Continua e si espande sempre di più in Regione Lombardia, l’azione (politico-culturale) di sistematico smantellamento di ogni legge che contenga, assuma o proponga qualsiasi forma, concetto, metodo o strumento di effettiva e reale pianificazione e programmazione urbanistica e territoriale.
Dopo la vera e propria “controriforma” attuata nel 2005 con l’emanazione della nuova Legge per il governo del territorio n. 12 (ma il “legislatore”, evidentemente non ancora soddisfatto della sua opera, ne sta proponendo una terza modifica, decisamente peggiorativa) si arriva ora alla proposta di abrogazione e rifacimento completo della legge n. 86 “Piano generale delle aree protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale” nata nel lontano 1983.
Si tratta di una delle più importanti e fondamentali leggi regionali che, oltre al suo corretto impianto metodologico e di piano ha consentito di produrre in tutti questi anni una vasta e significativa serie di risultati concreti in materia di formazione e di istituzione di parchi regionali e aree protette tali da rappresentare ben il 26% dell’intera superficie territoriale regionale.
Perché rifare la legge 86/1983 ?
Perché? Quali sono i motivi e le ragioni di fondo? Quali le necessità? Quale l’urgenza? Quali le insufficienze e i limiti della 86/1983 tali da richiederne una abrogazione e una riformulazione?
Sono questi i principali interrogativi ai quali la Regione dovrebbe saper rispondere prima di presentare un progetto di abrogazione e rifacimento di una delle più importanti e storiche - e positivamente praticate e attuate - leggi regionali.
Purtroppo non è così. La relazione che accompagna il disegno di legge non risponde pienamente e con la necessaria chiarezza a queste necessarie domande preliminari alle quali non risponde neppure una lettura attenta del testo del ddl.
Le ragioni richiamate dalla relazione (adeguamento a leggi nazionali e a direttive CEE) avrebbero potuto essere recepite benissimo anche attraverso una integrazione del testo vigente. (Cosa già avvenuta, a suo tempo, per quanto riguarda la legge nazionale 394/1991 “Legge quadro sulle aree protette”).
É vero che la relazione cita anche diversi lavori e studi, effettuati in anni recenti, in merito alla questione delle aree protette e della loro valorizzazione, svolti da Regione, IREF, IReR, e workout vari, dai quali avrebbero potuto emergere idee e proposte per una modifica o un rifacimento della legge vigente, ma è anche vero che da tutto questo materiale, semplicemente “citato”, la relazione non sa fare emergere nulla di preciso e di propositivo, capace di definire e motivare “esplicitamente” un pensiero ed un giudizio in merito alle eventuali modifiche, più o meno radicali, da apportare alla legge vigente ma, soprattutto, riconosciuto ufficialmente, condiviso e fatto “proprio” dalla Giunta proponente.
Tutti gli altri obiettivi richiamati dal testo della relazione non fanno che ricalcare i soliti obiettivi generici della Regione Lombardia attuale (innovazione, nuovi strumenti negoziali, sussidiarietà, sviluppo economico, semplificazione delle procedure di pianificazione, ecc., ecc,.) buoni per tutti gli usi e per tutte le leggi). Obiettivi che contengono in parte anche qualche elemento capace di creare qualche preoccupazione, come, ad esempio, dove si auspica “la transizione da un regime di tutela e conservazione” (che sarebbe quello, detto falsamente, della 86/83) “ad un regime che confermi sempre più la volontà di considerare le aree protette quali fattori essenziali di promozione e sviluppo del territorio lombardo”. Sapendo bene cosa normalmente si intende per “sviluppo”!!
Assolutamente condivisibile l’obiettivo di creare una “rete ecologica” a migliore integrazione delle aree protette, (questa è una vera, e importante, novità) anche se, come si dirà più avanti, sussistono perplessità riguardo le modalità proposte dal ddl per la loro definizione. Anche se, occorre ricordare, l’obiettivo di introdurre una rete ecologica di connessione delle aree protette, non comporta di per sé, assolutamente, la necessità di adottare una nuova legge sulle aree protette.
Che fine fa il piano generale delle aree protette avviato dalla 86/83?
