitabilmente anche in futuro se restasse in vigore il sistema vigente.

La seconda possibilità è che i Comuni siano autorizzati ad acquisire singole aree destinate a finalità pubbliche e sociali, a prezzo inferiore a quello di mercato. Il legislatore ha avvertito questa necessità fin dal 1885 prevedendo un metodo di determinazione dell'indennizzo che dà risultati inferiori a quelli comuni. Provocata originariamente da una esigenza di carattere territoriale (legge per Napoli), il metodo è stato poi di volta in volta applicato a fattispecie sempre più numerose (v. le leggi sui piani regolatori di Bologna, Catania, Palermo, Ancona; sulla istruzione elementare, sulla gestione INA-Casa; sulla edilizia popolare ed economica; sull'incremento delle costruzioni edilizie; sulla costruzione dei campi sportivi, sulla eliminazione di abitazioni malsane; sulle Ferrovie dello Stato etc.).

Da ultimo si è affermata una tendenza più radicale, consistente nello stabilire in modo più esplicito che l'indennizzo deve essere ragguagliato ai valori agricoli (art. 4, L. 4 febbraio 1958, n. 158).

Questi orientamenti suscitano tre osservazioni. La prima è che tutti i casi qui contemplati sfuggono ad ogni disciplina egualizzante e realizzano quindi delle ipotesi di disparità di trattamento che, applicando i principi oggi in vigore, restano ineliminabili. Il secondo rilievo è che queste normative speciali, che una volta avevano un carattere eccezionale, sono andate generalizzandosi e occupano oggi un posto molto importante nella disciplina delle espropriazioni. La terza ed ultima osservazione è che questi istituti aggravano la disparità di trattamento in quanto, mentre obbligano i proprietari di singole aree o zone a cedere i loro terreni al Comune e ad enti pubblici ai prezzi fissati con riferimento a date anteriori al piano regolatore, consentono che i proprietari circonvicini possano trarre un immediato vantaggio dalla urbanizzazione della zona contigua e raccogliere a suo tempo gli incrementi di valore progettati dal piano. Le decisioni amministrative in questa materia acquistano, per i proprietari colpiti, il carattere sostanziale di una sanzione e non è da escludere, purtroppo, in periodi elettorali o preelettorali, che l'esercizio dei relativi poteri venga influenzato dal desiderio di favorire amici e colpire i nemici.

L'analisi compiuta conferma che una legislazione urbanistica, per essere efficiente, deve non solo perfezionare gli strumenti normativi, ma anche rimuovere le cause alle quali soprattutto è da imputarsi il rendimento insoddisfacente degli ordinamenti in vigore, cause che qualora fossero lasciate sussistere pregiudicherebbero allo stesso modo l'applicazione dei nuovi istituti”.

[7]V. Urbanistica n. 31, pagg. 87-88 e n. 35, pag. 86.

La Commissione ha ricevuto la direttiva di elaborare un disegno di legge che attui il precetto costituzionale dell'art. 117, per quella parte in cui attribuisce alle Regioni potestà normativa in materia di “urbanistica”.

Pertanto la Commissione si è dovuta porre in primo luogo il problema di come formulare una di quelle che ormai anche nell'uso corrente si denominano “leggi cornice”, tenendo presenti i comuni insegnamenti della dottrina e della giurisprudenza della Corte costituzionale circa i limiti e il contenuto di tali leggi-cornice.

Il compito si è presentato di attuazione non facile. Va tenuto presente che la materia dell'urbanistica non è di quelle nelle quali predomina un profilo che potrebbe dirsi sostanziale, ma piuttosto predomina un profilo procedimentale. Nell’attività urbanistica infatti l’aspetto sostanziale, che può essere costituito dalla concezione della proprietà urbana, con tutto l’ordine delle limitazioni che ad essa si riferiscano o che da essa derivino, non si presta a delle enunciazioni di principio, come è dimostrato dal fatto che ne nella nostra tradizione legislativa, né nelle legislazioni straniere, anche le più progredite, è stato mai proceduto a siffatte enunciazioni. Esse invece si presentano piuttosto come il frutto di opere dell’interprete, e, sul piano normativo, sono soprattutto una conseguenza di un ordinamento di procedimenti amministrativi disposto dal legislatore. Nella misura in cui i procedimenti medesimi si presentino come più accurati, è possibile raggiungere il risultato di un contemperamento giusto dei molteplici interessi concorrenti nell’urbanistica, che sono gli interessi delle generazioni presenti e future, della comunità generale e delle singole comunità territoriali, delle sin. gole branche amministrative dello Stato e degli enti pubblici territoriali o nazionali, dei gruppi settoriali privati; quali quelli dei proprietari di immobili, degli imprenditori, degli agricoltori e degli industriali, non sempre convergenti e anzi molto spesso tra loro confliggenti.

Data questa realtà, al disegno di legge è stata applicata un’organizzazione che può apparire complessa, ma che è stata ritenuta la più rispondente agli scopi che si volevano raggiungere.

Le maggiori difficoltà da risolvere sono state incontrate proprio in ordine all’elaborazione di questa legge cornice. Ad una prima lettura essa può dare l’impressione di essere sovrabbondante. Ma ove ben si consideri la realtà che si doveva disciplinare, e si tenga presente soprattutto quanto si avvertiva dianzi circa la prevalenza del profilo procedimentale nella disciplina di questa materia, la prima impressione è destinata a mutarsi. Si è voluto, nella legge cornice, rappresentare alle regioni soprattutto il fatto che per ottenere un risultato giusto, occorre disciplinare i procedimenti di formazione dei piani regolatori, di adozione dei medesimi, nonché quelli di attuazione e di esecuzione, in termini di particolare accuratezza, si da permettere congiuntamente la presenza di tutti gli interessi, generali, collettivi e particolari, ai fini di una loro adeguata valutazione e da permettere altresì una pluralità di istanze tali da consentire la correzione di errori nei quali si possa incorrere.

Da un lato ci si è preoccupati che un eventuale carattere eccessivamente autoritativo che le leggi regionali potrebbero imprimere ai procedimenti amministrativi in materia urbanistica potrebbe conseguire risultati lesivi di diritti e interessi collettivi e particolari; ma dall’altro ci si è non meno vivamente preoccupati del possibile eccesso opposto, ossia che leggi regionali, con l’adozione di provvedimenti poco accurati o eccessivamente larghi, possano recare incentivi ad interessi settoriali, impersonati ormai in gruppi di pressione organizzati, i quali possano far sortire effetti diametralmente opposti, e quindi portino gli interessi pubblici generali a soccombere di fronte ad interessi di gruppo particolare.

... Notevolmente innovative sono, invece, le disposizioni contenute negli articoli 23 e seguenti, che hanno ad oggetto i mezzi per la attuazione del piani particolareggiati.

L’art. 23 fissa un principio di carattere generale e cioè: la espropriazione di tutte le zone inedificate comprese nell’ambito del piano particolareggiato nonché di quelle aree già utilizzate per costruzioni se la utilizzazione stessa sia sensibilmente difforme da quella prevista dal piano particolareggiato. É sembrato alla Commissione che in tal modo si possano risolvere adeguatamente ed anche con criteri di equità le non facili situazioni che possono verificarsi a seguito della adozione del piano particolareggiato, evitando altresì la possibilità di interventi e di pressioni estranee sulla esplicazione dell’attività delle Amministrazioni comunali, le quali devono, in. vece, avere di mira soltanto la possibilità di realizzare, legittimamente e convenientemente, le direttive e le prescrizioni urbanistiche del piano.

D’altro canto l’acquisizione al Comune delle aree edificabili dei piani regolatori particolareggiati vale anche a rendere più agevole e più semplice la successiva utilizzazione delle aree stesse, come a momenti si vedrà.

Ecco perché si è ritenuto che il sistema di trasferire in proprietà al Comune tutte le aree suddette sia la misura più opportuna anche se più radicale: ovviamente il diritto dei proprietari viene salvaguardato attraverso la cor. responsione del relativo indennizzo, a norma dell’art. 42 della carta costituzionale.

Va messo in luce che il primo comma dell’art. 23 consente al Comune di ripartire, proprio ai fini dell’espropriazione, tutto il territorio del piano particolareggiato in più zone e ciò allo scopo di evitare la possibilità per il Comune di accollarsi oneri finanziari eccessivi: il Comune ha, invece, la facoltà di graduare nel tempo le espropriazioni appunto attraverso la ripartizione del detto territorio in più zone.

La disciplina per il calcolo dell’indennità di espropriazione è contemplata dall’art. 24. In esso viene posta la fondamentale distinzione tra le aree che precedentemente al piano regolatore generale non avessero destinazione urbana e quelle già comprese in zone urbanizzate.

Per le prime, l’indennità ragguagliata al valore agricolo delle aree, dato che ogni eventuale ulteriore incremento di valore è legato esclusivamente al piano e non valutabile secondo il principio generale fissato dal quarto comma.

Per le altre, viene introdotto un criterio di valutazione comparativo coi terreni di nuova urbanizzazione, corretto con un parametro, stabilito dal Comitato dei Ministri, inerente alla diversa rendita differenziale di posizione.

Qualora tali aree siano coperte da costruzioni, la Commissione ha fissato il criterio di valutare il solo valore venale della costruzione che vi insiste. Infatti, l’utile effettivo del proprietario - e quindi il sacrificio operato dalla espropriazione - è dato solo dalla costruzione, non dalla redditività astratta dall’area sottostante. Potrebbe avvenire, peraltro, che il valore della sola area, calcolato col criterio comparativo e corretto col parametro dianzi menzionato, sia più alto; è disposto allora che, in tale ipotesi, l’indennità va determinata secondo il ricordato criterio comparativo.

I successivi commi dell’att. 24 introducono una notevole semplificazione nella procedura di esproprio. In sostanza, si è stabilito in conformità di quanto disposto da recenti leggi (L. 4 febbraio 1958 n. 158) che l’indennità è offerta dall’espropriante ed è pagata direttamente all’espropriato, in caso di accettazione, ovvero depositata, in caso di contestazione, entro termini che saranno stabiliti dalla legge regionale. Si elimina così la macchinosa e dispendiosa procedura peritale prevista dalla vigente legge sulle espropriazioni. Il decreto di espropriazione precede il pagamento o il deposito. Tale disposizione, che è conforme ad altri precedenti legislativi speciali (R.D.L. 16 settembre 1926 n. 1606 e D.L.L. 14 settembre 1944 n. 242 riguardanti le espropriazioni a favore dell’Opera Nazionale Combattenti) è da ritenere perfettamente costituzionale, perchè - come ritenuto dalla Cotte Suprema di Cassazione a proposito delle leggi richiamate (Sent. 15 marzo 1957 n. 903) - l’art. 42 della Costituzione prescrive solo la corresponsione di un indennizzo a favore del proprietario espropriato, ma non esige che esso sia pagato preventivamente o contestualmente al provvedimento di esproprio.

È appena il caso di osservare, poi, che è sempre salvo il diritto dell’espropriato di impugnare la misura dell’indennità offerta e non accettata nelle forme e nei termini stabiliti dall’art. 51 della legge sulle espropriazioni per pubblica utilità, richiamata dall’ultimo comma.

Notevole infine la disposizione secondo cui per il periodo intercorrente fra la consegna del bene ed il pagamento o il deposito dell’indennità di espropriazione, l’espropriante è tenuto al pagamento degli interessi al tasso legale...Senza indugiare su troppi dettagli, si pongono in luce talune modifiche essenziali introdotte nel progetto allegato:

1) allo scopo di stimolare i Comuni ad adottare i loro provvedimenti in un tempo ragionevole, evitando cos! i gravi inconvenienti cui dà sempre luogo la inerzia della pubblica Amministrazione, il secondo comma dall’art. 30 (richiamato dal successivo att. 31) stabilisce che il Comune, qualora provveda oltre i termini che saranno stabiliti dalle leggi regionali, è obbligato al risarcimento dei danni nella misura degli interessi legali. Sembra evidente la funzione stimolatrice di questa disposizione, soprattutto ove si tenga conto che il Comune potrà poi riversare l’onere i finanziario sul dipendente che sia in colpa;

2) il quinto comma dell’att. 30 (richiamato anche dall’art. 31) tende a risolvere un altro grave problema che di frequente si verifica, quello cioè che, a causa del mancato coordinamento delle leggi e delle operazioni amministrative, il cittadino il quale costruisca in base a licenza di costruzione rilasciata dal Comune può trovarsi esposto durante il corso della costruzione. ad interventi di altre autorità che ordinano la sospensione se non addirittura la demolizione delle opere già eseguite. È evidente la situazione di estremo disagio che in tal modo viene a crearsi e perciò il ripetuto 5° comma stabilisce chiaramente che una volta intervenuta la licenza di costruzione o l’approvazione del progetto, nessun’altra autorità amministrativa può in nessun modo intervenire in ordine alla costruzione;

3) il sesto ed il settimo comma dello stesso articolo 30 (anch’essi richiamati dall’art. 31) si sono preoccupati dei problemi che possono sorgere dai provvedimenti comunali che autorizzano la costruzione. Nel caso che il Comune rifiuti la costruzione, il cittadino che si senta leso può senz’altro adire i competenti organi costituzionali, ma nel caso di provvedimento favorevole al richiedente, le eventuali illegittimità anche gravi del provvedimento stesso possono essere fatte valere soltanto dai proprietari confinanti i quali, ovviamente, tenderanno a prospettare soltanto quelle illegittimità che possano arrecare danno alle loro proprietà ed ai loro interessi. In tal modo possono rimanere, e di regola rimangono, non tutelate quelle violazioni, spesso gravi, ai più importanti interessi pubblici. Ecco perché i citati commi hanno stabilito da un lato che copia dei provvedimenti autorizzativi deve essere affissa nell’albo comunale e che contro il provvedimento di autorizzazione o di approvazione del progetto è ammessa l’azione popolare dinanzi al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.

L’art. 32 introduce, poi, il nuovo istituto della licenza di uso, attraverso il quale si vuole assicurare che non vengano utilizzate costruzioni le quali non rispondano a quei requisiti minimi indispensabili per un civile svolgimento della vita.

TITOLO I

Norme Generali

Art. 1 - Direttive programmatiche

L’indirizzo e il coordinamento nazionale della pianificazione urbanistica si attuano nel quadro della programmazione economica nazionale e in riferimento agli obiettivi fissati da questa, anche per quanto riguarda i programmi generali e di settore, dei servizi e delle opere pubbliche di interesse nazionale, interregionale e regionale.

Fino a quando non saranno in funzione gli organi di programmazione, al perseguimento delle finalità indicate nel comma precedente provvede un Comitato di Ministri, presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e composto dai Ministri per i lavori pubblici, che ne ha la vice presidenza, dell’interno, della difesa, del bilancio, dei trasporti, della pubblica istruzione, dell’agricoltura e foreste, dell’industria e commercio, del turismo e lo spettacolo e delle partecipazioni statali.

Il Comitato, a seconda delle materie da trattare, può essere integrato da altri Ministri. Ad esso, inoltre, possono essere invitati a partecipare i rappresentanti delle Regioni o di gruppi di Provincie o di Comuni.

Il Comitato, ai fini della priorità, con sua determinazione, stabilisce quali programmi di servizi o di opere pubbliche, o loro progetti di massima, debbano essere sottoposti al suo esame.

Per assicurare il funzionamento del Comitato, è costituito presso il Ministero dei LL.PP. un Segretariato Generale al quale possono essere addetti funzionari dell’Amministrazione statale e regionale, nonché esperti nelle materie attinenti all’indirizzo ed al coordinamento urbanistico, anche estranei all’Amministrazione statale.



Art. 2 - Zone di preminente interesse pubblico

Le autorità competenti all’adozione dei piani regionali o comprensoriali possono proporre al Comitato dei Ministri previsto dall’articolo precedente che zone le quali dai piani medesimi abbiano ricevuto una destinazione specifica, siano dichiarate di preminente interesse pubblico in ordine alla destinazione indicata.

Quando per una zona un interesse pubblico è dichiarato preminente le decisioni delle varie Autorità Amministrative si subordinano a quelle dell’Autorità competente a provvedere in ordine ad esso.

La determinazione del Comitato dei Ministri è vincolante ed è valida per l’intera durata del piano.



Art. 3 - Norme tecniche generali

Il Comitato dei Ministri può emanare direttive tecniche generali per la formazione dei piani e delle opere di urbanizzazione.

TITOLO II

Principi fondamentali della legislazione regionale

CAPO I



Art. 4 - Disposizioni generali

La Regione disciplina con propria legge i piani urbani. stici e l’attività edilizia secondo i principi della presente legge.

CAPO II

NORME CONCERNENTI L’ ATTIVITÀ URBANISTICA



Art. 5 - Piano regionale

Le Regioni sono tenute ad adottare il piano regolatore generale del proprio territorio.

Il piano è formato con la partecipazione dei rappresentanti delle Amministrazioni statali dei lavori pubblici, della pubblica istruzione, della difesa, dell’agricoltura e foreste, dell’industria e commercio, del lavoro e previdenza sociale e delle partecipazioni statali, delle Amministrazioni provinciali e comunali, nonché di esperti in materia di indirizzo e coordinamento urbanistico ed è adottato con atto amministrativo della Regione.

Nella fase preliminare del procedimento di formazione del piano regionale il progetto deve essere reso pubblico e sono ammesse osservazioni nel pubblico interesse.

Ai fini del coordinamento con i programmi economici nazionali e della tutela degli interessi dello Stato, il piano regionale è approvato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per i Lavori Pubblici, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.

Art. 6 - Contenuto del piano regionale

Il piano regionale indica le grandi linee dell’assetto e della valorizzazione del territorio, in rapporto alla programmazione economica, ed in particolare deve:

a) indicare le zone di insediamento urbano, di sviluppo industriale, di valorizzazione turistica e paesistica e di specializzazione agraria;

b) indicare le comunicazioni e le altre infrastrutture principali ;

c) determinare la gradualità dei principali interventi pubblici ed il coordinamento delle fasi di attuazione anche in rapporto ai programmi di attuazione dei piani economici generali e di settore;

d) ripartire il territorio regionale in comprensori, indicando quelli per i quali è obbligatoria la formazione dei piani comprensoriali in relazione alle esigenze di sviluppo di determinate zone ed alle caratteristiche geografiche, ambientali ed urbanistiche in genere;

e) precisare l’ubicazione, l’estensione ed i caratteri dei principali interventi per lo sviluppo agricolo.

Il piano regionale ha vigore a tempo indeterminato. Esso è sottoposto a revisione ogni 10 anni; può essere modificato o integrato anche nel corso di un decennio per sopravvenuti rilevanti motivi di pubblico interesse.

Il piano regionale deve conformarsi ai piani ed ai pro- grammi nazionali ed è vincolante per tutte le pubbliche Amministrazioni.



Art. 7 - Piano comprensoriale

Per ogni comprensorio individuato in sede di piane regionale è redatto un piano comprensoriale.

La legge regionale deve prevedere la creazione di appositi Enti a carattere consorziale per la formazione, per l’adozione e per l’esecuzione del piano con la partecipazione delle Amministrazioni provinciali, di quelle comunali e degli enti pubblici interessati.

La legge regionale può stabilire particolari modalità per la delega ai consorzi delle attribuzioni spettanti ai Comuni che ne fanno parte.

Si applicano le disposizioni di cui all’art. 5, secondo e terzo comma.



Art. 8 - Contenuto del piano comprensoriale

Il piano comprensoriale prevede:

a) la destinazione di uso del territorio;

b) gli interventi per le principali localizzazioni residenziali turistiche, sportive, termali e balneari;

c) gli interventi di bonifica, di ricomposizione delle proprietà rurali, dei rimboschimenti;

d) gli interventi nelle aree di sviluppo industriale;

e) la viabilità, le ferrovie, i porti, i canali navigabili e gli aeroporti;

f) le altre importanti opere pubbliche;

g) le zone da assoggettare ai piani di rinnovamento;

h) gli interventi necessari nei Comuni che non sono tenuti al piano regolatore generale.

Il piano provvede ad assicurare la effettiva tutela delle zone assoggettate o da assoggettare a vincolo paesistico e delle cose disciplinate dalla legge 10 giugno 1939, n. 1089. Il piano prescrive le eventuali misure necessarie per attuare le dichiarazioni di zone di preminente interesse pubblico indicate dall’art. 2.

Il piano comprensoriale determina i Comuni di maggiore o di particolare importanza tenuti ad adottare il piano regolatore generale. Esso vale come piano regolatore generale per gli altri Comuni e stabilisce per quali tra loro sia necessaria l’adozione di piani regolatori particolareggiati.



Art. 9 - Durata ed effetti del piano comprensoriale

Il piano comprensoriale ha vigore a tempo indeterminato.

La legge regionale stabilisce i casi ed i limiti entro i quali si procede alla sua revisione.

Gli enti pubblici ed i privati sono tenuti ad osservare le prescrizioni ed i vincoli del piano stesso.



Art. 10 - Piano regolatore generale

Per i Comuni obbligati all’adozione del piano regolatore generale, la legge regionale stabilisce i termini per adottare il piano medesimo, o per sottoporlo a revisione generale.

I relativi provvedimenti sono pubblicati nel Bollettino Ufficiale della Regione e per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Decorso inutilmente il termine assegnato a norma del primo comma, è nominato, secondo le disposizioni della legge regionale, un progettista al quale è fissato il termine per la presentazione al Comune del progetto di piano.

Qualora il Comune non provveda entro sei mesi dalla data di ricevimento del progetto, è nominato un Commissario con l’incarico di provvedere alla adozione ed alla presentazione del piano all’Organo competente per l’approvazione.

Ogni intervento mediante concorso o contributo dello Stato e di altri enti pubblici per la esecuzione di opere pubbliche comunali è subordinato alla presentazione del piano regolatore generale nel termine fissato ai sensi del presente articolo.



Art. 11 - Contenuto del piano regolatore generale

Il piano regolatore generale deve considerare la totalità del territorio comunale.

Esso deve contenere in ogni caso:

l) la divisione in zone del territorio in rapporto alle varie destinazioni di uso, con la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona;

2) la rete delle principali vie di comunicazioni stradali, ferroviarie, navigabili ed i relativi impianti;

3) la ubicazione dei porti, degli aeroporti e delle autostazioni;

4) le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposti a speciali servitù;

5) le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale ovvero la loro ubicazione;

6) i vincoli da osservare nelle zone a carattere storico ambientale o paesistico;

7) le aree nelle quali è vietata qualsiasi costruzione e nelle quali devono essere rispettate particolari limitazioni;

8) la ripartizione del territorio avente destinazione urbana e industriale per la formazione di piani particolareggiati;

9) la assegnazione di termini distinti per la formazione dei piani particolareggiati, per il compimento delle espropriazioni e per la esecuzione delle opere di urbanizzazione nelle singole zone di ciascun piano particolareggiato;

10) le parti nelle quali si deve provvedere alla formazione di comprensori aventi speciali funzioni di interesse pubblico;

11) le norme per l’attuazione del piano. Per le parti del territorio destinato a zone agricole non è obbligatoria la formazione del piano particolareggiato e il piano regolatore generale deve indicare l’indice di fabbricabilità e la tipologia dei fabbricati.



Art. 12 - Direttive fondamentali del piano regolatore generale

Le direttive fondamentali del piano regolato re generale sono predisposte dal Comune e sono sottoposte all’esame dell’Organo che sarà stabilito dalla legge regionale.

Ai fini del coordinamento con le previsioni del piano regionale e degli altri piani, e con le sistemazioni dei beni e di impianti di altre aIl1ministrazioni pubbliche, la legge regionale stabilisce, altresì, le modalità per una conferenza dei servizi, della quale debbono far parte i rappresentanti delle amministrazioni pubbliche interessate.



Art. 13 - Adozione del piano regolatore generale

La legge regionale stabilisce le modalità di adozione del piano da parte del Comune, nonché quelle necessarie ad assicurare la pubblicità del piano e la facoltà di enti o privati di presentare osservazioni nel pubblico interesse, e del Comune di contro dedurre.



Art. 14 - Approvazione del piano regolatore generale

Il progetto del piano regolatore generale è trasmesso per l’approvazione all’Organo che sarà stabilito dalla legge regionale, il quale, accertata la sua rispondenza alle direttive generali e alle decisioni della conferenza dei servizi, apporta ad esso le modificazioni e le integrazioni necessarie all’osservanza di leggi, di regolamenti, del piano regionale e dei piani comprensoriali nonché quelle derivanti dall’accoglimento delle osservazioni che non incidano su aspetti sostanziali del piano stesso.

Qualora le osservazioni incidano su aspetti sostanziali l’Organo regionale rinvia il progetto di piano al Comune per il riesame, con le proprie osservazioni.

Il provvedimento di approvazione è pubblicato per estratto nel Bollettino Ufficiale della Regione e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica; il piano è depositato presso gli uffici comunali.

La Commissione di controllo, in caso di illegittimità o di contrasto con gli interessi dello Stato, può chiedere chiarimenti o elementi integrativi di giudizio all’Organo regionale.

In tal caso resta sospesa l’esecutività del provvedimento. Questo diviene esecutivo se la Commissione non ne pronuncia l’annullamento entro venti giorni dal ricevimento delle contro deduzioni dell’Organo regionale.

Il provvedimento di annullamento è definitivo.



Art. 15 - Valore del piano regolatore generale

Il piano regolatore generale del Comune ha valore a tempo indeterminato.

Gli enti pubblici ed i privati, sono tenuti ad osservare le prescrizioni ed i vincoli del piano stesso.



Art. 16 - Varianti al piano regolatore generale

Le varianti al piano regolatore generale sono approvate con la stessa procedura prescritta per il piano originario.

L’iniziativa delle varianti può essere assunta anche dalle Amministrazioni dello Stato, ove esse siano necessarie per la tutela dei loro interessi.



Art. 17 - Espropriazione e utilizzazione di aree

Il Comune obbligato a redigere il piano regolatore generale può espropriare aree non edificate e sulle quali insistano costruzioni a carattere provvisorio ed utilizzarle secondo le previsioni della presente legge.

La stessa facoltà può essere esercitata dopo l’approvazione del piano regolatore generale e fino all’approvazione dei piani particolareggiati.

Art. 18 - Piano regolatore particolareggiato

Il piano regolatore generale o il piano comprensoriale, nei casi in cui ha valore di piano regolatore generale o in cui prescriva l’adozione di piani particolareggiati, è obbligatoriamente attuato a mezzo di piani particolareggiati comprendenti un’area definita e continua e, nelle zone di espansione, adeguatamente ampia.

Il piano particolareggiato è compilato dal Comune in relazione al programma di graduale sviluppo del piano generale. Nel caso di inosservanza del termine indicato nell’art. 11 n. 9 viene fissato un ulteriore termine, decorso il quale si provvede a norma dell’art. 10, 4° comma.



Art. 19 - Adozione del piano particolareggiato

La legge regionale disciplina la procedura di adozione del piano particolareggiato da parte del Comune, nonché quelle necessarie ad assicurare la facoltà di enti o privati di presentare osservazioni e del Comune di controdedurre.



Art. 20 - Approvazione del piano particolareggiato

Il progetto di piano particolareggiato è trasmesso per l’approvazione all’Organo stabilito dalla legge regionale, il quale, al fine di assicurare la legittimità e la rispondenza al piano regolatore generale ed agli altri provvedimenti amministrativi vincolanti, apporta al piano le modificazioni e le integrazioni necessarie e decide sulle osservazioni.

In ogni caso può rinviare il progetto di piano particolareggiato al Comune per il riesame, con le proprie osservazioni. In caso di inerzia del Comune, si fa luogo alla nomina di Commissario.

Il provvedimento di approvazione è pubblicato per estratto nel Bollettino Ufficiale della Regione e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Il piano è depositato presso gli uffici comunali.



Art. 21 - Contenuto del piano particolareggiato

Il piano regolatore particolareggiato sviluppa le diretti ve ed i criteri tecnici stabiliti dal piano regolatore generale.

Esso contiene essenzialmente i seguenti elementi:

a) la rete stradale della zona, con la indicazione de- gli allineamenti e dei principali dati altimetrici esistenti e di progetto;

b) la destinazione degli isolati con la indicazione della tipologia edilizia e la suddivisione in lotti fabbricabili, nonché, se ritenuto opportuno, la ubicazione, la volumetria e l’uso dei singoli edifici;

c) la delimitazione degli spazi riservati ad opere ed impianti di interesse pubblico nonché a giardini pubblici, a parcheggi, a campi di gioco;

d) gli edifici destinati a demolizione, a ricostruzione, a risanamento, a restauro od a bonifica edilizia; in tal caso potrà essere prevista la costituzione di comparti fissando le opportune prescrizioni tecniche;

e) la massa e le altezze delle costruzioni lungo le più importanti o caratteristiche strade o piazze, coll’eventuale indicazione, per particolari ambienti, dei tipi architettonici da adottare;

f) la caratterizzazione plano-volumetrica delle zone direzionali e le modalità per la utilizzazione di aree edificatorie da trasformare per tale destinazione;

g) la profondità delle zone adiacenti ad opere pubbliche, la cui occupazione serva ad integrare le finalità delle opere stesse ed a soddisfare prevedibili esigenze future;

h) la indicazione delle opere di urbanizzazione primaria;

i) relazione illustrativa enorme urbanistico-edilizie per la esecuzione del piano;

l) programma di attuazione, con la indicazione sommaria delle spese occorrenti per le opere previste e dei modi per provvedervi.



Art. 22 - Valore dei piani particolareggiati

Le prescrizioni del piano particolareggiato hanno valore a tempo indeterminato.

Le opere, le attrezzature, gli impianti ed ogni altro intervento previsto per l’attuazione del piano regolatore generale e per il piano particolareggiato sono dichiarate di pubblica utilità ed indifferibili ed urgenti ad ogni effetto di legge.

Art. 23 – Espropriazioni

Nell'ambito del piano particolareggiato il Comune promuove l'espropriazione, anche per zone, secondo i tempi determinati dalle necessità delle fasi di attuazione:

a) di tutte le aree inedificate, comprese quelle facenti parte del patrimonio dello Stato e degli altri enti pubblici;

b) delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia sensibilmente difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato.

Il Comune espropria anche quelle aree inespropriate che successivamente alla approvazione del piano particolareggiato vengono a rendersi edificabili per qualsiasi causa.

Art. 24 - Indennità di espropriazione

Per le aree che prima dell'approvazione del piano regolatore generale non avevano destinazione urbana secondo i piani approvati, l’indennità di espropriazione è determinata considerando il terreno come agricolo e libero da vincoli di contratti agrari.

Per le aree inedificate già comprese in zona urbanizzata, la indennità di espropriazione è stabilita in base al prezzo di cessione dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo stabilito dal Comitato dei Ministri di cui all'art. 1.

Per le aree che prima dell'approvazione del piano regolatore generale avevano destinazione urbana ed erano coperte da costruzioni, l'indennità di espropriazione è ragguagliata al valore venale della costruzione. Si applica, tuttavia, il comma precedente qualora l'indennità in base ad esso calcolato risulti più favorevole al proprietario.

In ogni caso l'indennità è fissata prescindendo da qualsiasi incremento di valore che si sia verificato o possa verificarsi direttamente o indirettamente per effetto della progettazione, dell'adozione e dell'attuazione del piano regolatore generale.

Il Sindaco o il Presidente del Consorzio, nei casi di cui all'art. 7, terzo comma, pubblica l'elenco dei beni da espropriare indicando il prezzo offerto per ciascun bene.

Decorsi trenta giorni dalla pubblicazione, il Prefetto, su richiesta del Sindaco o del Presidente del Consorzio, ordina il pagamento o il deposito della somma offerta nel termine di cui al comma successivo e pronuncia l'espropriazione.

L'indennità di espropriazione, in caso di accordo tra le parti, deve essere pagata e, in caso di contestazione, deve essere depositata entro un termine da stabilirsi dalla legge regionale, decorrente dalla data di rilascio o di consegna del bene. L'espropriante, per il periodo intercorrente tra la data di rilascio o di consegna e quella del pagamento o del deposito dell'indennità, è tenuto a. corrispondere gli interessi legali sulle somme dovute.

Per quanto non diversamente previsto, si applicano le disposizioni della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e successive modificazioni.

Art. 25 - Consegna dei beni espropriati

I beni espropriati possono essere lasciati in comodato precario al precedente proprietario col suo consenso. Il Comune può conseguire la disponibilità del bene e l'espropriato può chiedere di effettuare la consegna nei termini stabiliti con legge regionale.

Art. 26 - Utilizzazione delle aree

Il Comune, acquisite le aree espropriate a norma degli artt. 17 e 23, provvede alle opere di urbanizzazione primaria.

Il Comune cede in proprietà allo Stato e agli altri enti territoriali, le aree destinate ad utilizzazione pubblica.

Il diritto di superficie sulle aree destinate a edilizia residenziale viene ceduto a mezzo di asta pubblica, salvo che le aree non vengano richieste per il perseguimento dei loro fini istituzionali, entro termine da stabilire con legge regionale, da enti pubblici che operano nel settore della edilizia e da società cooperative che abbiano per scopo la costruzione di alloggi economici o popolari per i propri soci e salvo che esse siano richieste per utilizzazione industriale.

Ai fini della determinazione del prezzo di cessione si sommano, per ogni zona preveduta dall'art. 23, 1° comma: le indennità di espropriazione dell'intera zona egli interessi relativi, il costo delle opere di urbanizzazione e di quelle per lo sviluppo dei servizi pubblici, da effettuarsi nel perimetro della zona, nonché una quota per spese generali. Il totale è ripartito sulla superficie delle aree destinate all'edificazione e il quoziente costituisce il prezzo della cessione o, in caso di asta, la base di questa.

CAPO III

NORME ATTINENTI ALL’ATTIVITÀ EDILIZIA

Art. 27 - Regolamenti edilizi

Tutti i Comuni devono essere dotati di regolamento edilizio.

In ogni caso le norme del regolamento edilizio difformi dalle prescrizioni dei piani regolatori sono sostituite di diritto dalle prescrizioni stesse.

Art. 28 - Divieto di utilizzazione edilizia

A partire dalla data di adozione del piano regolatore generale e fino all'approvazione dei piani particolareggiati la formazione dei quali sia obbligatoria, non è consentita utilizzazione edilizia.

Nelle zone a destinazione urbana e industriale è vietata ogni utilizzazione edilizia fino alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria.

Sono considerate opere di urbanizzazione primaria le strade occorrenti per assicurare l'accesso agli edifici ed i relativi parcheggi, le strade ed i passaggi pedonali, la rete di distribuzione idrica, le fognature e la illuminazione pubblica.

Art. 29 - Disposizione generale sulle costruzioni

Per costruire, modificare costruzioni, apportare ad esse ampliamenti o varianti, eseguire opere di trasformazione del terreno, è necessaria l'approvazione del progetto di costruzione prevista dall'articolo successivo, ovvero la licenza di costruzione prevista dall'art. 31.

Art. 30 - Progetti di costruzioni

Il cessionario delle aree di cui all'art. 26 deve presentare al Comune, per l'approvazione, il progetto di costruzione secondo le modalità ed i termini stabiliti dalla legge regionale.

La legge regionale stabilisce i termini entro i quali il Comune deve adottare le sue decisioni. Qualora le decisioni intervengano oltre tali termini il Comune è tenuto a pagare al cessionario, a titolo di risarcimento dei danni, gli interessi legali sulle somme pagate per la cessione dell'area.

I lavori devono essere iniziati e completati, a pena di decadenza, entro i termini stabiliti dal provvedimento di approvazione.

L'approvazione è data quando il progetto sia conforme alle leggi ed ai regolamenti, alle prescrizioni dei piani regolatori ed ai provvedimenti amministrativi vincolanti nonché alle clausole contenute negli atti relativi alla cessione dell'area. Accertata dal Comune la conformità del progetto al disposto di ogni provvedimento amministrativo che disciplini l'edificazione della zona, l'approvazione preclude qualsiasi altro intervento di organi di amministrazione attiva ai fini della costruzione.

Copia dell'approvazione è affissa nell'albo comunale per la durata di 15 giorni. Altra copia deve essere tenuta nel cantiere a libera visione del pubblico. Avverso il provvedimento di approvazione del progetto, chiunque può ricorrere al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale.



Art. 31 - Licenza di costruzione

Nei casi nei quali in base alla presente legge l'area rimane oggetto di diritto di proprietà, la licenza di costruzione è richiesta al Sindaco del Comune competente per territorio, con domanda corredata da progetto redatto da tecnico abilitato a norma degli ordinamenti professionali.

La licenza è necessaria anche per le costruzioni, le opere e le trasformazioni da eseguire nelle aree demaniali, comprese quelle del demanio marittimo.

Si applicano i commi 2° e seguenti del precedente articolo.

Art. 32 - Licenza d'uso

Gli edifici di nuova costruzione o trasformati non possono essere comunque utilizzati prima che il Sindaco abbia rilasciato una licenza d 'uso, previo accertamento della rispondenza dei lavori eseguiti al progetto approvato o, per gli edifici isolati siti in zone rurali, prima che siano stati garantiti la provvista dell'acqua potabile e lo smaltimento igienico delle acque luride.

Il rilascio della licenza d'uso è in ogni caso subordinato agli accertamenti affidati all'ufficio comunale di igiene della legge sanitaria.

Art. 33 - Misure di salvaguardia

La legge regionale prescrive norme di salvaguardia per la esecuzione di opere che siano in contrasto con le previsioni dei piani regolatori o che possano pregiudicarne la futura attuazione.

Art. 34 - Salvaguardia di edifici

La legge regionale prescrive norme per la salvaguardia delle caratteristiche degli edifici esistenti in zone urbanizzate, per le quali manchino prescrizioni nei piani regolatori.



TITOLO III

Norme statali sull'attività urbanistica

CAPO I

DISCIPLINA DELL’ATTIVITÀ URBANISTICA

Art. 35 - Disposizioni generali

Fino a quando ciascuna regione non avrà emanato norme legislative sull'urbanistica in conformità dei principi stabiliti nel titolo n della presente legge e salva, in ogni caso, l'applicazione delle norme di cui ai titoli I e IV, si applicano nella Regione stessa le disposizioni del presente titolo.

Art. 36 - Comitato urbanistico regionale

Il progetto di piano regionale è redatto in conformità dell'art. 6 da un Comitato urbanistico regionale, nominato con decreto del Ministro per i lavori pubblici costituito presso il Provveditorato regionale alle OO.PP. e composto:

a) dal Provveditore regionale alle OO.PP. che presiede;

b) da due rappresentanti della Regione;

c) dai Presidenti delle Amministrazioni Provinciali;

d) dai Sindaci dei Comuni capoluoghi di Provincia;

e) dai Sovraintendenti ai monumenti;

f) dal capo del Compartimento dell'ANAS;

g) da un rappresentante per ciascuno dei Ministeri che compongono il Comitato dei Ministri di cui all'art. l;

h) da 3 rappresentanti dei datori di lavoro, 3 dei lavoratori e 2 dei lavoratori autonomi;

i) da 5 esperti.

Il Vice Presidente del Comitato è eletto tra i rappresentanti della Regione o, in mancanza, delle Amministrazioni provinciali.

Il Comitato urbanistico regionale si avvale, per la predisposizione del progetto, di una giunta la cui composizione sarà determinata dal regolamento.

Qualora gli studi debbano essere estesi a territori appartenenti ad altre regioni, il Comitato urbanistico regionale è integrato con i rappresentati di tali territori.

