[per motivi di spazio sono state omesse le note, salvo la prima f.b.]
III. Interesse pubblico e privato nei piani regolatori: la corruzione
Durante la campagna elettorale del 28 aprile 1963 mi accadde di ricevere, per posta, un singolare manifestino propagandistico del MSI di Gubbio. Era un manifestino polemico, contro il sig. B.F. (riporto le iniziali), segretario all’ufficio urbanistico di Gubbio, il quale avrebbe acquistato il 5 maggio 1962 una “minuscola” area fabbricabile di 270 metri quadrati, costruendovi una casa alta metri 9,40 e del volume di mc. 1666 (anziché alta metri 7,50 e di 480 mc., come il piano regolatore prescriveva). Traducendo in moneta spicciola, il MSI di Gubbio denunciava che il segretario dell’ufficio urbanistico aveva ottenuto un “beneficio” di circa 4 milioni, connivente l’amministrazione comunale.
A proposito di che, il manifestino sottolineava che nell’agosto 1961, un rappresentante del MSI nel consiglio comunale di Gubbio, aveva testualmente dichiarato: “Un piano regolatore, per sua natura, spesso decide a vantaggio od a svantaggio di interessi, anche di interessi di grande portata. Il nostro piano regolatore, sebbene allo stato attuale non può decidere di grandi interessi, portando in sé peculiari caratteristiche di sproporzione e di contrasto con la situazione economica locale, accentuerebbe il metodo della raccomandazione. Questo sistema potrehbe portare a decisioni non scevre di parzialità ed all’arbitrio”.
Che cosa ci sia di vero nelle accuse specifiche a B.F. non so, e non rientra nel mio compito appurarlo. Spetta ad altre autorità di accertare i reati. Mi pare tuttavia che il MSI di Gubbio abbia ragioni da vendere quando condanna il sistema dei piani regolatori così come sono previsti dalla legge urbanistica vigente 17 agosto 1942, n. 1150. Il guaio è che il MSI di Gubbio non si rende conto che la critica è diretta contro la legislazione fascista, che tuttavia una parte della classe dirigente italiana vuole ancora conservare. Come in altri settori (consorzi di bonifiche), il fascismo creò anche nell’urbanistica un sistema ibrido di compromesso che è all’origine di molti mali del paese: un sistema criticabile sotto il triplice aspetto urbanistico, economico e morale.
Ovviamente, la legge del 1942 era velleitaria. Si proponeva di conciliare le esigenze pubbliche e le esigenze private con un metodo che ha rivelato, fin dalla prima applicazione, intrinseca debolezza. Venti anni di sperimentazione dovrebbero bastare. E nuove strade dovrebbero essere battute per trovare un diverso sistema che non sacrifichi le esigenze della generalità ai pochissimi.
Le esigenze pubbliche chiedono che i nuovi quartieri nascano armoniosi, che si raggiunga un equilibrio tra la superficie destinata agli spazi liberi e quella destinata alle costruzioni: e negli spazi liberi, tra la superficie destinata ai parchi ed ai giardini pubblici e quella destinata alle strade ed alle piazze; e, quanto alle costruzioni, tra la superficie utilizzata per l’edilizia privata e quella per gli uffici pubblici; ed ancora, tra l’edilizia popolare e quella di lusso.
Le esigenze private, invece, si possono sintetizzare nella corsa di ogni proprietario di suolo a guadagnare dalla utilizzazione intensiva del proprio “fazzoletto” un massimo di quattrini, e nella tendenza delle società immobiliari a sostituirsi ai primitivi proprietari agricoli del suolo ponendo in essere tutti i possibili accorgimenti pur di sfruttare le leggi al fine di valorizzare sul mercato delle aree i metri quadrati posseduti.