La legge 86/83, è bene ricordare, aveva un duplice obiettivo : quello di costituire la prima legge generale regionale organica sulle aree protette, ma anche quello di definire un piano generale della aree protette per la Regione Lombardia. ( Finalità principale, richiamata in tutta evidenza sin dall’inizio dallo stesso titolo della legge) Questa era, infatti, la funzione del noto Allegato 1 che accompagnava la legge e che definiva, anche mediante una planimetria allegata, un vero e proprio piano strategico regionale. Allegato con valore di piano-programma che, come noto, ha costituito il quadro di riferimento costante che ha guidato, a partire dal 1983, tutta l’azione regionale di promozione e istituzione dei parchi e delle aree protette. Piano strategico di conseguenza che, in tutti gli anni della vigenza della 86/83 ha saputo operare e produrre, nonostante le numerose manipolazioni e modifiche subite negli anni dalla legge, quegli importanti e positivi risultati ed effetti dei quali la Regione spesso, a ragione, si vanta.
Ora con la abrogazione della legge ogni riferimento a questo piano, e a questa fase storica di pianificazione e di risultati conseguiti, esistenti ed operanti, scompare del tutto o si dissolve in una fitta nebbia. Mentre dal nuovo testo proposto si potrebbe intendere che si voglia iniziare una nuova stagione di pianificazione, come se in Regione Lombardia si partisse da un anno zero e come se non si fosse mai avviato un programma e un processo concreto di piano.
É del tutto evidente che la Regione non può far finta, soprattutto in materia di parchi e di aree protette, che si parta da un anno zero, sia per quanto riguarda la pianificazione delle aree che l’istituzione e l’esistenza operante dei parchi e dei loro enti gestori. (E’ questo un vizio molto diffuso in Lombardia, dove spesso, specialmente per ogni legge che si occupi di territorio, si finge sempre di partire da un anno zero, dimenticando tutto delle azioni, dei fatti, delle esperienze e dei processi che l’hanno preceduta).
Si può supporre che il legislatore,ipotizzando l’introduzione di un nuovo piano regionale (PRAP) pensi di poter dare per sottinteso, senza doverne dare alcuna motivazione, l’abbandono del piano generale della 86/83. Ma ciò non sembra né corretto né accettabile, soprattutto perché si tratta di affrontare e normare il passaggio da un regime di piano – che ha dato risultati concreti e operanti - ad un altro regime di piano sia pur differito.( Si noti che il termine e il concetto di piano viene eliminato –per furore del tutto ideologico - dallo stesso titolo della nuova legge, della quale non si riesce a capire se voglia avere, o non voglia avere, significato anche di legge di piano e non solo per la istituzione e la gestione).
Con l’abrogazione della 83/1986 ci si viene a trovare di fronte a una transizione e a un passaggio complesso di non poco conto dei quali, sia la legge proposta che anche la relazione avrebbero dovuto affrontare almeno sotto il profilo normativo o, quanto meno, fornendo una spiegazione dell’organizzazione e della complessità del passaggio. La nuova legge dovrebbe spiegare con grande chiarezza la portata pratica e operativa di questa transizione - che potrebbe, tra l’altro, anche protrarsi per lungo tempo – rispondendo alle domande di fondo : cosa succede alle aree protette già istituite? Verranno recepite dal PRAP? I piani dei parchi esistenti sono congelati sino alla approvazione del PRAP? Come li dovrà rispettare e recepire il PRAP? Con quali criteri e modalità? Si considera ancora valida la strategia delineata dal piano generale delineato dalla 86/1983? Anche se modificato dalla Legge regionale n. 4 del 14 febbraio 1994? Questa strategia deve essere rispettata o continuata dal PRAP?
È evidentemente insufficiente cavarsela semplicemente, come fa il ddl, affermando che gli enti gestori esistenti dovranno adeguarsi alla nuova legge e ai risultati del PRAP.
Si consideri inoltre che a complicare ulteriormente il quadro futuro delle aree protette il ddl, all’art. 35, prevede di poter emanare, con delibera di Giunta, un piano di riordino degli enti gestori delle aree protette esistenti, “accorpandole per singoli gruppi omogenei in altrettanti enti gestori”.