Il Comitato urbanistico regionale provvede agli studi per il periodico aggiornamento del piano.

Art. 37 - Procedura del piano regionale

Il progetto del piano regionale è depositato, per la durata di 30 giorni consecutivi, presso il Provveditorato regionale alle opere pubbliche e del deposito è data notizia nel foglio annunzi legali delle Provincie interessate. Gli enti pubblici ed ogni altro ente aventi fini culturali, scientifici o tecnici possono prendere visione del progetto e presentare, nei 30 giorni successivi alla scadenza del periodo di deposito, osservazioni nel pubblico interesse.

Il piano regionale è approvato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro per i lavori pubblici previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Con lo stesso decreto sono decise le osservazioni presentate a norma del precedente comma e sono apportate al piano le modifiche occorrenti per renderlo conforme ai piani ed ai programmi nazionali.

Il decreto di approvazione è pubblicato per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Il piano regionale è vincolante per le Amministrazioni pubbliche.



Art. 38 - Piano comprensoriale

Per ogni comprensorio individuato in sede di piano regionale è redatto un piano comprensoriale al quale si applicano le disposizioni dell'art. 8.

Il progetto di piano è depositato per la durata di 30 giorni consecutivi presso il Provveditorato regionale alle opere pubbliche e del deposito è data notizia mediante pubblicazione nei fogli annunzi legali delle provincie interessate.

Entro i 30 giorni successivi alla scadenza del deposito le Amministrazioni pubbliche egli enti interessati possono presentare osservazioni.

Il piano è approvato con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sentito il Consiglio Superiore dei lavori pubblici.

Con lo stesso decreto sono decise le osservazioni presentate a norma del precedente 3° comma.

Il decreto di approvazione è pubblicato per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Il piano comprensoriale ha vigore a tempo indeterminato.

Il piano comprensoriale è sottoposto a revisione in conseguenza degli aggiornamenti apportati al piano regionale ed in ogni altro caso nel quale se ne ravvisi l'opportunità. Si applica l'ultimo comma dell'art. 9.

Art. 39 - Consorzio per il piano comprensoriale

I Comuni compresi nel territorio del piano comprensoriale devono costituirsi in Consorzio per la formazione, l'adozione e l'esecuzione del piano stesso secondo le disposizioni della legge comunale e provinciale. Del Consorzio possono far parte le Amministrazioni provinciali ed altri enti pubblici.

Il Comitato urbanistico regionale può prendere l'iniziativa per la istituzione del Consorzio.

La maggiorana assoluta dei Comuni partecipanti al Consorzio può stabilire che siano devolute a quest'ultimo le attribuzioni spettanti ai Comuni.

Art. 40 - Attuazione del piano regionale e del piano comprensoriale

Il Comitato urbanistico regionale coordina l'azione delle pubbliche Amministrazioni nell'ambito del comprensorio, vigila sulla esecuzione dei piani regionali e comprensoriali e riferisce al Comitato dei Ministri, tramite il Ministro per i lavori pubblici, nei casi nei quali accerti che gli interventi e le opere di competenza delle predette Amministrazioni siano difformi dal piano.

Art. 41 - Piano regolatore generale

I Comuni obbligati ad adottare il piano regolatore generale devono presentare il piano stesso, per l'approvazione, all'autorità competente a norma dell'art. 47 entro due anni dalla data fissata dal piano comprensoriale, salvo proroga da concedersi dalla stessa autorità in caso di accertata necessità e per un periodo non superiore, comunque, a due anni.

Trascorso il termine indicato nel comma precedente, il Ministro per i lavori pubblici, di concerto con il Ministro dell'interno, nomina i progettisti per la compilazione del piano fissando loro il termine per la presentazione del progetto al Comune. In tal caso, salvo il disposto dell'articolo successivo, l'autorità tutoria provvede alla iscrizione di ufficio della relativa spesa nel bilancio del Comune.

Qualora il Comune non provveda, entro 6 mesi dalla data di ricevimento del progetto, agli adempimenti di sua competenza ed alla presentazione del piano, il Prefetto nomina un commissario incaricato di provvedere alla adozione ed alla presentazione del piano.

Si applica l'ultimo comma dell'art. 10.

Art. 42 - Spese

Salvo il disposto delle leggi regionali, lo Stato può contribuire alla spesa per la redazione del piano regolatore generale a favore dei Comuni per i quali la redazione stesea è obbligatoria, eccettuati i Comuni capoluoghi di provincia.

La misura del contributo viene determinata, in relazione agli stanziamenti di bilancio, con decreto del Ministro per i lavori pubblici sentito il Consiglio Superiore dei lavori pubblici.

Art. 43 - Contenuto del piano regolatore generale

Il piano regolatore generale considera la totalità del territorio comunale, comprende tutti gli elementi indicati nell'articolo 11 ed è costituito anche dai seguenti elaborati:

a) una o più planimetrie in scala non inferiore a 1: 10.000 per l'intero territorio;

b) una o più planimetrie in scala non inferiore a l: 5.000 per le previsioni relative all'abitato esistente ed alle zone di immediato sviluppo;

c) una relazione illustrativa dei criteri informatori del piano.

Art. 44 - Direttive fondamentali del piano regolatore generale

Le direttive fondamentali del progetto di piano regolatore generale sono predisposte dalla Giunta municipale.

Le direttive, corredate da uno schema grafico contenente l'indicazione sommaria della rete delle principali vie di comunicazione, della zonizzazione e dei principali impianti pubblici, sono sottoposte all'esame del Comitato urbanistico regionale, che ne cura il coordinamento con le previsioni o con gli studi del piano regionale e del piano comprensoriale nonché con i programmi di attività e con le sistemazioni di beni e di impianti delle Amministrazioni statali nell'ambito regionale o comunale.

Per i Comuni obbligati a redigere il piano regolatore generale la trasmissione delle direttive al Comitato urbanistico regionale deve avvenire entro sei mesi dalla data fissata dal piano comprensoriale.

Art. 45 - Conferenza dei servizi

Ai fini del coordinamento di cui al secondo comma dell'articolo precedente, il Comitato urbanistico regionale indice una conferenza dei servizi alla quale partecipano:

a) il Provveditore regionale alle OO.PP. che la presiede;

b) il Vice Presidente del Comitato urbanistico regionale;

c) il Sindaco del Comune interessato o un suo delegato;

d) il progettista incaricato di redigere il piano;

e) il capo dell'ufficio tecnico comunale;

f) il capo dell’ufficio urbanistico del provveditorato alle OO.PP.;

g) il Sovraintendente ai monumenti;

h) il capo del Compartimento dell'ANAS;

i) il capo del Compartimento FF.SS.;

l) un rappresentante del Prefetto;

m) un rappresentante della Regione, della Provincia e del Consorzio;

n) un rappresentante dell’Istituto Nazionale di Urbanistica.

Possono essere chiamati a partecipare alla conferenza dei servizi i rappresentanti delle altre Amministrazioni interessate e possono essere invitati a parteciparvi, con voto consultivo, anche esperti.

Le pronuncie delle conferenze dei servizi sono vincolanti per le Amministrazioni pubbliche in essa rappresentate.

Art. 46 - Pubblicazione del progetto del piano regolatore generale

Il progetto di piano regolatore generale è adottato dal Comune con deliberazione consiliare, ed è depositato negli Uffici comunali per la durata di 30 giorni consecutivi, decorrenti dalla data di inserzione nel foglio annunzi legali dell'avviso previsto dal comma successivo e durante i quali chiunque può prendere visione del progetto. Nel termine di 30 giorni successivi alla scadenza del periodo di deposito chiunque ha facoltà di presentare al Comune osservazioni nel pubblico interesse.

L'effettuato deposito è reso noto al pubblico mediante avviso che viene affisso all'albo pretorio e contemporanea. mente inserito nel foglio degli annunzi legali della provincia. Del deposito si può inoltre dare notizia mediante comunicazione attraverso la stampa o altri mezzi di diffusione.

Art. 47 - Approvazione del piano regolatore generale. Valore e varianti

Il piano regolatore generale dei Comuni capoluoghi di provincia è approvato con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sentiti i pareri del Consiglio Superiore dei lavori pubblici e del Consiglio di Stato.

Il piano regolatore generale degli altri Comuni è approvato con decreto del competente Provveditore Regionale alle OO.PP. sentito il Comitato tecnico-amministrativo. Il Ministro per i lavori pubblici ha facoltà di avocare a sé l'approvazione dei piani regolatori generali dei Comuni aventi particolare rilevanza.

Con il decreto di approvazione sono decise le osservazioni e possono essere apportate al piano le modificazioni e le integrazioni necessarie in conseguenza delle decisioni sulle osservazioni nonché quelle che siano riconosciute indispensabili per assicurare:

a) l'osservanza delle leggi e dei regolamenti nonché il rispetto delle direttive del piano regionale e del piano comprensoriale;

b) la razionale e coordinata sistemazione delle opere e degli impianti di interesse esclusivo o prevalente dello Stato o di altri enti pubblici;

c) la tutela del patrimonio storico ed artistico nonché la protezione delle bellezze naturali, ai sensi delle leggi vigenti.

Un estratto del decreto è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Il piano, insieme con una copia del decreto, è depositato negli uffici comunali a libera visione del pubblico. Il deposito è reso noto nei modi stabiliti dal 2° comma dell'articolo precedente.

Chiunque ha diritto di ottenere, a pagamento, copia del piano e dei suoi elaborati.

Si applicano le disposizioni degli artt. 15 e 16.

Art. 48 - Espropriazione e utilizzazione di aree

Il Comune obbligato a redigere il piano regolatore ge. nerale può procedere ad espropriazioni in conformità all'art.17.

Art. 49 - Piano regolatore particolareggiato

Per l'attuazione del piano regolatore generale si applicano le disposizioni dell'art. 18.

In caso di inosservanza del termine indicato nell'articolo 11, n. 9, il Prefetto, su richiesta del Provveditore regionale alle opere pubbliche, nomina un commissario.

Art. 50 - Elaborati del piano particolareggiato

Il piano regolatore particolareggiato sviluppa le direttive ed i criteri tecnici stabiliti dal piano regolatore generale, comprende tutti gli elementi indicati nell'art. 21 ed è costituito anche dai seguenti elaborati:

1) planimetria di insieme in scala non inferiore ad 1: 2000 disegnata su mappa catastale quotata altimetricamente;

2) grafici ed altri atti tecnici contenenti gli elementi indicati nell'art. 21;

3) gli elenchi catastali dei beni vincolati oda espropriare in base al piano e di quelli vincolati dal Ministero della pubblica istruzione ai fini della tutela dell'ambiente o del paesaggio.

Art. 51 - Pubblicazione di progetto di piano particolareggiato

Il progetto di piano regolatore particolareggiato è adottato con deliberazione del Consiglio comunale ed è depositato negli uffici comunali per un periodo di 30 giorni consecutivi decorrenti dalla data di inserzione nel foglio annunzi legali di un avviso ai sensi dell'art. 46, 2° comma, e durante i quali chiunque può prenderne visione. Nei 30 giorni successivi alla scadenza del periodo di deposito, chiunque può presentare al Comune osservazioni.

Art. 52 - Approvazione del piano particolareggiato

Il piano regolatore particolareggiato dei Comuni capoluoghi di provincia è approvato con decreto del Ministro dei LL.PP. sentiti il Consiglio Superiore dei LL.PP. e il Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti.

Il piano regolatore particolareggiato degli altri Comuni è approvato con decreto del competente Provveditore regionale alle opere pubbliche, previo parere del Sovrintendente ai Monumenti e del Comitato urbanistico regionale.

Il Ministro per i lavori pubblici può avo care a sé l'approvazione dei piani particolareggiati che abbiano speciale rilevanza.

Con il decreto di approvazione sono decise le osservazioni e possono essere apportate al piano le modificazioni e le integrazioni necessarie in conseguenza delle decisioni sulle osservazioni nonché quelle che siano indispensabili per assicurare l'osservanza del piano regolatore generale.

Il piano, insieme con una copia del decreto, è depositato negli uffici comunali a libera visione del pubblico.

Chiunque ha diritto di ottenere, a pagamento, copia del piano e dei suoi elaborati.

Si applicano le disposizioni contenute nell'art. 22. Le varianti sono approvate con la stessa procedura del piano originario.

Art. 53 - Espropriazione ed utilizzazione dei beni

Approvato il piano particolareggiato, si applicano gli artt. 23, 24 e 25, con le seguenti integrazioni.

L'indennità di espropriazione, in caso di accordo tra le parti, deve essere pagata o, in caso di contestazione, deve essere depositata dal Comune entro un anno dalla data di rilascio o di consegna del bene. Il Comune per il periodo intercorrente tra la data di rilascio e di consegna e quella del pagamento o del deposito dell'indennità, è tenuto a corrispondere gli interessi legali sulle somme dovute.

Il Comune, per conseguire il rilascio del bene, e l'espropriato, per effettuarne la consegna, debbono dare un preavviso di 120 giorni.

Per l’utilizzazione delle aree si applica l'art. 26.

CAPO II

NORME ATTINENTI ALL'ATTIVITÀ EDILIZIA

Art. 54 - Regolamenti edilizi

I Comuni debbono, con regolamento edilizio deliberato dal Consiglio comunale, provvedere, in conformità alle leggi ed ai piani regolatori, a dettare norme sulle seguenti materie:

l) formazione, attribuzione e funzionamento della commissione comunale di urbanistica ed edilizia; essa deve essere composta da non meno di 5 membri, rappresentativi degli interessi pubblici, particolarmente rilevanti nel Comune, ed è presieduta dal Sindaco oda un suo delegato. Più Comuni possono costituire una sola commissione urbanistico-edilizia; in tal caso fanno parte della commissione tutti i Sindaci dei Comuni interessati che ne assumano la presidenza in ordine agli affari di rispettiva competenza;

2) procedura per il rilascio delle licenze di costruzione e d'uso e per l'approvazione dei progetti;

3) compilazione e caratteristiche tecniche dei progetti di costruzione;

4) volumetria, tipologia, forma, altezze, distacchi degli edifici da progettare sulle aree di proprietà privata e su quelle in cessione;

5) caratteri esterni degli edifici e materiali da costruzione;

6) norme igieniche da osservare;

7) direzione dei lavori e regole da osservare nella costruzione e per garantire la pubblica incolumità;

8) vigilanza sulla esecuzione dei lavori;

9) disciplina sull'uso e sulla manutenzione degli edifici e delle aree scoperte;

10) ogni altra disposizione attinente alla materia edilizia e comunque opportuna per l'attuazione dei piani.

Il regolamento edilizio è approvato dalla Giunta Provinciale Amministrativa su conforme parere del Provveditore regionale alle opere pubbliche.

Art. 55 - Disposizione generale sulle costruzioni

Per costruire, demolire costruzioni, apportare ad esse modificazioni o ampliamenti, eseguire opere di trasformazione del terreno è necessaria l'approvazione del progetto di costruzione prevista dall’articolo successivo ovvero la licenza di costruzione preveduta dall'art. 57.

Si applica la disposizione contenuta nell'art. 28.



Art. 56 - Progetti di costruzione

Il cessionario delle aree di cui all'art. 26, entro sei mesi dalla cessione, deve presentare al Comune, per l'approvazione, il progetto di costruzione conforme alle prescrizioni del piano particolareggiato, del regolamento edilizio e del bando d'asta.

Il Sindaco adotta la decisione entro 90 giorni dalla presentazione delle domande, stabilendo i termini per l'inizio e per il completamento dei lavori.

Il provvedimento negativo è motivato e fissa un nuovo termine non inferiore a 90 giorni per la presentazione di un nuovo progetto.

I termini dettati per i cessionari possono essere pro- rogati per una sola volta per giustificati motivi. La loro inosservanza comporta la decadenza dalla cessione di pieno diritto.

Qualora le determinazioni del Comune siano adottate oltre i termini stabiliti dal comma 2° il Comune è tenuto a pagare al concessionario, a titolo di risarcimento dei danni, gli interessi legali sulle somme pagate per la cessione dell'area.

Si applicano le disposizioni contenute nell'art. 30, comma 4° e successivi.

Art. 57 - Licenza di costruzione

Per la licenza di costruzione si applicano le disposizioni dell'art. 31.

La licenza è rilasciata dal Sindaco, su parere conforme della commissione urbanistico-edilizia comunale, entro 90 giorni dalla data di ricevimento della domanda. Trascorso detto termine il silenzio dell’Amministrazione equivale a tutti gli effetti a rifiuto.



Art. 58 - Licenza d'uso

Agli edifici di nuova costruzione o trasformati si applica il disposto dell'art. 32.

Art. 59 - Misure di salvaguardia

Dalla data della deliberazione comunale di adozione del piano regolatore generale e particolareggiato e fino alla emanazione del relativo provvedimento di approvazione, il Sindaco non può rilasciare licenze per le opere sia di amministrazioni pubbliche sia di privati che, pur non comportando utilizzazione edilizia, siano in contrasto con le previsioni del piano adottato o che, comunque, possano pregiudicarne la futura attuazione.

Nello stesso periodo indicato nel primo comma, il Sindaco su parere conforme della commissione urbanistica ed edilizia comunale, può ordinare la sospensione di costruzioni o di lavori di trasformazione in corso che siano tali da compromettere o rendere più onerosa l'attuazione del piano. La sospensione può essere protratta fino alla data di pubblicazione del provvedimento di approvazione del piano.

In caso di inerzia del Sindaco. i provvedimenti preveduti dal 2° comma sono adottati dal Prefetto a richiesta delle Amministrazioni interessate.

Art. 60 - Salvaguardia di edifici

Gli edifici esistenti nelle zone già urbanizzate e per le quali manchino prescrizioni nel piano regolatore generale e nel piano particolareggiato devono essere mantenuti con i loro caratteri.



Art. 61 - Vigilanza sulle costruzioni

Il Sindaco esercita la vigilanza sulle costruzioni che .i eseguono nel territorio del Comune per assicurarne la rispondenza alle norme della presente legge e del relativo regolamento nonché del regolamento edilizio, alle prescrizioni di piano regolatore ed alle modalità esecutive fissate nella licenza di costruzione o nel provvedimento di approvazione del progetto a termini dell'art. 56.

Qualora sia constatata l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità indicate nel comma precedente, il Sindaco ordina l'immediata sospensione dei lavori, con riserva dei provvedimenti che risulteranno necessari per la modifica delle costruzioni o per la restituzione in pristino. L'ordine di sospensione cessa di avere efficacia se entro 90 giorni dalla sua notificazione il Sindaco non abbia adottato e notificato i provvedimenti definitivi.

In caso di costruzione abusiva o di proseguimento dei lavori dopo l'ordinanza di sospensione, il Sindaco ordina la demolizione a spese della parte, senza pregiudizio delle sanzioni penali.

Al pagamento delle spese relative alla esecuzione in danno sono solidalmente obbligati il committente, il direttore dei lavori e chi ha eseguito i lavori.

L'appaltatore può essere cancellato dagli elenchi delle ditte ammesse agli appalti delle opere pubbliche.

In caso di inerzia del Sindaco il Ministro per i lavori pubblici lo invita a provvedere fissandogli un termine non superiore a 60 giorni, decorso inutilmente il quale egli si sostituisce per quanto necessario.



Art. 62 - Annullamento di ufficio.

I provvedimenti comunali che autorizzino opere non conformi alle norme della presente legge e del relativo regolamento, alle prescrizioni dei piani regolatori, ovvero alle norme del regolamento edilizio e che in qualsiasi modo costituiscano violazione delle norme e prescrizioni predette, possono essere in qualunque tempo annullati con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sentito il Consiglio di Stato.

In pendenza della procedura di annullamento, il Ministro per i lavori pubblici può ordinare la sospensione dei lavori.

Art. 63 - Costruzioni di Amministrazioni Statali

Per le costruzioni dello Stato, il Comune, nei casi indicati nel 2° comma dell'art. 61, rimette gli atti al Ministro per i lavori pubblici, il quale provvede.

I progetti di costruzione delle opere indicate nel precedente comma devono essere preventivamente comunicati al Ministro per i lavori pubblici per il relativo nulla-osta.

TITOLO IV

Disposizioni comuni

CAPO I

DISPOSIZIONi GENERALI



Art. 64 - Progetti di opere pubbliche

I progetti delle costruzioni dello Stato e degli altri enti pubblici devono essere muniti di una esplicita dichiarazione con la quale il capo del servizio competente attesti che i progetti stessi sono stati redatti in conformità al piano regolatore.



Art. 65 - Oneri e vincoli non indennizzabili

Per i vincoli di zona, per le limitazioni, per gli oneri gravanti sulle costruzioni, per le destinazioni di uso comunque attribuite agli immobili dai piani regolatori non è dovuta alcuna indennità.



Art. 66 - Divieto di utilizzazione edilizia in deroga

I piani regolatori e i regolamenti comunali non possono consentire utilizzazioni edilizie in deroga alle relative norme e prescrizioni.

È abrogata ogni norma statale e comunale che disponga diversamente.

CAPO II

COMPARTI ED OPERE DI RISANAMENTO



Art. 67 - Delimitazione di centri

Nei piani regionali devono essere indicati i centri storico-artistici ed ambientali che devono essere mantenuti nella loro integrità, quelli che devono essere conservati previo risanamento, nonché i quartieri e nuclei abitati per i quali deve procedersi a risanamento igienico-sanitario.

Nel perimetro dei centri storico-artistici ed ambientali è vietata ogni trasformazione o mutamento dello stato dei luoghi fino all'approvazione dei piani particolareggiati, salva la facoltà del Sindaco, nei casi di accertata urgente necessità, di autorizzare l'esecuzione di opere straordinarie di manutenzione negli edifici, purché non diano luogo a trasformazioni pregiudizievoli.

Per l'attuazione del risanamento conservativo dei centri storico-artistici ed ambientali i Comuni procederanno mediante la costituzione di comparti obbligatori.



Art. 68 – Comparti

Il comparto comprende costruzioni da trasformare oda risanare secondo speciali prescrizioni ed aree inedificate. Esso costituisce una unità inscindibile, definita sia planimetricamente sia volumetricamente nei singoli elementi urbanistici ed edilizi e comprende anche le relative aree occorrenti per le strade, le piazze ed altri spazi di uso pubblico.

Il Comune procede alla formazione dei comparti in sede di piano particolareggiato.

La formazione dei comparti è disposta con deliberazione consiliare.

Per la procedura di formazione si applicano le disposizioni dell'art. 51. Il piano è approvato dal Provveditore regionale alle OO.PP. ed è depositato negli Uffici comunali ai sensi dell'art. 52, 5° comma.



Art. 69 - Partecipazione dei proprietari al comparto

I proprietari partecipano al comparto con una quota percentuale al valore dell'immobile conferito rispetto al valore dell'intero comparto secondo le destinazioni anteriori alle previsioni del piano regolatore generale.

Le quote sono stabilite mediante accordo fra gli interessati.



Art. 70 - Consorzi e opere del comparto

Formato il comparto, il Sindaco fissa ai proprietari un termine, non inferiore a 90 giorni e non superiore ai 180, entro il quale essi devono dichiarare se intendano procedere riuniti in consorzio alle opere per le quali il comparto è stato costituito.

Per la costituzione del consorzio è sufficiente il consenso dei proprietari rappresentanti i sei decimi del valore dei beni dell'intero comparto.

I consorzi conseguono la piena disponibilità del comparto mediante l'espropriazione dei beni e delle costruzioni appartenenti ai non aderenti.

Decorso inutilmente il termine stabilito dal Comune, questo promuove direttamente la espropriazione.

I lavori per la realizzazione del comparto sono dichiarati indifferibili ed urgenti.

L'indennità di espropriazione è calcolata a norma dell'articolo 24.



Art. 71 - Assegnazione del comparto

Il Comune indice, per l'assegnazione in tutto o in parte del comparto, una gara ai sensi dell'art. 26.

Gli acquirenti devono iniziare e ultimare i lavori per i quali il comparto è stato costituito, nei termini stabiliti dal Comune nel bando di gara.

Art. 72 - Progetto di comparto di risanamento

Il progetto di comparto di risanamento dei centri storico-artistici ed ambientali deve essere redatto sulla base di un rilievo particolareggiato di ogni singolo edificio e di ogni elemento di pregio architettonico o artistico contenuto nel comparto ed indica le opere di restauro e di risanamento, la destinazione degli edifici, l'eventuale rifusione particellare e la sistemazione degli spazi inedificati.

Negli interventi su edifici storico-artistici od ambientali saranno, di norma, ammesse trasformazioni che garantiscano l'integrità e l'inalterabilità dei prospetti e degli elementi architettonici autentici e non saranno consentiti aumenti di volume o di altezza.

CAPO III

DISPOSIZIONI FINANZIARIE E TRIBUTARIE



Art. 73 -Mutui

Per l'attuazione dei piani regolatori generali, particolareggiati e dei comparti, la Cassa DD.PP. è autorizzata a concedere mutui ai Comuni, anche in deroga ai limiti di cui all'art. 300 del T. U. 3 marzo 1934, n. 383.

Art. 74 - Gestione urbanistica

Presso ogni Comune è costituita una amministrazione separata per la gestione urbanistica. Sono imputati ad essa i proventi per la cessione delle aree e i contributi che il Comune riceve per fini di conservazione del patrimonio artistico, di risanamento edilizio, di edilizia popolare e per ogni altro fine connesso con l'aspetto urbanistico.

Il fondo della gestione di cui al precedente comma costituisce garanzia comune delle indennità di espropriazione dovute per l'attuazione dei piani indicati nell'articolo precedente.

Gli atti di cessione delle aree ai sensi dell'art. 53, ultimo comma, sono rogati dal segretario comunale.



Art. 75 - Agevolazioni tributarie

Salve le maggiori agevolazioni tributarie previste da speciali disposizioni di legge, gli atti di espropriazione e di cessione delle aree in applicazione della presente legge e delle leggi urbanistiche regionali sono sottoposti a registrazione a tassa fissa; le imposte ipotecarie a garanzia dei mutui contratti per l'acquisizione delle aree stesse, sono ridotte al quarto.

Gli immobili espropriati dai Comuni sono esenti da ogni imposta loro a/Ferente. Restano a carico dei comodatari precari dei beni espropriati le imposte inerenti alla attività agricola o industriale di cui venga continuato l'esercizio sui beni stessi.

I vincoli previsti dall'art. 65 comportano l'immediata revisione delle imposte afferenti agli immobili sui quali gravano.



Art. 76 -Finanziamenti

Nel bilancio del Ministero dei lavori pubblici sono annualmente stanziati i fondi occorrenti per concedere sovvenzioni ai Comuni che non siano in grado di provvedere alle opere di risanamento e restauro dei centri storico- artistici ed ambientali.

CAPO IV

SANZIONI



Art. 77 - Lavori ed utilizzazioni non autorizzati

Chiunque intraprende lavori di costruzione di nuovi edifici o di ricostruzione, di modifica o di ampliamento di edifici esistenti senza l'approvazione dei progetti di cui agli artt. 30 e 56 o senza la licenza di costruzione di cui agli artt. 31 e 57, ovvero li prosegue nonostante l'ordine di sospensione, è punito con la reclusione fino a tre mesi e con la multa fino a L. 1.000.000.

Chiunque utilizza gli edifici di nuova costruzione e trasformazione senza la licenza d'uso è punito con la multa fino a L. 1.000.000.



Art. 78 - Violazione delle prescrizioni di altezza e distanza

Chiunque, nella costruzione di nuovi edifici o nella ricostruzione, modifica o ampliamento di edifici esistenti, ecceda i vincoli di altezza o di distanza stabiliti nel piano regolatore generale o particolareggiato, o a questo equiparato, è punito con la reclusione fino a tre mesi e con la multa fino a L. 1.000.000.

La condanna importa confisca delle parti costruite in eccedenza.



Art. 79 - Decadenza da benefici tributari

Chiunque intraprende lavori preveduti nell'art. 77, primo comma, ovvero li prosegue nonostante l'ordine di sospensione, decade da ogni agevolazione tributaria inerente alla costruzione.



TITOLO V

Disposizioni transitorie e finali



Art. 80 -Obbligo di adozione del piano regolatore

Fino a quando non saranno stati approvati i piani comprensoriali restano fermi gli elenchi dei Comuni tenuti ad adottare il piano regolato re generale ai sensi dell'articolo 8 della legge 17 agosto 1942, n. 1150. La procedura per l'adozione e l'approvazione dei piani è disciplinata dalla presente legge.

Art. 81 - Piani regolatori in corso

I piani regolatori generali e particolareggiati già adottati prima dell'entrata in vigore della presente legge sono resi conformi alla nuova legge e successivamente approvati secondo le norme della legge stessa.



Art. 82 – Revisione dei piani vigenti

I piani regolatori vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge saranno revisionati entro due anni dalla approvazione dei piani comprensoriali.

Qualora il piano comprensoriale non sia stato approvato entro due anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i piani indicati nel comma precedente sa. ranno revisionati allo scopo di essere messi in armonia con le disposizioni della legge stessa.

Art. 83 - Efficacia dei piani particolareggiati e di ricostruzione vigenti

I piani particolareggiati e i piani di ricostruzione vi- genti alla data di approvazione del piano comprensoriale o del piano regolatore generale successivo alla entrata in vigore della presente legge continuano ad avere vigore fino al momento della loro attuazione per le parti in cui non hanno ricevuto esecuzione semprechè non contrastino con le linee del nuovo piano.



Art. 84 - Lottizzazione di aree

Per le aree lottizzate a norma di legge e già edificate alla data di pubblicazione della presente legge, ma Don comprese in un piano particolareggiato approvato, l'onere relativo alle opere di urbanizzazione primaria, salvo che sia diversamente disposto da preesistenti convenzioni, è a carico dei proprietari, sempreché la destinazione delle aree sia confermata dal piano regolatore.

In caso di inadempienza da parte di questi, il Comune, previa diffida, provvede direttamente, recuperando le quote a carico di ciascun proprietario.

Le aree lottizzate ed inedificate alla data di pubblicazione della presente legge sono regolate dalle norme in questa contenute.



Art. 85 - Deroga al divieto di utilizzazione edilizia

I Comuni in possesso di piano regolatore generale già approvato alla data di entrata in vigore della presente legge hanno l'obbligo di adottare i relativi piani particolareggiati previsti per le zone di immediata espansione entro un anno dalla data stessa.

Durante tale periodo non si applica il disposto degli artt. 28 e 55, ferme restando le disposizioni della legge 17 agosto 1942, n. 1150.



Art. 86 - Piani per acquisizione di aree fabbricabili per l' edilizia economica e popolare

Nota de Il Popolo, 13 aprile 1963.

In relazione alle polemiche circa io schema di legislazione urbanistica, negli ambienti responsabili della Democrazia Cristiana, si fa rilevare che il documento, il quale ha fornito occasione a vari rilievi, è il frutto del lavoro di una commissione di studio costituita presso il ministero dei Lavori Pubblici. Lo schema così formulato è stato inviato direttamente dal ministro competente per l'esame al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, prima di sottoporlo all'approvazione del Consiglio dei ministri. Pertanto, per quanto siano apprezzabili talune disposizioni, è chiaro che nello schema non è in alcun modo impegnata la responsabilità della Democrazia cristiana. Questo partito, come è detto chiaramente nel suo programma, persegue l'obbiettivo di dare la casa in proprietà a tutti gli italiani senza limitazione alcuna nella tradizionale configurazione di questo diritto. Anche nella legislazione urbanistica saranno pienamente rispettati per quanto riguarda la DC i principi costituzionali e i diritti dei cittadini.

Una nota pubblicata ieri dall'agenzia «Italia», ha reso noto, inoltre, che in merito alle conclusioni della commissione di studio dei piani urbanistici, il governo si è comportato con estrema cautela, subordinando ogni inizio di discussione collegiale alla conoscenza del richiesto parere del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Di solito la procedura è quella inversa: si procede, cioè, all'esame consiliare ed in questa sede si delibera la richiesta del parere del CNEL. Questa volta il ministro, prima di sottoporre l'esito degli studi dell'apposita commissione urbanistica alla discussione collegiale del Consiglio dei ministri, ha voluto sentire il CNEL per averne un orientamento. Il fatto che il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro stia da mesi approfondendo la questione, dimostra con quale senso di prudenza nelle sfere responsabili si sia voluto premettere un tale esame a qualsiasi iniziale discussione di quei progetti.

Nota de Il Popolo, 13 aprile 1963.

L’ Avanti! si impegna sempre più, mano amano che ci si avvicina al traguardo elettorale, nella polemica nei confronti della DC. Tra l'altro si sofferma sui tenebrosi retroscena delle cosiddette inadempienze programmatiche della Democrazia cristiana. Il nucleo del discorso è naturalmente nella denuncia dell'ipoteca di destra gravante sulla DC, della incapacità di questo partito di operare efficacemente e coerentemente sul terreno della libertà e del progresso. È la solita artificiosa visione di una DC divisa internamente, frenata dagli uni, spinta dagli altri, suscettibile di essere adoperata come strumento di difesa di interessi conservatori o di essere utilizzata per fini di progresso sotto il pungolo di un forte partito socialista.

La DC ha la sua più libera ed intensa dialettica interna (la quale peraltro non può essere schematizzata in posizioni conservatrici e posizioni progressiste), ma trova sempre nella sua libertà e responsabilità, una giusta via unitaria che corrisponde alle richieste del suo vastissimo elettorato popolare ed agli interessi del paese. Essa non può essere piegata da temo partecipa con ricco apporto di idee. Riserve, pur nell'apprezzamento di taluni principi e disposizioni, sullo schema di legislazione urbanistica, elaborato da una Commissione di studio, sono state fatte presenti da tempo in forma discreta, contribuendo ad avviare l'utilissimo esame sollecitato dal presidente del Consiglio e dal ministro dei Lavori Pubblici, di un organismo altamente qualificato, quale è il CNEL, sulla delicata materia. E non è mancata, di fronte a rilievi mossi con amichevole e scrupolosa obiettività, la volonterosa ed attenta considerazione del ministro.

Non c'è bisogno di dire poi, che noi deploriamo la grossolana speculazione politica e non politica, su questo tema. La responsabilità politica dei partiti è fondata su decisioni statutarie collegiali le quali, soprattutto nel momento elettorale, si concentrano sul programma presentato agli elettori. E su questo programma, elaborato e reso noto prima delle recenti polemiche, si è attirata l'attenzione degli elettori anche in materia urbanistica, riconfermando le direttive di fondo della DC su questa materia. Per queste linee essenziali, enunciate nel programma, può essere assunta oggi la piena responsabilità della DC. Dai principi poi la DC trarrà una linea di azione equilibrata e costruttiva che i suoi organi direttivi, politici e parlamentari, con approfondito e sereno dibattito, sapranno definire.

Nota dell'Agenzia Radar (15 aprile 1963) sul discorso dell'on. Sullo a Bagnoli Irpino.

Il ministro Sullo, parlando a Bagnoli Irpino alla festa della «Matricola del Voto», organizzata dalla DC di Avellino, ha dichiarato di assumere tutte le responsabilità che gli competono per aver promosso, nel pieno rispetto delle procedure costituzionali ed in conformità degli impegni assunti dal presidente del Consiglio alle Camere in occasione della presentazione del governo di centro sinistra, la redazione di uno schema di moderna legge urbanistica atta anche a stroncare la speculazione sulle aree fabbricabili.

Una campagna di stampa ben orchestrata vuole incutere spavento dappertutto diffondendo preoccupazioni assolutamente fuori posto.

Si sono posti in allarme gli attuali proprietari di case - ha proseguito l'on. Sullo - mentre dovrebbe essere noto che gli attuali proprietari non sono affatto toccati dal progetto elaborato.

Si è inventato che il progetto di legge impedirebbe ad altri milioni di cittadini di diventare in futuro proprietari di case, quando invece - ha osservato l'oratore - solo rendendo più basso il costo delle aree nei comuni più importanti d'Italia un maggior numero di persone potranno diventare proprietari di casa a basso costo.

Si è voluta continuare una polemica inutile sul diritto di superficie quando sarebbe bastato prendere lealmente atto che fino da sei mesi fa il ministro Sullo aveva alla Camera dichiarato che era disposto ad eliminare dal progetto il diritto di superficie.

E anche su questo particolare del progetto si è voluto capovolgerne la portata e le finalità, dal momento che doveva essere chiaro che esso avrebbe sempre avuto carattere di concessione perpetua e irrevocabile, subordinata soltanto alle prescrizioni dei piani regolatori, al fine di evitare che, ad onta dei medesimi, pullulassero sostanzialmente impunite costruzioni abusive.

Attraverso la polemica e la distorsione della verità non si è avuto scrupolo di fomentare il panico di milioni di cittadini italiani, che hanno tutto da guadagnare da una nuova legge urbanistica. Questo si è fatto solo per tutelare gli interessi fondiari - sproporzionatamente aumentati per effetto dello sviluppo economico del Paese - di poche migliaia di persone.

Il ministro Sullo ha formulato il voto che si possa trovare il modo, prima o dopo il 28 aprile, di organizzare un dibattito televisivo che consenta al grande pubblico di rendersi conto di tutti gli aspetti del complesso problema.

Quanto a me - ha detto Sullo - non ho certo mancato di agevolare la più ampia e libera discussione del progetto, che non voleva essere, e non è, un modello di perfezione esente da critiche, ma solo una onesta base di esame.

Ed ho ampiamente informato il Parlamento illustrando il progetto al Senato sommariamente il 28 giugno 1962 e più analiticamente alla Camera il 23 ottobre 1962.

Perché gli oppositori non si servirono della tribuna parlamentare? Perché hanno atteso la campagna elettorale per diffondere notizie fantasiose e per distorcere il significato delle parole?

Ho aderito alla richiesta della presidenza del Consiglio di inviare al CNEL il disegno di legge (e al presidente Campilli ho dichiarato che non avrei insistito sull'introduzione del diritto di superficie) proprio perché sono persuaso che leggi fondamentali come l'urbanistica devono essere profondamente meditate e che perciò il parere di un organismo nel quale sono ad alto livello rappresentate le categorie del mondo del lavoro e della produzione sarebbe stato assai proficuo.

Qual che sia il ruolo che mi riserveranno le vicende politiche - ha dichiarato Sullo - io continuerò a battermi nei miei modesti limiti, perché una moderna legge urbanistica elimini o riduca il caos costruttivo delle grandi città, elimini o riduca la speculazione delle aree.

Le battaglie politiche sono lunghe ed hanno bisogno di anni; ma se sono giuste si vincono, alla fine.

Nel 1956, al Congresso di Trento, fummo derisi per aver chiesto che si prendesse in serio esame l'ipotesi di un governo di centro-sinistra. Anzi coniarono per noi il termine di «comunistelli». Il tempo ci ha dato ragione.

Nel 1963, abbiamo la sola preoccupazione di voler combattere la speculazione di centinaia di miliardi sui suoli e si inventa la bugia che vogliamo espropriare i proprietari di case.

Anche per questo il tempo darà ragione alle persone in buona fede alle quali crediamo di appartenere.

Traduzione del testo ufficiale in inglese e francese predisposta dal Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Ambientali e Paesaggistici, in occasione della Conferenza Ministeriale di Apertura alla Firma della Convenzione europea del Paesaggio. La traduzione del testo è stata curata da Manuel R. Guido e Daniela Sandroni dell’Ufficio Centrale per i Beni ambientali e paesaggistici. Qui il testo ufficiale in lingua inglese e francese.