Le esigenze generali e individuali sono, purtroppo, quasi sempre in contrasto. La legge del 1942 credette di risolvere salomonicamente il problema. Pur ammettendo la facoltà, di cui difficilmente i comuni hanno voluto e potuto fare uso, di espropriare entro le zone di espansione “le aree inedificate e quelle su cui insistono costruzioni che siano in contrasto con la destinazione di zona ovvero abbiano carattere provvisorio” (norma rivoluzionaria in teoria, ma che la struttura politica fascista della società italiana del tempo ridusse a risibile mezzo giuridico di “copertura”), la legge fece perno sulla spontanea subordinazione dei proprietari privati del suolo alle direttive pubblicistiche del piano regolatore. Mantenne la proprietà privata dei suoli, ma impose alla medesima ogni sorta di vincoli, oneri, obblighi. Santa ingenuità! In pratica, sono stati i privati a modellare i piani regolatori secondo le proprie esigenze, o in moltissimi casi ad impedirne la nascita.
Come avrebbero potuto, e come potrebbero, i proprietari privati dei suoli rimanere, infatti, indifferenti dinnanzi al procedimento di adozione, e di approvazione, dei piani regolatori, dal momento che i piani regolatori dispongono (in nome di interessi pubblici) autoritativamente dei beni privati (tanto da ridurre a zero il reddito di alcuni e da elevare a mille il reddito di altri)? Come sarebbe possibile che i proprietari dei suoli, specie in un paese come l’Italia di tendenza guicciardiniana più che machiavellica, amante del “particulare”, se ne stessero cheti cheti senza darsi da fare per favorire la nascita di piani regolatori di comodo in cui prevalga l’interesse “particulare”? e la cui spesa sia pagata esclusivamente, poi, dalla collettività [1]?
Per dirla in breve, le cose vanno a un dipresso così.
Un esempio. Il piano regolatore prevede zone panoramiche ed archeologiche. In tal caso, i proprietari conservano la proprietà, ma spesso non potrebbero assolutamente costruire. Ecco, dunque, una categoria di proprietari che si sente danneggiata, e si agita per mutare il piano, al fine di costruire, almeno limitatamente. In alcuni casi, nelle stesse zone si ottiene di poter costruire a villini signorili o si permette la destinazione a parco privato. Il passaggio dal divieto assoluto al villino signorile significa un guadagno da parte del privato di miliardi di lire. Ne sanno qualcosa i proprietari di suoli a Roma, sull’Appia Antica. Onde lo svilupparsi di infinite manovre “di piano regolatore” per passare dal divieto assoluto a divieti limitati.
Un altro esempio. Il piano regolatore prevede aree di uso pubblico, aree sottoposte a speciali servitù, aree da riservare a comunicazioni stradali, ad esigenze igieniche, a scuole, a chiese, a servizi sociali. Quale proprietario privato dovrebbe essere entusiasta tanto da farsi espropriare per queste innegabili esigenze generali, mediante un indennizzo che, per quanto alto, viene, giustamente, considerato irrisorio rispetto al, guadagno che il vicino, a pochi metri di distanza, più fortunato ricava dalla vendita del suolo per l’edilizia residenziale? Ecco l’origine di un’altra gara, per sottrarsi all'esproprio per pubblica utilità e per inserirsi nella sfera di utilizzazione di edilizia residenziale.
Tutti vogliono dunque sfruttare il proprio “fazzoletto” di terra per ottenere aree edificatorie per l’edilizia privata.
Ma anche i fortunati proprietari ai quali è consentita l’utilizzazione non costituiscono un tutto unico indifferenziato.
Secondo l’art. 13 della legge del 1942 il piano regolatore generale è attuato a mezzo di piani particolareggiati di esecuzione, ai quali soli spetta determinare “le masse e le altezze delle costruzioni lungo le principali strade e piazze”. Ognuno comprende che il valore economico (cosiddetto di mercato) dell’area è direttamente proporzionale alla caratteristica ed al tipo di edificazione assentita dal piano regolatore. Se è prevista una edificazione intensiva, il valore dei suoli sale alle stelle. Se l’edificazione è estensiva il valore dei suoli è modesto.
La legge del 1942 non può, dunque, garantire un onesto meccanismo di libera negoziazione delle aree. Tutto è subordinato anzi alla discrezionale valutazione della pubblica Amministrazione. Di modo che, mettiamoci nei panni dei proprietari di aree.