Ambiguità relativa alla natura e alla finalità della legge proposta
La concezione e la formulazione di questo testo apre e solleva non pochi dubbi circa la natura e la finalità propria della legge e sulla sua collocazione nel quadro delle funzioni regionali e della loro organizzazione delle competenze interne, in particolare per quanto riguarda funzioni e competenze della pianificazione territoriale. Mentre per la 86/83 non poteva sussistere alcun dubbio sulla sua finalità principale perché era, come appariva chiaramente dal suo titolo, “Piano generale delle aree protette.Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle di particolare rilevanza naturale e ambientale” e costituiva pertanto una legge che rappresentava anche un vero e proprio piano, della nuova legge proposta non si può dire altrettanto. Essa infatti, già dal titolo, non accenna ad alcuna funzione di piano, ma afferma di essere una legge di “ Norme per l’istituzione e la gestione delle aree protette e la tutela della biodiversità regionale”. La pianificazione viene rimandata, differita al futuro PRAP che però viene definito (art.3) come “atto fondamentale di indirizzo per la gestione e la pianificazione tecnico-finanziaria” nonché “atto di orientamento della pianificazione e gestione degli enti gestori delle aree protette”.
Cosa significa tutto questo? Che il PRAP è solo un atto di orientamento per altri futuri piani a venire, in tempi successivi? Che non ci sarà più un vero e proprio piano generale delle aree protette con valore di piano territoriale?
É lecito allora dire che questa legge rappresenta un rifacimento o un aggiornamento della 86/83? O non si sta invece andando in ben altra direzione?
Il Piano regionale delle aree protette (PRAP) (art. 3)
I dubbi di fondo qui sopra sollevati, si ripropongono e si approfondiscono ulteriormente anche ad una lettura approfondita dell’art. 3 del ddl.
Data la natura indefinita di questo PRAP è innanzitutto difficile capire quale rapporto e relazione “territoriale” possa avere con il il Piano Territoriale Regionale (PTR). A questo proposito il comma 8 dell’art. 3 afferma che il PRAP è elaborato in coerenza con gli obiettivi individuati nel Piano Territoriale Regionale” ma afferma anche, contemporaneamente, che “il PRAP è recepito nel PTR”. Come la si mette? Il PRAP precede o segue al PTR? E se il PTR recedesse il PRAP come potrebbe recepirlo?
Forse sarebbe bene che la Regione Lombardia incominciasse a pensare alla assurdità di tenere divise e separate la pianificazione delle aree protette dalla pianificazione territoriale!
Riconfermato che dalla definizione dei contenuti del PRAP non è facile capire quale sia l’efficacia e la portata “territoriale” di questo piano (è un piano di indirizzi e obiettivi o ha anche valore di piano territoriale?) conviene segnalare anche altri due punti: perché mai il PRAP dovrebbe occuparsi di censire le risorse energetiche ? (comma 3, sub d) ? e perché mai il Piano dovrebbe essere aggiornato annualmente?
Preoccupante è poi anche l’intrusione della Giunta definita dal comma 7.
Non si perde l’occasione per dare un altro schiaffo alla pianificazione provinciale e sminuirne la portata , affermando che le Province partecipano alla formazione del PRAP mediante un semplice “rapporto” da inviare alla Giunta regionale (comma 5) e non mediante l’unico e corretto metodo pianificatorio – peraltro già contenuto nell’impianto della l.r. 12/2005 - che sarebbe quello di una partecipazione diretta e paritetica tramite un confronto a partire dai contenuti e dalle proposte contenuti nei PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale) elaborato da ogni Provincia.
Il Documento strategico e il Piano territoriale di Coordinamento del Parco regionale (art. 7)
La soluzione avanzata per la pianificazione dei parchi regionali appare abbastanza chiara ma anche complicata dalla sua non necessaria articolazione in due documenti : il documento strategico e il PTC (piano territoriale in senso vero e proprio). Questa divisione – o raddoppio – appare del tutto ingiustificato sia metodologicamente, che proceduralmente. Si pensi alla faticosa e lunga procedura che si verrebbe a introdurre secondo quanto proposto dall’art.7 : il documento strategico, elaborato distintamente e anticipatamente rispetto al PTC (come si possono separare le strategie dal piano?), dovrebbe essere coerente con un altro documento strategico ovvero il PRAP, ed essere sottoposto a un parere obbligatorio da parte dell Giunta prima di poter essere adottato dall’ente gestore!