Preambolo

Gli Stati membri del Consiglio d'Europa, firmatari della presente Convenzione,

Considerando che il fine del Consiglio d’Europa è di realizzare un’unione più stretta fra i suoi membri, per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che sono il loro patrimonio comune, e che tale fine è perseguito in particolare attraverso la conclusione di accordi nel campo economico e sociale;

Desiderosi di pervenire ad uno sviluppo sostenibile fondato su un rapporto equilibrato tra i bisogni sociali, l'attività economica e l’ambiente;

Constatando che il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all'attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro;

Consapevoli del fatto che il paesaggio coopera all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea;

Riconoscendo che il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana;

Osservando che le evoluzioni delle tecniche di produzione agricola, forestale, industriale e pianificazione mineraria e delle prassi in materia di pianificazione territoriale, urbanistica, trasporti, reti, turismo e svaghi e, più generalmente, i cambiamenti economici mondiali continuano, in molti casi, ad accelerare le trasformazioni dei paesaggi;

Desiderando soddisfare gli auspici delle popolazioni di godere di un paesaggio di qualità e di svolgere un ruolo attivo nella sua trasformazione;

Persuasi che il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo;

Tenendo presenti i testi giuridici esistenti a livello internazionale nei settori della salvaguardia e della gestione del patrimonio naturale e culturale, della pianificazione territoriale, dell’autonomia locale e della cooperazione transfrontaliera e segnatamente la Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell'ambiente naturale d'Europa (Berna, 19 settembre 1979), la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio architettonico d'Europa (Granada, 3 ottobre 1985), la Convenzione europea per la tutela del patrimonio archeologico (rivista) (La Valletta, 16 gennaio 1992), la Convenzione-quadro europea sulla cooperazione transfrontaliera delle collettività o autorità territoriali (Madrid, 21 maggio 1980) e i suoi protocolli addizionali, la Carta europea dell'autonomia locale (Strasburgo, 15 ottobre 1985), la Convenzione sulla biodiversità (Rio, 5 giugno 1992), la Convenzione sulla tutela del patrimonio mondiale, culturale e naturale (Parigi, 16 novembre 1972), e la Convenzione relativa all'accesso all'informazione, alla partecipazione del pubblico al processo decisionale e all'accesso alla giustizia in materia ambientale (Aarhus, 25 giugno 1998) ;

Riconoscendo che la qualità e la diversità dei paesaggi europei costituiscono una risorsa comune per la cui salvaguardia, gestione e pianificazione occorre cooperare;

Desiderando istituire un nuovo strumento dedicato esclusivamente alla salvaguardia, alla gestione e alla pianificazione di tutti i paesaggi europei;

Hanno convenuto quanto segue:

CAPITOLO I - DISPOSIZIONI GENERALI

Articolo 1 - Definizioni

Ai fini della presente Convenzione:

a )"Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni;

b) "Politic a del paesaggio" designa la formulazione, da parte delle autorità pubbliche competenti, dei principi generali, delle strategie e degli orientamenti che consentano l'adozione di misure specifiche finalizzate a salvaguardare gestire e pianificare il paesaggio;

c) “Obiettivo di qualità paesaggistica” designa la formulazione da parte delle autorità pubbliche competenti, per un determinato paesaggio, delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita;

d) “Salvaguardia dei paesaggi” indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d’intervento umano;

e) “Gestione dei paesaggi” indica le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici ed ambientali;

f) “Pianificazione dei paesaggi” indica le azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi.

Articolo 2 - Campo di applicazione

Fatte salve le disposizioni dell'articolo 15, la presente Convenzione si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana sia i paesaggi degradati.

Articolo 3 - Obiettivi

La presente Convenzione si prefigge lo scopo di promuovere la salvaguardia, la gestione e la pianificazione dei paesaggi e di organizzare la cooperazione europea in questo campo.

CAPITOLO II - PROVVEDIMENTI NAZIONALI

Articolo 4 - Ripartizione delle competenze

Ogni Parte applica la presente Convenzione e segnatamente i suoi articoli 5 e 6, secondo la ripartizione delle competenze propria al suo ordinamento, conformemente ai suoi principi costituzionali e alla sua organizzazione amministrativa, nel rispetto del principio di sussidiarietà, tenendo conto della Carta europea dell’autonomia locale. Senza derogare alle disposizioni della presente Convenzione, ogni Parte applica la presente Convenzione in armonia con le proprie politiche.

Articolo 5 – Provvedimenti generali

Ogni Parte si impegna a :

a) riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità;

b) stabilire e attuare politiche paesaggistiche volte alla protezione, alla gestione, alla pianificazione dei paesaggi tramite l’adozione delle misure specifiche di cui al seguente articolo 6;

c) avviare procedure di partecipazione del pubblico, delle autorità locali e regionali e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella realizzazione delle politiche paesaggistiche menzionate al precedente capoverso b;

d) integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un'incidenza diretta o indiretta sul paesaggio.

Articolo 6 - Misure specifiche

A. Sensibilizzazione

Ogni parte si impegna ad accrescere la sensibilizzazione della società civile, delle organizzazioni private e delle autorità pubbliche al valore dei paesaggi, al loro ruolo e alla loro trasformazione.

.

B. Formazione ed educazione

Ogni Parte si impegna a promuovere :

a) la formazione di specialisti nel settore della conoscenza e dell’intervento sui paesaggi;

b.) dei programmi pluridisciplinari di formazione sulla politica, la salvaguardia, la gestione e la pianificazione del paesaggio destinati ai professionisti del settore pubblico e privato e alle associazioni di categoria interessate;

c) degli insegnamenti scolastici e universitari che trattino, nell’ambito delle rispettive discipline, dei valori connessi con il paesaggio e delle questioni riguardanti la sua salvaguardia , la sua gestione e la sua pianificazione.

C. Individuazione e valutazione

1. Mobilitando i soggetti interessati conformemente all’articolo 5.c, e ai fini di una migliore conoscenza dei propri paesaggi, ogni Parte si impegna a.

a) (i)individuare i propri paesaggi, sull'insieme del proprio territorio; (ii) analizzarne le caratteristiche, nonché le dinamiche e le pressioni che li modificano; (iii) seguirne le trasformazioni ;

b) valutare i paesaggi individuati, tenendo conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate.

2. I lavori di individuazione e di valutazione verranno guidati dagli scambi di esperienze e di metodologie organizzati tra le Parti, su scala europea, in applicazione dell’articolo 8 della presente Convenzione.

D. Obiettivi di qualità paesaggistica

Ogni parte si impegna a stabilire degli obiettivi di qualità paesaggistica riguardanti i paesaggi individuati e valutati, previa consultazione pubblica, conformemente all’articolo 5.c.

E. A pplicazione

Per attuare le politiche del paesaggio, ogni Parte si impegna ad attivare gli strumenti di intervento volti alla salvaguardia, alla gestione e/o alla pianificazione dei paesaggi.

CAPITOLO III – COOPERAZIONE EUROPEA

Articolo 7 – Politiche e programmi internazionali

Le Parti si impegnano a cooperare perchè venga tenuto conto della dimensione paesaggistica nelle loro politiche e programmi internazionali e a raccomandare, se del caso, che vi vengano incluse le considerazioni relative al paesaggio.

Articolo 8 – Assistenza reciproca e scambio di informazioni

Le Parti si impegnano a cooperare per rafforzare l'efficacia dei provvedimenti presi ai sensi degli articoli della presente Convenzione, e in particolare a:

a) prestarsi reciprocamente assistenza, dal punto di vista tecnico e scientifico, tramite la raccolta e lo scambio di esperienze e di lavori di ricerca in materia di paesaggio;

b) favorire gli scambi di specialisti del paesaggio, segnatamente per la formazione e l’informazione;

c) scambiarsi informazioni su tutte le questioni trattate nelle disposizioni della presente Convenzione.

Articolo 9 – Paesaggi transfrontalieri

Le Parti si impegnano ad incoraggiare la cooperazione transfrontaliera a livello locale e regionale, ricorrendo, se necessario, all'elaborazione e alla realizzazione di programmi comuni di valorizzazione del paesaggio.

Articolo 10 – Controllo dell'applicazione della Convenzione

1. I competenti Comitati di esperti già istituiti ai sensi dell'articolo 17 dello Statuto del Consiglio d'Europa, sono incaricati dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del controllo dell'applicazione della Convenzione.

2. Dopo ogni riunione dei Comitati di esperti, il Segretario Generale del Consiglio d'Europa trasmette un rapporto sui lavori e sul funzionamento della Convenzione al Comitato dei Ministri.

3. I Comitati di esperti propongono al Comitato dei Ministri i criteri per l'assegnazione e il regolamento del Premio del Paesaggio del Consiglio d'Europa.

Articolo 11 – Premio del Paesaggio del Consiglio d'Europa

1. Il Premio del paesaggio del Consiglio d'Europa può essere assegnato alle collettività locali e regionali e ai loro consorzi che, nell’ambito della politica paesaggistica di uno Stato Parte contraente della presente Convenzione, hanno attuato una politica o preso dei provvedimenti volti alla salvaguardia, alla gestione e/o alla pianificazione sostenibile dei loro paesaggi che dimostrino una efficacia durevole e possano in tal modo servire da modello per le altre collettività territoriali europee. Tale riconoscimento potrà ugualmente venir assegnato alle organizzazioni non governative che abbiano dimostrato di fornire un apporto particolarmente rilevante alla salvaguardia, alla gestione o alla pianificazione del paesaggio.

2. Le candidature per l'assegnazione del Premio del paesaggio del Consiglio d'Europa saranno trasmesse ai Comitati di Esperti di cui all'articolo 10 dalle Parti. Possono essere candidate delle collettività locali e regionali transfrontaliere, nonché dei raggruppamenti di collettività locali o regionali, purché gestiscano in comune il paesaggio in questione.

3. Su proposta dei Comitati di esperti di cui all'articolo 10, il Comitato dei Ministri definisce e pubblica i criteri per l'assegnazione del Premio del Paesaggio del Consiglio d'Europa, ne adotta il regolamento e conferisce il premio.

4. L'assegnazione del Premio del paesaggio del Consiglio d'Europa stimola i soggetti che lo ricevono a vigilare affinché i paesaggi interessati vengano salvaguardati, gestiti e/o pianificati in modo sostenibile.

CAPITOLO IV – CLAUSOLE FINALI

Articolo 12 – Relazioni con altri strumenti giuridici

Le disposizioni della presente Convenzione non precludono l’applicazione di disposizioni più severe in materia di salvaguardia, gestione o pianificazione dei paesaggi contenute in altri strumenti nazionali od internazionali vincolanti che sono o saranno in vigore.

Articolo 13 – Firma, ratifica, entrata in vigore

1. La presente Convenzione è aperta alla firma degli Stati membri del Consiglio d’Europa. Sarà sottoposta a ratifica, accettazione o approvazione. Gli strumenti di ratifica, di accettazione o di approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa;

2. La presente Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data in cui dieci Stati membri del Consiglio d’Europa avranno espresso il loro consenso a essere vincolati dalla Convenzione conformemente alle disposizioni del precedente paragrafo;

3. Per ogni Stato firmatario che esprimerà successivamente il proprio consenso ad essere vincolato dalla Convenzione, essa entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo allo scadere di un periodo di tre mesi dalla data del deposito dello strumento di ratifica, di accettazione o di approvazione.

Articolo 14 – Adesione

1. Dal momento dell’entrata in vigore della presente Convenzione, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa potrà invitare la Comunità Europea e ogni Stato europeo non membro del Consiglio d’Europa ad aderire alla presente Convenzione, con una decisione presa dalla maggioranza prevista all’articolo 20.d dello statuto del Consiglio d’Europa, e all’unanimità degli Stati Parti Contraenti aventi il diritto a sedere nel Comitato dei Ministri;

2. Per ogni Stato aderente o per la Comunità Europea in caso di adesione, la presente Convenzione entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo allo scadere di un periodo di tre mesi dalla data del deposito dello strumento di adesione presso il Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

Articolo 15 – Applicazione territoriale

1. Ogni Stato o la Comunità europea può, al momento della firma o al momento del deposito del proprio strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione, designare il territorio o i territori in cui si applicherà la presente Convenzione;

2. Ogni Parte può, in qualsiasi altro momento successivo, mediante dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, estendere l’applicazione della presente Convenzione a qualsiasi altro territorio specificato nella dichiarazione. La Convenzione entrerà in vigore nei confronti di detto territorio il primo giorno del mese successivo allo scadere di un periodo di tre mesi dalla data in cui la dichiarazione è stata ricevuta dal Segretario Generale;

3. Ogni dichiarazione fatta in virtù dei due paragrafi precedenti potrà essere ritirata per quanto riguarda qualsiasi territorio specificato in tale dichiarazione, con notifica inviata al Segretario Generale. Il ritiro avrà effetto il primo giorno del mese che segue lo scadere di un periodo di tre mesi dalla data del ricevimento della notifica da parte del Segretario Generale.

Articolo 16 – Denuncia

1. Ogni Parte può, in qualsiasi momento, denunciare la presente Convenzione, mediante una notifica indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa;

2. Tale denuncia prenderà effetto il primo giorno del mese successivo allo scadere di un periododi tre mesi dalla data in cui la notifica è stata ricevuta da parte del Segretario Generale.

Articolo 17 – Emendamenti

1. Ogni Parte o i Comitati di Esperti indicati all'articolo 10 possono proporre degli emendamenti alla presente Convenzione.

2. Ogni proposta di emendamento è notificata per iscritto al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, che a sua volta la trasmette agli Stati membri del Consiglio d’Europa, alle altre Parti contraenti e ad ogni Stato europeo non membro che sia stato invitato ad aderire alla presente Convenzione ai sensi dell'articolo 14.

3. Ogni proposta di emendamento verrà esaminata dai Comitati di Esperti indicati all'articolo 10 e il testo adottato a maggioranza dei tre quarti dei rappresentanti delle Parti verrà sottoposto al Comitato dei Ministri per l’adozione. Dopo la sua adozione da parte del Comitato dei Ministri secondo la maggioranza prevista all'articolo 20. d dello Statuto del Consiglio d'Europa e all'unanimità dei rappresentanti degli Stati Parti Contraenti aventi il diritto di partecipare alle riunioni del Comitato dei Ministri, il testo verrà trasmesso alle Parti per l’accettazione.

4. Ogni emendamento entra in vigore, nei confronti delle Parti che l’abbiano accettato, il primo giorno del mese successivo allo scadere di un periodo di tre mesi dalla data in cui tre Parti Contraenti, membri del Consiglio d’Europa avranno informato il Segretario Generale di averlo accettato. Per qualsiasi altra Parte che l’avrà accettato successivamente, l’emendamento entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo allo scadere di un periodo di tre mesi dalla data in cui la detta Parte avrà informato il Segretario Generale di averlo accettato.

Articolo 18 – Notifiche

Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa notificherà agli Stati membri del Consiglio d’Europa, a ogni Stato o alla Comunità Europea che abbia aderito alla presente Convenzione:

a) ogni firma;

b) il deposito di ogni strumento di ratifica, di accettazione, di approvazione o di adesione;

c) ogni data di entrata in vigore della presente Convenzione conformemente agli articoli 13, 14 e 15;

d) ogni dichiarazione fatta in virtù dell'articolo 15;

e) ogni denuncia fatta in virtù dell'articolo 16;

f) ogni proposta di emendamento, cosi' come ogni emendamento adottato conformemente all'articolo 17 e la data in cui tale emendamento entrerà in vigore;

g) ogni altro atto, notifica, informazione o comunicazione relativo alla presente Convenzione.

In fede di che, i sottoscritti, debitamente autorizzati a questo fine, hanno firmato la presente Convenzione.

Fatto a Firenze, il 20 ottobre 2000, in francese e in inglese, facendo i due testi ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato negli archivi del Consiglio d’Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d’Europa ne trasmetterà copia certificata conforme a ciascuno degli Stati membri del Consiglio d’Europa, nonché a ciascuno degli Stati o alla Comunità Europea invitati ad aderire alla presente Convenzione.

Da: Cederna A.- Santucci A.- Scolaro G., Il "rovescio"della città, Introduzione di Emiliani A., Bologna, Labanti e Nanni, 1987

Perché in Italia è così difficile proteggere l’ambiente e la natura, e utilizzare in modo ragionevole il territorio?

Chi oggi intraprendesse il grand tour potrebbe alla fine scrivere quella “guida dell’Italia alla rovescia” di cui da gran tempo si sente la mancanza, in cui illustrare i maggiori scempi e disastri: pinete litoranee lottizzate, aree archeologiche insidiate dall’edilizia, mare in gabbia e coste trasformate in congestionati suburbi, fiumi ridotti a cloaca, colline e corsi d’acqua devastati dalle cave, case e industrie costruite in zone franose, preziose zone umide trasformate in campi di patate, monumenti famosi incastonati fra i casamenti della periferia, boschi abbandonati, montagne scorticate e ricoperte da fili e tralicci, pendici di vulcani urbanizzate, parchi nazionali occupati da condominii e tagliati da strade rovinose, scarichi fumanti di rifiuti, la macchia mediterranea privatizzata dal reticolo edilizio, e via dicendo. Un insensato sparpagliamento del costruito elimina ogni distinzione tra città e campagna, annulla ogni identità fisica e storica, un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto va man mano sostituendosi alla crosta terrestre.

E il lettore verrebbe a sapere che in vent’anni ben tre milioni di ettari di terreno agricolo (un decimo dell’Italia) sono stati fatti sparire, e che se non si pone rimedio si può prevedere che tra cent’anni tutta l’Italia verde sarà scomparsa. Che da questo saccheggio (ispirato alla più completa ignoranza delle caratteristiche di paesaggio, territorio, suolo) deriva in gran parte il dissesto idro-geologico che ci affligge, le alluvioni bi-trimestrali, le tremila e più frane all’anno (un morto ogni dieci giorni). Che da anni imperversa il più folle spreco edilizio, per cui abbiamo ottanta milioni di stanze per 56 milioni di italiani, mentre sempre più acuta è la crisi degli alloggi (ma ben quattro milioni sono gli alloggi vuoti), senza parlare del flagello dell’abusivismo, per cui nel Mezzogiorno due case su tre sono fuori legge.

Che l’Italia è alla coda della graduatoria universale per quanto riguarda aree protette (solo l’1,5 per cento del territorio, contro medie del 10 per cento negli altri paesi, terzo mondo compreso).

Che non un solo parco pubblico degno del nome è stato realizzato nelle città, per il riposo, la ricreazione, il tempo libero di giovani e adulti, mentre grandiose realizzazioni sono in corso in tutta Europa, da Vienna a Parigi a Monaco, eccetera.

Le radici di questa arretratezza sono profonde e diffuse. Troppi politici e amministratori considerano anche il territorio come merce da barattare, terra di nessuno ovvero proprietà di chi riesce ad arraffarlo. Il mondo accademico (che pomposamente si definisce “comunità scientifica”) è assorto nei propri pensieri, ossequioso verso il potere, incapace salvo eccezioni di azioni coraggiose. Gli uomini di cultura sono da sempre indifferenti ai problemi della vita associata, e considerano “anime belle” chi si batte per la difesa dell’ambiente. Gli addetti ai lavori, architetti e urbanisti, salvo una valorosa minoranza, disprezzano la cultura della conservazione e smaniano di lasciare ovunque la propria “impronta”, spropositando che senza architettura la natura non varrebbe niente. La stampa, per quanto più attenta di una volta, è vittima del culto demenziale della notizia, e “notizia” significa fatto clamoroso, catastrofe, incendio, alluvione, eccetera, per cui troppo spesso si riduce a semplice registrazione tardiva di fatti compiti, con tanti saluti all’altro culto sbandierato, quello dell’attualità. Quanto alla scuola sappiamo il poco che si fa per educare i giovani al rispetto, alla conoscenza, al giusto comportamento.

Al fondo di tutto ciò ci dev’essere una qualche radicata malformazione culturale. Semplificando si può dire che le principali componenti della nostra cultura non hanno dato buoni frutti. L’idealismo ci ha insegnato che la natura non esiste, che il paesaggio è uno stato d’animo, cioè un’apparenza soggettiva e inafferrabile. Il cattolicesimo (ovvero, la tradizione giudaico-cristiana) ha dissacrato il concetto che della natura aveva il mondo classico, e ne ha fatto despota l’uomo. Il marxismo ha per troppo tempo sottovalutato i problemi del territorio, considerandoli sovrastrutturali, e rimandandone la soluzione alla palingenesi universale. Il risultato è la convinzione, fatta propria dalla moderna società industriale, che il progresso si identifichi con l’urbanizzazione a qualunque costo, il benessere con la crescita continua della produzione, e quindi con il cieco consumo delle risorse, spazio, suolo, territorio, ritenuti pressoché illimitati.

Se le cose stanno così, c’è spesso da chiedersi come sia possibile prendersela troppo con la maleducazione della gente qualunque, che sporca, getta la cicca accesa, strappa i fiori, malmena gli animali domestici e stermina quelli selvatici, sega gli alberi davanti alla casa per “vedere il panorama” (che nei giochi di parole crociate è definito “soggetto per cartoline”); o prendersela troppo con gli amministratori del villaggio, ultimi esponenti di un’incultura generalizzata, tutta intrisa di disprezzo per l’ambiente naturale, considerato oggetto di violenza. Chi mai direbbe che siamo il paese di San Francesco, il santo più immeritato e meno italiano, che ha detronizzato l’uomo dal suo dominio sulla natura e ha predicato la tenerezza, la fratellanza con ogni altra cosa animata e inanimata, che predicava agli uccelli rapaci, raccoglieva da terra le lumache perché non venissero calpestate e raccomandava di lasciare in ogni orto un pezzo di terra non coltivata perché potessero liberamente crescere le erbacce.

Non tutto è nero, certo. Cresce la “domanda di natura”, si organizzano gruppi di pressione su singoli problemi, fervida è l’attività delle associazioni protezionistiche, la magistratura interviene più frequentemente, una legge recente ha esteso il vincolo ambientale a intere categorie di beni (coste marine, fiumi e laghi, boschi e foreste, montagne al di sopra di una certa quota eccetera): ma è necessario intensificare l’azione per immunizzare la gente contro i perniciosi demagogici luoghi comuni diffusi da tutti coloro che dal saccheggio del territorio traggono le loro fortune.

Dicono ad esempio che la difesa dell’ambiente naturale costi troppo: quando la verità è esattamente il contrario, perché è la mancata opera di prevenzione o tutela che rovescia sulla collettività ingenti costi sociali: basta pensare ai tremila miliardi di danni che ogni anno ci procura il dissesto idrogeologico, o a quel che costa, per ricordare un disastro recente, l’inquinamento dell’Adriatico, che annienta la pesca e scaccia i turisti.

In realtà, la difesa della natura rende molte volte di più di quello che costa. Il turismo di soggiorno ed escursionistico promosso dalle aree protette e dai parchi arreca benefici economici duraturi alle popolazioni: il milione di visitatori del parco d’Abruzzo mette in giro quaranta-sessanta miliardi l’anno; e si è calcolato che, qualora venissero istituiti i parchi nazionali da tempo annunciati, sarebbero trentamila i posti di lavoro, diretti o indotti, che verrebbero creati (ma ancora si aspetta l’altra legge fondamentale, quella in difesa della natura e per l’istituzione di parchi e riserve). Senza dire dei benefici non monetizzabili, il valore infinito delle risorse e degli equilibri naturali più segreti e complessi, essenziali sia alla sicurezza del suolo sia all’elevazione culturale: perché a tutti sia concessa quell’esperienza liberatoria che è la contemplazione, la comprensione, lo studio dell’ambiente incontaminato. Gli sciocchi dicono che “non si deve mummificare la natura”, come si trattasse di un cadavere: mentre la natura è un laboratorio formicolante di vita che solo la conservazione può garantire: una vita, quella dei pesci, degli aironi, degli stambecchi, delle farfalle, dei lombrichi eccetera, dalla quale dipende per direttissima la vita degli uomini.

Dobbiamo dunque impegnarci per favorire una drastica riconversione culturale, basata su alcuni principî elementari. Suolo, territorio, ambiente sono una risorsa scarsa, limitata per eccellenza, da utilizzare con estrema parsimonia e rigore scientifico.

Non è possibile un autentico progresso economico e sociale senza una preventiva, lungimirante costante politica ecologica che metta fine agli sprechi e quindi ai costi della degradazione ambientale e dell’inquinamento: continuare a consumare le risorse col criterio dell’“usa e getta” è semplicemente suicida.

D’altra parte, la risorsa scarsa, limitata, irriproducibile per eccellenza è il suolo, il territorio: ogni sforzo dunque va fatto per porre fine al consumo irresponsabile che ne è stato fatto in decenni di sprechi, leggerezze e saccheggi.

Se si continuasse col passo attuale della cieca espansione edilizia, stradale, industriale eccetera, tra poco più di un secolo tutta l’Italia sarebbe ricoperta di una continua, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto, tale da distruggere ogni produttività agricola e cancellare la stessa fisionomia paesistica, naturale, culturale di quello che fu chiamato il Bel Paese. Bisogna dunque che coll’aiuto di urbanisti ambientalisti ecologi, le pubbliche amministrazioni (comuni, provincie, comunità montane, regioni eccetera) si decidano a fare sistematicamente i conti, a fornire cifre relative al consumo di suolo e territorio perché tutti possano rendersi conto del disastroso traguardo che ci sta davanti se non si cambia rotta: un’Italia a termine, destinata ad essere consumata e finita nelle prossime tre o quattro generazioni.

Gli amministratori sono restii a fare calcoli e a fornire le cifre, perché sono un essenziale strumento di conoscenza che può mettere in crisi il partito dei saccheggiatori: ma qualcuno ha cominciato a informare la pubblica opinione. I dati sono ancora parziali: ma come le “proiezioni” fatte alla televisione dopo la chiusura dei seggi elettorali esaminando un numero assai limitato di schede, già possono dare attendibili indicazioni su quello che sarà il risultato finale. Dunque, dai calcoli del CENSIS coi dati dell’ISTAT, risulta quanto segue.

Il suolo agricolo utilizzabile nell’ultimo decennio è diminuito del 9,4 per cento, perché distrutto dall’avanzare dell’urbanizzazione o perché abbandonato.

Regione per regione, è diminuito dell’8 per cento nel Veneto e in Lombardia, dell’11 per cento in Calabria, del 12 per cento in Liguria, Piemonte e Sicilia, del 16 per cento in Sardegna, del 17 per cento nel Friuli-Venezia Giulia. Nell’ultimo trentennio le aree non più classificabili come utilizzabili a fini produttivi hanno raggiunto la dimensione di circa 5 milioni di ettari (una superficie pari a Piemonte più Lombardia): il consumo è proceduto a un ritmo medio di 150.000 ettari all’anno.

In particolare, le aree metropolitane, cioè urbanizzate, sono raddoppiate: l’espansione delle città ha divorato la campagna al ritmo di 25-35.000 ettari all’anno. In sintesi, come ha calcolato Giuliano Cannata della Lega Ambiente, dal ’70 all’81 i terreni perduti, perché abbandonati o occupati da edifici, strade, industrie, cave, discariche eccetera, sono passati dal 12,5 al 20,6 per cento del totale, pari a consumo medio dello 0,7-0,5 per cento all’anno: nell’ultimo ventennio circa 3 milioni di ettari di terreni agricoli sono andati distrutti (e sono un decimo dell’Italia). Come dire che se si continuasse ad andare avanti così, “tutto il territorio italiano, dal Cervino a Capo Passero, sarebbe finito in poco più di cento anni”.

Questa prospettiva suicida è il risultato di quella distorsione mentale che il CENSIS chiama “rimozione del territorio”. Con incoscienza l’abbiamo considerato come un vuoto da riempire, una res nullius, un oggetto di baratto e una fonte di lucro: i comuni hanno confezionato strumenti urbanistici grottescamente sovradimensionati, senza alcun rapporto coi reali fabbisogni, praticamente considerando tutto edificabile. Qualcuno ha calcolato che se si sommassero le cubature previste dai piani regolatori e programmi di fabbricazione, l’Italia risulterebbe capace di ospitare, sulla carta, una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica.

Il deprimente spettacolo che offre il nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. Un inverecondo sparpagliamento edilizio sommerge pianure e colline, abolendo ogni distinzione fra città e campagna, e sommerge le aree agricole, nel disprezzo per gli aspetti paesistici, per l’ambiente naturale. L’edilizia dilaga a nastro lungo le strade, a ragnatela nelle periferie urbane: al costruito si accompagna l’asfalto, le discariche di rifiuti, i terreni vaghi, degradati, l’abbandono (a ogni ettaro costruito ne corrisponde mediamente un altro in attesa di essere liquidato).

È il “deserto abitato” che avanza nel disordine totale, rendendo a poco a poco irriconoscibile l’Italia: una clamorosa smentita alle regole elementari del vivere associato, un’incolta irrisione a ogni norma elementare di pianificazione urbanistica, un crescita dissennata che aumenta paradossalmente proprio mentre cala l’incremento demografico.

Due sono le indagini recenti che danno un’idea drammatica della situazione: una riguarda l’area metropolitana milanese e la Lombardia in generale, l’altra la provincia di Roma. Come è stato documentato recentemente dal “Centro documentazione e ricerche” della regione Lombardia, nell’area metropolitana milanese (oltre un centinaio di comuni, 180.000 ettari) il consumo di territorio ha ormai raggiunto il 33 per cento, in nove anni (1963-1972) ne è stato distrutto più che nel secolo precedente, e si procede al ritmo dell’1 per cento all’anno, anche se è finita la grande espansione economica e demografica. Il piano territoriale comprensoriale ha posto dei limiti alle previsioni comunali, e si propone di contenere l’espansione complessiva entro il 50 per cento, entro il duemila, che è già una “soglia di allarme”: se invece le cose continuassero ad andare per il verso sbagliato, osserva Gianni Beltrame, direttore del comprensorio, tutto il suolo verde e agricolo dell’area metropolitana milanese sarebbe finito entro 67 anni.

Al consumo di territorio per incontrollato avanzare di urbanizzazione, si aggiunge quello dovuto al degrado (brutta parola diventata ormai di uso comune), cioè a quell’insieme di interventi in vario modo offensivi e distruttivi, che vanno dall’attività selvaggia delle cave alle discariche di rifiuti all’isterilimento del suolo nelle sudicie frange periurbane. Come ha osservato l’economista Mercedes Bresso al convegno, in Lombardia le cave, “vera e propria industria del dissesto”, compromettono circa 20.000 ettari, pari al 2 per cento della superficie regionale. Ad essi va aggiunto un 1-2 per cento di discariche e di depositi di rifiuti, più un 8 per cento di “degrado diffuso” (spazi compromessi da utilizzazioni precarie, fasce di rispetto stradale, variamente occupate, depositi di materiali industriali, fabbricati in stato di abbandono eccetera): si arriva così all’11-12 per cento di territorio degradato, pari a circa 100.000 ettari, quasi il 10 per cento del suolo utile lombardo. Disordine, spreco, inquinamento delle falde idriche, erosione del suolo, distruzione di terreno agricolo: quanto costa il risanamento, il ripristino, il recupero di un terreno così devastato? Si valuta che il costo sarebbe di 35-40 milioni ad ettaro: quindi, in Lombardia occorrerebbe spendere 3.500-4.000 miliardi, che diventano almeno 10.000 se l’operazione venisse estesa ai casi che richiedono interventi complessi (sgomberi, abbattimenti, eccetera). Ecco quali sono i costi sociali scaricati sulla collettività dal saccheggio del territorio.

Altri dati allarmanti vengono forniti dall’indagine condotta dall’Assessorato al bilancio e alla programmazione della Provincia di Roma, circa le destinazioni d’uso previste dagli strumenti urbanistici dei 118 comuni che la compongono. Il risultato è che, senza contare Roma, è prevista l’edificazione (tra zone di espansione, di completamento e turistiche) di 2.300.000 stanze per altrettanti abitanti: se si aggiungono i 7-800.000 vani residui previsti dal piano regolatore di Roma (tra edilizia privata e pubblica) si arriva a più di 3 milioni di stanze: come costruire ex novo un’altra Roma accanto all’esistente. A tanto più giungere il sonno della ragione, l’allegra incoscienza urbanistica (intanto, da anni, il territorio della provincia romana viene consumato al ritmo di tre ettari al giorno).

La prospettiva è dunque certamente catastrofica: il “giardino d’Europa” corre alla rovina, e rischia di essere tutto consumato entro poco più di un secolo, a meno che mentalità, cultura e politica non cambino radicalmente. Che fare? Occorre mettere finalmente da parte il mito anacronistico, folle e rovinoso della crescita illimitata fatta solo di sprechi, e decidersi a considerare il territorio come il bene più prezioso perché scarso e limitato, quindi come bene collettivo da conservare gelosamente. Non si salva ciò che non si conosce: è urgente impegnarsi alla conoscenza scientifica del territorio e del suolo nei loro aspetti produttivi, fisici, geo-morfologici, ambientali, paesistici, naturalistici (uno studio del genere è stato fatto dal comune di Padova), e imparare a rispettarli.

Dobbiamo rovesciare il nostro modo di agire: non più urbanizzare alla cieca risparmiando eccezionalmente (quando pure a fatica ci si riesca) qualche area eminente, ma trattare tutto il territorio come un parco in linea di principio inedificabile, alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni eventuale intervento. Altrimenti assisteremo alla distruzione del nostro stesso spazio di vita, e a poco a poco la terra ci sarà strappata di sotto i piedi.

Fermare l’avanzata di Villettopoli, valorizzando il territorio rurale. Con questo ambizioso obiettivo è stato firmato ieri un accordo di programma fra i Comuni di Giussago, Certosa, Rognano e Zeccone. Parte del progetto, che ha come finalità proprio lo sviluppo dell’ambito territoriale dei paesi del parco Visconteo, sarà finanziato dalla Navigli Lombardi. Lo studio di fattibilità sarà affidato all’Università di Pavia. La firma dell’accordo è avvenuta simbolicamente nel parco comunale di Giussago, 33mila metri quadrati strapparti all’urbanizzazione per volere dell’attuale giunta.

Gli onori di casa, infatti, li ha fatti il sindaco Ivan Chiodini: “Si tratta di un passo avanti per lo sviluppo del nostro territorio che non può essere pensato unilateralmente. Soprattutto nella fascia dei Navigli. Per salvare la nostra zona serve una programmazione comune”. E proprio dal tavolo ieri è uscito un accordo che segna una svolta, almeno nel modo di pensare e amministrare il Nord Pavese.

Al centro non c’è solo la salvaguardia del patrimonio culturale ed artistico di quest’area, ma anche lo sfruttamento del “suo grande giacimento di conoscenza, saperi e ricerca per il quale è maturo il tempo di trovare percorsi di applicabilità a supporto di nuove iniziative imprenditoriali” recita la parte centrale del documento. Tre i punti fondamentali su cui poggia il patto dei 4 sindaci (olte a Chiodini, Bruno Garlaschelli di Certosa, Silvio Penati di Rognano, e Terenzio Grossi di Zeccone). Il primo prevede appunto l’apertura di un confronto fra gli amministratori per uno scambio sulle politiche di sviluppo sostenibile. Il secondo la redazione di uno studio d’area che fornisca una fotografia dei punti di forza e debolezza del territorio. Il terzo, infine, la stesura di un piano per la costituzione di una società o fondazione a capitale pubblico o misto che abbia funzioni di Agenzia di sviluppo. A suggellare, con il suo contributo concreto in 12 mila euro (tanto per iniziare) era presente il direttore della Navigli Lombardi Emanuele Errico. Che ha sottolineato l’opportunità di accordi di questo tipo e si è detto “piacevolmente sorpreso” per l’intraprendenza dei sindaci.

I quali, a loro volta, hanno tutti sottolineato la svolta storica nella forma dell’accordo. Isomma loro ci provano a invertire la tendenza di Villettopoli. Anche se, beninteso, non sarà facile. Spiccava, ad esempio, l’assenza di Borgarello. Comune anch’esso all’interno dell’area individuata. Il cui sogno, come è noto, è il centro commerciale. “Il nostro tavolo non vuole escludere nessuno e tutti possono partecipare” ha diplomaticamente sottolineato Chiodini. Il quale non si è voluto nascondere dietro un dito di fronte all’evidente propensione delle amministrazioni di puntare quasi esclusivamente a una politica edilizia.

Non solo in passato, ma anche in futuro, visto il proliferare delle nuove costruzioni. “Questo – ha detto il sindaco di Giussago – è il frutto di una programmazione vecchia appunto di 10-15 anni che si sta esaurendo con i vecchi Prg. In alcuni casi poi, i tempi di attuazione si sono ravvicinati, dando l’impressione di un’aggressione selvaggia al territorio. In ogni caso è proprio adesso il momento di invertire la tendenza”.

Il Comune capofila sarà Giussago che già da tempo, e non solo nelle intenzioni, ha avviato un programma amministrativo improntato al rispetto dell’ambiente e del territorio.

Nota: i problemi di quest’area erano già stati in parte accennati su Eddyburg anni fa, proprio per il “caso” nazionale del Centro Commerciale di Borgarello con un articolo che ora è diventato con poche modifiche il capitolo introduttivo di Nuovi Territori del Commercio (f.b.)

Premessa[1]

Le ipotesi e le proposte qui illustrate sono il risultato della verifica del Primo Schema del Piano Intercomunale Milanese presentato il 25 luglio 1963. Rappresentano, nel loro complesso, un Secondo Schema che deriva dall’approfondimento del Primo, come era stato richiesto dalla XIII Assemblea dei Sindaci con la deliberazione del 1° dicembre 1963. […].

I chiarimenti preliminari alla «verifica»

[…]

Nel concludere le relazioni del 25 luglio 63, il Comitato Tecnico stesso aveva segnalato una serie di questioni alle quali attribuiva un significato di tentativo ed aveva insistito sulla necessità di sottoporle ad un profondo riesame. Tra le questioni più importanti era stata indicata quella che si riferiva alle previsioni di sviluppo economico dell’area. Si era lavorato infatti su una ipotesi di incremento demografico di cui era nota l’estrema fragilità, dal momento che non era stata derivata né da un quadro di riferimento più generale - di livello regionale o nazionale - né da uno studio sufficientemente fondato che precisasse il ruolo dell’area milanese nelle nuove soluzioni «programmate» per lo sviluppo nazionale.

Ma oltre questa questione di fondo si richiedeva di sottoporre a “verifica” - nel senso di controllarne l’attendibilità e gli effetti - tutte le ipotesi di carattere specificamente territoriale avanzate per i diversi campi dell’area; e - nel senso di precisarne i meccanismi, i modi di funzionamento e le loro conseguenze - le linee strategiche dell’attuazione del Piano, che nello Schema, in mancanza di informazioni esaurienti sugli indirizzi e sulle volontà politiche, erano state appena accennate.