Ciascuno di loro sa che dipende solo dalla decisione dell’autorità la valorizzazione di un suolo e la svalutazione di un altro. Sperate che ci sia da parte loro una tranquilla remissione alla pubblica decisione? Non vi pare ottimistico questo sentimento?
Sono in ballo milioni, o miliardi, di lire. Ciascuno si ingegna per passare da una categoria all’altra. Ed adopera tutte le armi.
L’arma più usuale è, forse, la corruzione. Se, mollando sottobanco dieci milioni di lire ne possono guadagnare cinquanta, molti sono disposti a vincere gli scrupoli e ad accettare, come per stato di necessità, il sistema dell’illecito arricchimento proprio ed altrui.
Alcuni mesi or sono, per il piano regolatore di Roma, un distinto signore mi chiese udienza per farsi spiegare la procedura, tuttora in corso, di approvazione. Mi confidò la cifra che avrebbe dovuto sborsare perché fosse cambiata la destinazione di zona del suo terreno. Mi chiese come comportarsi, ne volle rivelare il nome di colui che si sarebbe prestato per mutare, con un semplice tratto di matita, al comune di Roma, una destinazione capace di fruttare centinaia di milioni. Lo misi inutilmente in relazione con il presidente di sezione del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici. Mi chiesi però quanti onesti cittadini potrebbero essersi trovati di fronte al terribile dilemma: accettare un ricatto ed avvantaggiarsene o rifiutarlo e non avere armi legali di difesa.
In verità, in un grande centro, nessuno conosce precisamente dove è la corruzione. La corruzione, a parlare franco, è, prima di tutto, nel sistema urbanistico vigente che affida ad un segno grafico di un disegnatore la potestà, con un errore consapevole o non, di arricchire o di impoverire il singolo cittadino.
Non si deve escludere che, anche senza corruzione, altri fattori determinino tale arricchimento, o anche impoverimento. L’Italia è un paese ove la passione politica assume di frequente aspetti morbosi. Se il consiglio comunale è democristiano, può, darsi che siano .favoriti, anche senza corruzione, i democristiani e perseguitati i comunisti ed i missini. Se il consiglio comunale è frontista, i perseguitati possono essere i democristiani e favoriti comunisti e socialisti.
Perché - non bisogna dimenticarlo - la decisione è, per sua natura, amministrativa, cioè discrezionale. E nessuno può assicurare, finche il sistema non cambia, obiettività ed imparzialità.
Quale urbanista può, infatti, giovarsi nel presente sistema e stato delle cose di argomentazioni incontestabili per consigliare che l’espansione abbia luogo, in una città, prevalentemente a nord-ovest anziché a sud-est, e non viceversa? eppure, basta qualche volta, non dirò cambiare direzione, ma, rettificare leggermente la proporzione dell’ espansione per edificare la fortuna degli uni e preparare la rovina degli altri.
Anche all’interno di una zona, quale urbanista è in grado di dimostrare che è più giusto che la strada si svolga cinquanta metri più ad est, e che ad ovest sorga il grattacielo, e non viceversa? che il grattacielo sia situato ad est e che la strada si svolga ad ovest?
Nella costruzione della città, giocano fattori artistici, vale a dire soggettivi. In buona fede l’urbanista può consigliare parecchi modi di disposizione delle opere pubbliche e delle costruzioni private. Tutto è opinabile sul piano artistico.
L’essenziale è che la necessaria opinabilità artistica non si traduca in miliardi di lire nelle tasche degli uni ed in proteste sulle bocche degli altri.
Né si dica che si possono esperire rimedi giurisdizionali. In Italia, il Consiglio di Stato, a mezzo di una quasi centenaria prassi, ha “costruito” (per integrare il giudizio sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi) “l’eccesso di potere”. Anche il Consiglio di Stato può però solo raramente intervenire per correggere quelle sperequazioni tra i proprietari a cui conduce l’attuazione dei piani regolatori sotto l’impero della legge del 1942. E quando il Consiglio di Stato interviene, non sempre viene giudicato, a sua volta, generosamente dalla pubblica opinione, perché dando ragione agli uni deve necessariamente dare torto agli altri. E naturalmente fioriscono, anche sulle decisioni del Consiglio di Stato, le leggende acrimoniose.