La Rete ecologica regionale (RER) (art. 27)
É assolutamente condivisibile, come già detto, l’obiettivo di creare una “rete ecologica” a migliore integrazione ecologico-territoriale delle aree protette. Questo costituirebbe un vero e sostanziale passo in avanti relativamente ai contenuti e alla metodologia della pianificazione territoriale-ambientale del quale si sente la necessità, soprattutto in una Regione configurata territorialmente come la Lombardia.
Si ritiene però che da un punto di vista della pianificazione territoriale sarebbe più corretto affidare il compito di individuare e definire questa rete al Piano Territoriale Regionale, in quanto strumento proprio e specifico per una visione completa e una organizzazione complessiva del territorio regionale, anziché affidarla, come propone l’art. 27, ad un generico (ed astratto) elaborato cartografico.
Anche la pianificazione provinciale (PTCP) partecipa, se non esplicitamente, di fatto, alla definizione di questa rete ecologica e, per tanto dovrebbe e potrebbe partecipare direttamente alla individuazione di questa rete.
I parchi locali di interesse sovracomunale ( PLIS)
Perché il ddl si dimentica di definire o ridefinire nuovamente il PLIS (divenuto nel frattempo il più importante e diffuso strumento per la pianificazione dei parchi sovracomunali ed anche la tipologia di area protetta più caldeggiata e sostenuta dalla stessa Regione) alla luce dei nuovi criteri della legge, limitandosi semplicemente a richiamarne i generici contenuti e la generica definizione all’art. 2, sub e)?
Sembrerebbe del tutto insufficiente rinviare un tema così importante e delicato alle deliberazioni della Giunta Regionale del 1992, 1999 e 2001. Deliberazioni tra l’altro emanate a legge 86/1983 vigente. Ma anche la stessa definizione del PLIS si trova nella abrogata 86/1983.
Preoccupante quanto affermato dall’art. 35 del ddl, dove si afferma che “nelle more di approvazione del PRAP, le linee guida per il riconoscimento dei PLIS sono approvate dalla Giunta regionale. Norma che apre un conflitto diretto con le Province.Va ricordato infatti che la pianificazione provinciale “può inoltre individuare gli ambiti territoriali in cui risulti opportuna l’istituzione di parchi locali di interesse sovracomunale” ( l.r. 12/2005 , art. 15, comma 6).
La trasformazione degli Enti gestori (art. 36)
Il tema al quale la proposta dà più importanza e che viene presentato come quello più innovativo è quello della trasformazione obbligatoria degli attuali enti di gestione nella nuova forma di “enti di diritto pubblico”.Sembra che la Giunta veda nella attuale forma di gestione dei parchi (consortile) la principale causa delle difficoltà, delle disfunzioni e degli scarsi risultati sin qui raggiunti.
Questa proposta, certamente di non facile e rapida realizzazione ma che, molto probabilmente potrebbe essere anche opportuna, andrebbe però spiegata e giustificata in modo ben più ampio di quanto non faccia la relazione.
La nuova figura del Direttore
Il ddl propone la creazione di una nuova figura di Direttore del Parco (figura non ignota e ampiamente già praticata dai Parchi esistenti) con la dichiarata intenzione (si veda la relazione) di ammodernare e rendere più funzionale, con la creazione di una figura che dovrebbe essere anche “manageriale” e non solo tecnica, il funzionamento degli enti gestori dei Parchi. Tant’è vero che a questa nuova figura viene anche attribuita la possibilità di svolgere direttamente le funzioni del consiglio di amministrazione, sostituendosi ad esso.(Opzione che non piacerà, molto probabilmente, ai politici)
L’idea potrebbe essere anche buona se si potessero dare risposte sensate e accettabili a tutti i seguenti interrogativi.