Alcuni importanti avvenimenti accaduti durante questo secondo periodo di lavoro hanno contribuito oggettivamente a chiarire il campo della pianificazione entro cui il P.I.M. avrebbe dovuto collocarsi. Prima di tutto, il dibattito sulla Programmazione Nazionale e i vari documenti prodotti dai diversi Ministeri del Bilancio che si sono succeduti. Se ne accetti o meno l’impostazione, si concordi o meno con le deduzioni che i diversi gruppi politici ne hanno tratto, quei documenti rappresentano infatti un principio di razionalizzazione della politica economica della nazione e forniscono, se non un quadro, almeno la logica di un quadro al quale è possibile ormai riferirsi nel definire una previsione di sviluppo e quindi un attendibile ruolo per l’area in cui si intende operare. In secondo luogo, il dibattito sulla Legge Urbanistica, che non è certo approdato a soluzioni particolarmente avanzate, e tuttavia ha reso esplicito - si potrebbe quasi dire acquisito - il rapporto di necessità esistente tra pianificazione urbanistica e disponibilità del territorio alle scelte di piano, con tutte le conseguenze di rinnovamento degli indirizzi politici e della strumentazione tecnica che questo comporta.

Altri chiarimenti molto importanti sono venuti dal notevole volume di osservazioni, di consensi e di critiche al Primo Schema […] [2].

Infine chiarimenti sostanziali sono venuti dagli studi che l’Ufficio Tecnico del P.I.M. ha potuto nel frattempo condurre per arrivare ad una visione più precisa del reale stato dell’area e dei suoi contorni e per confrontare la validità di situazioni e di giudizi che nella prima fase del lavoro erano stati assunti per via prevalentemente intuitiva ed in linea di pura ipotesi. […] [3]

Con l’integrazione dei risultati della ricerca pervenuta dall’ILSES sui Caratteri dell’urbanizzazione nell’area milanese, si è arrivati dunque a sapere molto di più di quanto non si sapesse all’inizio dei lavori […].

L’insieme dei vari chiarimenti e l’elaborazione di nuovi temi affrontati nel dibattito - dispersivo e sfocato, ma pur sempre utile - del Comitato Tecnico Direttivo, hanno consentito di mettere a fuoco le molteplici questioni che erano state poste sullo sfondo del Primo Schema. Su questa messa a fuoco la «verifica» ha potuto assumere una proiezione più ampia ed applicarsi non solo a confrontare la attendibilità delle osservazioni e delle linee di azione che erano state prospettate, ma anche ad estenderle e ad inquadrarle in una concezione culturale e operativa più ampia. In questa concezione emergono tre diversi argomenti che debbono essere considerati cardini del nuovo sistema di proposte che qui si presenta: il sistema di relazioni tra i diversi livelli di pianificazione del territorio, il piano come processo, l’organizzazione per distretti del sistema di osservazione e di intervento comprensoriali.

[…]

La verifica e gli assunti di base

Rinviando alle relazioni del 25 luglio 63, alle altre comunicazioni sul tema [4] e ai successivi capitoli di questa Relazione per tutti gli argomenti che qui ci si limita ad accennare, si può cominciare col dire che del Primo Schema si sono conservate le tre fondamentali assunzioni di base:

la prima assume che l’area milanese attraversa attualmente una fase di trasformazione ed evolve naturalmente - per certi aspetti anche contraddittori - verso quel tipo di organizzazione territoriale che è stato definito di “città-regione”. […]

La seconda assunzione di base si fonda sul presupposto che la trasformazione che ci si propone di correggere, accelerare e dirigere può approdare ai fini perseguiti dal Piano se si colloca in un quadro di evoluzione più generale della struttura socioeconomica ed urbanistica nazionale. Le linee fondamentali di questo quadro di evoluzione debbono risultare da una serie di concreti indirizzi istituzionali che perseguano l’eliminazione degli squilibri socioeconomici della nazione attraverso una razionale distribuzione degli investimenti, una composizione di nuovi rapporti tra i diversi settori della produzione e tra spesa pubblica e consumi privati, una equa ridistribuzione del reddito tra le diverse categorie sociali. È chiaro che questi indirizzi non potranno attuarsi se non verranno impiegati gli strumenti per la organizzazione e il controllo del territorio previsti dalla Costituzione e dalla Programmazione. […]

La terza assunzione di base che si ritenuto di dover conservare si riferisce alla necessità di adottare un comportamento realistico nei confronti dei vincoli territoriali, amministrativi e politici presenti attualmente nell’area. […]

[…]

[…] Nell’area milanese essi sono numerosi e multiformi, ma sinteticamente se ne può stabilire una classificazione in tre specie fondamentali: politico amministrativa, normativa, morfologica.

Appartengono alla specie politico amministrativa i vincoli che derivano dalla travagliata genesi del P.I.M. L’attuale dimensione del comprensorio è il risultato di lunghe controversie e di tenaci contrattazioni rivolte a colmare le lacune introdotte dai criteri discriminatori e settoriali ai quali si ispirava il primo decreto di costituzione del P.I.M. Lo sforzo compiuto rappresenta indubbiamente uno dei risultati più positivi e democratici raggiunti nell’urbanistica italiana, ma il risultato risente ancora in modo pesante del peccato originale.

[…]

Alla seconda specie, quella normativa, appartengono i vincoli che derivano dalla disparità degli apparati normativi locali. Non sembra necessario dare particolari ragguagli su questa situazione dal momento che è “visibile” come i numerosi piani regolatori, programmi di fabbricazione, norme, ecc., che agiscono nelle varie amministrazioni dell’area, siano privi non solo di principi di coordinamento, ma anche di ogni base logica comune. Nessun quadro di riferimento, neppure indicativo, è stato mai formulato e proposto per normalizzare le previsioni di intervento degli enti locali o settoriali. D’altra parte è pure “visibile” nelle configurazioni territoriali di ciascun Comune - comprese quelle del Comune di Milano - come indipendentemente dalla mancanza di una normalizzazione, la qualità stessa di ciascun apparato normativo sia scadente e antiquata, commisurata a ritmi e modi di espansione e sviluppo decisamente travolti dalle tendenza attuali [5]. Alla terza specie - quella morfologica - appartengono i vincoli che derivano dal sistema di distribuzione delle attività e dagli standards di insediamento delle funzioni che si rilevano nell’area.

[…]

La verifica e l’analisi positiva del territorio

Il Primo Schema aveva fondato il sistema delle valutazioni territoriali su una descrittiva che è stata notevolmente perfezionata nella seconda fase dei lavori dai risultati delle ricerche condotte sull’area. La sostanza dei giudizi sui fenomeni osservati non risulta però sensibilmente mutata e si può perciò rinviare a quello che era stato detto nelle relazioni del 25 luglio e nei successivi interventi su quanto si riferiva alla analisi dei caratteri degli insediamenti nei diversi settori dell’area, alla distribuzione delle attività e degli interessi, alla localizzazione e alla qualità delle strutture per la mobilità territoriale e delle reti infrastrutturali di attrezzature e servizi.

A proposito di queste ultime gli approfondimenti venuti dalle nuove ricerche hanno confermato l’esistenza di livelli scadenti che già erano stati rilevati ma hanno anche fornito una più precisa valutazione dei vari fenomeni di inefficienza che essi determinano. Questi fenomeni di inefficienza si estendono a tutta l’area, che è da ritenere congestionata in ogni fascia e in ogni settore, indipendentemente dai “quanta” di popolazione che vi sono insediati. Nei settori nord est, nord, nord ovest, la congestione si verifica infatti in presenza di forti densità di popolazione, mentre nei settori sud est, sud, sud ovest, si verifica in presenza di insediamenti a bassa densità. In entrambi i casi però il rapporto tra le quantità di strutture e attrezzature è estremamente basso. Poiché è questo “rapporto” il vero indice rivelatore della congestione, si può dire che il problema della congestione si pone per “ovunque nel territorio” [6]. Non è escluso da questo giudizio il capoluogo dove la spinta alla terziarizzazione è stata compiuta a scapito di una equa distribuzione dei servizi di base: (la città, che era famosa nell’800 per il comfort e la suggestione del suo ambiente urbano, è stata trasformata in un arido agglomerato edilizio privo di attrezzature e di immagine).

L’influenza di questo squilibrio oltrepassa i confini comunali e si riflette sull’intero territorio con un’incidenza che cresce col progredire dei fenomeni di terziarizzazione delle zone centrali. Per cui il problema dell’innalzamento dei livelli comprensoriali non può prescindere da una preliminare inversione di questi fenomeni e quindi dalla rottura della struttura radiocentrica che li determina e li esalta.

Tenendo conto delle varie configurazioni degli insediamenti e delle loro reciproche gravitazioni, il Primo Schema aveva identificato nell’area tre stati territoriali distinti: il primo comprendeva i poli principali che svolgono un ruolo attuale o potenziale nel sistema metropolitano e cioè i territori di Como, Lecco, Bergamo, Brescia, Cremona, Piacenza, Pavia, Vigevano, Novara, Gallarate - Busto - Legnano; il secondo comprendeva il vero corpo “galattico” dello sviluppo dell’area, tutte le aggregazioni più o meno determinate ed eterogenee comprese tra i territori dei poli esterni e l’immediato intorno del capoluogo; il terzo comprendeva il capoluogo e l’area ad esso adiacente e soggetta all’effetto diretto della sua pressione espansiva.

[…]

Nelle linee generali le conclusioni tratte dall’analisi positiva degli stati di fatto sono risultate confermate; ma un esame più accurato delle situazioni interne a ciascuno dei tre stati ha permesso di distinguere una serie di caratteri più specifici di cui si è tenuto conto nel momento normativo dello studio.

[…]

Le proposte normative del secondo schema - Assunti generali e particolari

Le conclusioni dell’analisi positiva del territorio contengono già le premesse delle proposte normative sviluppate nei successivi capitoli di questa relazione e negli elaborati grafici ad essa allegati. Le proposte si articolano però ad una serie di assunti urbanistici generali e particolari che per chiarezza conviene riassumere.

- Più per la sua posizione strategica nel triangolo industriale che per il suo grado di evoluzione intrinseca, l’area ha raggiunto il livello di infrastrutturazione viaria che provoca l’indifferenza territoriale: le grandi arterie di traffico che alimentano il bacino padano costituiscono una rete capace e diffusa che propaga sollecitazioni localizzative in tutto il territorio. Si dissolve nel concreto la tradizionale opposizione tra città e campagna e non per una evoluzione della struttura economica di quest’ultima, ma per il semplice fatto che ogni sua parte tende ad essere luogo di potenziale localizzazione. La città e la campagna si identificano, come si è detto, in un “continuo urbanizzato” che è caratterizzato dalla diffusione omogenea delle occasioni di sviluppo e perciò richiede una omogenea tensione di controllo urbanistico.

- La graduale diffusione di condizioni di indifferenza territoriale nell’area ha un notevole valore positivo nel fatto che generalizza le opportunità di localizzazione e di conseguenza, moltiplica le scelte; ha però un aspetto negativo nel fatto che demolisce alcuni vincoli naturali che potevano essere usati da argini alla espansione indiscriminata. Gli aspetti positivi e negativi possono essere rispettivamente incrementati e ridotti soltanto se si agisce alla radice dei fenomeni che hanno determinato l’indifferenza stessa e cioè sul modo di distribuzione delle linee viarie che intersecano l’area; sui collegamenti dell’area col territorio nazionale e con i poli regionali; su questi stessi poli, per indurvi modificazioni che si riflettano sull’equilibrio generale nel senso voluto. Si possono incrementare gli aspetti positivi e ridurre gli aspetti negativi dei fenomeni provocati dall’indifferenza territoriale solo estendendo l’azione «riflessa» del piano intercomunale fino ai limiti della regione e al di là di essi.

[…]

- Nella situazione di omogenea distribuzione delle possibilità insediate a cui tende il continuo urbanizzato la ricerca di rapporti lineari tra valori socioeconomici e posizione territoriale perde ogni capacità operativa. La distribuzione nell’area di interessi socioeconomici tende infatti ad assumere andamenti complessi, influenzati più dalla qualità delle relazioni tra i punti nodali delle strutture e delle attrezzature che dai tradizionali fattori di localizzazione. Gli interscambi o comunque le corrispondenze funzionali o strutturali o perfino formali tra i nodi delle maglie di infrastrutture (servizi, attrezzature, strade) sono ormai i veri fattori di localizzazione: tanto più attivi ed efficienti quanto più sono complessi ed integrati. […]

- Ancora a proposito di ristrutturazione del territorio e tenendo conto di quanto si è detto sui fattori che maggiormente sollecitano la localizzazione si può aggiungere che l’identica inutilità dei procedimenti fondati sulla presunta linearità dei rapporti tra valori e posizione territoriale la si ritrova nei procedimenti fondati sul principio dello “zoning”. Infatti l’organizzazione dell’area in distinte zone ad attività predestinata, oltre a ridurre i vantaggi della “indifferenza”, rende assai difficile di eliminarne i pericoli: l’organizzazione zonale si irrigidisce negli schemi distributivi delle destinazioni e perde ogni capacità reattiva ed ogni possibilità di assorbimento degli sviluppi che sfuggono alle previsioni. Lo stesso può dirsi per ogni operazione fondata sul principio della “dimensione conforme”, che dal punto di vista concettuale rappresenta in definitiva una generalizzazione del principio dello “zoning” [7] La riunione o la frammentazione del territorio in sistemi di grandezza ottimale […] ripropone ancora una volta la città come fenomeno emergente e isolato in un contesto agricolo col quale ha rapporti di assoluta contrapposizione. Nel comprensorio del PIM né il principio dello zoning né il principio della dimensione conforme possono trovare applicazioni ragionevoli. L’uno e l’altro, a diversa scala e con diverse conseguenze, sono espedienti per perseguire l’ordine attraverso la disaggregazione: il contrario di quanto sembra necessario per l’area milanese dove l’ordine deve derivare dalla preliminare rottura dei compartimenti gerarchici tradizionali e dalla successiva ricomposizione delle parti in una nuova entità enucleata ma omogenea, senza confini.

- In una concezione aderente alla realtà dello sviluppo dell’area e coerente con gli obiettivi perseguiti, il rapporto tradizionale tra mobilità territoriale e localizzazione assume nuovi significati. In primo luogo non sussiste il principio della dipendenza della mobilità alle localizzazioni, inoltre non sussiste la “necessità” di rendere minima la mobilità per raggiungere la massima efficienza degli assetti territoriali. Il continuo urbanizzato è riconducibile ad un sistema costituito di attrezzature non distribuibili, attrezzature distribuibili e trasporti [8].

Col crescere dello sviluppo tecnologico e con l’innalzarsi del grado di infrastrutturazione, le attrezzature distribuibili tendono ad aumentare e le attrezzature non distribuibili tendono a diminuire. Si può dire che in un’area evoluta come quella milanese continuano ad essere non distribuibili solo alcune attrezzature strettamente legate a permanenti vincoli geografici - i laghi, i parchi, i fiumi, ecc. - o a condizioni che ancora determinano economie interne ed esterne rilevanti - industrie di base solidamente impiantate, aggregati produttivi complementari, ecc. La gran parte delle attrezzature sono invece distribuibili e col crescere dell’infrastrutturazione lo divengono sempre più; acquistano cioè un sempre maggiore margine di dislocabilità. Ne risulta che il problema di raggiungere la loro massima fruizione, che è centrale rispetto agli obiettivi di efficienza territoriale, si può risolvere agendo sui loro collegamenti come sulla loro reciproca posizione. Questo significa che le relazioni tra mobilità e localizzazione divengono più complesse di quanto non fossero quando erano concepite in un rapporto di dipendenza e che in questa maggiore complessità ciascuna delle due variabili assume ampie funzioni. […]

[…]

- Il sistema di mobilità nel comprensorio ha una struttura essenzialmente radiale convergente sul capoluogo. […] Il sistema si estende al di là dell’area intercomunale ed è parte preponderante del tessuto di comunicazioni del triangolo industriale; nel quale si collega ai sistemi, anch’essi radiali ma meno cospicui, degli altri due vertici. All’interno dell’area dà luogo ad altri minori sistemi analoghi in corrispondenza dei poli e sottopoli che si assestano sui suoi raggi principali.

Uno dei fondamentali problemi della riorganizzazione del territorio è quello della rottura del sistema radiale delle comunicazioni, perché lo si riconosce vincolativo della trasformazione che si vuole ottenere. Nella decisione dei provvedimenti per attuare questo fine le scelte metodologiche e operative sono state influenzate da tre posizioni principali.

La prima assumeva che una modificazione del sistema radiale non poteva essere intrapresa solo attraverso interventi limitati all’area e non correlati a proposte di largo raggio incidenti sul tessuto di comunicazioni della regione, del triangolo industriale, della pianura padana, ed oltre. Per questo le proposte sono state estese a tutto il territorio dell’Italia settentrionale per il quale è stato progettato un nuovo schema a reticolo, fondato sul principio di collegare i fuochi di interesse territoriale (i valichi, i porti, i bacini industriali, i poli urbani principali) con un sistema distributivo il più neutrale possibile nei confronti delle localizzazioni preesistenti.

La seconda proposizione assumeva che la trasformazione del tessuto delle comunicazioni dovesse tener conto nella maggior misura possibile degli impianti esistenti, nel senso di utilizzarli al massimo nella nuova configurazione. Sembrava assurdo infatti di dover concepire un radicale rinnovo della rete viaria che implicasse una cospicua perdita degli investimenti effettuati in passato, anche se giudicati errati; né si poteva immaginare che la riorganizzazione dovesse convogliare verso questo settore risorse troppo cospicue, soprattutto tenendo conto che quelle già destinate nell’immediato passato sono da considerare eccessive, anche secondo un giudizio del Programma Nazionale del tutto condiviso. […]

La terza assunzione si riferisce ai limiti di integrità dello schema adottato. La distribuzione reticolare sembra la migliore nella situazione generale in cui si deve intervenire ed in relazione agli obiettivi di decentramento che ci si propone di raggiungere; questo però non significa che essa rappresenti il tipo distributivo ottimo per ogni situazione particolare del territorio. Si hanno infatti nell’area zone che conviene alleggerire e zone che occorre invece incentivare perché sono al di sotto dei livelli ammissibili e perché la loro incentivazione consente l’alleggerimento delle altre. La radiocentricità, o comunque la convergenza, dell’impianto viario può dunque essere assunta come un mezzo efficace per indirizzare gli interessi nelle zone dove è utile concentrarli.

Questo non significa che lo schema reticolare adottato debba essere contraddetto nelle parti del comprensorio dove risulta utile ricorrere all’espediente della concentrazione. Significa invece che esso deve essere rigorosamente applicato nelle grandi linee organizzative della mobilità territoriale a largo raggio, dove il problema si pone in termini di ottimo scorrimento e quindi di differenziazione gerarchica degli obiettivi e delle funzioni che caratterizzano i flussi; mentre nel passaggio dalle grandi linee alle linee organizzative più particolari e interne al comprensorio, dove gli stati attuali e le trasformazioni impongono una più complessa strumentazione degli interventi e dove la selezione dei flussi non richiede o non ammette una drastica separazione delle funzioni, lo schema reticolare deve articolarsi in configurazioni più ramificate e commiste. In questo passaggio lo schema iniziale deve poter confluire in altri schemi se risultano più appropriati alle esigenze dell’area che alimentano, siano essi radiocentrici o di altro tipo. Si è ricercata dunque la massima aderenza delle soluzioni viarie ai reali scopi del traffico visti in funzione della complessiva organizzazione del territorio, rifiutando gli atteggiamenti univoci che derivano dalla considerazione prioritaria di uno degli elementi organizzativi in gioco - i trasporti o gli insediamenti o i servizi, ecc. - e che portano inevitabilmente a proposizioni astratte e ineffettuali, come è ampiamente dimostrato da una ormai lunga esperienza urbanistica [9].

- Gli stessi principi adottati per la riorganizzazione del sistema viario sono stati adottati per la riorganizzazione del sistema ferroviario. Per le soluzioni scelte in entrambi i casi si rimanda ai successivi capitoli di questa relazione, ma si deve ancora aggiungere però che, per quanto riguarda le ferrovie, il problema dell’adattamento a quanto è precostituito, ha inciso con un peso ancora maggiore. È chiaro infatti che il concetto della flessibilità e della commistione delle linee di flusso trova in questo settore vincoli particolarmente incisivi, dovuti non solo alla intrinseca rigidità degli impianti esistenti e al loro costo, ma anche alle particolarità che ciascun impianto presenta.

[…] Questi vincoli insieme alla considerazione dei costi imposti da modificazioni radicali e del tempo che esse richiederebbero per essere attuate, hanno costretto a delineare soluzioni più rigide di quanto sarebbe stato possibile immaginare, in astratto, per una situazione meno vincolata di quella in cui si deve operare.

- Le conclusioni cui si è pervenuti a proposito delle comunicazioni vanno viste in relazione alle conclusioni raggiunte a proposito della riorganizzazione della struttura e della distribuzione degli insediamenti. Si tratta infatti di un unico gruppo di conclusioni correlate, derivate da un avvicinamento globale al problema del territorio, considerato come un unico urbanizzato in cui i fattori di mobilità e di localizzazione si pongono come variabili interdipendenti.

L’obiettivo di sostituire il sistema radiocentrico con un sistema articolato ed equipotenziale è stato perseguito rompendo la configurazione viaria e ferroviaria che attualmente converge il flusso degli interessi verso il polo centrale, ma è stato perseguito allo stesso tempo proponendo una nuova distribuzione degli insediamenti che agisca sui loro attuali schemi organizzativi e sul complesso delle loro relazioni esterne. […]

[…]

Nell’impostare lo studio degli interventi sulle localizzazioni ci si è riferiti alle distinzioni rilevate in sede di osservazione sui tre stati territoriali dell’area; si è tenuto conto però delle differenziazioni interne ad ogni “stato”, colte attraverso le analisi condotte dopo la presentazione del Primo Schema, ed anche di quanto è stato possibile precisare a proposito della struttura territoriale dei Poli esterni e dei tessuti agricoli che si estendono a sud del capoluogo. Questo insieme più omogeneo e più raffinato di informazioni ha consentito di mettere meglio a punto i nuovi presupposti organizzativi del sistema regionale nonché i processi di ristrutturazione previsti per l’area centrale, ed ha portato a revisionare radicalmente la serie di proposizioni relative ai cosiddetti tessuti intermedi, che il Primo Schema stesso aveva indicato come punto debole delle sue previsioni.

Il nuovo disegno territoriale delineato dal Secondo Schema propone in sintesi di realizzare un unico sistema che sia in grado di assorbire il decentramento non solo da Milano, ma da tutto il triangolo, ed imposta lo sviluppo di questa operazione su alcune linee di azione che investono con diverso metodo e con diversa incidenza operativa le varie parti dell’area.

I Poli esterni del Nord sono riconosciuti congestionati dal punto di vista spaziale, in molti casi incapaci di sopportare ulteriori convergenze di attività se non a patto di interventi di razionalizzazione che dovranno compiersi all’interno delle loro aree di influenza con criteri dello stesso tipo di quelli proposti per l’area centrale del comprensorio milanese. I Poli del Sud, pure congestionati per il difetto di attrezzature adeguate alle strutture che contengono e tuttavia troppo debilitati per produrle, richiedono interventi che indirizzino su di loro cospicui rafforzamenti di attività - solo a queste condizioni essi potranno sostenere un ruolo nella nuova configurazione regionale ed agire nello stesso tempo per l’equilibrio del sistema e per il rafforzamento dell’agricoltura. Il fuso che comprende i poli di Alessandria, Pavia, Piacenza e Cremona costituisce un complesso territoriale in cui la rete delle comunicazioni e la localizzazione puntuale dei centri urbani sono previsti in modo da conseguire la robustezza necessaria ad assumere una funzione alternativa per tutta l’area. La sua presenza diaframma l’agricoltura in due distinte zone - che filtrano l’una nell’altra attraverso i larghi interstizi tra le localizzazioni - e tuttavia si distinguono identificandosi nel sud con l’area agricola padana ed assumendo verso nord una funzione costiera influenzata dalla aree di consumo adiacenti. Ne consegue una chiarificazione organizzativa fondamentale nella quale il fuso agisce nei confronti dell’attività primaria limitando le sue tendenze al dissesto, in un’area dotata di precisi confini entro la quale si debbono compiere interventi di riconversione.

L’azione sui poli periferici è esterna al campo di diretta influenza del Piano; d’altra parte non può prescindere da questa azione alla quale deve riferire tutti gli interventi che esso prevede per l’area sottoposta al suo diretto controllo. La soluzione di questa apparente contraddizione rappresenta il punto critico di tutta l’operazione intercomunale, un nodo che condiziona non solo la scelta degli strumenti di intervento ma tutta l’impostazione istituzionale e metodologica del processo di pianificazione. Per questo oltre a fornire indicazioni circa il destino dei Poli del Nord e la riqualificazione dei Poli del Sud nel Fuso, sono state avanzate precise proposte per il territorio che a Nord e a Sud è compreso tra i poli e l’area comprensoriale. Queste proposte definiscono la formazione e la funzione di una serie di centri di urbanizzazione - chiamati “poli aggregativi” - che agiscono come epicentri consolidati in tutto il territorio intermedio tra l’area milanese e i poli regionali.

La definizione della fascia agricola del Sud chiarisce anche i diversi modi in cui si deve intervenire nelle zone intermedie del comprensorio, nei settori settentrionali, meridionali e delle spalle. È stato detto che a Nord l’area sembra dotata di una precisa vocazione metropolitana mentre nel Sud e nei settori orientale e occidentale si presenta oscillante tra una debole resistenza dell’attività primaria e una pressione intensa ma sporadica delle forze di urbanizzazione. Nel sud, riequilibrati questi tessuti oscillanti con la formazione della fascia agricola - che allo stesso tempo ristabilisce e difende la continuità delle aree agricole - il problema si pone in termini di struttura e morfologia degli insediamenti destinati, in questa parte dell’area, ad assorbire la massa demografica disponibile, che non può localizzarsi nei tessuti del Nord né del capoluogo oltre la misura ammissibile per non accrescerne la congestione. Calcolata la massa di manovra, risulta che la sua localizzazione deve essere concentrata, perché è questo il solo mezzo per portare anche nel Sud e alle spalle quel patrimonio di attrezzature necessario ad elevare i livelli di insediamento realizzando l’obiettivo di diffondere anche nelle zone più depresse le condizioni insediative desiderate per l’intero territorio. Da questo principio è derivato il sistema di “nuclei aggregati distrettuali” con attribuzioni diverse nei vari settori del comprensorio. Nelle aree del sud, dove l’urbanizzazione è ancora rada, esercitano una funzione di polarizzazione delle attività sparse che si diffondono tra il fuso A.P.P.C., i poli aggregati e il capoluogo.

Nelle aree del nord, per le quali è stata riconosciuta una elevata tendenza alla metropolizzazione, il problema di fondo è invece quello di mettere a punto nuovi principi organizzativi che possano districare un equilibrio territoriale nella esplosione delle aggregazioni originarie. Qui in ogni caso l’azione deve tendere a decomprimere l’area riducendo la pressione insediativa che si esercita naturalmente.

Il che si vuole ottenere non solo attraverso le alternative create nel sud e nelle spalle meridionali, ma anche per effetto dell’azione selettiva - non diffusiva - del nuovo impianto viario. Il nuovo andamento delle linee di comunicazione viaria e ferroviaria, la loro nuova classificazione ed il nuovo modo in cui esse organizzano le divergenze e le coincidenze dei flussi principali danno luogo a vuoti o ad addensamenti di attrezzature a largo raggio che divengono altrettante occasioni di repulsione o attrazione nei continui urbani esistenti. Intorno alle massime condensazioni di attrezzature sono stati previsti infatti i nuclei aggregativi distrettuali dell’arco settentrionale.

Per lo stato territoriale corrispondente al capoluogo e all’intorno direttamente investito dalla sua forza espansiva, il principio degli interventi non è sostanzialmente cambiato rispetto alle precedenti proposte, anche se le allusioni morfologiche cui si era allora riferiti hanno lasciato posto a definizioni più precise e, forse, meno disponibili ad equivoci di interpretazione. La maggiore conoscenza dei tessuti urbani delle zone di sviluppo della città ha permesso di acquisire l’esatta misura in cui si manifestano i fenomeni di deterioramento della sua seconda corona. Si è detto come questa area cieca debba essere considerata il supporto più solido della organizzazione egemonica del territorio e si è detto anche come la sua ricostituzione sia essenziale per un efficace intervento di ristrutturazione del comprensorio che rovesci i supporti dell’egemonia, coerentemente con gli obiettivi stabiliti. L’appiglio per operare il rovesciamento è rintracciabile in alcune tendenze che già si manifestano sotto forma di contraddizione al sistema esistente. Si verifica infatti per via naturale che alcune iniziative spontaneamente scavalchino la seconda corona per ritrovare al di là di essa migliori condizioni per la costituzione di più alti livelli insediativi. Queste iniziative, sporadiche e casuali, in linea generale incrementano il deterioramento della seconda corona ma in alcuni casi particolari - lungo le linee del loro sviluppo - finiscono col provocare azioni di rinnovamento poiché stabiliscono nuovi flussi di relazioni col vero centro, rimuovono le attività e i servizi dalle loro localizzazioni tradizionali, modificano i valori delle aree e degli immobili, ecc. [10].

Il sistema di interventi che si propone prende partito da questa tendenza naturale, per ora casuale e indeterminata, e la trasforma in un obiettivo tecnico deliberato. Creando insediamenti di alto livello nella terza corona, localizzati attorno ai nodi di attrezzature a largo raggio che debbono essere accesi dalle corrispondenze delle maglie infrastrutturali, ci si propone di scatenare nuovi archi di interessi col vero centro urbano che si riflettano sulla seconda corona provocandovi una forte azione di rinnovo. Questa azione provoca una sostanziale rettifica della politica urbanistica del Comune di Milano ed in particolare la rinuncia alle tendenze accentratrici e colonialiste che ha dimostrato finora di voler perseguire, mirando ad accrescere la funzione terziaria direzionale del suo centro e ad espellere all’esterno le localizzazioni destituite di interesse per questa funzione o incapaci di competere con essa. Per cui la rettifica della politica urbanistica significa in concreto riduzione - o in molti casi sospensione - degli investimenti pubblici e disincentivazione degli investimenti privati diretti alla prima corona, loro convogliamento nella terza corona per la creazione di nuove strutture urbane ad alto livello di attrezzatura, sollecitazione al rinnovo dei tessuti della seconda corona man mano che gli effetti dello scavalcamento cominciano a modificare i presupposti della sua attuale configurazione.

[…]

Il piano come processo

[…]

Il vero significato della città-regione, come interpretazione dei fenomeni di sviluppo urbanistico e come metodologia di controllo dello sviluppo stesso, sta nell’aver sostituito all’idea statica e prefigurata della città tradizionale, l’idea di una città che si compie e si configura in un sistema continuo di relazioni dinamiche; per cui ad ogni fase di sviluppo le configurazioni raggiunte nella fase precedente si ricompongono in configurazioni nuove, coerenti con gli aspetti della realtà che in quel preciso momento emergono dalla continua mutazione dei fattori che concorrono allo sviluppo. La città-regione è dunque un processo di organizzazione territoriale che deriva le sue ragioni concettuali e operative dal riconoscimento della necessità di dilatare il problema del controllo del territorio fino ad assumere tutte le componenti che concorrono a modificarlo […].

Si è già detto come nell’ottica di questa interpretazione perdano senso alcune proposizioni che erano tipiche di una concezione tradizionale della realtà urbana; per esempio la dicotomia esplorativa e operativa tra città e campagna, l’organizzazione urbana per zone a funzione predestinata ( zoning), la dimensione conforme e la su conseguenza - che è anche suo presupposto - dell’osservare e progettare una configurazione urbana in termini di quantità di popolazione anziché in termini di relazioni tra strutture e attrezzature presenti in un’area, qualunque sia la sua dimensione e la sua posizione. Quest’ultima proposizione e l’alternativa che si è appena enunciata permettono di chiarire un’altra novità di interpretazione tra le più tipiche ed essenziali del nuovo modo di avvicinamento al problema urbano. Svincolando l’idea di efficienza territoriale dal numero degli abitanti presenti in un’area e legandola invece al raggiungimento di uno stabilito livello del rapporto tra strutture e attrezzature, si deve assumere automaticamente il taglio dell’orizzonte temporale degli interventi come “dato” del processo di pianificazione che si vuol attuare. Il problema infatti non è più quello di predisporre l’organizzazione del territorio per il numero x, y, z, degli abitanti che si prevede di dover ospitare entro il periodo h, y, j, di anni, ma invece quello di raggiungere entro un periodo a, b, c, i livelli di insediamento ritenuti necessari ad un dato grado di sviluppo economico, sociale e tecnologico del territorio. E mentre x, y, z, sono legate ad h, y, j, da una previsione derivata dall’analisi delle tendenze e delle forze che tendono a modificarle; a, b, c, rappresentano il tempo entro il quale si vuole realizzare l’operazione di modificazione dei livelli; sono l’indice di una decisione e non l’ipotesi derivata da una valutazione (che il più delle volte ha forti immagini di azzardo) [11].

L’orizzonte temporale posto come “dato” è dunque strettamente connesso con gli obiettivi; è parte integrante dell’enunciazione degli obiettivi stessi poiché esprime il tempo in cui una nuova “qualità” del sistema organizzativo deve essere raggiunta: oltre il quale la “qualità” è superata, perché si modificano le condizioni che l’hanno richiesta e con esse la scala di valori degli standards cui ci si è riferiti.

La definizione dell’orizzonte temporale, vista in questa prospettiva, deve necessariamente collocarsi entro i limiti di due fondamentali condizioni: essere fondata su una larghissima base di informazioni ed essere il più accorciata possibile. Si intende per informazioni, non solo quelle che possono essere derivate dall’analisi tecnica e interdisciplinare degli stati di fatto e delle tendenze in atto, ma anche quelle che debbono pervenire dalla trasmissione diretta di giudizi ed aspirazioni da parte del maggior numero di forze direttamente interessate allo sviluppo del territorio.

Queste forze debbono essere «nel Piano», e non «fuori dal Piano» come sono sempre state, non solo perché il processo di pianificazione possa assumere reale sostanza democratica, ma soprattutto perché possa svolgersi in un contesto di effettiva razionalità. Il presupposto della razionalità è infatti nella più ampia disponibilità di informazioni e questa non può essere conseguita se non accade che tutte le forze impegnate a trasformare direttamente o indirettamente il territorio […] possano confrontarsi entro il campo di osservazione del piano. Solo così sarà possibile valutare esattamente le tensioni e, su questa valutazione, di costruire la scala di valori alla quale si riferiscono gli obiettivi della pianificazione.

I quali obiettivi, proprio perché si articolano ad una scala di valori che si modifica col variare dialettico delle tensioni tra le forze in gioco, sono anch’essi soggetti a modificazioni; che debbono avvenire nell’esatto momento in cui se ne manifesta la necessità e che possono avvenire con prontezza tanto più sensibile quanto più è scorrevole la trasmissione dalla periferia al centro organizzativo del piano e viceversa. L’esigenza di una ampia partecipazione introduce dunque la concezione del piano come processo di fini e mezzi e riconduce la sua azione ad una alternanza illimitata di proposte e verifiche entro la quale continuamente si aggiustano non solo i mezzi, in relazione alla precisione dei fini, ma i fini stessi in relazione al rinnovamento dei mezzi. Questa concezione esclude la possibilità che il Piano si configuri in una decisione unica e permanente, valida una volta per tutte; ma anche presuppone che l’orizzonte temporale venga accorciato il più possibile, in modo da lasciare adito alle modificazioni che si proporranno nel suo divenire come processo. Non si tratta, è chiaro, di ridurlo ad una serie di interventi a breve termine ma di collocare ogni periodo, lungo o breve che sia, entro tempi esattamente commisurati alle necessità delle azioni che si debbono compiere. Allo stesso tempo, si tratta di prevedere per il “lungo periodo” lo stretto necessario, e di attuarlo con i mezzi più flessibili per ridurre al massimo le occasioni di irrigidimento del processo: al limite di conseguire gli obiettivi lontani, dati come traguardi, attraverso la concatenazione di interventi a tempi raccorciati, che possano trovare i loro reciproci aggiustamenti nei momenti della loro saldatura. La rotta del processo deve essere garantita dalla continuità delle azioni del piano; dall’istituto del Piano, inteso come organo permanente di osservazione e di controllo del territorio. […]

La concezione del Piano come processo esclude automaticamente tutte le soluzioni urbanistiche che nascono da preconcette figurazioni morfologiche o strutturali.

Queste soluzioni che ancora esercitano suggestioni, per il fatto che sembrano poter risolvere in modo unitario e definitivo tutti i problemi territoriali, nel concreto della realtà non solo risultano ineffettuali ma anche limitative della partecipazione e quindi dell’allargamento della base di razionalità del piano. […]

Il piano come processo non può evidentemente conciliarsi con questo tipo di soluzione. Per il piano come processo la figurazione morfologica e strutturale è una delle componenti dell’azione, anche se nei risultati finali essa assume significati conclusivi e rivelatori della qualità delle situazioni raggiunte. Il fuoco dell’interesse è nelle relazioni che si stabiliscono tra le volontà politiche, le scelte economiche, i comportamenti sociali, i livelli delle strutture e delle attrezzature territoriali, i caratteri formali ed espressivi dell’ambiente fisico. Gli interventi sono rivolti alla modificazione di queste relazioni e agiscono sulle diverse componenti nell’ottica delle loro reciproche influenze.

Il consenso non è un vincolo ma una variabile, che si risolve nel divenire del piano, man mano che il libero esercizio della contestazione chiarisce, nel quadro degli obiettivi generali stabiliti, gli obiettivi particolari verso cui occorre dirigersi, e identifica i metodi e gli strumenti necessari per aggiungerla. Le decisioni del piano non sono il risultato di una delega di potere, ma l’espressione di volontà in movimento che si confrontano e si organizzano in forme pluralistiche di governo.

La forma prefigurata è sostituita da impianti fluidi e interpenetrali che crescono e si configurano nei successivi tempi del processo di piano, coerenti con ogni fase del suo sviluppo.

L’organizzazione per distretti del sistema di osservazione e di intervento comprensoriale

[…]

Si è detto come in sede di intervento l’intero campo comprensoriale sia stato ricondotto ad una unità operativa, si è detto d’altra parte come all’interno di questa unità si manifesti una mancata differenziazione degli stati di fatto e come le azioni particolari previste dal piano siano state caratterizzate da specificazioni e gradualità commisurate alle differenze esistenti. Questa contraddizione, tra il carattere specifico delle diverse proposte e l’unità del sistema generale entro cui esse si inquadrano può essere risolta entro campi di intervento dimensionati in modo da attuare una effettiva mediazione tra decisioni locali e centrali, e delimitati in modo da aderire il più possibile alle convergenze ecologiche delle diverse parti del territorio. Si è perciò suddiviso il comprensorio in subcomprensori - che sono stati chiamati “distretti” - i cui limiti concludono aree nelle quali i problemi di sviluppo del piano possano essere ritenuti omogenei. Lo stesso territorio del capoluogo è stato incluso in queste aree dopo essere stato suddiviso in settori assimilabili a ciascuna di esse. I distretti sono da considerare dunque una derivazione del concetto di «piano come processo»; perciò essi sono destinati in primo luogo ad agire da supporto al sistema di decentramento del piano stesso. La dimensione comunale è, nella generalità dei casi del comprensorio, troppo piccola e troppo poco attrezzata di strumenti per poter svolgere un ruolo incisivo nel processo delle decisioni; d’altra parte la presenza delle autorità locali deve essere nel piano il più possibile autentica e sostanziale per garantire la democraticità delle scelte. Il distretto sembra il “luogo” più appropriato per assicurare una partecipazione paritetica e attiva, dal momento che la sua dimensione riconduce concretamente alla portata locale i problemi che si manifestano nello svolgersi della pianificazione comprensoriale.