Soltanto una legge urbanistica che preveda l’esproprio obbligatorio e totale delle aree e delle zone di espansione a favore del comune, come fase intermedia che precede la urbanizzazione delle zone stesse, e che prelude alla cessione di una aliquota delle aree ai cittadini per l’edilizia privata, può impedire che si perpetui la gara di corruzione e di favoritismi che accompagna, fatalmente, la redazione, l’adozione, l’approvazione, e persino la pubblicazione e l’esecuzione dei piani regolatori.
L’esproprio obbligatorio per tutte queste aree porrà tutti i proprietari in condizione di uguaglianza. I proprietari il cui suolo sarà destinato alla costruzione di una strada saranno trattati, quanto ad indennizzo, come coloro il cui suolo sarà destinato al grattacielo: scompariranno le disparità di trattamento dipendenti dalla soggettiva impostazione artistica degli urbanisti, nel caso migliore, e dal favoritismo e dalla corruzione nel caso peggiore.
L’eguaglianza effettiva tra i proprietari, a sua volta, produrrà due altri benefici effetti.
In primo luogo, la procedura dei piani regolatori, diventerà più agile e snella: anzi, finalmente, i piani regolatori troveranno attuazione.
Perché, questa amara verità va detta e scritta: la lentezza con la quale i piani regolatori ( non) vengono adottati -lentezza che si misura in uno o più lustri per ciascuna delle nostre città -non è frutto, come qualcuno ama credere, solo della scarsa diligenza di taluni amministratori, ma soprattutto delle lotte di interessi che si scatenano in regime privatistico di utilizzazione di aree fabbricabili.
In presenza di queste lotte - individuali e di gruppo - le maggioranze consiliari non di rado si sgretolano. E quando anche rimangono compatte, l’iter di approvazione è ritardato dalle preoccupazioni della burocrazia statale di trovarsi di fronte a soprusi elettoralistici o politici: dai contrasti che si trasferiscono dalle aule consiliari ai giornali, ed agli uffici ministeriali.
La stessa approvazione del piano regolatore generale, tuttavia, non assicura un bel nulla. La lotta di interessi si ripropone in sede di piano particolareggiato di esecuzione. Le opposizioni fioccano a migliaia. Ed è difficile definirle, perché ciascuno a suo modo ha ragione. Dappertutto vi è una valutazione urbanistica soggettiva che si traduce in decine di milioni di lire di guadagni o di perdite. II fenomeno più grave è la violazione dei piani regolatori e dei regolamenti edilizi già approvati. Come dichiarai alla Camera, il prof. Valle, presidente della sezione urbanistica del Consiglio Superiore, mi ha testualmente scritto che “la generalità e l’ampiezza progressivamente assunte dalle violazioni dei piani regolatori e dei regolamenti edilizi, ed in genere di ogni altro strumento similare, hanno assunto un aspetto di tale gravità da configurare un vero e proprio fenomeno di frode ai danni della collettività, nel cui interesse va predisposta la disciplina urbanistica”.
E così, da un lato i piani regolatori non riescono a nascere, o nascono rachitici, o nascondono storture ed ingiustizie gravissime; dall’altro, i piani regolatori, appena approvati, sono corretti da varianti (ed i regolamenti edilizi sono attuati attraverso le deroghe) quando si seguono i sistemi della legalità! Una inchiesta parlamentare potrebbe documentare peraltro un fenomeno più comune : le violazioni impunite (ed impunibili, aggiungo io, con l’attuale giurisprudenza) dei piani regolatori e dei regolamenti edilizi approvati ...
I liberali che sono sostenitori della “moralizzazione” me lo consentano: la “moralizzazione” della vita politica italiana passa anche attraverso l’abolizione dei vastissimi poteri discrezionali concessi ai comuni dalla legge del 1942; abolizione che - desidero ripetere - non può attuarsi se non attraverso l’introduzione del sistema dell’obbligo dell’esproprio e della parità di trattamento economico per tutti i proprietari di aree fabbricabili.