Dato che il mercato non offre facilmente figure professionali ( se non nel caso di rare figure di lunga e provata esperienza) capaci di svolgere questo compito tecnico-amministrativo, sarà possibile selezionarli attraverso un concorso ed una selezione regionale e il loro inserimento in un apposito albo regionale? (Finiranno tutti, come è facile prevedere, per appartenere a Comunione e Liberazione??).
Cosa significa che “saranno designati” dalla Giunta al momento della formazione degli enti gestori e che la Giunta ne definisce “ i requisiti per l’iscrizione”? Cosa potranno decidere autonomamente gli enti gestori? E’ questa la sussidiarietà?
Che fine fa il Parco Agricolo Sud Milano?
É questo forse il maggior aspetto misterioso dell’orientamento del disegno della Giunta al quale, né la relazione né il ddl, consentono di rispondere.
Una sola cosa è chiara: il Parco Agricolo sud Milano dovrà ridefinirsi come ente gestore, al pari di altri Parchi regionali, secondo le disposizioni di cui alla Sezione I del Capo I del Titolo II della legge(art. 36). Per tutto il resto mistero.
Si rifletta anche sul fatto che dalla “tipologia” dei parchi regionali (art.2) è anche scomparsa la tipologia del Parco agricolo. Non è questo un problema insuperabile: il Parco potrebbe essere ricollocato accettabilmente tra i “parchi regionali” ( in modo invece non accettabile tra i parchi locali di interesse sovracomunale) purché se ne rispettino la complessità e la specificità metropolitana e la caratteristica irrinunciabile di parco agricolo.
Ma allora, altro mistero, perché la legge non abroga la l.r. 24 del 1990? Lo farà a suo tempo? E nel frattempo cosa accade?
Conclusioni
Dalle numerose lacune e incongruenze rilevate e denunciate, dagli innumerevoli interrogativi cui la legge non sa rispondere, appare del tutto evidente che ci si trova di fronte ad un progetto di legge da respingere risolutamente e non emendabile.
Anche il processo di pianificazione delineato – ammesso che si parli realmente di pianificazione e non di altro – appare molto più complicato e molto più faticoso di quello sperimentato sino ad oggi.
Tutto il teso è finalizzato, più che ad affrontare e migliorare i temi della individuazione, della protezione e della pianificazione delle aree protette, a individuare e definire spazi, momenti e procedure nei quali la Regione, tramite la sua Giunta, possa intervenire direttamente, e anche pesantemente, in momenti chiave nella gestione dei parchi e delle aree protette. Traspare quasi ad ogni articolo un’ansia, una volontà di “mettere le mani” sui parchi e sulle aree protette. Una sospetta e preoccupante azione di “invadenza” e di ritaglio di spazi di intervento riservati alla Giunta non necessaria e non richiesta, che contraddice ogni corretto rapporto tra Regione ed autonomie locali e rende ridicola ogni retorica dichiarazione di rispetto del principio della sussidiarietà.
P.S. Dal livello e dal clima politico-culturale che emerge e si evidenzia dalla analisi di questo progetto di legge nato dalla Giunta della Regione Lombardia, è facile anche capire da quale “mefitica palude” sia emerso il “mostro” del famoso art. 13 bis “ Disposizioni di raccordo tra PGT e PTC di parchi regionali” – soprannominato subito legge ammazza parchi - presentato per integrare la legge 12/2005.
Milano, 13 gennaio 2008
Nei giorni scorsi ho partecipato a un convegno di Italia nostra a Pescara sulla proposta di legge urbanistica dell’Abruzzo. Un disegno di legge inverosimile per sciatteria e pressappochismo non disgiunti da velleitari aneliti alla modernità. “La sistematica espositiva generale (e delle singole parti) raggiunge presumibilmente i massimi livelli sinora visti, nelle leggi e nelle proposte di legge statali e regionali degli ultimi lustri, nei quali peraltro pare essersi scatenata quasi una gara al fare peggio, di disordine inutilmente complicato (non di complessità, che può essere una necessità, e financo un pregio)”: comincia così uno degli ultimi scritti di Gigi Scano, Noterelle sul disegno di legge urbanistica della Regione Abruzzo. Per cominciare, la proposta abruzzese elenca gli enti parco fra i soggetti che concorrono “alla formazione delle scelte di pianificazione territoriale e urbanistica” (art. 3, c. 2): enti parco, i cui piani, ricorda Gigi, “sostituiscono” – come prescrive la legge 394/1991 – ogni altro strumento di pianificazione. E allora, come fanno i piani dei parchi a concorrere alle scelte di altri piani che non esistono più in quanto sostituiti proprio dai piani dei parchi?