[…]

Il sistema di relazioni tra i diversi livelli di pianificazione del territorio

[…]

Uno dei problemi più scottanti della vita politica, economica e sociale del nostro paese è costituito dalla definizione degli ambiti e dei rapporti intercorrenti tra i diversi livelli di programmazione.

I gravi squilibri territoriali e settoriali, l’entità della spesa pubblica, la necessità di superare l’ambito angusto dei bilanci annuali, hanno fatto sì che in modo quasi spontaneo e non coordinato, venissero alla luce piani pluriennali di amministrazioni locali, piani comprensoriali, piani provinciali, piani regionali (nelle regioni a statuto speciale) e, oggi, un piano nazionale.

Se peraltro non è difficile spiegare storicamente le ragioni del mancato coordinamento ed inquadramento di queste esperienze, è certo che questo stato di cose oggi appare causa di conflitti, di sovrapposizioni, di iati.

Il piano nazionale si limita per il momento a fissare gli obiettivi ed a adottare strumenti soltanto a livello macroeconomico per grandi aree e grandi settori dell’economia nazionale, ristrutturando e sintetizzando i livelli di intervento in questo ambito, senza recepire, verificare, coordinare quanto programmato a scala più bassa. Manca il quadro regionale, che trova il proprio naturale ambito nella programmazione a “medio raggio”, offrendo un punto d’incontro indispensabile tra la programmazione nazionale e quella provinciale o meglio comprensoriale. […]

Neppure è stata definita finora la natura e gli ambiti della programmazione comprensoriale: coesistono a tutt’oggi piani puramente urbanistici accanto ad altri con obiettivi più vasti fino ad arrivare a piani di vero e proprio sviluppo sociale, che si propongono di intervenire tanto nelle strutture urbanistiche, quanto - seppure in misura non organica - in quelle economiche e sociali della propria area di competenza. E non vi è dubbio che “Le linee programmatiche e gli obiettivi del Piano Intercomunale Milanese” adottate dall’Assemblea dei Sindaci il 17 febbraio 1963 collocano il PIM tra questi ultimi e in una posizione di avanguardia. Piano di sviluppo sociale, abbiamo scritto. E tuttavia intendiamo sottolineare come questa definizione sia intenzionalmente vaga e limitativa. Infatti anche le esperienze più avanzate, come appunto quella del PIM, hanno indubbiamente sofferto, per l’impossibilità di trovare nel quadro delle istituzioni vigenti, una collocazione ed una definizione tale da comprendere oltre agli aspetti urbanistici anche quelli economici della programmazione. […]

[…]

Se la programmazione nazionale può essere definita come piano globale e quella regionale come piano a medio raggio, quella comprensoriale appare per propria natura come programmazione a breve raggio investente un’area nella quale lo sviluppo può essere ricondotto ad un livello di omogeneità tale da permettere il controllo dei fenomeni che intervengono nello sviluppo stesso e che da questo derivano.

Nella definizione di rapporti tra piani comprensoriali e piani a livello più elevato sono evidenti due pericoli relativi alla considerazione:

a)dei piani comprensoriali come gerarchicamente e burocraticamente subordinati a quelli superiori, e quindi come mera attuazione ed estrinsecazione di questi ultimi;

b)delle aree comprensoriali come “isole” all’interno delle quali i piani possano essere preparati, definiti, attuati in assoluta autonomia rispetto al più ampio contesto regionale e nazionale.

Il piano comprensoriale nasce dalla constatazione che gli ambiti puramente municipali non sono più sufficienti a far fronte ad una serie di fenomeni a livello economico, sociale ed urbanistico (congestionamento, degrado, speculazione fondiari a vasto raggio, ecc.); che la settorializzazione degli interventi rappresenta in realtà un ostacolo al controllo complessivo sul territorio; che di conseguenza la battaglia per la difesa e lo sviluppo dell’autonomia comunale vanno combattute ad un livello più elevato dai Comuni associati. In tale prospettiva il problema cardine per l’Ente Locale non è più quello di essere “formalmente” autonomo nel proprio ambito giurisdizionale e territoriale, quanto quello di poter esercitare in modo effettivo le proprie funzioni, anche attraverso la creazione di nuovi strumenti e di nuovi istituti. […]

Sotto questo profilo, appare evidente che i Comuni associandosi a livello di comprensorio, e permanendo come organi insostituibili di potere democratico, possono esprimere istanze valide anche nei riguardi della programmazione a livello superiore non soltanto nel campo urbanistico ed amministrativo, ma anche in quello economico e sociale. Il pericolo insito nella generalizzazione dei piani consiste proprio nel rendere i livelli inferiori responsabili esclusivamente verso quelli superiori, togliendo ad essi ogni autonomia, e rendendo peraltro tutto il processo di programmazione autoritario, burocratico e riducendolo, nel migliore dei casi, a pura operazione tecnocratica.

Questo principio non sta a significare che i piani a livelli superiori debbano essere intesi come pura sommatoria dei piani a livello inferiore. In modo schematico dunque il processo della programmazione democratica dovrebbe comprendere le seguenti fasi:

1)di elaborazione degli obiettivi generali del piano compiuta dagli organi nazionali in collaborazione con i livelli inferiori di piano con specificazioni territoriali di grande scala e con l’approntamento delle scelte di quadro;

2)di preparazione e definizione dei piani a livello inferiore inquadrati nei livelli di coerenza di cui sopra. La programmazione regionale nei riguardi della programmazione comprensoriale dovrebbe funzionare in limiti più ristretti nella prospettiva accennata per quanto riguarda i rapporti tra piano nazionale e livelli inferiori;

3)di sintesi, razionalizzazione e verifica dei piani a livello più basso, ormai definiti, a scala più elevata (programmi comprensoriali su scala regionale; programmi regionali su scala nazionale);

4)di specificazione degli obiettivi a livello più elevato ed adozione degli strumenti e delle politiche di attuazione.

Un processo questo all’interno del quale i rapporti tra il vertice e la base non sono mai configurati come univoci ma tali da sostanziare una dialettica continua tra i diversi livelli nelle fasi di preparazione, definizione, attuazione. Un processo quindi nel quale, al limite, non esistono neppure i livelli diversi di piano, ma una concatenazione senza soluzioni di continuità di momenti e di atti di pianificazione [12].

Come è stato sottolineato, la situazione delinea soltanto i primi passi in tale direzione e prefigura un lungo periodo di transizione e di esperienze. Per tutto questo periodo dunque i piani comprensoriali, come manifestazioni della volontà degli Enti Locali, dovranno essere ritenuti innanzitutto responsabili verso le forze che li hanno espressi. Nulla ipotecando per il futuro, anzi sollecitando una più matura dialettica tra i vari livelli di programmazione, i comprensori dovranno preparare, definire, attuare i propri piani in condizioni di piena autonomia. In questa prospettiva sarà fin d’ora necessario per l’azione comprensoriale far risaltare tutti gli elementi di concordanza e di incontro con il piano nazionale, ponendo in atto direttamente nel proprio territorio ed indirettamente anche al di fuori del proprio ambito tutti quegli strumenti che possono concorrere alla pronta attuazione del piano stesso.

Già oggi al Piano Comprensoriale Milanese si presenta una vasta area di intervento in tale direzione: il piano Pieraccini come già le linee del rapporto Giolitti, indicano per il triangolo industriale un’azione di contenimento della spesa a scopi infrastrutturali, una politica di disincentivazione del flusso migratorio, una politica di riequilibrio degli investimenti industriali a favore delle zone depresse del territorio nazionale. In modo autonomo e fin dall’inizio, il piano comprensoriale ha già fatto propri tali obiettivi e su di essi ha fondato le proprie scelte operative.

Nei riguardi di tutta una serie di scelte di quadro politiche, economiche, istituzionali - come Legge Urbanistica, politica di perequazione tra le diverse zone ed i diversi settori dell’economia nazionale, attuazione dell’Ente Regione - il piano comprensoriale deve proporsi come elemento di pressione, sollecitando innanzitutto prese di posizione da parte degli Enti Locali, portando attraverso ai propri elaborati elementi di discussione e di presa di coscienza presso l’opinione pubblica, intervenendo al massimo livello parte dei problemi irrisolti per la massa dei propri amministrati.

È certo infatti che scelte di questa natura che possono essere compiute solo in sede di programmazione e di competenza legislativa nazionale e tutt’al più regionale condizionano ed incidono fortemente sull’avvenire del piano comprensoriale. Sarebbe tuttavia un grave errore pensare che soltanto dopo il varo di tali strumenti possa essere avviata la programmazione comprensoriale, o che comunque a tali scelte debbano essere demandate le soluzioni delle alternative fondamentali del piano comprensoriale stesso. Ad una impostazione siffatta è facile rispondere che tali deliberazioni di quadro, qualsiasi incidenza possa ad esse attribuirsi, non determinano la natura del piano comprensoriale, né soprattutto possono giungere a definire il piano stesso. Anzi, la programmazione comprensoriale, rendendo espliciti gli iati e le contraddizioni esistenti, portandoli a livello di coscienza e di cultura sociale, attuando scelte che sollecitino iniziative in sede politica nel senso sopra ricordato, appare elemento di stimolo, certo non secondario, per affrettare e facilitare l’attuazione di questi indirizzi, di questi strumenti politici e di questi Istituti.

Nota: il testo di Giancarlo De Carlo riportato sopra è stato tagliato per motivi di spazio; la versione originale completa è scaricabile in calce all'articolo "guida" di questa Pagina di Storia sul PIM, insieme ad altri materiali (f.b.)

[1] Si riporta qui l’introduzione alla relazione che accompagnava il Secondo Schema per il Piano Intercomunale Milanese, redatto dagli architetti Giancarlo De Carlo, Silvano Tintori, Alessandro Tutino.

[2] Tra i numerosi interventi dall’esterno si possono segnalare quelli della stampa della DC, del PSI, del PCI; i Convegni di corrente dei partiti di maggioranza; il Seminario dell’ILSES sulla Pianificazione Intercomunale; il Seminario della Facoltà di Architettura di Venezia sulla Pianificazione Territoriale Urbanistica nell’area milanese.

[3] Si rimanda alla relazione dell’Ufficio Tecnico per i particolari sulle ricerche e sugli studi affrontati nell’anno trascorso.

[4] Cfr.: P.I.M. - Relazione illustrativa sullo schema proposto. Seminario sulla pianificazione urbanistica intercomunale in Italia con particolare riferimento ai primi risultati del Piano Intercomunale Milanese, tenuto all’ILSES il 10-10-63. Seminario sulla pianificazione territoriale urbanistica nell’area milanese, tenuto all’Ist. di Arch. di Venezia il 14 e 15 maggio ’64. Casabella n. 282, dicembre ’63.

[5] Una rappresentazione lampante di questa situazione è data dall’assemblaggio delle previsioni dei piani regolatori locali, della rappresentazione dello stato di compromissione dei vari territori comunali, dall’analisi dei tessuti fornita dalla ricerca ILSES sui Caratteri dell’urbanizzazione nell’area milanese.

[6] È importante notare che il superamento della densità di popolazione come indice rivelatore dei fenomeni di congestione è coerente con il principio del «continuo urbanizzato» della città regione. L’idea, connessa a questo principio, dell’estensione del controllo urbanistico a tutto il territorio concepito come un unico pianificato, implica di dover giudicare le condizioni territoriali secondo una scala di valori dipendenti da una serie di relazioni tra standards. Poiché gli standards sono per loro stesa definizione variabili con le condizioni di sviluppo, con le aspirazioni dei gruppi sociali, con i livelli tecnologici, ecc., si introducono attraverso le loro serie di relazioni criteri di giudizio comprensivi dei molteplici aspetti che concorrono all’efficienza di un territorio e perciò più significativi del rapporto statico che si stabilisce tra quantità di popolazione e superficie di area occupata. Il fatto che una forte densità insediativa coesista con una strozzatura urbanistica rappresenta soltanto una frequente coincidenza: questo può consentire di servirsi della densità solo come indice di prima approssimazione.

[7] Più correttamente, se non altro da un punto di vista storico, si dovrebbe dire che lo zoning è un caso particolare del principio della dimensione conforme.

[8] A sostegno di questa schematizzazione cfr. A.Z.Guttemberg «Urban Structure and Urban Growth» (AIP n.2, maggio 1960). Nella categoria delle «attrezzature» sono compresi in questo caso anche quei fattori che vengono normalmente chiamati «strutture» e cioè le materializzazioni fisiche nel territorio delle attività produttive e residenziali.

[9] Tipico di una concezione urbanistica, fondata sul mito della funzione prioritaria dei trasporti, è il ben noto schema della “città lineare”. Inventato da Soria y Mata nel 1852, esso assume il principio di sviluppare lungo un sistema assiale di linee di comunicazione una catena continua di insediamenti e specializzazione alternata.

La struttura organizzativa già rivela in se stessa i suoi principali limiti ed in primo luogo quelli connessi con gli inevitabili fenomeni di specializzazione e di segregazione che derivano dall’espediente della segmentazione a catena. Bisogna però soprattutto considerare come tale struttura, a parte le sue intrinseche disfunzioni, non possa ammettere eccezioni né al suo interno né al suo contorno: una città lineare deviata dalla sua linea assiale oppure innestata a una struttura territoriale ramificata perderebbe ogni senso, dal momento che verrebbe ad essere contraddetto nei fatti il principio del suo funzionamento.

Per questo tutte le città lineari realizzate sono state collocate nei deserti - degli Urali, della Siberia, del Sud America o dell’India - dove hanno potuto trovare ragioni sufficienti per la loro generazione nella reale preminenza della linea di comunicazione alla quale si attestavano e ragioni sufficienti per il loro sviluppo nella totale assenza di alternative territoriali al loro intorno. In un’area già sviluppata come quella milanese la città lineare non avrebbe alcun senso perché il livello di infrastrutturazione è già troppo elevato per ammettere semplificazioni radicali e perché la distribuzione degli insediamenti è troppo articolata per consentire alla segmentazione dello schema di conservarsi integra.

[10] I fenomeni di deterioramento della seconda corona che si verificano nei poli delle aree metropolitane sono stati analizzati diffusamente da Homer Hoyt negli studi per il piano di Chicago. In queste analisi egli stesso ha rilevato come molte iniziative mosse dall’esigenza di insediarsi con livelli elevati tendano a scavalcare le aree deteriorate e ad insediarsi nella terza corona provocando alle loro spalle ulteriore deterioramento ma anche episodi di rinnovo edilizio.

Nell’area milanese un esempio evidente dell’attualità di questa tendenza è dato dall’episodio di San Donato e di quanto ha provocato nell’intorno di piazza Corvetto e corso Lodi.

Cfr. Homer Hoyt, The structure and Growth of Residential Neighbourhood in American Cities, 1939.

Chicago Plan Commission, Master Plan of Residential Land Use of Chicago, 1943.

[11] Si può osservare che anche procedendo per via tradizionale è possibile scegliere un orizzonte temporale, tra i tanti ipotizzabili, ponendolo in rapporto con i livelli di insediamento della popolazione che si prevede per il tempo fissato. In questo caso però la scelta deve essere riferita in primo luogo ai livelli ed essere aggiustata in rapporto al numero degli abitanti fino al punto in cui anche questa variabile diviene costante, fino al punto cioè in cui la soluzione è unica e l’orizzonte temporale diviene «dato».

[12] È peraltro evidente come la «circolarità» della programmazione sopra delineata, non esaurisca il contenuto di una pianificazione democratica, che si sostanzia soprattutto nelle scelte, e neppure il processo di partecipazione e di controllo dal basso che deve comprendere l’intervento di altre istanze come ad esempio quelle sindacali, a tutti i livelli.

Gigi l’ho conosciuto trent’anni fa, quando cominciammo a occuparci del piano del comprensorio di Venezia e della laguna, ed ebbi il piacere di collaborare con Antonio Casellati, che del comprensorio era presidente, con l’attuale sindaco Massimo Cacciari e con altri illustri studiosi ed esponenti politici. Si stabilì fra Gigi e me un’intesa perfetta. Esisteva allora la deplorevole abitudine di assumere le decisioni relative alla vita pubblica in riunioni ristrette fra i vertici dei partiti locali, in particolare fra Psi e Pci. A Gianni De Michelis, che lo redarguiva per il mancato rispetto di qualche accordo relativo al piano comprensoriale, l’indimenticabile Gianni Pellicani rispose che l’inconveniente andava addebitato alla ferrea intesa fra Scano e De Lucia, più forte della disciplina di partito; e che non aveva argomenti per imporci regole che non condividevamo. Fu il viatico all’amicizia di una vita.

Da allora, siamo alla fine degli anni Settanta, fino alla sua scomparsa, non ci siamo più persi di vista e abbiamo continuato spesso a lavorare insieme, raggiungendo talvolta buoni risultati, altre volte siamo stati costretti a onorevoli sconfitte.

Gigi è sempre stato un lavoratore infaticabile. Basta dare uno sguardo al suo curriculum per rendersene conto, e mi auguro che sia possibile una raccolta critica dei suoi lavori, per rendere pubblici e disponibili testi secondo me di straordinaria qualità. Qui riesco a dar conto soltanto, e sommariamente – sono poco più che appunti e promemoria che spero possano essere sviluppati – di alcuni degli impegni di Gigi di cui sono stato in qualche modo partecipe o testimone. Tralascio qui il piano comprensoriale di Venezia, del quale lo stesso Gigi ha trattato magistralmente nel suo Venezia: terra e acqua. Per comodità espositiva tratto separatamente le attività condotte come impegno civico da quelle propriamente professionali. Ma tutti coloro che hanno conosciuto Gigi sanno che il suo agire professionale non è stato mai separato o separabile dall’azione politica e culturale.

Comincio dal rapporto di Gigi con le associazioni culturali. Subito dopo la deludente esperienza del piano comprensoriale di Venezia, si occupò a lungo dell’Istituto nazionale di urbanistica, nel cui consiglio direttivo nazionale fu eletto nel 1980 e confermato per oltre un decennio, svolgendovi un ruolo da protagonista, in particolare come coordinatore della commissione giuridica e quindi autore delle successive proposte di legge dell’Inu in materia di urbanistica o meglio, come si usava dire allora, in materia di “regime degli immobili”. All’inizio degli anni Novanta, com’è noto, nell’Inu cominciò a soffiare il vento del revisionismo, del riflusso accademico e corporativo, che spingeva su posizioni sempre più lontane da quelle che avevamo contribuito a definire negli anni precedenti (e che infine ha condotto l’istituto su un fronte collaterale a quello del governo Berlusconi). Decidemmo allora di abbandonare l’Inu e di fondare una nuova associazione “di tendenza”, non appesantita da problemi di gestione e di funzionamento. Nacque così, nel marzo del 1992, l’associazione Polis, la cui finalità è di “promuovere una disciplina del territorio fondata sull’assunzione degli obiettivi della tutela della sua integrità fisica e della sua identità culturale, e del conferimento a esso di più elevati caratteri di qualità formale e funzionale, quali condizioni per soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

Fondatori di Polis furono Roberto Badas, Silvano Bassetti, Felicia Bottino, Teresa Cannarozzo, Antonio Casellati, Antonio Cederna, Filippo Ciccone, Vezio De Lucia, Antonio Iannello, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Walter Tocci, Mariarosa Vittadini. Gigi fu subito eletto segretario, con poteri quasi monocratici, e per un lungo periodo ha condotto l’associazione quasi da solo, scrivendo centinaia di documenti, appelli alle autorità, denunce, comunicati stampa. E ha ricominciato a proporre testi di legge in materia di urbanistica, a scala nazionale e regionale, molto spesso ripresi da parlamentari ambientalisti e di sinistra. La proposta di legge elaborata dagli amici di eddyburg sui principi nazionali in materia di pianificazione del territorio – presentata l’anno scorso da parlamentari di rifondazione e di altri partiti di sinistra – è l’ultima espressione delle sue impostazioni culturali e giuridiche.

L’indiscussa attitudine di Gigi “legislatore” va ricordata ancora per la collaborazione da lui fornita ad Antonio Cederna, parlamentare della sinistra indipendente dal 1987 al 1992, e all’associazione Italia nostra. Della consuetudine di lavoro con Cederna per fortuna lo stesso Gigi ha dato conto, in maniera molto puntuale, nel volume Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, curato da Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala (Bononia University Press, 2007). È l’ultimo suo scritto importante ed è una preziosa testimonianza dell’operoso sodalizio che si era stabilito fra Gigi e Tonino Cederna, in particolare su due testi di legge fondamentali: quello sulla difesa del suolo e quello su Roma capitale. Nello scritto di Gigi è ricordata e documentata accuratamente anche l’elaborazione della proposta di legge Cederna del 1991 per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna che però non riuscì neppure a iniziare il suo iter parlamentare. E Gigi ricorda altresì di non aver condiviso, e a ragione, il favore di Cederna per la legge del 1991 in materia di aree protette.

Scomparso Cederna, Gigi ha continuato a proporre testi di legge con Sauro Turroni, deputato e poi senatore verde, che ha scritto per l’incontro di oggi un bel ricordo dei loro rapporti politici, professionali e di amicizia.

Con Italia nostra, Gigi ha sempre collaborato, in particolare con la segretaria generale Gaia Pallottino, negli anni della presidenza di Desideria Pasolini dall’Onda. Furono organizzate anche iniziative congiunte Italia nostra – Polis. Importante soprattutto l’articolato di legge curato da Gigi relativo alla tutela dello spazio agricolo e naturale predisposto all’inizio del 2005 a conclusione di un ciclo di iniziative dell’associazione sul paesaggio agrario. La proposta, molto in sintesi, è basata sulla necessità di riconoscere la qualità di bene culturale al territorio non urbanizzato, sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, inserendolo nella lista delle categorie di beni tutelati della legge Galasso. La proposta è stata successivamente ripresa nella già citata proposta eddyburg in materia di pianificazione del territorio.

Per ultimo va ricordato il contributo, molto apprezzato, di Gigi al comitato dei cittadini di Fiesole nel gennaio scorso, e poi al coordinamento dei comitati toscani presieduto da Alberto Asor Rosa.

Ed eccoci alle attività professionali. Solo per memoria ricordo il grande impegno di Gigi per la formazione del piano paesistico dell’Emilia Romagna, nella seconda metà degli anni Ottanta, quando era assessore regionale all’urbanistica Felicia Bottino. La prima collaborazione con chi scrive queste righe fu avviata, nell’ambito della direzione generale del Coordinamento territoriale del ministero dei Lavori pubblici. Gigi, insieme ad altri ricercatori (Filippo Ciccone, Maurizio Di Palma, Italo Insolera, Paolo Leon) condusse un’importante indagine sulle politiche di recupero che potevano essere concretamente promosse nei territori vincolati dalla legge Galasso. L’ambizioso obiettivo era di fornire elementi utili, non solo dal punto di vista delle metodologie di pianificazione e d’intervento, quanto per stimare le risorse necessarie, la loro allocazione e, soprattutto, l’impatto economico e sociale che si poteva prevedere, con particolare riguardo all’occupazione giovanile. Purtroppo i risultati furono disponibili troppo tardi, proprio mentre Giovanni Prandini metteva fine alla mia carriera ministeriale.

La tappa successiva si è sviluppata a Napoli, dove sono stato amministratore dal 1993 al 1997. Chiesi subito l’aiuto di Gigi, che si dedicò con passione ed entusiasmo a un lavoro oscuro, faticoso, non retribuito. Il comune di Napoli era stato dichiarato in dissesto, il che significa che ci era inibita qualsiasi spesa, operavamo in condizioni inverosimili, mancava tutto, gli uffici erano decimati dagli arresti, non sapevo di chi potevo fidarmi, non avevo un computer e scrivevamo a mano. Gigi dimostrò, insieme alle capacità già note, un’attitudine sorprendente e commovente a farsi carico di tutto. Stava a Napoli spessissimo, stabilì rapporti di eccellente collaborazione con i pochi, bravissimi, funzionari e operatori con i quali cercavamo di andare avanti. Ricordo un suo documento indirizzato al governo di lucida e feroce indignazione per l’annunciato condono del governo Berlusconi della primavera del 1994, documento che fu sottoscritto da molti amministratori di città grandi e piccole.

Ma soprattutto devo ricordare il suo impegno per il nuovo piano regolatore di Napoli al quale si dedicò senza risparmio, curando in particolare la nuova disciplina del centro storico. A questo proposito mi propose di chiedere l’aiuto anche di Edgarda Feletti, allora dirigente del comune di Venezia, che aveva mirabilmente curato la formazione del piano del centro storico, quando era assessore Edoardo Salzano. Fu scovata una norma che consentiva lo scambio di funzionari fra i comuni, che il sindaco Cacciari autorizzò subito. Mi impegnai in una sorta di dignitoso accattonaggio anche con altre amministrazioni comunali: allora per Napoli si mobilitavano tutti. Al duo Scano – Feletti si aggiunsero altre e molto qualificate collaborazioni: il ministero dei Beni culturali (che mise a disposizione l’ufficio statale per la pianificazione paesistica), la soprintendenza ai Monumenti di Napoli (che distaccò al comune Antonio Iannello), docenti universitari e studiosi di varie discipline. Gli architetti del comune ressero egregiamente l’impatto e in breve tempo padroneggiarono con sicurezza la metodologia dell’analisi e della classificazione tipologica degli edifici esportata a Napoli da Edgarda e da Gigi. E Gigi ha continuato fino all’ultimo a dare il suo generoso contributo per l’urbanistica napoletana.

Chiusa quell’esperienza, discutemmo molto del nostro futuro professionale e decidemmo di occuparci a tempo pieno di pianificazione del territorio, operando solo per la pubblica amministrazione. Concordavamo sul fatto che l’urbanistica, materia strettamente dipendente dalla politica, è essa stessa politica. Ma dire che l’urbanistica è politica, non significa negarne la specificità tecnica, o non riconoscere il valore dei suoi operatori. Il nostro lavoro non poteva essere paragonato a quello di qualsivoglia tecnico lottizzato.

Discutemmo a lungo dell’autonomia dei progettisti di un piano nei confronti della committenza pubblica, convenendo che rivendicare pregiudizialmente autonomia e libertà di decisione può essere un errore. Spesso irrimediabile. Ma errore opposto, forse ancora più grave e diffuso, sta nella concezione dell’urbanista come puro tecnico asservito alla politica, e quindi pronto ad assumere la “scelta politica” come salvacondotto per legittimare ogni tipo di operazione. L’unica garanzia, per evitare il naufragio sugli scogli dell’eccesso di disponibilità oppure su quelli opposti della malintesa autonomia, sta nell’essere portatori e garanti di una propria concezione etica, estetica e culturale, politica, se si vuole: questa è la linea che con Gigi abbiamo sempre condiviso. Una condizione rara, lo sapevamo bene, che si realizza solo quando la committenza pubblica è animata dalle stesse concezioni dei tecnici chiamati a collaborare.

È andata proprio così all’inizio della nostra attività in Toscana. Il piano territoriale di coordinamento della provincia di Pisa, poi quello della provincia di Lucca, il piano strutturale del comune di Pisa, quello del comune di Lastra a Signa (il cui sindaco Carlo Moscardini, stabilì con Gigi un bel rapporto umano e politico) e il piano del comune di Gavorrano: sono state esperienze indimenticabili, occasioni di incontro con amministratori e tecnici di eccezionale levatura morale e professionale, con i quali si è perfettamente realizzata quell’unità d’intenti politici, tecnici e culturali da noi auspicata.

Altri più recenti lavori in Toscana non sono andati a buon fine, come nel caso dei piani di Calenzano e Pontassieve. L’improvvisa scomparsa ha risparmiato a Gigi le polemiche e la tristezza della rottura intervenuta con i comuni del circondario della Val di Cornia, Piombino, Campiglia, Suvereto, luoghi della Maremma livornese di prodigiosa bellezza, dove si è allentato il tradizionale impegno pubblico per la tutela e per l’uso lungimirante del territorio.

Con Gigi abbiamo anche attraversato il Chiarone, tentando di operare nel Lazio e in Campania. L’esperienza che merita di essere ricordata è certamente il piano regolatore di Eboli, territorio di frontiera all’estremità orientale della sconfinata area urbana di Napoli. Dopo ci sono le terre spopolate del Cilento e della Basilicata. La vicenda del piano di Eboli è strettamente legata alla figura di Gerardo Rosania, sindaco della città dal 1997 al 2005. Noto per aver lottato senza tregua contro la speculazione malavitosa e per aver demolito, dal 1998 al 2000, ben 450 costruzioni abusive nella pineta demaniale, lungo la costa, superando difficoltà immani.

Fra Rosania e Scano si stabilì subito un rapporto diretto profondo e molto concreto, in particolare per quanto riguarda l’assetto del vasto territorio agricolo. A Eboli, come in tutti i comuni del Mezzogiorno, la campagna è considerata ormai solo come un vuoto da riempire. La devastante ideologia familistica dominante è fondata sul possesso o sull’aspirazione al possesso della casa in campagna. Rosania e Scano non cedettero di un millimetro rispetto all’obiettivo di riservare lo spazio rurale esclusivamente alla produzione agricola e il sindaco, pur amato e in precedenza mise a repentaglio la sua rielezione. Mi piace ricordare che Rosania in una pubblica occasione definì Gigi “un mistico della normativa urbanistica”.

Concludo ricordando che Gigi, a Eboli, organizzò anche, tramite l’associazione Polis, nell’ottobre del 2000, un bel convegno su Il governo pubblico del territorio e la qualità sociale. Nella sua non breve relazione introduttiva ritorna la passione politica e la dimensione politologica di Luigi Scano, che propone una sorta di riepilogo del suo pensiero, dal generale al particolare, dalla globalizzazione ai piani particolareggiati. La relazione è pubblicata su eddyburg. Qui mi limito a rendere omaggio a Gigi riprendendo solo tre sue definizioni.

L’ideologia della globalizzazione: “ha prodotto un comune sentire per cui quasi ogni aspetto della vita dell’umanità, e di ogni singolo individuo, appare determinato, e comunque dominato, dalle supposte «leggi naturali» dell’economia, concepita come una sorta di immane sistema neurovegetativo, nonché dalle altrettanto ineludibili e autoreferenziali esigenze della «tecnica» (oppure, in una visione minoritaria, e tutt’altro che autenticamente ed efficacemente antagonistica, da centri decisionali remoti, impersonali, irresponsabili)”.

La sinistra di governo:“immersa in un presente disancorato dalla storia, deprivatasi di principi e valori, ha finito con l’assumere come suo obiettivo una «modernizzazione» priva di qualificazioni, incapace di trasmettere messaggi significativi e di aggregare grandi interessi collettivi”.

Il ceto politico di centro sinistra: “privo di una vera identità programmatica, e di una robusta strategia, ha finito con il giocare di rimessa, facendosi sostanzialmente dettare l’agenda degli argomenti dagli avversari, e comunque da altri soggetti, nella presuntuosa e arrogante certezza di supplire a tutto con una superiore capacità tattica: riuscendo soltanto a dar prova di un tatticismo esasperato nel quale si manifestava l’assenza di maturate profonde convinzioni in merito a pressoché ogni argomento”.

Le tre definizioni citate rendono onore alla cultura e alla intelligenza di Gigi “vecchio liberale”, come amava definirsi, allergico ai luoghi comuni e alla ideologie vincenti. Bastian contrario per scelta filosofica ed etica.

Ha ragione Anna Renzini, Gigi, alla fine, si ritira nell’“impolitico”, Ma per lui la vita coincideva con la politica e forse è questa la ragione del suo essersene andato.

Titolo originale: Cities copied 'Seattle Way' in planning – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Jim Diers non sta parlando di birra quando usa il termine “ bottom-up”, anche se all’informale ex direttore dell’Ufficio Quartieri di Seattle non ne dispiacerebbe una.

Sta invece parlando di quello che città come Melbourne, in Australia, Pechino in Cina, o Austin in Texas, chiamano “Il Metodo Seattle” una forma radicata, dal basso verso l’alto di pianificazione e progettazione dei quartieri, opposta al processo “ top-down” dirigista dell’amministrazione cittadina.

Per quanto riguarda Diers, il primo funziona, il secondo no.

Ma mentre le altre città cercano di emulare Seattle favorendo il coinvolgimento dei quartieri, ha spiegato settimana scorsa, la “Città di Smeraldo” si è allontanata dalle strategie che pure l’avevano fatta diventare un modello globale.

“I vicini che interagiscono l’uno con l’altro e con le decisioni cittadine sono diventati un movimento presente ovunque, ma pare che a Seattle ci si stia muovendo nella direzione opposta” spiega, di passaggio in città fra una conferenza internazionale e l’altra a proposito di urbanistica.

“I grandi centri di tutto il mondo vogliono fare le cose col metodo di Seattle. Vorrei che lo facesse anche la nostra città”.

Diers, autore di Neighbor Power: Building Community the Seattle Way, riconosce come i suoi timori possano sembrare frutto di rancore personale. É stato il primo capo divisione licenziato dal sindaco Greg Nickels appena entrato in carica, ponendo fine alla riconosciuta carriera di Diers alla guida del dipartimento durata 14 anni, con un lavoro che si è sviluppato attraverso i mandati dei tre sindaci precedenti.

Nominato da Charles Royer, confermato da Norm Rice e fortemente sostenuto da Paul Schell, Diers verso al fine degli anni ’90 ha coordinato l’attuazione di 38 piani locali: e di altrettanti progetti di parchi, abbellimento, animazione, arredo stradale, e altre opere consentite dai finanziamenti cittadini.

“É prerogativa del sindaco cambiare le cose, e lui voleva muoversi in una direzione diversa” riconosce Tim Ceis, vicesindaco con Nickels.

“Jim ha costruito un ottimo modello, ma il sindaco riteneva che ci fosse bisogno di un allargamento di partecipazione, che in 14 anni la città fosse diventata molto più diversa, e ci fossero fasce escluse dal processo di pianificazione (di quartiere)”.

Nickels ha lanciato una iniziativa per la giustizia sociale e razziale per stimolare più diversità; chi ha sostituito Jim Diers a capo della divisione - Yvonne Sanchez, Bernie Matsuno (ex), e ora Stella Chao – appartiene a minoranze.

“Diers non condivideva la decisione e l’ha detto molto esplicitamente all’epoca” continua Ceis. “Ma ha continuato a fare un altro lavoro, anche noi siamo andati avanti, tutti”.

Ma Diers, attivista di quartiere da lungo tempo, che per oltre 30 anni ha abitato nella zona più diversificata della città dal punto di vista culturale e socioeconomico - Southeast Seattle – considera il proprio lavoro sui quartieri ampiamente inclusivo.

Il sindaco semplicemente “vuole più controllo” su quanto accade nei quartieri, ha dichiarato di recente Diers. “Aiuto altre amministrazioni a organizzare i programmi da cui questo sindaco (Nickels) si sta allontanando”.

Gli sviluppi del movimento per i quartieri a Seattle preoccupano Diers, che ricorda di essere “rimasto scioccato quanto tutti gli altri” ai tempi in cui l’allora sindaco Charles Royer lo nominò direttore del nuovo Settore Quartieri nel 1988. Appassionato delle questioni di partecipazione, non era esattamente un moderato.

Ricorda ancora quando negli anni ’80 era fra gli attivisti che, chiedendo più voce nelle decisioni su una città allora in pieno boom edilizio, “liberarono un pollo vivo nell’ufficio di Charley (Royer) e organizzarono un picchetto davanti alla sua casa”.

“Lui (Royer) si preoccupava che il processo di decisione sui piani per i quartieri avvantaggiasse gli abitanti più ricchi, che tendono ad essere meglio organizzati” ricorda Diers. “Temeva anche il NIMBYismo ( Not In My Back Yard) e che i finanziamenti andassero a premiare le zone ricche a spese delle aree meno privilegiate”.

Ma non accadde niente del genere. Al contrario, consentire che i quartieri si gestissero da soli le priorità “produsse un modello di pianificazione completamente diverso”.

“Prima, c’era un rapporto di rivalità fra i quartieri e l’amministrazione cittadina; si guardava ai problemi, e i quartieri dipendevano dalla città per la soluzione” ricorda Diers. “Sento ancora questa storia ovunque vado: con gli amministratori che dicono, Ma perché dobbiamo starli ad ascoltare (gli attivisti di quartiere); questi sono soltanto una scocciatura. E gli abitanti perdono fiducia nell’amministrazione”.

Diers dice di essere un convinto assertore della responsabilità del governo, “ma non può fare tutto da solo”.

“Se si crede davvero nella democrazia, il problema non sono gli attivisti di quartiere, ma il fatto che ce ne siano troppo pochi. La sfida, allora come oggi ... è, come può al meglio la città attingere alle risorse di artisti, architetti, urbanisti, giovani, anziani, disabili, immigrati e tutti quanti hanno qualcosa con cui contribuire?”.

Questa filosofia ha prodotto un modello di collaborazione civica, da qui gli inviti da tutto il mondo per le conferenze di Diers.

Dopo che Diers aveva parlato a una platea di leaders comunitari a Austin in maggio, l’editorialista dell’ Austin Chronicle Katherine Gregor ha scritto, “ Anche se ci sono luci e ombre naturalmente, in ciò che è accaduto nella Puget Sound, nello scorso decennio Seattle ha dimostrato un impegno impressionante a delegare un vero potere ai quartieri. La nostra sorella città progressista ha sviluppato molte riuscite politiche e pratiche, che meritano un esame più attento: in quanto modelli in grado di accelerare l’attuazione di piani di quartiere anche qui a Austin”.

Nota: di un certo interesse nel sito Neighborhood Planning dell'amministrazione di Austin, la disponibilità di materiali informativi e divulgativi rivolti a varie fasce di età, sui principali temi della progettazione urbana, e addirittura del piano storico per la città degli anni '20 in versione scaricabile (f.b.)

here English version

La geografia del comprensorio e la pianificazione comunale

Fin dagli inizi del XIX secolo le nuove attività industriali che sorsero in Lombardia, costituite allora prevalentemente da filature e tessiture, si localizzarono di preferenza nel bacino settentrionale della regione.

Nella parte collinosa della Provincia di Milano, che copre i due terzi del territorio, il processo di privatizzazione delle terre pubbliche e lo smembramento della proprietà feudale, seguiti all'abolizione, nel 1797, dei vincoli giuridici che ostacolavano il frazionamento dei possessi nobiliari, comportò il rafforzamento della piccola proprietà contadina, mentre la diffusione del contratto misto, di affitto per i cereali e di mezzadria per i frutti delle colture arboree, contribu1 ad estendere la coltura del gelso e ad incrementare la produzione di seta grezza.

Nella pianura umida invece si riscontra contemporaneamente un processo di consolidamento della grande proprietà terriera borghese, frammista ai latifondi dei benefici pubblici, che diede luogo ad una conduzione rivelatasi col tempo sempre più assenteistica.

Queste condizioni avviarono, nella parte settentrionale della provincia, lo sviluppo di una fiorente industria serica che sfruttava sul posto l'abbondante produzione di seta grezza, e contribuirono contemporaneamente alla formazione di un certo grado di capacità imprenditoriali nei ceti piccolo borghesi e contadini, che costitu1 il fertile terreno di una successiva evoluzione.