Si svuoteranno le campagne amministrative condotte all’insegna dei grandi interessi privati di piano regolatore. Si indeboliranno poderosi strumenti di sottogoverno di sindaci e di assessori. Si freneranno maggioranze faziose che utilizzano i piani regolatori a fini di partito.
Si dice che con l’esproprio aumenterà la discrezionalità: non è vero. Oggi si può espropriare, o non. Domani si dovrebbe espropriare.
In secondo luogo sarà finalmente possibile, o almeno più facile, anteporre agli interessi dei singoli gli interessi generali della città.
Non c’è bisogno di ricorrere ad urbanisti gi tendenze marxiste del nostro tempo per apprendere che la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli o medi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni a mezzo delle maggiori altezze dei fabbricati e che si pongono in netto antagonismo con i cittadini non interessati alla speculazione, i quali chiedono spazio per i veicoli ed aria per le persone. E quindi riduzione al massimo della densità fabbricativa.
Scriveva giustamente Gustavo Giovannoni in una sua opera classica del 1931: “che alla concezione della città sviluppantesi in verticale concezione “morbosa” determinata dall’errore civico e dall’interesse individualistico “deve contrapporsi” la più equilibrata concezione latina della città, non esageratamente accentrata, né soverchiamente decentrata, formata da case che sarebbe desiderabile non superassero i cinque piani, compreso il terreno”. Giovannoni aggiungeva: “E abbia questa nostra città ritmo di vie e di piazze, piccoli giardini inseriti nella trama edilizia in luogo dei parchi colossali; ed eviti la formazione dell’unico quartiere di affari, ma sviluppi a preferenza parecchi centri in luogo di uno soltanto: adotti una precisa e chiara zonizzazione di tipi fabbricativi ma non escluda nei riguardi della destinazione i quartieri misti per l’abitazione e gli affari”.
La citazione non è casuale. Anche studiosi valorosi di sinistra riconoscono che il Giovannoni è stato “il maestro riconosciuto o ripudiato di una intera generazione di architetti “romani” e che nei suoi scritti si ritrovano una cultura ed una serietà non comuni”. Tuttavia debbo riconoscere anche io che le affermazioni del Giovannoni rimasero lettera morta, forse per effetto del prevalente indirizzo privatistico della pianificazione urbanistica.
Il compromesso che accompagna i piani regolatori redatti secondo la legge del 1942 sacrifica sempre il verde pubblico ed il verde privato, la circolazione stradale egli impianti sportivi: financo l’aria e la luce. Gli è che gli interessi privati trovano difensori accaniti nei singoli proprietari, e nelle grandi società immobiliari, mentre gli interessi pubblici, che dovrebbero essere difesi da consiglieri comunali e da assessori, trovano, sì e no, schierati gruppi di intellettuali a mo’ di profeti disarmati.
Nell’aureo libro di Camillo Sitte L’Arte di costruire le città pubblicato nel 1889 (come si vede, mi riferisco ad autori antichi) si attribuisce giustamente all’aumento di valore dei terreni una delle cause principali della decadenza estetica ed architettonica delle nostre città. “I prezzi elevati dei terreni - scrive Sitte - spingono i costruttori alla loro massima utilizzazione possibile; è questa la ragione per cui molti dei più attraenti motivi dell’architettura cadono a poco a poco in disuso ed ogni lotto fabbricabile dà luogo ad un blocco squadrato”.
Un altro grande classico, Hans Bernoulli, scrisse una pagina così suggestiva, sull’assurdo di un’urbanistica che si sviluppi consentendo l’anarchica utilizzazione del suolo da parte di ciascun proprietario privato, che non voglio privare il lettore della lettura di un brano tra i più significativi: “La nuova città, i nuovi quartieri vengono tracciati sopra un territorio che, solcato da decenni dall’aratro, è suddiviso in centinaia e centinaia di campi, lunghi e stretti, come meglio conviene alla coltivazione e che, suddivisi d’altra parte per effetto di molteplici eredità, tirano via per tutta lunghezza, addirittura rettilinei sopra alture e depressioni. Timidamente scorrono i sentieri attraverso questo succedersi di campi, vera rete di straducole che si perde nel verde.