Nelle Noterelle, Gigi rinviene “miriadi” di figure pianificatorie scompaginate e stravaganti. Ci sono i piani di contenuto generale, i piani di settore, i piani attuativi e i programmi integrati di intervento; il quadro regionale di riferimento, il piano paesaggistico regionale, i piani e i programmi di settore; il documento preliminare, il piano territoriale di coordinamento, il piano dell’armatura territoriale. Compare anche il regolamento urbanistico ed edilizio, mai ben definito. Non mancano la pianificazione strategica né la pianificazione urbanistica consensuale e il confronto concorrenziale. Un ruolo assolutamente preminente il disegno di legge lo affida alla carta dei luoghi e dei paesaggi, suggestiva definizione per un atto anch’esso d’incerta identità, basti dire che è approvato dalla giunta regionale (art. 7, c. 8) ma non è neppure elencato fra gli strumenti attraverso i quali “la Regione svolge attività di programmazione e di pianificazione” (art. 4, c. 2), spetta invece alla Regione un’inedita “definizione” della carta (art. 4, c. 3).
Eppure, alla carta dei luoghi e dei paesaggi sembra che sia affidata una funzione basilare nella costruzione delle scelte di piano. È un meccanismo perverso affidato, in primo luogo, all’articolazione del territorio regionale in sistemi: naturali, seminaturali, agricoli, insediativi (urbani, periurbani, eccetera) (art. 6, c. 4); poi la carta classifica i suoli regionali in: urbanizzati, urbani programmati, riservati all’armatura urbana, non urbanizzati (art. 7, c. 1). Attraverso “specifiche analisi ricognitive” ai suoli prima classificati vengono quindi individuati diversi “areali” distinti per caratteri qualitativi (di valore, di rischio, di vincolo, di conflittualità, di abbandono e di degrado, di frattura, di continuità ecologica) (art. 7, c. 2). Per quanto posso capire, sulla mappa derivante dalle categorie e dai parametri valutativi elencati sopra si sovrappongono infine i due fondamentali regimi d’intervento della “conservazione” e della “trasformazione” (art. 9, c. 1), “in relazione alla loro compatibilità con i luoghi ed i paesaggi” (art. 9, c. 3).
Mi fermo qui nell’esplorazione di un testo “la cui logica – riprendo Gigi Scano – è di ardua, se non impossibile percepibilità”. Ma siamo troppo esperti per non capire che dietro a tanta confusione si annidano terribili tranelli che apparentano il disegno di legge abruzzese alle peggiori esperienze della Lombardia, e non solo. Con l’aggravante che almeno nell’urbanistica di destra, gli obiettivi di cementificazione a oltranza sono espliciti, senza sotterfugi. Qui invece comandano l’ipocrisia e la dissimulazione, a cominciare dal “contenimento del consumo del suolo” enunciato per primo fra i principi fondamentali sella legge (art. 1, c.1), ma senza alcun impegno concreto che lo renda credibile. Manca qualsivoglia norma di tutela effettiva dello spazio agricolo, di controllo dell’edilizia rurale abitativa e degli annessi. Si propone l’estensione universale della perequazione, “prevedendo il trasferimento tra i diversi distretti dei diritti immobiliari derivanti dai regimi urbanistici” (art.19, c. 4), dispositivo che non può non tradursi in una dissennata estensione del suolo edificabile. All’identico risultato mirano, evidentemente, i regimi generali d’intervento che ammettono la “trasformazione dei caratteri naturalistici, ambientali-paesaggistici […] al fine di adeguare gli stessi alle finalità della presente legge, anche per la previsione di insediamenti di nuovo impianto” (art. 9, c. 1, citato).