L’abbondanza poi di legna e di corsi d’acqua rappresentò una ulteriore circostanza particolarmente favorevole alla lavorazione della seta grezza, e alla successiva estensione delle iniziative imprenditoriali ai settori della lana e del cotone.

Non va infine sottovalutata, fra le circostanze che contribuirono allo sviluppo della parte settentrionale del territorio, la generale tendenza per cui le frontiere di regola «separano le regioni relativamente più povere del più ricco di due paesi dalle regioni relativamente più ricche del paese più povero», tendenza che, nell’assetto geografico europeo, ha fatto nel tempo si che i termini di “nord” e “sud” diventassero rispettivamente sinonimi di sviluppo e di relativa arretratezza.

Del resto questo rapporto di dominanza si rivelerà frequentemente nel concreto intervento di operatori nordeuropei nelle prime iniziative industriali della regione Lombarda.

Nella seconda metà del secolo XIX, questa differente vocazione delle due parti del territorio, in realtà fino ad allora appena avvertita per la sostanziale modestia delle iniziative imprenditoriali, trovò conferma nella localizzazione delle prime attività siderurgiche, ovviamente legate alle zone più montagnose, ed insieme motivi di accentuazione nella configurazione della rete ferroviaria, che nel 1857 già comprendeva le linee di Torino, di Genova, di Venezia e di Como, cui dovevano aggiungersi negli anni successivi le ferrovie Nord (1879), la linea del Gottardo (1882) e il traforo del Sempione (1906): l’unica linea che attraversasse la “bassa” fu quella di Piacenza (1861), che rispondeva peraltro non tanto ad esigenze locali quanto al più vasto disegno politico di consolidamento della appena raggiunta unità attraverso la formazione di una spina ferroviaria longitudinale.

Si andò così delineando una configurazione regionale nella quale i centri settentrionali (Lecco, Como, Varese, Novara), quasi capolinea delle direttrici nord di Milano, cui furono fin da allora legati da un rapporto di tributarietà, tendevano ad acquistare il ruolo di poli sviluppati in contrapposizione con i centri relativamente arretrati della fascia sud (Mantova, Cremona, Piacenza, Pavia).

Gli assi di comunicazione radiale del capoluogo verso settentrione divennero rapidamente i bacini preferenziali di localizzazione industriale: già ai primi anni del ‘900 le industrie di maggiore rilievo come la Breda, si trasferirono all’estremo del Comune di Milano lungo le direttrici nord, e molto spesso anche gli insediamenti di nuovo impianto preferirono, come la Falck, orientarsi fin dall’inizio verso una localizzazione nella fascia piuttosto che nella città.

Il sistema degli insediamenti residenziali si appoggiò naturalmente sulla medesima struttura della rete di comunicazioni, ma, ovviamente, con una morfologia più diffusa: mentre infatti nei confronti delle localizzazioni industriali agivano i consueti fattori aggregativi che comportavano la formazione di grosse concentrazioni, la localizzazione della residenza rispondeva spesso alla necessità di assicurare un reddito misto.

Gli abitanti della fascia si inserirono infatti facilmente nel mondo produttivo dell’industria, ma mantenendo per lungo tempo inalterati i costumi di vita e i cespiti più tradizionali di reddito agricolo: lungo le direttrici di comunicazione ferroviaria si avviarono così consistenti fenomeni di pendolarità, già fin dagli inizi del secolo, estesi anche, sia pure in misura ridotta, ai comuni della “bassa”, che comportarono una diffusione più uniforme della residenza, agevolata inoltre da una rete viaria minore già allora di notevole estensione.

Durante gli ultimi cinquant’anni questo assetto geografico si è andato progressivamei1te consolidando, sia con qualche arricchimento della rete infrastrutturale che confermava le tendenze precedenti, come il sistema delle autostrade nord costruito dal 1925 al 1932, sia con il progressivo accumularsi degli insediamenti produttivi nella fascia settentrionale.

Sono andate nel frattempo emergendo altre caratteristiche secondarie, sia connesse con la progressiva specializzazione di alcune parti del territorio, sia dovute alla diversità delle morfologie insediative lungo ogni singola direttrice.

La specializzazione funzionale, la concentrazione cioè in aree relativamente ristrette di processi di lavorazione omogenei, come l’industria tessile nel sistema Busto Arsizio-Gallarate, ha arricchito notevolmente lo schema distributivo della popolazione regionale, inizialmente appoggiato sui soli centri tradizionali, articolandolo su altri e diversi livelli: nel caso citato, si è venuta nel tempo formando una conurbazione secondaria che ha acquistato il peso e l’attrazione di una vera e propria città, fino a possedere un proprio bacino d’influenza molto caratterizzato ed abbastanza esteso.

Nella Brianza la tradizione dell’artigianato del mobile si è diffusa in una vasta regione, costituendone l’efficace supporto economico, ma senza tuttavia dar luogo ad estesi fenomeni di conurbazione.

Vistosi fenomeni di questo genere si ebbero invece, già prima della seconda guerra mondiale, lungo la direttrice Milano-Monza: verso Varese e Como l’incremento naturale della popolazione e le migrazioni interne avevano infatti dato luogo ad una serie di insediamenti “a rosario” lungo le vie di comunicazione, mentre verso Monza l’elevata concentrazione portò quasi subito alla saldatura degli abitati e alla loro espansione laterale.

Gli altri centri regionali, che costituivano i vertici delle direttrici nord di Milano, erano infatti troppo distanti dal capoluogo per esser essi stessi coinvolti nel processo di sviluppo del Milanese, mentre Monza, centro di rilevante tradizione storica e fulcro del sistema brianteo, era un polo regionale di peso paragonabile agli altri, ma ben più prossimo a Milano. La ferrovia Milano-Monza, che entrò in funzione tra le prime d’Italia nel 1840, non era soltanto destinata a collegare la Villa Reale, ma corrispondeva alla necessità di realizzare una comunicazione diretta tra due centri di commensurabile importanza: nel 1861 Monza contava 26.000 abitanti, contro i 200.000 di Milano.

Lungo la direttrice corrispondente, quindi, tutti gli insediamenti industriali di nuovo impianto tendevano a localizzarsi tra Monza e Milano, e nonostante la tendenza alla diffusione della residenza, le stesse iniziative delle aziende per fornire una casa ai propri operai delinearono in quell’area una vera e propria conurbazione.

In tutti gli altri casi la morfologia degli insediamenti tradizionali non subì in questo periodo alterazioni sostanziali, sia perche gli incrementi di popolazione erano in cifra assoluta abbastanza modesti, sia perché le strutture edilizie già esistenti, costituite per la maggior parte dalle “corti” agricole, subivano delle trasformazioni interne che consentivano di ospitare un maggior numero di abitanti senza apprezzabili modificazioni nell’aspetto esterno.

In valori assoluti, tuttavia, l’incremento demografico nell’area Milanese fino al 1951 non presenta scarti eccessivi rispetto all’andamento nell’identico periodo, della popolazione in Lombardia e nell’intero Paese.

Uno solo dei gruppi di Comuni individuabili lungo le varie direttrici presenta infatti un trend notevolmente diverso da quello regionale e da quello nazionale: per gli altri si notano degli scarti modesti, anzi, addirittura incrementi inferiori alla media della Lombardia, denunciando ovviamente particolari condizioni di relativa arretratezza.

Qualche ulteriore considerazione può essere tratta dall’esame dei dati relativi alla struttura occupazionale nella Lombardia e nel Comune di Milano: si rileva in sostanza che la terziarizzazione del capoluogo è un fenomeno già delineatosi verso il 1920, mentre iniziava contemporaneamente il trasferimento alla attività industriale di una parte della popolazione agricola. Ci troviamo in sostanza di fronte a un processo di lenta trasformazione, che esploderà con l’intensificarsi dei fenomeni di migrazione interna sviluppatisi durante gli anni ‘50.

Va rilevato che questo fenomeno è assai più complesso ed articolato di quanto non si possa a prima vista ritenere: dal 1951 al 1961, nell’area del Piano Intercomunale, il saldo migratorio globale di 215.000 unità risulta da una immigrazione di 445.000. unità e da una contemporanea emigrazione di 241.000 abitanti, mentre nel Comune di Milano, dal 1951 al 1958, il rapporto tra immigrati ed emigrati è di 216.000 contro 73.000 unità, provenienti per la maggior parte (66%) dall’Italia Settentrionale, ed in misura assai meno rilevante dall’Italia Meridionale (18,8%), dall’Italia Centrale (6,5%), dalle isole o dall’estero (8,7%) 6.

Durante lo stesso periodo si riscontra un incremento più che proporzionale, tra i comuni del Piano Intercomunale, degli addetti alle attività secondarie e terziarie, cosi che sembra possibile individuare un doppio ed interrelato processo di migrazione, dal resto dell’Italia a tutto il milanese, e nell’interno del milanese e di tutta la Lombardia verso Milano.

Questi flussi caratterizzano in modo peculiare lo sviluppo dell ’hinterland di Milano, caratterizzandosi variamente nei diversi periodi che seguono la fine della seconda guerra mondiale. In un primo momento gli immigrati provengono prevalente mente dall’Italia settentrionale, e tendono a sostituire la manodopera agricola che si sta trasferendo al settore secondario e terziario, sia emigrando concretamente che rimanendo in luogo. Il trasferimento da un settore occupazionale all’altro non comporta infatti sempre l’abbandono dell’abitazione precedente, sia per motivi economici sia per il perdurare, ormai in misura ridotta e del tutto marginale, delle condizioni di economia mista localmente tradizionali: cosi i nuovi immigrati, specialmente veneti, tendono a costruirsi nuove abitazioni.

Il fenomeno non è soltanto condizionato dalla permanenza nell’abitazione precedente del contadino-operaio in termini di occupazione fisica, ma anche sotto forma di indisponibilità psicologica dell’ambiente esistente ad offrire una integrazione sociale agli estranei.

Le differenze di cultura e gli squilibri di reddito non facilita.no certo l’integrazione degli immigrati, i quali tendono a costituire cosi delle nuove comunità su base fortemente caratterizzata dalla regione di provenienza, formate per aggregazione successiva di unità unifamiliari in forma disordinata, e lontane dagli abitati esistenti: nuclei che per la loro distanza dai centri tradizionali e per le ridotte disponibilità finanziarie delle Amministrazioni fruiscono di un livello di servizi molto modesto. Queste “coree”, come verranno chiamate, sorgono sia nei comuni della fascia sia in quelli ad una maggior distanza da Milano nei quali sono tuttavia in atto le trasformazioni sopradescritte.

Contemporaneamente si delinea il fenomeno, caratteristico dei primi anni del decennio 1950-1960, di impossibilità, per i minori reddituari, di insediarsi nel capoluogo, accentuatosi specialmente con l’incremento di valore delle aree urbane seguito all’approvazione del Piano Regolatore di Milano (1953): costoro ritrovano nelle campagne circostanti, e sia pure al prezzo di massacranti pendolarità, la possibilità di reperire aree a basso costo, perché prive di servizi e al di fuori per il momento di qualsiasi prospettiva di urbanizzazione, e di indirizzare verso il più tradizionale dei beni, la casa, i primi risparmi che i modestissimi costumi di vita consentono di ritagliare nei pur magri salari industriali.

L’operazione, che nella prima fase era in parte accidentale, in questo secondo periodo diviene programmata: il proprietario del suolo agricolo confina il proprio intervento nella primordiale operazione di suddividerlo in lotti, senza urbanizzarlo e limitandosi ad inserire negli atti di cessione servitù che consentano la formazione di qualche metro di strada. Nella successiva fase di rapida espansione del nucleo l’operatore realizza il massimo profitto, facendo salire i prezzi unitari di lotti minuscoli al massimo consentito dalle modeste disponibilità degli acquirenti: in questo periodo anche i lotti più grandi vengono ulteriormente suddivisi, e serviti da una rete sempre più complessa di passaggi privati e di strade cieche che caratterizzano la morfologia delle coree.

Le densità edilizie, nonostante la frantumazione del terreno, . sono in realtà relativamente modeste perché le tipologie sono in genere di villette unifamiliari ad uno o al massimo a due piani fuori terra, più uno scantinato, e le condizioni igieniche delle abitazioni di solito soddisfacenti: l’effetto desolante è dato in parte dalla povertà dei materiali usati e, più generalmente, dall’architettura, e in parte dall’angustia delle strade e dei lotti che l’abitudine a recingere ogni modesta proprietà finisce per sottolineare.

L’inconveniente più marcato consiste in realtà nella carenza di attrezzature: le amministrazioni comunali ricevono da questi insediamenti, di livello economico molto modesto, contributi finanziari esigui, e poiché essi sono localizzati, come abbiamo visto, molto distanti dagli abitati tradizionali diventa impossibile dotarli di infrastrutture adeguate, così che il termine “corea” diventa quasi sinonimo di insediamento residenziale sottoattrezzato. Ma l’approvazione del Piano Regolatore Generale del Comune di Milano comportò, avviando un processo di rivalutazione delle aree urbane, altri e più importanti fenomeni che, innestati verso la fine del decennio sulla dinamica del “miracolo economico”, crearono le condizioni della metropolizzazione della fascia.

In un primo tempo sono gli insediamenti industriali a risentire dell’elevato costo delle aree all’interno del Comune di Milano: sia gli impianti di nuova formazione che quelli già esistenti, localizzati nel Comune ma con notevoli prospettive di espansione preferiscono insediarsi o trasferirsi nei comuni della corona, spesso addirittura in quelli contermini, dove sono disponibili vaste riserve di terreno a prezzi agricoli, e dove ancora non operano strumenti urbanistici.

Di riflesso, le aree così lasciate libere all’interno del Comune di Milano, danno occasione di attuare operazioni immobiliari su larghissima scala e di entità, anche grazie agli elevati indici di fabbricazione concessi di fatto dalle norme del Piano Regolatore Generale, talmente notevole da consentire la copertura dei costi dei nuovi impianti.

Le direttrici lungo le quali si localizzano questi nuovi impianti sono ancora quelle tradizionali: tuttavia, man mano che i prezzi delle aree in tutta la fascia il1cominceranno a salire, ed i comuni più vicini a Milano si doteranno di strumenti urbanistici, il sempre maggior livello di infrastrutturazione del territorio consentirà alle industrie più grandi di orientarsi verso comuni più lontani e situati a volte non più lungo le direttrici fondamentali, ma negli spazi intermedi, realizzando un modello spaziale caratterizzato da una sempre maggior diffusione delle attività produttive.

La capillarità della maglia infrastrutturale ha condizionato in maniera forse ancor più profonda la distribuzione spaziale delle localizzazioni residenziali: se infatti, analizzando i fenomeni di pendolarità si possono distinguere comuni prevalentemente residenziali, comuni che offrono anche possibilità di lavoro, e comuni prevalentemente industriali, tale suddivisione assume più che altro l’aspetto di una spontanea specializzazione funzionale per distretti nel quadro morfologico di una vera e propria conurbazione.

La condizione per la saldatura degli insediamenti è naturalmente costituita dalla rilevante ondata migratoria della seconda metà degli anni ‘50: si tratta ora di manodopera che entra immediatamente nel ciclo della produzione industriale, e che è quindi in parte maggiormente disponibile ad una superficiale assimilazione dei modelli culturali dell’ambiente, nonostante la notevole prevalenza dei meridionali. Anche questo conferma la sostanziale differenza con il periodo precedente, durante il quale le provenienze dell’immigrazione erano diverse.

Il fatto è che il contatto con l’ambiente industrializzato non fa diminuire la preferenza per l’investimento di rifugio tradizionale, e si assiste ad una vera e propria esplosione edilizia, connessa con una levitazione fuor di norma del mercato dei terreni.

L’operatore tipo “corea”, in questo nuovo modello di sviluppo, perde rilievo, mentre assume un nuovo ruolo l’imprenditore edile e, parallelamente, maturano nuove forme di controllo urbanistico del territorio.

I partiti delle sinistre, che amministravano la maggior parte dei Comuni della fascia, iniziarono infatti un processo di pianificazione che sembrava, allora, dotato di una sostanziale originalità.

L’avvio fu dato da un gruppo di urbanisti, militanti nei partiti della sinistra, che si proposero di fornire alle Amministrazioni una assistenza continuativa, profilando quasi una inedita figura di “urbanista condotto”: il tradizionale rapporto tra il professionista che consegna il progetto di piano abbandonandolo all’Amministrazione assume una forma più integrata, nella quale la pianificazione si configura come un processo articolato nel quale intervengono continuamente tecnici, amministratori ed operatori economici, e che sul piano concettuale tende a far coincidere la fase progettuale con quella attuativa.

Questo atteggiamento si inquadrava nella prospettiva politica di una progressiva articolazione attuata attraverso il rafforzamento delle capacità decisionali degli Enti locali, di una democrazia di base, che rappresentava allora una delle istanze di fondo della sinistra italiana.

Il procedimento, che rendeva partecipi gli Amministratori, sia pure con gravi difficoltà e reciproche incomprensioni iniziali, del processo di pianificazione, comportava la formulazione di un “piano aperto”, costituito in sostanza da una serie di alternative tra le quali si potevano di volta in volta scegliere quelle finanziariamente più convenienti per il comune.

La comparsa di grandi operatori edilizi aveva portato alla ribalta una nuova possibilità di recuperare, operando tuttavia nell’ambito delle leggi vigenti, una parte dei costi di urbanizzazione diretti ed indiretti, e di costituire un modesto demanio per le necessità più urgenti.

Con questi operatori fu possibile aprire un dialogo, fondato sulla trattativa del diritto di edificabilità, che fece della “convenzione” lo strumento principe della pianificazione nell’area milanese: attraverso di essa l’amministrazione comunale concedeva una determinata fabbricabilità, ottenendone in cambio aree, dotazioni infrastrutturali o contributi diretti. Questo procedimento consenti di attribuire una parte almeno dei costi di urbanizzazione all’operatore fondiario, e di mantenere contemporaneamente un certo controllo sulle attività edilizie, selezionando le iniziative ammissibili nella prospettiva di un piano organico, ancorché molto spesso informale. Tuttavia, esso portava dentro di se i germi di una iterazione non controllata, sia per la difficoltà dei tecnici a contenere l’ondata di richieste che la possibilità di acquisire il diritto di edificabilità, cosi delineata, comportava, sia a causa della vera e propria avidità delineatasi tra gli amministratori, che consideravano la convenzione uno strumento capace di risolvere alcune contingenti difficoltà, perdendo di vista il quadro globale: così, accanto ad alcuni piani largamente soddisfacenti, troviamo situazioni abbastanza modeste o addirittura completamente negative.

Nella volontà del gruppo di urbanisti impegnati in questa attività di assistenza, la pianificazione di base avrebbe dovuto chiudere un cerchio attorno al Comune di Milano, obbligandolo ad aprire un discorso di coordinamento con i comuni della fascia: questa prospettiva naufragò in parte per le stesse difficoltà interne della sinistra, che non riuscì mai ad operare la saldatura includendo anche Sesto S. Giovanni in questa operazione di coordinamento, né ad articolare la propria presenza nel Consiglio Comunale di Milano in maniera da consentire un più qualificato intervento in materia urbanistica.

Si potrebbe forse ritenere che in realtà questa operazione si chiuse solamente con l’avvio del Piano Intercomunale Milanese, Nei Comuni della fascia più distanti da Milano, amministrati in genere da vecchie giunte centriste che localmente assumevano molto spesso le tinte della conservazione agraria, la pianificazione urbanistica non venne neppure avviata, oppure si risolse in programmi di fabbricazione adottati più che altro per salvare la forma, e che ammettevano in pratica a consistenti edificabilità l’intero territorio comunale.

Dopo il 1961 la prospettiva di un confronto che si andava profilando nel Piano Intercomunale, e la naturale evoluzione , dei tempi. consigliò di rendere meno informali le caratteristiche dei piani convenzionati, mettendo a volte in luce preoccupanti situazioni di compromissione giuridica ma rivelando d’altra parte anche situazioni controllate con rigore, mentre contemporaneamente veniva avviato, sia pure con incertezze e attraverso numerose difficoltà, un qualche più consistente processo di pianificazione anche nei comuni fino ad allora privi di efficaci strumenti urbanistici: e forse in questo, anche se una reale politica di coordinamento è in effetti mancata, sta il principale effetto indiretto dell’istituzione del Piano Intercomunale Milanese.

Tuttavia è difficile cogliere nel territorio, alla scala microurbanistica, delle leggibili differenze morfologiche tra i comuni sottoposti a regimi urbanistici apparentemente così diversi: una qualche classificazione può essere tentata peraltro individuando alcune tipologie ricorrenti nelle diverse zone.

Nella fascia nord gli abitati preesistenti, caratterizzati da una spiccata prevalenza di strutture edilizie agricole, hanno in genere subito soltanto modifiche interne, e solo sporadicamente sono stati sottoposti ad interventi massicci che, promossi al di fuori di organici piani di rinnovamento, hanno dato luogo ad immagini grottesche.

Le zone di espansione sono in genere caratterizzate da un certo grado di commistione funzionale, specialmente nei casi di unità produttive di dimensioni modeste, che si allocano spesso in lotti situati in un contesto residenziale: le grandi industrie riescono invece a caratterizzare delle aree molto estese, che . possono essere di per se considerate delle zone industriali.

Il tessuto connettivo degli insediamenti è costituito dai terreni agricoli: l’elevato livello di infrastrutturazione viaria ha reso gran parte delle aree virtualmente disponibili per qualsiasi insediamento e poiché esse sono state utilizzate, com’era ovvio, soltanto a tratti, tra edificio ed edificio permangono vaste zone non edificate e ancora coltivate.

La morfologia delle unità residenziali si presenta, oltreché largamente discontinua, anche assai varia: accanto a case unifamiliari o a due piani, sorgono di frequente edifici che rispondono alla tipologia della cortina stradale, con il curioso effetto dato dai frontespizi nudi sui campi, in attesa di un edificio confinante che non verrà mai costruito. Qua e là, in questa campagna urbanizzata, complessi edilizi di maggior rilievo e tecnicamente meglio studiati, ma sempre di consistenza relativamente modesta, sono il risultato di iniziative immobiliari di più largo respiro e sottoposte al controllo urbanistico delle Amministrazioni, attraverso operazioni di convenzionamento.

Nell’arco meridionale e orientale, dove il costo dei terreni è .rimasto per molto tempo relativamente basso, sono stati realizzati interventi di maggiori dimensioni da parte di grandi società immobiliari, come a Pioltello o al Quartiere Zingone: tuttavia la morfologia urbanistica è, anche in questi casi, caratterizzata dalla ripetizione di un modello urbano ad elevata densità edilizia, delle vere e proprie isole della città deteriore che, perse nel paesaggio della pianura, sembrano il grottesco monumento del disordine organizzato.

Le vicende politiche

La prima proposta per la formazione di un Piano IntercomunaIe, secondo le modalità previste dalla legge urbanistica del 1942, venne avanzata dal Comune di Milano nel febbraio del 1951 mentre ancora non era stato completato l’iter di approvazione del Piano Regolatore Generale, intervenuta il 10 maggio 1953.

Il Ministero dei LL.PP. accolse la segnalazione ed autorizzò, nel settembre 1951, il Comune di Milano a prendere i primi contatti con le Amministrazioni interessate per avanzare concordemente al Ministero stesso uno schema di proposta di decreto che precisasse meglio i limiti del comprensorio e le modalità di partecipazione agli studi dei diversi comuni, contatti che vennero effettivamente avviati nel 1952.

L’iniziativa si insabbiò, sia perché si scontrò con l’insofferenza dei Comuni minori per una forma di pianificazione, che, sin dalle sue origini e nella sua stessa strutturazione operativa così come si stava delineando, confermava il ruolo egemonico del capoluogo, sia perchè lo stesso Comune di Milano, dopo l’approvazione del Piano Regolatore Generale, si trovò impegnato in una difficile fase attuativa che non lasciava molto spazio ad un allargamento delle prospettive, sia infine perché i sopravvenuti studi per il piano territoriale di coordinamento della Lombardia fecero ritenere più opportuno attenderne i risultati.

Fu appunto in seguito a questi primi studi che il Consiglio Comunale di Milano, nel novembre 1955, ripropose con apposita delibera consigliare la formazione del Piano lntercomunale per un comprensorio che comprendeva ora solamente 51 comuni, contro i 79 della primitiva proposta che il Centro Studi per il Piano Territoriale della Regione Lombarda considerava eccessivi, e che suggeriva di suddividere in tre piani distinti, uno per il milanese, uno per le zone di Busto Arsizio ed uno per la zona di Seregno-Lissone.

La delibera non ebbe allora seguito, sia per la prossimità delle consultazioni elettorali amministrative, sia perché le condizioni politiche del comprensorio apparivano allora fortemente disomogenee.

L’Amministrazione di Milano era infatti, in quegli anni, sostenuta dai partiti della coalizione centrista, secondo una formula politica che si andava peraltro logorando, più celermente di quanto avvenisse a livello governativo, mentre gran parte dei comuni del Comprensorio, specialmente nella fascia settentrionale e più generalmente quelli immediatamente confinanti col capoluogo, era retta da Giunte di sinistra.

La proposta, che non incontrava opposizioni tecniche, apparve politicamente di molto difficile attuazione, specialmente se si tiene conto delle nuove forme di politica urbanistica che alcuni comuni minori andavano sviluppando: essa venne tuttavia inviata al Ministero dal Comune di Milano con una sollecitazione ad emettere comunque il decreto, sul finire del 1958, facendo esplicito riferimento al precedente del piano intercomunale di Torino.

Il Ministero dei LL.PP. emise difatti il decreto agli inizi del L959, riducendo il numero dei Comuni a 35: esso prevedeva che gli studi dovessero essere svolti da un Comitato tecnico composto di tredici rappresentanti dei diversi Enti operanti sul territorio, e di otto esperti, quattro nominati da Milano e quattro designati dagli altri Comuni, ed indicava inoltre i criteri di suddivisione delle spese proporzionalmente agli abitanti. n decreto suscitò violente reazioni da parte dei Comuni minori, alcuni dei quali, attraverso la Lega dei Comuni Democratici, promossero un’azione di illegittimità presso il Consiglio di Stato, che alcune incongruenze formali dell’atto sembravano giustificare ampiamente e che, comunque, segnalando la precisa volontà di una diversa prospettiva politica, rendevano praticamente impossibile l’avvio del processo di pianificazione così come era stato imposto.

Erano tuttavia venute maturando nel frattempo delle condizioni obiettivamente più favorevoli alla formazione di un Piano Intercomunale.

Anzitutto il varo di una prospettiva di collaborazione tra il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana determinò una situazione di maggior distensione tra il Comune capoluogo, che per primo abbracciò la formula del centro-sinistra, ed i Comuni della fascia che rimasero peraltro retti, secondo le direttive del Congresso Socialista, anche dopo le elezioni amministrative del 1960, dalle tradizionali maggioranze di sinistra.

D’altro lato l’esigenza di un coordinamento della pianificazione comunale ad un livello comprensoriale, che era stata sempre presente, come si è visto, nell’azione degli urbanisti che operavano nei centri minori della provincia, li rendeva sostanzialmente disponibili per un esperimento di pianificazione intercomunale, purché naturalmente fosse modificato il quadro istituzionale proposto dal Ministero dei LL.PP. Non che le tradizionali diffidenze nei confronti del capoluogo, che avevano provocata una così vasta ondata di irritazione, fossero improvvisamente sopite, ma ci si stava rendendo conto che l’apparente volontà di sopraffazione del Comune di Milano, sul filo di una tradizione annessionistica e formalmente colonizzatrice, non solo poteva essere temperata, ma, attraverso una corretta impostazione del Piano Intercomunale, si poteva invece tentar di evitare che le più elevate capacità di investimento di Milano continuassero a svalutare i territori contermini, prospettando una politica riequilibratrice sulla scala territoriale. In questo quadro politico ed entro queste prospettive tecniche maturò l’accordo tra i comuni inclusi nel decreto ministeriale per avviare la pianificazione intercomunale non più nelle forme di dipendenza da Milano, profilate appunto dal decreto ministeriale, ma su un piano di parità.

I Sindaci dei 35 Comuni si costituirono dunque una Assemblea, nella quale ciascuno di essi, compreso Milano, aveva diritto ad un solo voto, esprimendo così una chiara volontà di affrontare i problemi del territorio su un piano di pariteticità, ed enunciarono gli obiettivi che intendevano perseguire dandosi un ordinamento urbanistico comune: la dichiarazione dei Sindaci (5 novembre 1961), successivamente integrata da altri documenti, accolse in sostanza le implicite tesi dei Comuni minori, riaffermando, sia pure con una certa ingenuità, generiche finalità di riequilibrio territoriale e di perequazione finanziaria.

Questa concordanza politica formale, attuata nella convergenza in un unico organismo sia dei partiti del centro sinistra che dei comunisti, non soltanto cioè delle maggioranze ma anche delle minoranze, dato che i liberali e i socialdemocratici erano nei paesi della Provincia praticamente inesistenti, venne sottolineata dall’impegno di assumere tutte le decisioni all’unanimità, impegno che, nonostante la garanzia dei partiti politici che solo impegnandosi direttamente avrebbero potuto consegui re un simile vasto consenso, obbligava comunque gli estensori del Piano a proporre soluzioni che risultassero politicamente negoziabili tra le segreterie dei partiti e gli amministratori.

L’Assemblea designò una Giunta esecutiva presieduta, come del resto l’Assemblea stessa, dal Sindaco di Milano e in concreto dall’ Assessore all’Urbanistica, che già allora era Filippo Hazon, Giunta che avrebbe dovuto assolvere presso i tecnici l’indispensabile ruolo di contestazione politica.

Il criterio di nomina degli urbanisti incaricati della redazione del piano suggerito dal decreto ministeriale, se conservava la sua validità per la parte relativa alla partecipazione delle rappresentanze degli enti, diveniva in questo quadro difficilmente accettabile, e venne sostituito da una designazione unanime di tutta l’Assemblea, sulla base delle indicazioni concordate tra i partiti.

Le trattative per la nomina degli otto urbanisti furono peraltro lunghe e laboriose e, nonostante il peso che vi ebbero alcuni amministratori, furono sostanzialmente condotte dalle segreterie dei partiti; e poiché, come si è già detto, socialdemocratici, repubblicani e liberali, erano in provincia praticamente inesistenti, il Partito Socialista, il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana, designarono praticamente due tecnici ciascuno, e la presidenza fu affidata ad una personalità genericamente progressista, ma non notoriamente legata ad una posizione politica codificata.

Fin dal primo momento si riconobbe la necessità di affiancare al Comitato tecnico un Comitato economico, che non era stato previsto nel decreto ministeriale: l’incertezza sui suoi compiti e sulle sue attribuzioni impedirono peraltro di assegnargli uno stato giuridico ed un apposito finanziamento che gli consentissero di funzionare concretamente, ma permisero d’altra parte che in questa fase le trattative per la sua formazione fossero in sostanza assai più semplici di quelle per il comitato tecnico.

La Lega dei Comuni Democratici propose anche la costituzione di un Comitato d’attuazione, chiaramente derivato dalle esperienze metodologiche della pianificazione di base, ma il suggerimento non venne allora accolto.

Una notevole influenza su queste trattative esercitò anche, sia pure indirettamente, l’Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali (ILSES), allora appena costituito, che sembrava in quel momento destinato a diventare il naturale punto di appoggio dell’attività amministrativa della nuova formula politica: alcune delle persone inserite nel comitato tecnico erano infatti contemporaneamente impegnate nell’attività dell’Istituto, e vi rivestivano anche posizioni di responsabilità, mentre altre, che con esso non avevano ancora rapporti stabili, gli erano notoriamente considerate assai vicine. La fiducia concessa all’ILSES, che doveva nel tempo venire pian piano a mancare, e la funzione attribuitale di Centro Studi non condizionò soltanto la nomina di alcuni dei membri del Comitato tecnico, ma ebbe profonde conseguenze anche nella strutturazione operativa del piano intercomunale; parve infatti ragionevole ed opportuno affidare la maggior parte delle ricerche direttamente all’ILSES, costituendo un Ufficio tecnico in parte sottodimensionato, e diretto, per sottolinearne il modesto ruolo da uno dei membri del Comitato tecnico, l’ing. Secchi. Questa scelta comportò tuttavia due conseguenze: in primo luogo un Ufficio tecnico scarsamente efficiente, non fu in grado di avviare la raccolta della documentazione di base indispensabile per impostare una pianificazione, minimamente fondata, come la cartografia o il mosaico dei piani, carenza che, oltre a condizionare la genericità dei risultati raggiunti dal Comitato tecnico, ne sottolineò anche gli aspetti di incertezza; in secondo luogo, il programma delle ricerche fu apparentemente stilato secondo un criterio che rispondeva più ad esigenze di interna aderenza del programma dell’ILSES piuttosto che alle concrete necessità del Piano Intercomunale.

A questa struttura stabile, vennero affiancate numerosissime Commissioni destinate a dare il loro contributo su una serie di problemi settoriali; la formazione di queste Commissioni rispondeva da un lato ad una generale vocazione della professione, che incominciava ad orientarsi verso le commesse di enti pubblici, e dall’altro corrispondeva ad una lunga tradizione di larga partecipazione professionale alla pianificazione milanese, che era incominciato con il concorso per il Piano di Milano del 1927, aveva trovato una conferma nella articolazione dei lavori per il piano del 1953 e nelle ricerche, già allora avviate, per la sua revisione, e che si era più recentemente confermata nell’iniziativa dei Convegni sugli Sviluppi di Milano, organizzati dal Collegio Regionale degli Architetti, che avevano trovato una larga eco e che avevano suscitato un vasto interesse. Queste Commissioni vennero però convocate assai di rado, e l’insoddisfazione dei tecnici che ne facevano parte e che non avevano avuto occasione di operare non fu l’ultimo dei motivi di insoddisfazione destati dai lavori del Piano Intercomunale.

All’interno del Comitato tecnico, i membri che venivano dall’esperienza della pianificazione di base e che tendevano ad allargare la scala dell’intervento mantenendone intatto il quadro metodologico, realizzando cosi un antico disegno, suggerirono e fecero accogliere quegli orientamenti, che avevano guidato il loro operare negli anni precedenti: il principio di non distinzione tra il piano e la sua attuazione, una volta accolto, consenti la definizione del piano come procedura, e costituisce uno degli elementi di base del progetto presentato all’ Assemblea dei Sindaci il 25 luglio 1963.

Questa concezione peraltro trovava una condizione di obiettiva debolezza nell’incapacità degli amministratori di costituirsi, a questo livello, come interlocutori di un processo dialettico, riproducendo le condizioni della pianificazione a livello comunale: si esaurì quindi in una dichiarazione di principio, cui non segui ne poteva seguire una qualche forma di concreta processualità. Essa si sovrappose del resto con altre suggestioni, formalmente analoghe, che derivavano dalla cultura internazionale, e che vennero introdotte nel Piano Intercomunale, sia pure nel quadro di un accordo sostanziale, sotto la forma un po’ accademica di un modello precostituito.

Il progetto presentato all’ Assemblea dei Sindaci il 25 luglio 1963, dopo un anno e mezzo di lavoro, rappresentò, nel complesso, una delusione.

La delusione fu anzitutto, se cosi si può dire, di ordine sentimentale. Il Piano Intercomunale Milanese, partito nell’entusiasmo di una concorde associazione di amministratori, col concorso formale dei tecnici più qualificati, con l’accordo tra i partiti politici non solamente della maggioranza ma anche della opposizione, con a disposizione un istituto di ricerche come l’ILSES, con una dotazione di mezzi finanziari che noi possiamo giudicare oggi insufficiente ma che certo appariva inusitata in quegli anni di difficoltà, che aveva destato grandi aspettative nei tecnici e nei politici, presentò un progetto di piano che costituì, al suo apparire, motivo, se non subito di delusione, certo di grave perplessità.

I Sindaci dell’Assemblea, che si era nel frattempo allargata invitando altri comuni, originariamente non compresi nel decreto, a farne parte, e che comprendeva così 94 comuni ed operava su un “comprensorio di studio” di 135, accolsero con molta incertezza il piano “a turbina” , senza forse afferrarne pienamente il contenuto tecnico ma impressionati comunque dal dispiegamento di un tale apparato concettuale e dalla apparente concordia dei tecnici e degli amministratori della Giunta che lo presentavano e se ne rendevano così garanti.

Le critiche più violente emersero in verità dalle discussioni sviluppatesi nei mesi seguenti negli ambienti tecnici, sia da parte degli economisti che degli architetti, piuttosto che al livello degli amministratori, i quali rimasero in sostanza estranei al dibattito.

Le ricerche effettuate, e che erano state pubblicate assieme al modello, in cinque grossi volumi ciclostilati, apparvero, anche ad un sommario esame, largamente insoddisfacenti: alcune di esse trattavano problemi ed aspetti così generali da sembrare suggerite, come si è già osservato, dall’interna logica del programma di ricerche dell’ILSES piuttosto che dalle reali esigenze del Piano Intercomunale; quelle di più diretto interesse operativo erano, o perché l’ufficio tecnico del PIM era ancora in fase di organizzazione o perché l’ILSES non era attrezzata a sufficienza per delle indagini sul campo, palesemente incomplete; mancavano infine ricerche che avrebbero dovuto essere considerate fondamentali, come quelle sui trasporti e sulla localizzazione industriale.

Gli economisti dell’ILSES, che d’altra parte, come vedremo, non erano privi di responsabilità, sia pure indirette, nel processo di formazione del piano, lo attaccarono con estrema violenza, definendolo addirittura “un elegante pastiche privo di reale contenuto scientifico”, aprendo una prima fase di contrasto tra urbanisti ed economisti, preludio della successiva incomprensione tra tecnici e politici.

In sostanza gli urbanisti chiedevano agli economisti di definire le diverse soglie, mentre gli economisti si aspettavano dagli urbanisti la presentazione di alcune alternative omogenee che avrebbero dovuto venir confrontate secondo un bilancio di costi e benefici, la cui metodologia non era stata peraltro ancora ben determinata: poiché, oltre alla mancanza di un quadro generale valutabile in sede economica, non esistevano neppure dei piani di settore con le corrispondenti ricerche di base, gli economisti considerarono nel complesso la proposta gratuita. Lo schema aveva destato delle perplessità anche nel mondo degli urbanisti, sia per l’apparente disgregazione della forma che comportava, sia perché in concreto non era chiaro il criterio che era stato seguito nella individuazione dei diversi tessuti proposti.

La crisi tecnica del modello coinvolse anche gli amministratori, le cui perplessità ed incertezze, che al primo momento erano stati forse propensi ad attribuire ad una propria impreparazione, si rivelarono invece corrispondenti averi dubbi di carattere tecnico ed incrinarono ovviamente la primitiva fiducia nei confronti dei tecnici.

Si apri allora una violenta e profonda crisi, che implicò il riesame delle strutture stesse che il Piano Intercomunale si era dato: l’Ufficio tecnico venne potenziato, il comitato tecnico venne ristrutturato accogliendo alcune richieste e chiamando tre economisti a farne parte e, per raccogliere le istanze di quanti ritenevano inadeguata la “forma” del piano, affiancando ad alcuni dei componenti il comitato tecnico precedente, un architetto direttamente imposto dalla segreteria provinciale della Democrazia Cristiana.