“Ogni campo è accuratamente segnato da pietre di confine, poiché ognuno di essi appartiene ad un diverso proprietario. Talvolta queste proprietà si mescolano insieme, ossia si intersecano l’una nell’altra, come se un fanciullo, nella gioia o nell’ira del giuoco, le avesse scartocciate e poi gettate alla rinfusa. Questa infinita suddivisione non sembra proficua nemmeno per l’economia rurale: si pensi che molto spesso una proprietà è suddivisa in minuscoli poderi a forma di strisce e di triangoli, dieci, venti, magari cinquanta in uno stesso Comune. Dove, poi, le successioni ereditarie hanno determinato forzatamente ulteriori suddivisioni di terreni, si trovano poderetti tagliuzzati addirittura in centinaia di listarelle. Quale faticoso e costoso procedimento per districare un simile groviglio e per poter giungere a qualche risultato! Non ci sarebbe da meravigliarsi se occorresse un centinaio di anni. E sarebbe, poi, somma ironia, che, giunti alla fine, si dovesse ricominciare da capo.
“Sopra un territorio così saccheggiato e frastagliato che già di per se rende difficoltosa una proficua attività agraria, dovrebbero sorgere gli artistici quartieri delle nostre città, o dovrebbero comunque svilupparsi ed estendersi le vecchie città! Ad ogni spanna di terreno che si voglia fabbricare si incappa in queste reti, fra le quali ci si deve dibattere con tutte le astuzie degli avvocati”.
E così conclude Bernoulli: “La nuova città, i nuovi quartieri abbisognano di territorio; debbono liberamente disporre del terreno su cui sorgeranno, liberi e disimpegnati per poter erigersi e svilupparsi secondo le migliori norme. Perché il suolo corrisponda ad un compito così nuovo e di così diversa qualità, è necessario rimuovere con sicurezza e con tranquillità le suddivisioni attuali per dar luogo a quella nuova”.
Per scendere dalle altezze delle citazioni alla triste realtà di ogni giorno, vorrei chiedere: chi spera mai di moderare, nella nostra grande e bella città di Roma, con l’attuale regime urbanistico, la spinta sfrenata a costruire dappertutto, senza risparmio del verde, anche negli angoli più incantevoli?
Ci sono le leggi. Ma chi pon mano ad esse? e chi è capace di ordinare demolizioni di costruzioni abusive?
Mi pare che tra i pochissimi esempi memorabili vi è il ridimensionamento della villetta della D C alla Camilluccia, che destò a suo tempo tanto scalpore!
Nel mio discorso alla Camera 6 posi in rilievo che all’EUR è stato possibile destinare al verde e agli spazi pubblici il 47 per cento dell’area. E si capisce! L’EUR è un quartiere nato dall’acquisto integrale, da parte di un ente, pubblico, di 430 ettari di terreno. Il commissario dell’ente non ha dovuto perciò rendere conto ad alcuno: ha potuto destinare a parchi e giardini pubblici il 21 per cento; alle strade ed alle piazze il 26 per cento.
Immaginiamo, ora, che l’urbanizzazione e lottizzazione dell’EUR fossero avvenute senza l’intervento di un ente pubblico. Chi può supporre che tanta parte del suolo sarebbe stata destinata a spazi liberi? il confronto tra l’EUR e Monte Mario, per gli sprovveduti di nozioni urbanistiche, potrebbe essere salutare.
Come ho cercato di dimostrare, scopo della legge urbanistica non dovrebbe essere di punire o sanzionare i proprietari terrieri, ma di costruire città ordinate e armoniche. Coloro che rispolverano, come rimedio contro la speculazione, l’aggiornamento o il miglioramento della legge fiscale sul plusvalore delle aree fabbricabili mostrano di capire poco dei mali di cui soffre l’urbanistica italiana. Non si tratta tanto di colpire l’iniquo arricchimento quanto di impedire che l’ansia di speculare sulle aree fabbricabili condizioni lo sviluppo delle città.