C’è dell’altro. Articolo 7, comma 7: “La Regione può proporre in sede di conferenza di pianificazione l’integrazione e/o la derubricazione [corsivo mio] di vincoli in applicazione di leggi nazionali e/o regionali”. È una norma di evidente, inaudita gravità, sicuramente illegittima, ma comunque rivelatrice che la cultura del legislatore abruzzese non è diversa da quella degli energumeni del cemento armato, per dirla con Antonio Cederna. Infine, ecco l’accordo di programma in variante agli strumenti urbanistici (art. 35, cc. 10, 11,12). Com’è noto, l’accordo di programma così inteso ha determinato, con il ricorso a nuovi istituti d’intervento (programmi di riqualificazione e di recupero, prusst, eccetera) e grazie anche a cospicui finanziamenti pubblici, la rovina dell’urbanistica italiana e il discredito della pianificazione urbanistica. Al centro sinistra della Regione Abruzzo va bene così?
Il convegno di Italia nostra di Pescara si è concluso con un giudizio seccamente negativo, riconoscendo che il disegno di legge urbanistica abruzzese non è emendabile. Mi auguro che l’assessore regionale all’urbanistica Franco Caramanico, appartenente alla sinistra democratica, che lo ha firmato, sappia fare marcia indietro.
Descrizione della rovina - Palazzi, conventi, palazzine, ville, villini, pagode e piscine - I pezzi dei ruderi usati come materiale da costruzione - Un principio estetico originale: l'ambientamento garantito dalle vecchie tegole - Iniziative gentili della Società Generale Immobíliare.
Sulla via Appia Antica, fuori Porta San Sebastiano, c'è una «stazione di servizio» per automobili, mal situata, brutta, ridicola. Mal situata, perché appena cinquanta metri prima del Domine quo vadis?, cioè al bivio con la via Ardeatina, dove l'Appia si restringe e l'incrocio è pericoloso. Brutta, perché arieggia a portico di vecchia fattoria con le sue tre arcate, la tettoia coperta da tegole e qualche sparuta pianta verde in vasi di terracotta, nella pretesa di non stonare con «l'ambiente círcostante». Ridicola, perché nel suo muro, a edificazione del turista, sono incastrati frammenti antichi di marmo, di iscrizioni greche e latine, sarcofagi, cornici architettoniche: altri frammenti antichi di marmo e terracotta sono esposti in una vetrina tra i bidoni dell'olio, e ancora marmi, terrecotte, pezzi di stemmi medioevali, unti e macchiati, sono collocati sopra ai distributori di benzina. Tutte queste «antichità», in parte false, in parte comprate in via del Babuino, in parte rubate sulla via stessa, oltre a costituire un degno prologo per chi si accinge a visitare in macchina i restí di quella che fu la «regina delle vie», hanno un grande valore simbolíco: oggi l'antico è tollerato solo se, fatto a pezzi insignificanti, può essere ridotto a ornamento, a fronzolo, a servo sciocco delle «esigenze della vita moderna», del «traffico», del «dinamísmo del nostro tempo», insomma di quello che dicono «progresso». È quello che sta succedendo a tutta la via Appia, destinata entro pochissimi anni a scomparire, per diventare un rigagnolo in mezzo alla nuova città che sta sorgendo sopra e intorno ad essa, grazie a una banda di speculatori, alla previdenza dei tecnici del Comune di Roma, all'inerzia degli organi ministeriali, teoricamente prepostí alla tutela del nostro patrimonio archeologico, paesistico, monumentale.
Ammírato il distributore di benzina, voltiamo a destra per un sentiero in salita: fatta qualche decina di metri, restiamo esterrefatti. Abbiamo davanti a noi tutta la zona tra le vie Appia e Ardeatina da una parte e la via Cristoforo Colombo dall'altra, quasi un grande rettangolo di un chilometro per seicento metri: quello che l'anno scorso era ancora un pezzo di campagna romana, un dolce irregolare avvallamento a prati, alberi, orti, con qualche vecchio casale, è oggi un deserto d'inferno, ad altipiani e abissi, sconvolto dalle macchine scavatrici, che hanno distrutto alberi, prati e orti, che mangiano la terra intorno ai vecchi casali, lasciandoli sospesi in cima ad assurdi pinnacoli. Si sta sistemando il terreno, si stanno scavando le fondamenta di un nuovo quartiere di Roma extra moenia, esteso quanto villa Borghese.