A questo rilancio delle strutture interne del Piano Intercomunale corrispose un allentamento dei rapporti con l’ILSES, che fu, a torto o a ragione, considerato corresponsabile del fallimento tecnico del primo modello, nel quale aveva avuto così larga parte: e d’altronde, negli ambienti dell’ILSES e degli urbanisti prevaleva l’idea di un atteggiamento di attesa, giustificata dalla circostanza che il progetto della nuova legge urbanistica sembrava di imminente approvazione ed avrebbe comportato una diversa struttura politica del comprensorio, evitando le forche caudine dell’unanimità che sembrava ovviamente molto difficile da raggiungere.

In questo quadro, per liberare dalle preoccupazioni più contingenti il comitato tecnico, fu creato un gruppo problemi urgenti (G.P.U.), che nel nome e nella sigla illustra ed allude alla funzione di controllo svolta nei confronti delle iniziative degli enti locali e delle amministrazioni decentrate dello Stato, cercando se non altro di coordinarle tra di loro e di omogeneizzarne i presupposti.

Questa nuova fase dei lavori, iniziata nel febbraio del ‘64, fu caratterizzata da alcuni miglioramenti nel settore operativo, dato che l’ufficio tecnico, sia pure nei limiti di un bilancio che si andava rivelando, con circa 200 milioni annui, del tutto sproporzionato ai compiti che il piano avrebbe dovuto assumersi, riuscì comunque ad impostare alcune ricerche di base sull’agricoltura, sulla pianificazione comunale ed altre, mentre contemporaneamente venivano approntate le indispensabili documentazioni cartografiche.

Dal punto di vista metodologico, non parve si fossero create le condizioni di un gran miglioramento: gli amministratori avevano preferito ignorare le richieste dei tecnici, i quali avevano osservato che la originaria definizione degli obiettivi era troppo vaga e che sarebbe stato necessario, per procedere oltre, averne una formulazione più articolata; e d’altra parte i politici rimproveravano ai tecnici di non aver fornito delle leggibili alternative, sulle quali essi avrebbero potuto più facilmente specificare i propri obiettivi.

Il Comitato tecnico sarebbe forse stato in grado, sulla linea dello schema del 25 luglio, di raggiungere in qualche mese quell’approfondimento necessario per avviare un concreto processo di pianificazione, ma l’introduzione di uomini nuovi, che desideravano naturalmente riprendere il discorso nei suoi termini iniziali, comportò una notevole perdita di tempo: in una prima fase nel tentativo di comporre le divergenze che si erano manifestate, ed in una seconda fase nella preparazione di tre alternative distinte che, sia pure abbastanza simili nelle direttrici fondamentali, comportavano due piani diversi e oltretutto concepiti con orizzonti temporali e sulla base di presupposti metodologici molto differenti, e quindi tra di loro non confrontabili.

Così, l’incapacità dei tecnici a trovare un unanime accordo e dei politici a designare con precisione i loro obiettivi, condussero ad una situazione di crisi che poteva venir superata soltanto con l’assunzione di più larghe responsabilità, anche tecniche, da parte degli amministratori.

Nota: per capire meglio questo e gli altri articoli della Pagina di Storia sul PIM, possono essere utili i materiali scaricabili in calce all' articolo guida (f.b.)

L'approvazione del nuovo P. R. ha dato luogo, fra i tanti fenomeni urbanistici nuovi, a quello per cui molta edilizia, o per insofferenza di vincoli di P. R. previsti dal Comune di Milano od anche per limitata estensione delle zone edificatorie (sia residenziali che industriali), ha preferito l’ubicazione extra comunale nei paesi circonvicini, ove, non esistendo alcun vincolo di Piano Regolatore, si possono soddisfare più liberamente le esigenze edilizie di carattere particolaristico.

Questo indirizzo della iniziativa edilizia privata comprometteva però sempre più la zona dell’alto milanese verso cui si esplica la direttrice di espansione, zona purtroppo già gravemente turbata dalle vicissitudini urbanistiche degli ultimi cinquant’anni. Équindi stato necessario riprendere le mosse per conseguire l’autorizzazione all’apprestamento del progetto di piano intercomunale per il quale fin dal 1951 il Comune di Milano aveva chiesto al Ministro dei LL. PP. l’inerente decreto di autorizzazione.

Le ragioni di carattere urbanistico che determinarono la richiesta autorizzazione sono, oltre quelle sopra citate, molteplici e si possono così riassumere:

opportunità o meglio necessità di una migliore organizzazione della vita e delle funzioni della città di Milano, funzioni che non si possono più limitare al comprensorio comunale, ma vanno proiettate in un intorno di località satelliti che devono essere considerate parte integrante della Città per le reciproche notevolissime influenze.

Identiche. furono le condizioni che orientarono i Piani nelle grandi città straniere come Berlino, Londra, Parigi; infatti i Piani della regione londinese, parigina, berlinese vennero studiati ed adottati con lo scopo di regolare urbanisticamente la vita ed i rapporti economico-sociali esistenti tra una grande città e la sua immediata zona di influenza. Tale zona di influenza richiede piani che investono problemi affini e concordanti per condizioni storiche, geografiche, per ragioni di vita comune alle varie località e a Milano, usi e costumi ecc.

Se in Italia si dovessero scegliere le località che per le ragioni sopra espresse hanno la necessità di un piano intercomunale inteso come sistemazione urbanistica omogenea ed organica di un grande centro e dei limitrofi abitati, anche con uno sguardo del tutto superficiale, l’occhio si poserebbe in primo luogo su Milano e il suo intorno che maggiormente presenta i requisiti e le necessità di un provvedimento del genere per i sovvertimenti di carattere urbanistico che da cinquant’anni a questa parte vanno modificando i valori originali in un continuo superamento di nuove installazioni edilizie sia industriali che residenziali.

Quanto sopra espresso è apparso evidente durante la preparazione del Nuovo Piano Regolatore che se, come limiti attuativi del piano, si è dovuto arrestare ai casuali confini territoriali del Comune, come studio dovette estendersi ad un campo e ad una visuale molto più ampia, prendendo in considerazione schemi urbanistici della zona di influenza più immediata della Città.

Questo guardare al di là dei confini comunali non è stato certo suggerito da un concetto egemonico o espansionistico o dal desiderio di voler dominare urbanisticamente sulle minori località attornianti la metropoli, ma dalla semplice constatazione che gli interessi urbanistici di Milano e dei Comuni vicini sono così connessi che non possono essere distinti.

Poiché la legge non consentiva però di predisporre un P.R. che investisse anche altre località, se non attraverso il Piano Intercomunale, si è dovuto limitare il P.R. vero e proprio al solo territorio Comunale, il che ha determinato e determina tuttora una vera frattura urbanistica sopratutto dove la continuità edilizia tra Milano e i Comuni vicini è ormai in atto.

Sin da allora si intuiva che dette circostanze avrebbero provocato, come effettivamente provocano ora che il Nuovo Piano Regolatore è operativo con tutti i suoi vincoli, i seguenti inconvenienti.

Il Nuovo Piano Regolatore ha organizzato una ordinata zonizzazione per tutto il territorio comunale; per eludere detti vincoli l’edificazione si esplica appena fuori del confine del territorio del Comune di Milano ove, poiché tutto è libero da piani regolatori, dilaga ormai (e peggiorerà sempre di più) il “caos” urbanistico.

É da notare che si potrebbe a questo riguardo documentare la tendenza a costruire industrie più o meno nocive ed abitazioni, appena al di là dei confini Comunali, che per la loro modesta distanza dal Centro della Città devono essere considerati ancora Milano, ma che sfuggono per le ragioni sopra indicate alla regolamentazione urbanistica della metropoli.

D’altra parte l’evoluzione cittadina, costretta entro gli angusti limiti del territorio Comunale, tende a sovvertire i vincoli di Piano Regolatore “rosicchiando” continuamente ai margini dei vincoli di edificabilità previsti dal Piano Regolatore ed ingrandendo sempre di più l’aggregato urbano della metropoli di modo che essa tenderebbe a diventare una “Megalopoli”, come ben definisce il Mumford questi complessi.

I motivi della continua erosione dei limiti della zona edificatoria vanno ricercati nel fatto che la metropoli, per l’organizzazione dei suoi nuclei e dei suoi servizi, non può provvedere in un campo più vasto che possa interessare le località viciniori, ma è costretta a ricercare le sue soluzioni sempre ed ineluttabilmente entro i confini del territorio comunale.

Occorre quindi, mediante un Piano Intercomunale, creare più ampi orizzonti alla fabbricazione evitando la tendenza a ridurre continuamente le aree destinate a verde agricolo il che a lungo andare riporterebbe in un futuro non molto lontano all’errore fondamentale del P. R. ‘34 che prevedeva la fabbricazione indifferenziata a macchia d’olio su tutto il territorio Comunale.

Il Piano Intercomunale avrà il compito di indirizzare l’edilizia industriale e residenziale in quei luoghi che urbanisticamente meglio vi si prestano, con una valutazione omogenea e larga di tutti gli interessi che vi concorrono, tenendo presente appunto la necessità di riservare nei vari quartieri vaste zone di verde che ancora oggi è possibile ottenere al di fuori dei confini Comunali. In tal modo si procureranno a tutte le zone buone condizioni di vita, di igiene e di salubrità: ciò che può essere ancora fatto se si interviene tempestivamente.

Tutte le località interessate dal Piano Intercomunale godranno dei benefici che deriveranno dalla nuova organizzazione urbanistica, tenuto conto che molte delle località da comprendere nel Piano Intercomunale avranno la possibilità di migliorare zone che, per effetto di un’edilizia irrazionale, di installazioni industriali indiscriminate, sono ora assai compromesse.

Ne è prova il fatto che nell’alto milanese l’invasione industriale ha addirittura aggredito certe zone sovvertendone tutti i valori originali, anche quelli di una buona urbanistica; basta per convincersene procedere a qualche sopraluogo negli immediati dintorni della Città soprattutto nel settore Nord e controllare, nelle tavole che si allegano, l’evoluzione del numero degli abitanti di alcune località dal 1881 ad oggi.

Strettamente legato al problema della zonizzazione è il ! problema dei trasporti e della circolazione: problemi che .si risolvono soltanto con la realizzazione di un’organica rete stradale. Basta pensare a tutte le strade che immettono in Milano e che collegano le località viciniori a Milano, ed alla necessità di separare il grande traffico dalle vie di traffico locale portante tutto quel cospicuo e promiscuo movimento deter~~ minato dai reciproci interessi di lavoro e di vita delle varie località prossime a Milano.

In base a queste considerazioni veniva segnalato nella richiesta originaria del 23 febbraio 1951 (Atti del Comune N. 187738 P. R. 4060) un comprensorio di settantanove comuni, scelti tra quelli che avevano particolari ragioni economico-sociali di legame con la metropoli.

Il Ministero dei Lavori Pubblici alla proposta originaria sopradetta rispondeva con la lettera che qui di seguito si riporta:



Questo Ministero ha sottoposto all’esame del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici la proposta del Comune di Milano di redigere un Piano Intercomunale nel quale sia compreso, oltre il proprio territorio, quello di altri 79 Comuni limitrofi.

Il predetto Consesso, con voto n. 2681 emesso nell’adunanza del 2 agosto 1951 e di cui si unisce copia conforme, ha espresso l’avviso che possa autorizzarsi il Comune di Milano a redigere detto Piano Intercomunale, subordinatamente alla presentazione di un concreto programma di studio - da sottoporsi all’ esame di quel Consesso - nel quale siano precisati gli elementi necessari per definire i limiti del comprensorio, le modalità di partecipazione agli studi dei Comuni interessati e le previsioni di spesa con l’indicazione della relativa quota a carico di ciascuno dei Comuni medesimi.

Questo Ministero fa proprio il parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici ed autorizza pertanto, ai sensi dell’art. 2 della Legge Urbanistica 17 agosto 1942, il Comune di Milano a redigere il Piano Intercomunale di cui trattasi riservandosi - questo Ministero medesimo - di determinare l’estensione del piano e la ripartizione della spesa fra i Comuni interessati nonché gli altri elementi che esso riterrà opportuni allorquando il Comune di Milano avrà presentato un concreto programma di studio, giusta quanto suggerito dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici col voto sopraindicato.

Il Ministro (Aldisio)

Per poter però soddisfare a quanto richiesto nella prima parte dell’ultimo capoverso della lettera del Ministero dei Lavori Pubblici, riportata, occorreva prima che il Comune di Milano formulasse un abbozzo di Piano Intercomunale atto a dimostrare l’opportunità dell’inclusione in base alle esigenze urbanistiche dei rispettivi Comuni interessati, in modo che il Ministero potesse decidere l’inclusione o meno dei vari Comuni in base ai presupposti urbanistici di tale abbozzo.

Per la elaborazione di tale abbozzo il Comune di Milano:

a) organizzò un Ufficio embrionale per l’espletamento delle prime indagini;

b) cercò di agganciare i Comuni immediatamente limitrofi al comprensorio Comunale per indurli a collaborare.

All’uopo promosse una riunione dei vari Sindaci con i quali si discussero i vantaggi di un Piano Intercomunale ; successivamente inviò ad ogni Comune interpellato lo stralcio del Piano Regolatore di Milano comprendente il territorio confinante con il Comune finitimo interessato, perchè ognuno formulasse le proprie osservazioni e proposte nei riguardi del coordinamento delle rispettive attività edilizie in corrispondenza ai rispettivi confini per poter di comune accordo risolvere i problemi più immediati.

Mentre nei riguardi del punto a) il Comune ha potuto predisporre alcune statistiche preliminari, nei riguardi del punto b), e cioè della collaborazione con i Comuni finitimi, non si ebbero risultati apprezzabili e l’abbozzo di Piano Intercomunale da inviare al Ministero non poté essere elaborato.

Frattanto con l’approvazione del Piano Regolatore Generale si accentuò il fenomeno di costruzioni extra Comune di cui si è parlato sopra. D’altro canto si iniziava allora la stesura, da parte del. Centro Studi presso il Provveditorato alle 00. PP. della Lombardia, del Piano Territoriale Regionale cosicché l’iniziativa Comunale di un Ufficio per la raccolta di dati risultava in un certo senso superata perchè dette indagini venivano parallelamente fatte dal Centro Studi predetto.

Il Comune decise allora di rimandare la risoluzione del problema del Piano Intercomunale a quando fosse approntato un primo abbozzo di Piano territoriale sia pure di grande massima.

Le caratteristiche del Piano territoriale sono diverse da quelle del Piano Intercomunale, quest’ultimo è un insieme di Piani Generali comunali coordinati fra di loro. Il Piano territoriale non può quindi soddisfare gli scopi del Piano Intercomunale, né può quindi sostituirlo; può però dare le direttive per l’apprestamento del Piano intercomunale dimodochè, analizzando l’abbozzo di Piano Regionale della Regione Lombarda in quegli elementi che interessano la suddivisione del territorio nei vari Piani Intercomunali, si è rilevato che si può ridurre il numero dei Comuni da includere al Piano Intercomunale di Milano, limitandolo ai soli Comuni contermini al Comune di Milano o che abbiano una edificazione pressoché senza soluzione di continuità con quella del Comune di Milano.

A questo punto di elaborazione del Piano Regionale viene quindi utile ed opportuno anche riprendere il prospettato Piano Intercomunale per il quale si possono fare le seguenti nuove proposte:

Sentito anche il Centro Studi per il Piano territoriale della Regione Lombarda, il quale conferma la necessità di Piani Intercomunali nella zona prospettata con la proposta di P.I. del ‘51, si ritiene opportuno dividere tale comprensorio in due grandi Piani Intercomunali, quello della zona di Busto e quello della zona prettamente Milanese, dimodochè il Piano pertinente a quest’ultima zona sia ridotto, come si dice più sopra, alle località ed ai Comuni che hanno una diretta e reciproca influenza ed interferenza con Milano.

Secondo questa nuova concezione il Piano Intercomunale comprenderà 41 comuni come si può vedere dall’allegata planimetria.

Si è proposto che la spesa per l’apprestamento del Piano Intercomunale sia ripartita tra il Comune di Milano e i Comuni interessati proporzionalmente al numero degli abitanti.

Sia la raccolta dei dati che la progettazione dovranno essere fatte per ogni Comune da un urbanista designato dal Comune interessato d’intesa con il Comune di Milano.

Le soluzioni dovranno essere studiate d’accordo con il Comune di Milano, con il Centro Studi per il Piano territoriale e con l’ Amministrazione Provinciale di Milano.

La raccolta dei dati dovrà essere rappresentata da un censimento urbanistico sul tipo di quello eseguito per il Piano Regolatore del Comune di Milano, tenuto conto anche dei nuovi criteri adottati per la revisione in corso.

La progettazione dovrà prevedere quanto esposto all’articolo 7 della legge 17 agosto 1942 ai punti 1° 2° 3° 4°, e nella scala 1: 25.000.

Inoltre il Comune di Milano dovrà provvedere alla stesura globale e definitiva del Piano Intercomunale al 25.000.

Gli studi preliminari del Piano Intercomunale si sono sviluppati in tre settori, due dei quali prettamente statistici, e riguardanti l’incremento della popolazione nei singoli Comuni del comprensorio del Piano Intercomunale dal censimento originario del 1881 al censimento del 1951.

Tali studi statistici dimostrano chiaramente l’enorme incremento ed il conseguente sovvertimento urbanistico nel settore a Nord del Comune di Milano che va da Nord-Ovest a Nord-Est, mentre nella parte Sud la situazione è rimasta pressoché stazionaria, subendo solo quell’incremento di ordine naturale che hanno subito tutte le località del Basso Milanese.

Di qui la giustificazione dell’interesse avuto nel determinare i limiti del Piano Intercomunale che prevedono uno sviluppo quasi completamente rivolto verso Nord e precisamente in modo da allacciare tutte le località che hanno subito in questi ultimi anni il fenomeno di sviluppo che viene solitamente segnalato come sviluppo industriale e conseguentemente residenziale dell’Alto Milanese, limitando invece ai Comuni contermini al territorio del Comune di Milano la parte Sud per quegli allacciamenti e provvedimenti immediati occorrenti tra il Comune di Milano e tali località.

Il fenomeno della espansione di Milano verso Nord viene individuato anche entro i limiti del territorio della Città stessa dove la edificazione preme enormemente verso i confini Nord comunicando tale pressione anche sulle località dell’ Alto Milanese.

Altra indagine di carattere statistico è quella riflettente lo sviluppo delle attività economico-industriali con riferimenti, come anno di partenza, al 1881, anno in cui furono censite, non per comune ma per distretto, le attività economiche.

Nel 1881 appunto si vede nei distretti a Nord la prevalenza dell’attività agricola, mentre per gli stessi distretti nel 1936 ed ancor più nel 1951 l’attività agricola è continuamente diminuita per lasciare il posto ad una strabocchevole attività industriale che invadendo tutte le zone di espansione Nord ha creato un disordine urbanistico enorme; e non si deve essere considerati profeti se si afferma che tale disordine tra breve tempo sarà enormemente aumentato se non si arriverà presto attraverso un Piano Regionale ed Intercomunale ad arginare questa espansione indiscriminata.

Si espone qui di seguito il numero degli abitanti dediti ad attività industriale nei quattro circondari di Milano, Monza, Gallarate e Abbiategrasso negli anni 1881 e 1936.


Circondario 1881 1936
Milano 124.000 338.000
Monza 38.500 136.000
Gallarate 28.500 124.000
Abbiategrasso 16.000 40.500

Naturalmente tutto questo sovvertimento dei valori originari per l’aumento della popolazione e della situazione industriale è collegato a innumerevoli problemi di traffico.

La terza indagine che questo Comune ha provveduto a fare è stata una analisi sul posto, fatta mediante sopraluoghi, di come lo sviluppo di popolazione e quello industriale si è effettuato nei vari territori Comunali, per individuare quali fossero anche le direttrici di sviluppo naturale che dipartendosi da Milano si proiettavano verso l’esterno.

Alla domanda: come questa edilizia sia venuta ad insediarsi nelle località a Nord di Milano (fenomeno che potrebbe essere documentato fotograficamente in maniera evidentissima, ma che l’occhio dell’esperto può intuire guardando, la planimetria dell’attività delle popolazioni residenti per Comune), si può rispondere che essa è sorta per la gran parte senza alcuna regola, seguendo quasi sempre il solo concetto di installarsi in zona vicino alla metropoli, per innumerevoli altre ragioni.

Da queste indagini però è fortunatamente risultato che alcune zone inframmezzate non sono state ancora compromesse, e con opportuni provvedimenti di Piano Intercomunale potranno rendersi utili a creare quei polmoni di verde che possono ancora conferire alla sistemazione urbanistica della zona, se tempestivamente regolata, possibilità di una sistemazione sul tipo di quella della grande Londra, che intervalla zone edificate a zone di verde.

Nota: per capire meglio questo e gli altri articoli della Pagina di Storia sul PIM, possono essere utili i materiali scaricabili in calce all' articolo guida (f.b.)

Il congresso degli urbanisti italiani impostò quattro anni or sono a Venezia il problema dei piani regionali. Si trattava di un problema che era allora alla vigilia di diventare realtà concreta e quel congresso ne indicò le soluzioni, accelerando i tempi, operando nella coscienza della classe politica e della pubblica opinione. Dopo l’opera iniziale benemerita del ministro Aldisio con non minore energia il ministro Romita proseguì nell’attuare il dispositivo urbanistico regionale destinato ad una funzione preminente nella nostra pianificazione urbana e rurale. A noi piace sottolineare l’importanza dell’intenso sforzo in atto nelle diverse regioni italiane e l’organicità della prassi ormai in via di essere stabilita in guisa da affondare le sue radici negli organismi vivi delle amministrazioni provinciali e degli altri enti decentrati.

Poi, al congresso di Genova e nel successivo convegno di Firenze, il piano regolatore urbano si è, imposto alla nostra esperienza con i suoi urgenti problemi e con la massa immensa degli interessi diretti e indiretti, culturali e pratici che esso coinvolge. Con la discussione dei prossimi giorni, un terzo grande tema della pianificazione urbanistica sarà proposto alla nostra attenzione. Qui a Torino, ci proponiamo di discutere cosa sono e quale contributo possono recare all’assetto della nostra società i piani intercomunali. Il tema potrebbe sembrare a taluni strettamente tecnico. E invece proprio esso è tale da suscitare, come vedremo, in campo teorico e metodologico, una vasta e impegnativa problematica. Abbiamo ormai chiari i limiti e i problemi della pianificazione urbana e di quella territoriale, sappiamo che non ci potrà essere ordine e armonia nelle città le non vi sarà la grande sintesi del piano regionale. Ma che funzione svolgerà, come si inserirà in questa complessa gerarchia, la nuova pianificazione intercomunale?

La marcia lenta e inesorabile verso una maggior disciplina urbanistica attende d’altro canto un altro passo decisivo: il coordinamento tra programmi economici e piani regionali. All’uopo ci piace ricordare che l’attuazione dello schema Vanoni se potrà attuarsi attraverso il dispositivo dei piani regionali rappresenterà una tappa di inestimabile valore nel progresso dell’organamento dell’azione dello stato. Ora il problema che si pone innanzi a noi è esattamente l’esecuzione del piano regionale. Poiché esso è destinato a prolungarsi come ogni altro piano, nei suoi piani particolareggiati, questi saranno costituiti appunto da quei piani intercomunali di cui il congresso in questi giorni dovrà esaminare i limiti, la validità, il carattere. Perché essi diventino un effettivo strumento di civiltà e un valido ausilio nell’attuazione del piano economico occorre che ciascun elemento esecutivo, il quale è bene attuabile nell’ordine del piano intercomunale, trovi un’organica espressione tecnica amministrativa, fondata sul rispetto della libertà. Il valore dell’impostazione del piano intercomunale consiste appunto in questa garanzia, perché esso custodisce le virtù democratiche proprie di un piano affidato ai comuni i quali meglio dello stato si richiamano a una considerazione palpitante, immediata del concetto di democrazia.

Mi piace ricordare all’uopo un noto passaggio del Tocqueville : “ Sans institutions communales une nation peut se donner un gouvernement libre, mais elle n’a pas l’esprit de la liberté. Des passions passagères, des intérêts d’un moment, le hasard des circostances peuvent lui donner les formes extérieures de l’independence; mais le despotisme refoule dans l’intérieur du corp social reparait tôt ou tard à la surface”.

A tali esigenze di ordine politico e amministrativo, che indicano una giusta soluzione dei problemi, finora soddisfecero nel modo migliore le teorie sociali-cristiane. Infatti il pensiero cattolico sostiene con particolare energia il “principio della sussidiarietà”, la fondamentale precedenza delle collettività più deboli di fronte alle più forti. Soprattutto vogliamo ricordare l’enciclica Quadragesimo anno data nel 1931 dal pontefice Pio XI: “Évero certamente e ben dimostrato dalla storia che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo della filosofia sociale. ..: è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle”.

Di questa ferma opinione era Luigi Einaudi, quando scriveva, nel 1946: “Perché vi sia governo libero, occorre che gli uomini sentano di essere qualcosa di diverso dagli altri uomini; che essi abbiano l’orgoglio di appartenere ad un comune, ad una comunità o collegio di comuni, comunità e regioni che siano diano qualcosa, abbiano un potere entro limiti determinati sovrano ed indipendente dal centro”.

Ora, nella maggior parte delle nostre regioni, con l’eccezione di quelle minori che comprendono soltanto una o due provincie, né i confini delle regioni stesse, ne le unità amministrative locali, le provincie in cui sono divise, si basano su fatti economici, storici e culturali omogenei e unitari. Risultato: l’assenza di una vera e feconda vitale iniziativa entro l’area locale, onde una dispersione di interessi e una confusione nello sforzo. Queste circostanze portano alla decadenza, al deterioramento, alla impossibilità di una vera vita sociale la cui necessità è ormai da tutti avvertita. L’uomo non può più operare da solo in tutti i campi. La concreta, nuova definizione delle aree subregionali - un tracciamento scientifico di queste aree e l’instaurazione di una nuova volontà amministrativa e culturale - è uno degli essenziali compiti, preliminari alla creazione di una civiltà cooperativa ed assistenziale. Infatti, ci ricorda un sociologo illuminato, il Mumford, che, come l’uomo non può avere rapporti fecondi col mondo circostante finche non possiede un’intima e ferma personalità, così una comunità non può impegnarsi nei necessari scambi e rapporti con altre comunità finche non ha una vita completa su basi indipendenti e solide.

Questo significa che la ricostituzione culturale nell’ambito della regione è una parte essenziale del compito politico ed amministrativo. I nostri piani più razionali devono rispettare l’urgenza emotiva delle finalità, dei desideri, dei bisogni umani; il meccanismo più perfetto resta immoto finche i suoi organi non vengano azionati da questi mezzi. Appunto perché il regionalismo ha veramente le sue basi in spontanee motivazioni umane, possiamo aspettare con fiducia i suoi estremi progressi. E con senso di grande compiacimento rileviamo come gli studi del Comitato di coordinamento per il piano regionale del Veneto sono ormai rivolti all’enucleazione di nuove unità naturali che non coincidono necessariamente con quell’unità artificiale che è la provincia.

Non si dimentichi che nella grande opera di rinnovamento urbanistico promossa dal governo britannico, si sono ristudiate tutte le circoscrizioni di autogoverno per renderle più omogenee rispetto alla popolazione, contenendole in unità comprese fra i 60 e i 200 mila abitanti, dimensionamento che appare anche per il nostro Paese sufficientemente elastico e capace di dare alla organizzazione del lavoro di pianificazione urbanistica quelle unità e quella coerenza attualmente ardua e faticosa.

Nella Repubblica Federale della Germania Occidentale, tanto la legge fondamentale del 23 maggio 1949 quando la costituzione del 7 ottobre assegnano il diritto all’autonomia ai comuni, ma lo considerano integrabile tanto attraverso consorzi di comuni (Gemeindeverbände) quanto attraverso l’elevazione dei distretti (Kreis) ad una effettiva autonomia amministrativa sorretta da una rappresentanza popolare elettiva. L’articolo 29 della citata legge fondamentale prevede poi una nuova ripartizione del territorio federale ispirandosi precisamente a molti di quei criteri che noi riteniamo indispensabili per il funzionamento di una vera comunità, e che sono rappresentati dai “ sentimenti di attaccamento provinciale, dai legami storici e culturali, dalla convenienza economica e dalla struttura sociale”.

L’attivazione della vita comunale e provinciale è, come suoi dirsi, “nell’aria”, annunciatrice di una feconda e libera rivoluzione. E i comuni si sono fatti paladini di un’altra grande speranza di progresso e di pace : l’unità europea. Ed è proprio il sindaco della città che ci ospita, l’amico Peyron - al quale va il nostro caloroso saluto - che annunciava tre giorni or sono con legittimo orgoglio e compiacimento la scelta di Torino a sede della Comunità europea di credito comunale, sorta già a"Francoforte per iniziativa del Consiglio dei comuni d’Europa.

Noi sogniamo e parliamo di giustizia e assistiamo giorno per giorno, senza poteri, alla corsa indiscriminata verso sempre maggiore ricchezza da parte di chi già possiede, dei proprietari di case e di terreni che vedono senza sforzo, senza lavoro, accrescere le loro ricchezze dalla marcia di una economia in accrescimento in virtù dell’operosa tenacia dei lavoratori, dei tecnici, dei dirigenti, la cui ricchezza, il cui reddito cresce assai più lentamente di quello dei detentori e dei mezzi di produzione e del suolo. Così nelle città italiane ove l’economia è visibilmente rigogliosa negli ultimi cinque anni, i proprietari di terreni hanno visto il valore delle loro proprietà crescere del 300, del 500, del 1000 per cento (non sono dati esagerati), mentre i lavoratori delle stesse città hanno avuto degli accrescimenti di reddito più o meno rilevanti, ma che stanno in un ordine infinitamente minore.

Contro questo iniquo stato di cose gli urbanisti italiani hanno sempre lottato disperatamente chiedendo da ogni parte u!la legislazione contro il plus-valore delle aree. Questo principio, è lecito compiacersi, entra ora -sia pure in una sua espressione ancor timida -in una legge ancora in corso di approvazione. Un’altra legge sociale, ancor più importante, quella che potrebbe davvero diventare risolutiva, quella che permetterebbe ai comuni di formarsi un nuovo e più ampio demanio, ha ancora una navigazione difficile, tra Scilla e Cariddi, nelle commissioni parlamentari. Fino a che larghissime masse popolari saranno estranee alla vita dello stato (non sta a me indicare la responsabilità di questa situazione, ma denunciarne le conseguenze urbanistiche), queste leggi non oseranno che scalfire in superficie gli immensi privilegi che dovrebbero affrontare.

Noi urbanisti sogniamo il verde. E la città crescendo e intensificandosi occupa i giardini del centro, e i prati della periferia vengono a poco a poco interamente sommersi. “ Vendesi terreno a lotti” hanno scritto in larghi cartelli i ragionieri del centro. I comuni non comprano lotti per fare i giardini del futuro, i parcheggi, le scuole. Quando le operazioni speculative saranno compiute, la seconda ondata di compratori farà la seconda o la terza speculazione attraverso lo stratagemma meccanico dei grattacieli vendendo poi le proprietà a un prezzo inaccessibile. Dopo di che nessun amministratore assennato comprerà in superficie adeguata il terreno che servirebbe a fare le scuole all’aperto, i centri sociali, le biblioteche, i centri di acquisto centralizzati o cooperativi. Bisognerà adattarsi a sopraelevare le scuole, o far fare i doppi turni ai bambini come nelle fabbriche, lasciare il commercio com’è, costoso, frazionato, inefficiente. Non c’è nulla da fare, ci dice una classe dirigente stanca e imprevidente.

Noi sogniamo il silenzio. Gli urbanisti hanno studiato e hanno riferito sul precinct, una vasta zona urbana bene isolata, senza arterie di scorrimento, diventata tranquilla, armonica. Ma taluni amministratori amano proclamarsi urbanisti, sebbene quando i loro figli si ammalano non li curano da loro stessi, ma si affidano a chirurghi di chiara fama i quali ottengono spesso autentici miracoli: ma per molti gli urbanisti di chiara fama, i veri urbanisti, sono i nemici della città, uomini pericolosi che occorre ostacolare. E non resta all’infelice città che ricorrere quando è ormai troppo tardi a clamorose e decorative lotte contro i rumori, a costosissimi sventramenti, all’uso indiscriminato incontrollato e caotico dell’elemento verticale, i quali rimangono i sintomi più appariscenti di una concezione e di una strategia urbanistica radicalmente errata.

Noi italiani amiamo l’intelligenza e la cultura. Ma cultura e intelligenza avrebbero suggerito almeno l’imitazione. Avremmo potuto imitare Londra e Parigi, il loro grandioso piano di decentramento industriale in pieno corso di attuazione. Noi abbiamo invece, con mezzo secolo di ritardo, importato d’oltreoceano un mostro grandioso e affascinante, il grattacielo, onde consacrare una civiltà in transito: quella delle nostre metropoli del Nord.

La metropoli”, ha scritto Frank Lloyd Wright nel suo aureo volumetto Architettura e Democrazia, la metropoli si è tanto allontanata dalla scala umana che non è più un luogo dove si viva bene, si lavori bene e si possa andare tranquillamente al mercato. E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria metropolitana. L’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli imprevista. Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare era ugualmente imprevista. Può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia pigia urbano. Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene pigiato, dimentico dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individuo pensante. Cosa riceve l’unità umana, finora ignorata da questo manicomio commerciale, in compenso dei disagi della ristrettezza, della demoralizzante perdita di libertà, dell’avvilente degradazione di un più vasto senso dello spazio? Cosa riceve oltre lo stolto orgoglio di sacrificarsi al suo tempo, di pagare più tasse e di vedere un numero sempre maggiore di gagliardi vigili ai crocicchi ? Anche il proprietario di case dovrà presto rendersi conto che, come sfruttamento vantaggioso, il successo della verticalità è soltanto temporaneo, sia nella natura che nella qualità, perché i cittadini di un prossimo domani preferiranno l’orizzontalità -dono dell’automobile, del telefono e del telegrafo - e si rivolteranno contro la verticalità fuggendola come il cadavere delle nostre città. Lo stesso cittadino le si rivolterà contro in autodifesa. Abbandonerà poco a poco la città : ora gli è molto più facile farlo. Già adesso i migliori possono fare a meno di restare”.

Il piano regionale apre dunque la via al decentramento. Il decentramento - si badi bene - non è per noi un problema di conservazione, ma di civiltà. Si è confuso troppo spesso questo con la lotta contro l’urbanesimo, svolta dal regime fascista in modo iniquo: basti ricordare la pratica proibizione alle popolazioni meridionali di lasciare le loro provincie, affinché il loro abbandono non fosse reso evidente. Al contrario, il decentramento può e deve essere usato come strumento di difesa dell’uomo. Se il giovane contadino abbandona ancor oggi la montagna e i villaggi anche qui nel Nord, nell’alto Piemonte, nelle valli lombarde, nel Veneto, per cercare nelle città affollate una nuova vita con meno miseria e qualche luce spirituale, è mosso da una spinta inevitabile sino a quando soltanto nelle grandi città sorgono le industrie. E queste solo danno ai comuni e potenza e mezzi d’azione.

E come la composizione chimica di un corpo è impotente a suscitare il mistero della vita, così le cifre e i numeri, le statistiche e i calcoli dei nostri ministri, le centinaia di miliardi degli investimenti di Stato non basteranno a far progredire una nazione, se non si. è pronti ad attingere una nuova linfa vitale dalle profonde radici dell’uomo che si trovano nei villaggi, nei borghi, vicino alla natura e al paesaggio e che si esprimono soltanto nella vita dei comuni e delle provincie. Se questo non sarà compreso, i piani e i programmi elaborati a Roma, a grande distanza dai luoghi dove dovranno essere eseguiti, continueranno ad opprimere materialmente e spiritualmente un popolo di agricoltori e di operai.

Il decentramento industriale, reso facile dalle tecniche moderne più progredite, riconduce l’uomo alla terra, ristabilisce un’economia mista, un nuovo equilibrio tra agricoltura e industria, il solo capace di ridare all’uomo la perduta armonia. Gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori delle industrie debbono finalmente persuadersi che le loro ricerche e i loro sforzi devono essere al servizio dell’umana civiltà e ‘the vale la pena di affrontare una apparente perdita di rendimento se l’uomo potrà evitare l’alienazione prodotta dalle fabbriche gigantesche, e dal distacco opprimente della natura. Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini: “ l’uomo, strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel profondo del suo animo, e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni siano occorsi nel segreto del suo inconscio”.

Nella millenaria civiltà della terra il contadino guardando le stelle poteva vedere Iddio, perché la terra, l’acqua, l’aria esprimono in continuità uno slancio vitale, poiché l’acqua non serve soltanto a lavare il corpo, ma riguarda anche l’anima perché essa, come un battesimo, purifica il cuore. Anche l’aria lievissima della montagna è alimento dell’anima e la terra può allietare lo spirito perché in essa c’è la presenza continua del Dio vivente.

Per questo, il mondo moderno, avendo racchiuso l’uomo negli uffici, nelle fabbriche, costringendolo a vivere nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motocarri e il disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco ad una vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere. Bisogna di conseguenza avere il coraggio di affermare che la nostra società è ammalata, è mentalmente ammalata, poiché ci troviamo dinnanzi a una vera, autentica malattia dell’anima provocata dallo “sradicamento”, dallo sradicamento involontario. Quando un uomo lascia la sua terra sotto la spinta della miseria, il villaggio che lo vide nascere, dove ancora lo attende il sorriso di una madre e spesso ancora l’amore dei bimbi e l’appello delle spose, si produce nella psiche dell’esiliato un dramma di cui le esplosioni tragiche, come il drammatico recente episodio di Terrazzano, sono un sintomo ormai troppo palese. Il cuore degli emigrati, che non dimenticano il loro paese - ci ha spiegato assai bene Simone Weil - è tanto irresistibilmente rivolto alla patria infelice che gli restano poche risorse affettive per l’amicizia verso il paese che lo ospita. Quella amicizia può realmente germogliare e crescere nel loro cuore solo se compiranno una violenza su se medesimi.

Anche il fanatismo totalitario è il prodotto neurotico di un’alienazione, di uno sradicamento. Si badi bene, il fanatismo, non la profonda aspirazione per una società diversa dalla nostra, finalmente e veramente libera, il disprezzo per le forze deteriori di un capitalismo decadente; ma il fanatismo, che non distingue il bene dal male, che esalta la menzogna e con essa l’errore, che si ostina nel credere all’oppressione e alla violenza, rinnegando visibilmente le forze spirituali che pur sono le sole creative. Dobbiamo rispetto a un campo di grano, ricorda ancora Simone Weil, non in se stesso ma perché è nutrimento per gli uomini: Allo stesso modo dobbiamo rispetto a una collettività qualunque essa sia - patria, famiglia, e qualsiasi altra - non in se stessa ma in quanto nutrimento di un certo numero di anime umane. Il grado di rispetto dovuto alle collettività umane deve essere molto elevato per vari motivi.