Lo Stato, secondo i sostenitori della taumaturgia della legge fiscale, dovrebbe consentire la speculazione sulle aree e poi diventare compartecipe del lucro dei privati attraverso la tassazione. Per lo Stato si tratterebbe, nella migliore ipotesi, di nulla di più che una partita di giro: tutto quanto ricaverebbe dalla imposizione fiscale dovrebbe essere restituito attraverso contributi per sopperire alle maggiori esigenze del rincaro dei costi degli alloggi.
Per i privati il discorso è diverso, specie in un paese il cui regime fiscale non è un capolavoro di equità ne di giustizia. Qualunque legge lascerebbe largo margine a guadagni ingiusti degli speculatori. A tacere di altri inconvenienti, rimarrebbe fondamentale la lotta di interessi per preformare il piano regolatore secondo la logica della speculazione. Gli inconvenienti lamentati in questo capitolo sussisterebbero tutti, con qualche rara eccezione.
Si è fatto un gran parlare, di bel nuovo, dei cosiddetti comparti come alternativa all’esproprio. Il comune dovrebbe intimare ai privati che costituiscono con il loro territorio un determinato comprensorio, di compiere essi stessi, entro un termine prefissato, le opere di urbanistica necessarie. Se i privati non rispondessero entro il termine stabilito alla intimazione, l’ente pubblico procederebbe all’esproprio.
Dei comparti si parla da molti anni. Gustavo Giovannoni, già menzionato, li chiedeva nella sua classica opera del 1931 come una riforma giuridica che, secondo lui, sarebbe valsa forse “più e meglio dei metodi estremi dell’esproprio e del divieto”. Egli prevedeva consorzi obbligatoriamente costituiti con un rapporto di cointeressenza e di collaborazione tra il comune e i privati.
Per quanto mi concerne, ritengo che sia da approvare la proposta della Commissione ministeriale Sullo di creare i comparti nei centri storico-artistici ed ambientali per attuare il risanamento conservativo. In questi casi, il comparto comprenderebbe sia le costruzioni da trasformare o da risanare secondo speciali prescrizioni sia le aree inedificate.
È giusto, in tali casi, affidarsi primariamente all’azione dei proprietari cosicché il comune promuova l’esproprio solo se i proprietari risultino inadempienti nell’attuare il progetto di risanamento.
Può esaminarsi con comprensione ogni proposta di comparto nelle aree edificate. Si comprende assai meno la introduzione di questo sistema complicato e difficile nelle zone di espansione.
Chi ha paragonato il comparto al consorzio di bonifica ha visto giusto. Vi è di più. I comparti trasferirebbero nell’urbanistica tutti i difetti, senza i pregi, dei consorzi di bonifica nell’agricoltura.
Voglio chiudere con una citazione di fonte non sospetta ed estranea all’urbanistica. I grandi giornali di informazione si sono a suo tempo ampiamente diffusi sulle dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia, Carli, che erano state preannunziate come apocalittiche per la nostra economia.
I grandi giornali di informazione hanno però tagliato, o persino taciuto, un passo che riflette la legge urbanistica e che desidero sottoporre ai lettori:
“Ancorché non rientri nelle nostre responsabilità specifiche di prospettare e di analizzare l’insieme dei costi umani sempre più elevati che la mancanza di un razionale assetto urbanistico infligge alla comunità, e che ormai tendono a riflettersi negli stessi costi aziendali sotto le forme di maggiori salari, di contrazione degli orari di lavoro e di una minore efficienza al posto di lavoro, ci sembra doveroso sottolineare che i fenomeni locali di esaltazione dei valori fondiari, specialmente caratteristici delle grandi città, costituiscono motivo di preoccupazione sia per i loro effetti sulla distribuzione della ricchezza, sia per l’incidenza anche psicologica sull’equilibrio monetario. Ma senza la compiuta nozione delle linee di un piano degli insediamenti umani non sembra che gli organi di controllo del credito potrebbero arrogarsi il potere di decidere autonomamente di assetti nei quali si riflette una sintesi di scelte non ancora compiute”.
Nota: su Eddyburg è disponibile il testo di Hans Bernoulli citato da Sullo (f.b.)
[1] Alla Camera, nella seduta del 23 ottobre 1962, mi diffusi molto su questi inconvenienti. E vale la pena di ricordare quello che dissi:
“È proprio questa diversità di trattamento che è all’origine sociologica vera sia delle remore alla elaborazione dei piani, sia delle resistenze delle amministrazioni ad esigere il rispetto delle regole urbanistiche.
Tale incidenza si avverte in due fasi distinte. La più nota, ed anzi normalmente l’unica considerata, è quella che si verifica in sede di attuazione dei piani regolatori. È ovvio, e quasi naturale, che i proprietari tendano a violare i vilcoli allo sfruttamento edilizio o a ridurne comunque la portata, e correlativamente ad ampliare la loro facoltà. Di fronte ad interessi così rilevanti gli uffici amministrativi si trovano disarmati: le leggi forniscono ad essi, è vero, importanti poteri a carattere sanzionatorio, ma poiché è impossibile tutto vedere e tutto controllare, l'esercizio di questi poteri si tradurrebbe a sua volta in una disparità di trattamento. E l’esperienza in effetti dimostra che non vi è alcun piano regolatore che abbia ricevuto un’attuazione totalmente conforme al suo contenuto normativo.
Ancora più grave, anche perché sotto molti profili incontrollabili, è l’incidenza che si produce nella fase di elaborazione del piano. Poiché il piano può impoverire od arricchire, e può arricchire in misura così sensibilmente diversa, è anche qui comprensibile che ciascun proprietario, e massimamente quelli che posseggono grandi estensioni di aree nelle zone di sviluppo, tenti di far coincidere le disposizioni favorevoli del piano con il proprio terreno e quelle sfavorevoli con il terreno del vicino. È soprattutto durante la formazione del piano che gli interessi si scontrano nel modo più violento. La cronaca ci fa conoscere l’imponenza di questi conflitti attraverso circostanze indirette ma cariche di significato: l'elaborazione dei piani si prolunga per anni; le commissioni nominate da una amministrazione vengono sostituite dalle amministrazioni successive; in alcune città, nelle quali la struttura politica è più debole, la lotta tende a spostarsi perfino sul piano elettorale; in molti casi gli interessi si coalizzano per impedire che comunque un piano si formi e per far scadere i termini di salvaguardia. Gli urbanisti in queste condizioni, si trovano investiti di un potere quasi assoluto di favorire alcuni piuttosto che altri, ciò che altera la loro stessa funzione. Questo arbitraggio tra opposti interessi non consente infatti di distinguere fin dove una misura è ispirata dall'esclusivo interesse pubblico o costituisce la traduzione in termini urbanistici di interessi privati. Meno noto è che un potere quasi ugualmente esteso, seppure limitato ai particolari, finisce per spettare ai tecnici, geometri e disegnatori, che materialmente compilano le tavole dei piani regolatori: gli urbanisti determinano i criteri, ma sono i disegnatori che li traducono in segni grafici, e una loro semplice dimenticanza o un errore che purtroppo talvolta non è inconsapevole può in pochi secondi trasformare radicalmente il valore di un suolo.
Il conflitto degli interessi privati, come l’esperienza insegna, non solo pregiudica dunque l’attuazione dei piani regolatori, ma soprattutto ostacola la loro formazione. Si hanno così piani non fatti, o fatti con eccessiva lentezza, o troppo tardi o, peggio, fatti male.
Una pianificazione di cui non si possa avere la certezza che sia totalmente estranea agli interessi privati è infatti un male anche maggiore della stessa assenza di pianificazione, perché tramuta la soluzione di un conflitto settoriale e contingente in una prescrizione normativa che condizionerà lo sviluppo di una città per decenni, se non per secoli”.