Anzitutto, ognuna di esse è unica, e non può essere sostituita se viene distrutta. Un sacco di grano può essere sostituito a un altro. Il nutrimento che una collettività fornisce all’anima dei suoi membri non ha equivalente in tutto l’universo. Poi, con la sua durata, la collettività penetra già nell’avvenire. Contiene nutrimento non solo per le anime dei vivi, ma anche per quegli esseri non ancora nati che verranno al mondo nei secoli avvenire. E finalmente, per la sua stessa durata, la collettività ha le sue radici nel passato. Esso costituisce l’unico organo di conservazione per i tesori spirituali accumulati dai morti, l’unico organo di trasmissione mediante il quale i morti possono parlare ai vivi, la sola cosa terrestre che abbia un legame diretto con il destino eterno dell’uomo, è lo splendore di coloro i quali han saputo prendere coscienza completa di quel destino, trasmesso da generazione in generazione.

Che fare? Qual’è la responsabilità dell’urbanista in questo quadro che è chiaro, che appare dalle cronache di ogni giorno sempre più tragico, anche al temperamento più ottimista? Noi dobbiamo risolutamente penetrare nella segreta dinamica della terza rivoluzione industriale e procedere con coraggio verso piani coraggiosi. Stiamo assistendo in Italia ad ampi fenomeni economici e tecnici positivi, i cui effetti nel campo materiale, culturale e spirituale potrebbero essere sterili ovvero portare innanzi un nuovo tipo di civiltà nella misura della nostra capacità di comprendere i fenomeni più profondi e più sensibili che, seguendo un disegno imperscrutabile, condizionano l’umana grandezza e l’umana miseria.

Un periodo mortale ci sovrasta perché il mondo moderno là dove la meccanizzazione ha preso il comando, può travolgere l’uomo vero, nel suo integrale valore. Il numero di coloro che protestano, che mantengono la loro indipendenza morale e intellettuale contro coloro che vorrebbero subordinare e assoggettare il pensiero e ridurre l’anima, perché è dell’anima che si tratta, è fortunatamente in rapida ascesa. L’allarme è più vivo nel campo degli scrittori e degli artisti che precedono il cammino inconsapevolmente più lento dei politici. Ci piace ricordare e salutare qui, per la sua cordiale presenza un grande architetto e urbanista di altissimo valore: Richard Neutra. Richard Neutra combatte anch’egli la nostra battaglia. Nel suo lavoro sociale ci ha dato uno dei più mirabili esempi di compiuta comunità : Channel Heights. Ma sentiamo ora il suo pensiero:

L’umanità - egli scrive - si dirige precariamente verso la eventuale sopravvivenza a bordo di una zattera ancora improvvisata, che spesso fa acqua: la Pianificazione e la Progettistica. Al centro del problema che ora ci attende al varco, una volta presa la nostra vigorosa decisione contro le tentazioni della predestinazione o del caso sembra profilarsi la domanda: Possiamo ben separare la domenica dai sei giorni feriali ? Possiamo avere due tipi di condotta, due specie di progettazione, cioè una, in proporzioni nane, per gli usi del sabato e dedicata .alla bellezza, agli ideali, alla bontà e alla verità; l’altra di vaste proporzioni e di stampo grossolano, per la supposta utilità pratica, impastata di bruttura, squallore e barbarie di nuovo conio, avallata dal consenso generale ? In una comunità religiosa d’altri tempi, solo uno spregevole cinico avrebbe potuto formulare siffatta idea biforcuta della utilità contrapposta alla rettitudine. Subito sarebbe stato bollato di invasamento demoniaco; la sua utilità sarebbe stata riconosciuta come l’utilità dell’inferno. Ad onta del progresso tecnologico, o forse proprio a causa della sua irregolarità, il nostro ambiente di fattura umana ha manifestato una sinistra tendenza a sfuggire sempre più al nostro controllo. Più l’uomo si è allontanato dall’equilibrata integrazione con la natura, più il suo ambiente fisico si è fatto nocivo. Usura e rovina del sistema nervoso si sono moltiplicate nell’ambiente metropolitano: ce lo rammentano statistiche spaventevoli. Dalla carrozzella per bambini alla metropoli, il nostro ambiente di fabbricazione umana, zeppo di ritrovati tecnici, è divenuto lo stampo del nostro destino e una fonte di tensione nervosa inesauribile”.

Il Paese può e deve essere indirizzato rapidamente verso soluzioni nuove, che ancora dieci anni or sono potevano sembrare utopistiche. Esse consistono in un rapido decentramento, mettendo a disposizione della nostra vita sociale vasti territori agricoli, quasi ovunque disponibili, giacché stiamo assistendo ogni giorno all’esodo dei nostri monti e delle nostre pianure. Quali i dispositivi, le linee, i mezzi di una nuova politica? Primo: l’utilizzazione ai fini del decentramento del grandioso programma di quartieri organici unificati. Secondo: coordinamento coerente del piano edilizio con chiaro programma di decentramento industriale. All’uopo occorre che, armonicamente composte con le linee di comunicazione e a breve distanza dai nuovi quartieri organici, siano create le nuove zone industriali, secondo l’esempio ormai collaudato delle nuove città inglesi. Terzo: un massiccio sostanziale ingrandimento degli spazi destinati ai servizi sociali e culturali, sia nella progettazione urbanistica, sia nei bilanci dello stato, delle provincie, dei comuni, della industrie, dei privati.

La civiltà di un popolo si riconosce dal numero, dall’importanza, dall’adeguatezza delle strutture sociali, dalla misura in. cui è esaltato, protetto tutto ciò che serve alla cultura, e in una parola all’elevamento spirituale e materiale dei nostri figli: ma questo apparato sociale è ancora il privilegio di pochi. La marcia inesorabile verso il massimo profitto, salvo poche eccezioni, è ancora la regola più evidente della nostra economia. Ancora troppo danaro è lungi dall’esser indirizzato a necessità umane che gridano urgenza, ma deviato verso investimenti che non arricchiscono la comunità nazionale.

I moderni centri sociali, le scuole specializzate di arte applicata, le biblioteche di ogni grado, gli auditori, le scuole di musica, i luoghi di istruzione artistica e via dicendo sono ancora in tutto il Paese visibilmente inadeguati nel numero e nella qualità. Eppure rispondono a bisogni sempre più vivi nel nostro popolo, bisogni che non sono in rapporto con la vita fisica, bensì con la vita morale. “ Eppure sono terrestri come quegli altri sebbene non posseggono una relazione diretta, che sia accessibile alla nostra intelligenza, con il destino eterno dell’uomo. Sono tuttavia, come i bisogni fisici, necessità della vita terrena. Cioè, se non sono soddisfatti, l’uomo cade a poco a poco in uno stato più o meno analogo alla morte, più o meno simile a una vita puramente vegetativa”. Sono queste ultime, ancora, parole di Simone Weil, della quale, a costo di tediarvi, voglio ricordare ancora un fervente messaggio ch’io rimetto ai timidi e ai pessimisti affinché non ignorino che ogni sforzo anche modesto non sarà vano, purché nella giusta direzione: da al nostro popolo i mezzi culturali affinché si esprimano le migliori intelligenze, i più nobili cuori.

Due sono gli ostacoli che rendono difficile al popolo l’accesso alla cultura. Uno è la mancanza di tempo e di forze. Il popolo ha poco tempo libero da dedicare ad uno sforzo intellettuale; e la stanchezza limita l’intensità dello sforzo. Quest’ultimo ostacolo non ha nessuna importanza. O almeno non ne avrebbe alcuna se non si commettesse l’errore di attribuirgliene. La verità illumina l’anima in proporzione della sua purezza non già in proporzione di una qualsiasi quantità. Non è la quantità del metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ di verità pura vale quanto molta verità pura, poiché la quantità non è in nessun rapporto col bene. Se un operaio, in un anno di avidi e costanti sforzi, impara qualche teorema di geometria, vorrà dire che sarà penetrata nell’anima tanta verità quanta ad uno studente che durante lo stesso tempo, con eguale fervore, abbia assimilata una parte della matematica superiore”.

I nostri urbanisti conoscono assai bene queste preziose sentenze; ma esse in pratica stentano ancora a penetrare nel mondo del denaro al quale ubbidiscono ancor ciecamente i tesorieri, gli amministratori, i saggi difensori dei bilanci e del loro pur necessario equilibrio. Essi nei loro calcoli ormai facilitati da cervelli elettronici non danno eccessivo valore a quei fermenti spirituali e culturali, che potrebbero avviare il paese verso la sua vera rinascita. Non è qui luogo per ostentare le nostre amarezze, ma vorrei chiudere la lunga serie delle citazioni di oggi, ricordando le parole di un poeta scomparso in un volo di guerra e che esprimono tutta la nostra fede nei valori dello spirito.

La questione che mi pongo non è punto di sapere se l’uomo sì o no sarà felice, prospero e comodamente protetto. Mi domando dapprima quale uomo sarà prospero, protetto, felice. Perché ai mercanti arricchiti, gonfiati dalla sicurezza preferisco il nomade che fugge continuamente e insegue il vento e abbellisce di giorno in giorno, perché serve un signore così vasto. Se costretto a scegliere, apprendendo che Dio rifiuta al primo la sua grandezza e la accorda solamente al secondo, immergerei il mio popolo nel deserto. Poiché amo che l’uomo dia la sua luce. E non mi importa la povertà del cero. Dalla sola sua fiamma misuro la qualità”.

Non direi con questo che la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s’inoltri sugli infidi sentieri dell’utopia. Si limita ad agire secondo il precetto che dice di non tralasciare, operando giorno per giorno in minuta fatica, la fede in altre più grandi perfette realizzazioni, ma impone pure di non trascurare, per la fede in queste, l’obbligazione al quotidiano lavoro. Lo scambio continuo fra la pratica e l’ideale sia dunque la regola per la nostra condotta anche in questa fase. Studiando e sperimentando nel vivo corpo sociale, incontreremo sempre nuove difficoltà ma impareremo anche a valerci di nuovi strumenti c a perfezionarne l’uso.

E così non soltanto l’arricchimento culturale, ma la maturazione della sensibilità sociale e della responsabilità politica, in una parola quegli obbiettivi che un istituto di alta cultura a statuto democratico quale è il nostro deve proporsi, costituiranno comunque il portato sicuro e prezioso di un operare concorde, sorretto dal rigore scientifico e dal buon volere.

Seguendo questa traccia, forse anche le mie parole sono andate lontano. Mi affretto dunque a concludere affinché non siano più oltre ritardati i molti urgenti temi di questo congresso che sono appunto i temi dell’oggi. Ma consentitemi ancora, prima di lasciare la parola all’amico onorevole ministro Romita di ringraziarlo ancora per la sua presenza e di ringraziare, con lui, tutti coloro che in questa occasione hanno voluto esprimerci la loro simpatia e porgerci una testimonianza di diretto apprezzamento nella funzione e nell’avvenire dell’urbanistica.

Gli urbanisti italiani, animati da una fede comune nei valori umani e nel metodo scientifico, lavorano da anni per proporre alla società italiana quelle nuove soluzioni che il senso sociale di ogni cittadino ha già nel suo cuore e che il sole, gli alberi, la terra, i laghi, i fiumi custodiscono in un disegno eterno. Affinché la natura e la vita, ricondotti ad unità diano all’uomo rinnovato e rigenerato da un ambiente amico una vera e più splendida armonia.

Perché noi vogliamo che questa armonia fatta di bellezza e di pace e di fraternità risplenda nei villaggi, nei quartieri, nelle fabbriche e la casa dell’uomo non sia più un rifugio ma un elemento vitale di una più ampia composizione, perché l’uomo servendosi finalmente del corpo e dello spirito si riconcili a Dio e nessuno sia più straniero, schiacciato, perduto.

Nota: per capire meglio questo e gli altri articoli della Pagina di Storia sul PIM, possono essere utili i materiali scaricabili in calce all' articolo guida (f.b.)

La problematica riferentesi al contenuto, alla validità, alla estensione e formulazione in termini giuridici dei “piani intercomunali” è materia già ampiamente trattata dai relatori generali che mi hanno preceduto e perciò il tema che sto per affrontare è circoscritta alla presentazione di una situazione reale, nel caso specifico il territorio milanese. Purtuttavia ritengo opportuno ritornare su alcuni concetti di carattere generale, fondamentali in funzione di uno sviluppo critico del discorso.

I punti che ritengo opportuno chiarire sono tre. Il primo si riferisce alla pianificazione intercomunale come fatto di contingente necessità in alternativa al concetto di estensione del piano intercomunale sullo intero territorio come elemento di pianificazione intermedia. Il secondo si riferisce al contrapporre l’esistenza “operante” del piano territoriale di coordinamento regionale ad una inesistenza o carenza operativa della pianificazione territoriale. Il terzo si riferisce al considerare le possibilità operative nell’ambito dell’interpretazione degli attuali strumenti legislativi in contrapposto alla eventualità di una radicale riforma di leggi e di norme.

Analizzando in particolare il contenuto dei punti enunciati si potrà dedurre quale profonda differenziazione vi sia fra il considerare il “piano intercomunale” come necessario strumento solamente in casi particolari ed eccezionali, ritenendolo, ad esempio, risolutivo dei problemi connessi al territorio direttamente influenzato dalla grande città, o indispensabile per la sistemazione di fasce costiere o per l’approntamento di piani paesistici e turistici o per la soluzione dei problemi connessi alle interrelazioni di comuni contermini (rientrando così nei limiti indicati dalla legge urbanistica) e il considerare invece il piano intercomunale valido strumento di una pianificazione organica, intendendolo pertanto esteso a tutto il territorio come elemento interposto fra una pianificazione di coordinamento territoriale, a base regionale od interregionale, ed il piano comunale. In tal caso è ovvio che il piano intercomunale assuma un’importanza ed una caratteristica che non può essere identificata con gli intendimenti espressi dalla legge urbanistica; il piano intercomunale così accettato potrebbe alterare contenuto e prassi di formazione e di attuazione del piano comunale. In ordine alla seconda questione, circa la esistenza o inesistenza operativa del piano territoriale è, direi, spontaneo prospettare due ipotesi: la prima vedrebbe il “piano intercomunale” derivato dal piano territoriale ed inserito come elemento intermedio di affinamento e di approfondimento fra la pianificazione regionale e la pianificazione esecutiva in sede comunale; la seconda ipotesi prospetterebbe l’eventualità del processo inverso e cioè il risalire della pianificazione comunale alla intercomunale ottenendo come risultato il possibile futuro piano territoriale come sommatoria di diversi piani intercomunali. È ovvio che le ipotesi estreme non possono a priori assumersi in assoluto ma saranno invece circostanze, situazioni, particolari ragioni d’urgenza a creare un giusto equilibrio fra metodi, teorie e necessità reali.

Circa la terza questione, inadeguata appare la strumentazione legislativa attuale e forse limitati i risultati che dalla sua interpretazione si possono ottenere: è ovvio che dopo una approfondita valutazione delle situazioni, e soprattutto dopo aver ben chiaramente definito ciò che si vuole ottenere, si potrà prospettare la necessità di porre nuove basi giuridiche onde consentire un efficace intervento operativo,

Lascio per ora indefiniti i quesiti, riproponendomi di considerarne una possibile soluzione dopo aver illustrato la situazione del territorio milanese. Ora, brevemente, traccerò un profilo storico delle interrelazioni fra Milano città ed il suo territorio, Il problema di queste relazioni non è solo da oggi di attualità: già da un secolo i primi sintomi del fenomeno si manifestano e sono materia di animate discussioni allorquando la secolare staticità della Milano circoscritta dalle mura spagnole viene bruscamente interrotta dai primi insediamenti industriali; il rapido evolversi dell’economia industriale ed il radicale rivoluzionamento dei trasporti porta sul tappeto il primo problema di’ annessione.

Siamo nell’anno 1859, la città ha limiti che corrispondono alla cinta murata cinquecentesca, all’esterno si estendono i territori che, denominati Corpi Santi, perché in essi vi si insediano i cimiteri, ne avvolgono l’intero perimetro; attraverso lunghe ed elaborate discussioni si giunge al decreto di annessione nel 1873. In quel tempo l’espansione della città non assunse l’aspetto regolarmente circolare, ma accentuò due direttrici principali: verso Corsico, a sud-ovest, e verso Sesto San Giovanni, a nord-est. Proprio in quest’ultima direzione lo sviluppo assunse ben presto un peso prevalente: la rete ferroviaria con le sue attrezzature, l’ubicazione della stazione, la possibilità di agevoli raccordi ferroviari, favorirono nei successivi decenni insediamenti industriali sempre più massicci tanto da investire l’aggregato di Turro che veniva pertanto incorporato nel 1918.

Negli anni successivi la pressione edilizia ormai incontenibile ripropose il problema e si concretò nel 1923 nella risoluzione di annessione di undici Comuni e di due frazioni. I territori annessi si estendevano in special modo in direzione nord mentre altre direzioni si cercava di dare una conformazione regolare al territorio metropolitano che, dopo l’annessione dei Corpi Santi, aveva assunto un aspetto assai irregolare con una vasta appendice sud. A nord venivano annessi i comuni di Affori, Crescenzago, Gorla-Precotto, Greco, Musocco, Niguarda. A est il comune di Lambrate. A sud i comuni di Chiaravalle e Vigentino. A ovest i comuni di Baggio e Trenno e le frazioni di Ronchetto sul Naviglio e Lorenteggio, già appartenenti ai comuni di Buccinasco e Corsico. Nel 1923 era così definito il confine che ancor oggi determina i limiti amministrativi del comune. Si affrontò in quel tempo il problema di un piano regolatore dell’intero territorio ed il progetto di piano regolatore generale, maturato attraverso il concorso del 1927, vide la sua approvazione nel 1934. Il piano del 1934, fonte di negative conseguenze che pesano tuttora sull’organismo della città, estendeva il suo ininterrotto tessuto viario sulla quasi totalità del territorio amministrativo, lasciando solamente piccole aliquote ove i confini non corrispondevano alla concezione grafico-geometrica del piano.

Al massiccio estendersi dell’attività edificatoria nell’ambito del territorio milanese veniva affiancandosi, soprattutto alla periferia nord, un parallelo incremento dei comuni rurali. Si iniziava così e si accentuava con il tempo il preoccupante fenomeno del costipamento indiscriminato. La parentesi della guerra, le vaste distruzioni da essa provocate, il risveglio di ogni attività e il rapido evolversi del pensiero e delle concezioni urbanistiche riproposero nel 1945 il problema di Milano e del suo territorio.

In quel periodo veniva sanzionato il principio che la pianificazione nell’ambito comunale non potesse prescindere da un analogo intervento nel territorio circostante: con questi presupposti nasceva dopo vaste e approfondite discussioni e successive elaborazioni il nuovo piano regolatore generale di Milano approvato poi nel 1953. La premessa di estendere, parallelamente al piano della città, la pianificazione nel campo intercomunale incontrò immediatamente resistenze ed incomprensioni.

Nel febbraio del 1951 il comune di Milano compiva il primo atto ufficiale inoltrando al competente ministero, in riferimento all’art. 12 della legge urbanistica, la richiesta di autorizzazione alla compilazione di un piano intercomunale che interessava 79 comuni, che furono poi ridotti al numero di 51. L'iniziativa del comune di Milano, forse non preceduta da una adeguata preparazione e da un'opera di sondaggio e di chiarificazione presso le amministrazioni comunali interessate, veniva ostacolata dall’opposizione della gran parte dei comuni inclusi nel comprensorio da pianificare. Il timore di soggiacere alla presunta strapotenza del comune capoluogo, il credere compromessa la propria autonomia deliberativa ed in generale, remora fondamentale, l’ignoranza dei limiti e dei presupposti dell’intervento, creava negli amministratori perplessità e diffidenza. Il particolare stato psicologico si concretava poi in una azione decisa e coordinata di molte amministrazioni comunali le quali, attraverso la lega dei comuni democratici, si opponevano all’iniziativa qualificandola antidemocratica e podestarile ed accusando l’amministrazione comunale di Milano di incapacità nell’assolvere il delicato compito; coerenti a questi princìpi, con delibere consiliari del dicembre 1955, alcuni comuni facevano opposizione formale dichiarando l’iniziativa “azione di grave pericolo all’autonomia locale”.

Una iniziativa che non va ignorata è pure quella assunta dal Partito Liberale il quale, con il presupposto di dare vita ad un ordinamento giuridico speciale per la provincia di Milano, ha indetto un convegno di studi (tenutosi nel marzo di quest’anno in Milano) onde formulare concrete proposte per la creazione della”provincia metropoli lombarda”. Il convegno ha avuto come risultato una mozione in cui si chiede allo stato una legge speciale che attribuisca all’amministrazione provinciale quella possibilità di coordinare il territorio impiegando i suoi cospicui mezzi al fine di permettere il progresso ordinato del territorio posto sotto la sua amministrazione.

I fatti citati non sono che un esempio del continuo sovrapporsi di iniziative, di discussioni che, per la ormai imprescindibile necessità di soluzione del rovente problema, anima studiosi, amministratori e politici. Anche in seno alla sezione lombarda dell’INU si è ampiamente dibattuto il problema ed è apparso quali e quanti siano gli ostacoli, le difficoltà, le incomprensioni unite alla nulla o quasi nulla sensibilità sociale che si’ frappongono ad una efficace ed indispensabile collaborazione.

La soluzione del pressante e indilazionabile problema del territorio milanese è purtroppo ancor oggi allo stato di pura aspirazione. Ora, prima di illustrare con I’ausilio di grafici predisposti l’indagine svolta sul territorio, giova un chiarimento: le ampie indagini che con rigore scientifico sono state condotte negli ultimi anni dal centro studi per la pianificazione territoriale, dall’amministrazione provinciale, dal comune di Milano, dall’Istituto case popolari nel campo specifico dell’abitazione, dalla Cassa di risparmio delle provincie lombarde e da altri enti, hanno sviscerato con molta chiarezza i molteplici aspetti nella vasta zona d’influenza della città; la visualizzazione dello stato di fatto che viene presentato in questa sede non ha la pretesa di anteporsi agli studi, con tanta profondità condotti dagli enti sopracitati, ne di scoprire cose nuove, ma unicamente lo scopo di prospettare con estrema semplificazione l’aspetto di alcuni fra i più caratterizzanti fenomeni.

L’indagine, che si è valsa della collaborazione degli allievi del corso di urbanistica della facoltà di architettura di Milano, il cui titolare è il professor Dodi, ed inoltre dell’apporto personale degli architetti Pellini e Villa e dei laureandi Cavallotti, Cosulich e Rizzi, è stata volutamente contenuta in un territorio limitato al fine di meglio approfondirne la conoscenza e non ha quindi per fine di individuare esattamente i limiti dell’intorno influenzato dalla città e di porre premesse esatte al1o schema orientativo per una pianificazione intercomunale del Milanese, ma ha fondamentalmente lo scopo di prospettare un metodo di analisi dei problemi e di formulare dei presupposti organizzativi ed operativi da estendersi poi su tutto il territorio che sarà successivamente individuato come comprensorio formante unità naturale.

L’indagine considera 28 comuni i quali avvolgendo il perimetro amministrativo della città hanno con essa una contiguità di confine, anche se nel settore nord l’economia del territorio, prevalentemente industriale, ha provocato un rapidissimo incremento demografico ed edilizio estendendo in un raggio di amplissimo sviluppo (e quindi fuori dal campo dell’indagine) la preoccupante congestione rilevata e visualizzata ai margini della città; al sud vi sono invece ben diverse condizioni, poiché, immediatamente a ridosso del limite edificato della città, la struttura economica del territorio è ancora a base agricola e la staticità edilizia è rotta unicamente in alcune limitate zone non sufficienti per altro a giustificarne una prossima radicale trasformazione. Ecco dunque la situazione che viene visualizzata nella sintesi dei suoi fenomeni fondamentali onde rendere possibile una rapida conoscenza dello stato di fatto; gli elementi considerati si riferiscono all’incremento demografico, all’attività della popolazione, alle tendenze di sviluppo degli insediamenti; è stata poi condotta un’indagine tendente ad individuare le condizioni di vita della popolazione e quindi si è rilevata la consistenza e lo stato delle abitazioni e delle attrezzature tecnico-sociali ed infine sono state sondate le interrelazioni multiple che determinano gli spostamenti della popolazione stessa nel territorio cercando poi di fissarne in linea di grande massima linee e zone di influenza.

Tratteggiata, spero in modo sufficientemente chiaro la realtà, una realtà che di giorno in giorno si fa più preoccupante, c’è da chiedersi come ovviare al dilagare della dinamica attività edificatoria che affianca le case alle fabbriche e le fabbriche alle scuole senza alcuna connessione logica e come sostituire al caos un ordine, se pur imperfetto, che risponda agli elementari principi di un vivere sereno. Qualcuno potrebbe rispondere in modo semplicistico proponendo di ampliare i confini comunali di Milano, come si è fatto nel passato, di includere ed assimilare tutti i comuni esterni direttamente investiti dal progredire della città. Estendere i principi organizzativi inseriti nel piano della città, equiparando quindi interessi, oneri e condizioni di vita del grande centro, teoricamente potrebbe apparire un intervento risolutivo; ma, pur ammettendo la sua attuabilità, per altro molto problematica, è veramente accettabile e giusto il principio enunciato? Credo di poterlo escludere per due motivi fondamentali: innanzitutto estendere i confini significa differire nel tempo la vera soluzione del problema, poiché in effetti i fenomeni della periferia e della contiguità non potrebbero che essere spostati nel tempo e nello spazio; in secondo luogo i problemi organizzativi ed amministrativi assumerebbero una tale vastità da condurre con la loro elefantiasi burocratica, nella ridda di interessi e resistenze attive e passive, ad un regime di crisi difficilmente superabile. Scartata l’ipotesi della successiva dilatazione dei confini amministrativi della città e premessa la conservazione delle autonomie comunali il problema si delinea nei suoi termini di intercomunalità.

Quali gli scopi che si vogliono perseguire ed in funzione di questi quali , i presupposti operativi? I fini perseguibili sono ovvii: si tratta da un lato, di evitare la tendenza all’inurbamento ed alla disordinata concentrazione intorno ai poli di attrazione, pericolosi focolai di caotici insediamenti, e d’altro lato, si tratta di arrestare nei limiti ancora oggi possibili il massiccio dilagare delle propaggini della città evitando la successione di saldature che ingigantiscono il tessuto amorfo dell’insediamento urbano. Inoltre, all’esterno del perimetro fisico della città, occorre orientare il problema della pianificazione verso la individuazione e determinazione di circoscrizioni dimensionabili in termini comunitari, caratterizzando in esse strutture economiche e sociali e localizzando centri produttivi tali da ricreare l’autosufficienza e condizioni di vita singola ed associativa che soddisfino pienamente alle esigenze umane e di conseguenza alleggeriscano prima, e tendano ad annullare poi, la pressione che si manifèsta sul capoluogo.

Con tali premesse è possibile raggiungere un risultato positivo operando nei limiti delle attuali amministrazioni comunali ed intendendo il problema intercomunale nei termini accennati dalla legge urbanistica e cioè il presupposto dell’equivalenza tra piano intercomunale e somma di piani comunali? Evidentemente no: le interrelazioni multiple rilevate e rilevabili, la configurazione a volte assurda dei limiti topografici, le dissimili, paradossali situazioni di comuni contermini porterebbero a considerare, per una possibile integrale soluzione, un’ipotesi che, oggi, può essere classificata astratta e visionaria, e cioè la ristrutturazione territoriale delle circoscrizioni amministrative; si potrebbe in tal modo aderire, per maggiore approssimazione, a più naturali unità, permettendo nella ricomposizione la formazione di nuclei comunitari; le comunità così individuate, articolate nella pianificazione totale del territorio ed aventi accentuata personalizzazione, o potranno essere coordinate nei loro multipli rapporti da un’autorità che non può essere identificata né nel comune capoluogo né in un’autorità regionale, oggi per altro inesistente, ma che ha da essere costituita su basi di rappresentanza locale.

Nessun significato avrebbero con questa ipotesi sia una pianificazione intercomunale, estesa a tutto il territorio di influenza, promossa, elaborata sostenuta nei suoi programmi esecutivi dal comune capoluogo, sia il realizzarsi di spontanei, sporadici consorzi volontari di qualche comune per la soluzione del problema nei presupposti e nei termini limitativi dell’arto 12 della legge urbanistica.

In funzione di quanto delineato in linea puramente programmatica, la possibilità di intervento in modo drastico e determinante con la conservazione integrale dell’ordinamento amministrativo attuale si presenta quindi alquanto dubbia. Una via di compromesso è però pur sempre possibile a condizione che da parte di tutti, enti, amministratori e politici, ci fossero unicità di programmi e di azioni, ed una cosciente radicata convinzione delle superiori e imprescindibili esigenze della collettività subordinando ad essi interessi ed egoismi. Aderendo ai concetti esposti si è tentato di impostare un indirizzo operativo per il territorio milanese, territorio che, se pure caratteristico nelle sue articolazioni e nella sua dinamica, non è molto dissimile da altri comprensori che presentano analogie costitutive quali, ad esempio, possono essere quelli di Bergamo o Como o Varese per citare solo situazioni della regione lombarda.

La formulazione dello schema operativo per il territorio milanese, si visualizza nel grafico presentato aderisce ai seguenti criteri:



a) definizione ed arresto del corpo fisico della città con assimilazione di nuclei dei comuni periferici destinati a saturazione, nuclei che ormai strettamente saldati e direttamente inseriti nel tessuto edificato non potrebbero essere pianificati in modo autonomo;

b) esclusione dai limiti del corpo fisico della città di quelle aliquote di territorio comunale che conservano e dovrebbero conservare la loro struttura rurale;

c) eliminando, nel corpo della città, la zona rurale, la città fisica avrà una speciale caratterizzazione di nucleo urbano definito ed omogeneo e il verde in essa contenuto sarà ad esclusivo servizio della città stessa e dei suoi abitanti ed avrà una sua speciale codificazione;

d) individuazione nelle maglie della pianificazione territoriale, orientata questa al coordinamento dei grandi problemi, di intorni comunitari tipizzati ed organizzati in funzione dell’economia del territorio (comunità agricole, miste, industriali) predisponendo per ciascuna di esse una strutturazione aderente alle esigenze specifiche dei vari insediamenti onde raggiungere un equilibrio fra aspirazioni e condizioni;

e) semplificazione, sul piano organizzativo generale nel territorio, delle interrelazioni e dei relativi problemi dei servizi generali (trasporti, impianti, attività produttive).

La diversa natura del territorio ha consigliato la caratterizzazione di tre tipi di comunità per ciascuna delle quali sono stati assunti valori dimensionali indicativi. Le comunità proposte sono: per il territorio vincolato ad economia rurale, comunità agricole di limitata entità numerica e di notevole estensione (condizionata questa a percorrenze sempre accessibili), da integrare con attività industriali al fine di raggiungere un equilibrio economico; per i territori prevalentemente urbanizzati e con economia totalmente industriale comunità accentrate, a insediamento unitario articolabile secondo la natura e le tendenze di sviluppo del nucleo originario; per i territori a struttura prevalentemente industriale, ove non esista un nucleo preminente e caratterizzato, comunità di costituzione con la fusione di più comuni prospettanti unicità di problemi. Le unità cosi schematicamente individuate oltre ad essere dotate di attrezzature comunitarie dovrebbero potenziare i centri di lavoro e produzione in modo adeguato alla loro entità e natura; le comunità agricole ospiteranno anche esse, come si è già detto, insediamenti industriali tali da garantire una autosufficienza.

Le comunità definite e dimensionate in funzione precisa di una organizzazione economica e sociale non esauriranno in se stesse tutti i problemi di pianificazione ma indubbiamente dovranno estendere i loro rapporti con altre comunità contigue onde affrontare situazioni di reciproco interesse in più vasti comprensori.

All’interno del corpo fisico della città i nuclei di altri comuni assimilati, ridimensionati ed integrati, manterranno, fintantoché sia possibile, una loro struttura autonoma benché ordinati e coordinati con il tessuto sociale , ed edilizio della città assimilante.

E individuato l’obbiettivo, vediamo ora quali strumenti e quali mezzi possono essere utilizzati (fra gli esistenti) e quali proponibili onde concretare un programma operativo per il territorio milanese; l’intervento potrebbe avvenire in due tempi con successione coordinata: il primo, che chiameremo intervento di emergenza, verrebbe tradotto in atto dagli enti esistenti, con provvedimenti possibili nell’ambito e nei limiti dei dispositivi di legge e delle specifiche attribuzioni; il secondo intervento, risolutivo, potrà essere reso valido ed operante con nuovi strumenti legislativi da enti ristrutturati o creati. L’operazione di emergenza ha lo scopo di creare le premesse di una più agevole e spontanea adesione alla fase successiva e potrebbe essere propriamente rapportata allo spianamento del terreno in funzione della successiva costruzione. I provvedimenti riguarderebbero innanzitutto l’adeguamento, aggiornamento ed unificazione dei regolamenti edilizi di tutti i comuni nel comprensorio di pianificazione intercomunale; poi l’introduzione, come necessaria integrazione delle norme edilizie, di indici di edificabilità da estendere come premessa orientativa a tutti i comuni: inoltre la perequazione nei comuni delle imposte comunali sui materiali e sulle costruzioni. Con speciali provvedimenti bisognerebbe ottenere il controllo e la regolamentazione in sede extracomunale delle immigrazioni: il fenomeno dell’immigrazione presenta infatti aspetti particolarmente preoccupanti, poiché i flussi migratori provenienti da disparate regioni d’Italia spostano i loro indici percentuali. di affluenze in funzione di condizioni particolari all’origine; il territorio milanese è ora soggetto a massicce migrazioni, vere colonie in formazione, provenienti dal Veneto, la cui corrente si sovrappone a quelle con provenienza dal meridione e dalle zone di spopolamento della regione lombarda. Occorre infine intervenire con assoluto rigore, applicando con larghezza interpretativa le norme che regolano gli insediamenti industriali nocivi ed incompatibili con la presenza di aggregati residenziali.

Come e da chi può essere espletato il compito di coordinare la pianificazione intercomunale nella zona di influenza della città? Ammesso ed affermato che le direttive distributive fondamentali ed i presupposti operativi debbano essere redatti dal piano territoriale di coordinamento (in fase di perfezionamento nella regione lombarda), quale ente può effettivamente agire nel campo specifico economico e sociale oltre che tecnico, affiancandosi o sovrapponendosi alle amministrazioni locali, negli inevitabili e complessi attriti, per raggiungere quell’equilibrio di mezzi e di azioni indispensabili per una giusta soluzione del problema?

Un ente costituito, la provincia, potrebbe essere indicato come il meglio qualificato al compito, ma le sue attribuzioni sono oggi limitate ed i confini storici, ed in particolare quelli della provincia di Milano, non contengono e non delimitano esattamente circoscrizioni omogenee in cui i reciproci rapporti consiglierebbero un vasto intervento di pianificazione intercomunale. D’altronde il prospettare una ristrutturazione di giurisdizione è quanto mai astratto e si aggiunga che una ristrutturazione organica con l’ampliamento delle attribuzioni, se pure risolutiva e affrontabile con legge speciale per il territorio milanese, potrebbe essere considerata da taluni un pericoloso precedente nell’organismo dello stato italiano. Le considerazioni espresse tenderebbero ad escludere l’individuazione della provincia, come unico organismo operativo, ente motore della pianificazione di zona.

Un altro indirizzo potrebbe orientare alla acquisizione, come premessa operativa, di consorzi volontari fra comuni, consorzi che potrebbero essere costituiti nel seno delle singole circoscrizioni comunitarie ove però sia ben radicato un convincimento di reciproca utilità, tale da rendere spontanei i raggruppamenti. Una tale eventualità è però assai problematica in quanto che gli ostacoli di ordine politico, economico, psicologico, inevitabili comunque, porterebbero ad eventuali parziali accordi che nel piano generale facilmente si tradurrebbero in fatti negativi per la collettività. Una forma più completa di consorzio potrebbe costituirsi fra comuni c amministrazione provinciale: in questo caso l’autorità dell’ente provincia avrebbe certamente peso determinante e funzione di equilibrio nei contrastanti interessi di singoli comuni. Come poi siano risolubili i problemi interessanti territori di altre provincie è un altro spinoso interrogativo.

In ultima analisi, però, anche un consorzio su tale base non potrebbe ottenere che risultati parziali, riferibili e circoscritti a problemi particolari. Negare validità agli organi costituiti o costituibili nell’ambito delle possibilità attuali senza contrapporre ad essi qualcosa che vi si sostituisca nell’arduo compito del coordinamento è svolgere un atto critico esclusivamente negativo. È ovvio, quindi, che si debba tentare di individuare l’organismo nuovo che abbia possibilità di efficacemente operare nel caso specifico del territorio milanese.

Ed ecco la proposta.

a) demandare al piano territoriale di coordinamento, reso operante nell’ambito di una costituita autonomia regionale, il compito di inquadrare il problema nei suoi termini, definire i limiti della intercomunalità, dettare i presupposti ordinativi comunitari;

b) promuovere la formazione spontanea (nel caso di difficoltà intervenire eventualmente d’autorità) di consorzi fra i comuni determinanti organismi comunitari;

c) costituire una autorità supercomunale, con rappresentanza paritetica di tutti i consorzi-comunità, a base federativa con formazione elettiva.

La superautorità così costituita, che naturalmente avrebbe la possibilità di includere rappresentanti di comuni anche facenti parte di altre provincie, dovrebbe avere, per la sua specifica struttura democratica di diretta rappresentanza, ampi poteri amministrativi e possibilità deliberante in campo finanziario; la sua sede naturale sarà evidentemente il capoluogo, i suoi compiti il coordinamento tecnico organizzativo ed economico delle intercomunalità svolto in collaborazione con gli organi della regione e dello stato; essa potrà avvalersi nello svolgere i suoi compiti delle attrezzature tecniche delle amministrazioni in essa rappresentate; ai consorzi comunitari sarà riconosciuta ampia autonomia nell’affrontare e risolvere i problemi interni, purché essi rispettino e si inquadrino negli interessi generali della collettività controllata dalla superautorità. Lascio ai giuristi il compito di valutare possibilità e validità della strumentazione embrionalmente prospettata.

Ora considerando le premesse, in rapporto ai presupposti operativi prospettati per il territorio milanese, le alternative espresse cadono e danno luogo ad altrettante precisazioni. Innanzitutto la pianificazione intercomunale, data l’ampia casistica e le disparità di situazioni, è riferibile a casi e situazioni particolari, se pur molteplici e di notevole estensione, e non può essere sistematico intervento organico da estendere a tutto il territorio regionale e quindi nazionale. La pianificazione intercomunale è valida in quanto essa sia inquadrata nel piano di coordinamento territoriale e da questo tragga quindi i presupposti formativi. È infine evidente la necessità di perfezionare gli strumenti legislativi e l’opportunità di predisporre leggi speciali per determinati territori; in tal caso una priorità spetterebbe indubbiamente al comprensorio del milanese.

La mia conclusione, si dirà, è utopistica; visionaria, irrealizzabile: può anche essere anche vero, d’altronde il coordinamento intercomunale non può essere discusso nelle sue ragioni di indispensabilità e di urgenza e forse l’affrontare il problema con strumenti nuovi, promuovendo l’intervento operativo su basi dettate da un ottimismo ad oltranza, può forse meglio scuotere il torpore, la diffidenza, la preconcetta ostilità : l’esempio di Bresso, esempio che è uno fra i molti che si potrebbero citare, indica come ci si avvii, se non si interviene con ben chiari programmi operativi, alla distruzione completa di un tessuto sociale compiendo il fatale processo verso la realizzazione di un magazzeno di uomini inserito in un complesso urbano costipato, amorfo, che non può essere città se per città intendiamo affermazione di civiltà.

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