In prossimità della via Appia e dell'Ardeatina sorgerà una fascia di «villini» e di «villini signorili» a quattro piani, quindi una fascia di «palazzine» a cinque e sei piani, quindi verso la via Crístoforo Colombo un ampio agglomerato a costruzione intensiva, con edifici di almeno otto piani, per un'altezza massima di ventotto metri. A parte i consueti abusi, come l'aumento dei piani grazie ai finti seminterrati, gli attici «arretrati», ecc., il nuovo quartiere incomberà ad altezze scalate sulla via Appia, divenuta misero budello ai suoi piedi, tanto più che essa in quel tratto è a quota 16-18, mentre il terreno del nuovo quartiere arriva a quota 30-40. Qualche esigua e frammentaria zona di rispetto «assoluto» (un centinaio di metri sulla carta) e di rispetto «con particolarilimitazioni», servirà soltanto ad attestare l'ipocrisia dei progettisti.
Il nuovo quartiere sarà naturalmente attraversato da strade. Una strada larga venti metri, partita dalla piazza dei Navigatori sulla via Cristoforo Colombo, dove sta la truce mole dell'ex «albergo di massa», oggi casa-prigione popolare, attraverserà il nuovo quartiere in diagonale, scavalcherà la via Appía quasi all'altezza del Domine quo vadis? e andrà a finire al quartiere Appio-Latino. Una seconda strada, di circonvallazione, larga cinquanta metri, partita dalla via Ostiense, scavalcherà la via Appia quasi all'altezza del Domine quo vadis? e arriverà all'Appia Nuova. Una terza strada, proveniente presumibilmente dall'E 42, scavalcherà la via Appia quasi all'altezza del Domine quo vadis?, dove si unirà alle prime due. Altre strade minori taglieranno il nuovo quartiere recando nuova congestione al Domine quo vadis?: la scelta dell'illustre chiesina come centro di confluenza di tanto traffico è davvero una trovata ammirevole. Infine, un'altra strada di circonvallazione lungo la ferrovia Roma-Pisa, di cui già esiste un tratto (via Cilicia), ma che si è dovuta arrestare di fronte alla scoperta dei ragguardevoli resti di un mausoleo, scavalcherà la via Appia a metà strada tra il Domine quo vadis? e la Porta San Sebastíano. Chi arriverà a Roma dalla via Appia si meraviglierà di entrare in galleria.
Guardiamoci attorno: Roma col suo più bel tratto di mura è ancora, per il momento, davanti a noi. Ma già sulla via Cristoforo Colombo si alzano i sinistri scheletri di due smisurati casamenti a 10-11 piani (cooperative villa Madama e Montecitorio), destinati a case economiche per deputati, senatori e funzionari del Senato e del Parlamento: tutta la larghissima via, in origine destinata ad essere strada-parco, diventerà una strada-corridoio, costruita intensivamente con edifici colossali su entrambi i lati, anzi, un'apposita commissione ne garantirà il «carattere monumentale» (!). Più lontano, tutta la zona ai piedi del Bastione del Sangallo rigurgita di villini di freschissima data costruiti, ad opera di varie cooperative edilizie, per abitazione di funzionari delle Belle Arti, che si sono auto-autorízzati a infischiarsi delle zone di rispetto: il «via» alle costruzioni abusive appena sotto alle Mura fu dato, poco prima della guerra, dalla villa di Eugenio Gualdi, presidente della Società Generale Immobíliare. Guardiamo infine al di là dell'Appia, al di là della valle dell'Acquataccio e della Caffarella: grotteschi edifici sono sorti in via Cilicia, la via Latina è scomparsa sotto un mucchio confuso di nuove costruzioni: tutta la zona tra la ferrovia RomaPisa e la via Latina sarà costruita intensivamente, e gran parte della bella conca della Caffarella costruita a «villini» (o come altro saranno chiamati), per oltre mezzo chilometro.
Nella relazione che il 21 ottobre 1951 la Giunta romana tenne al Consiglio comunale, intorno al nuovo piano regolatore, si diceva, in tono saggio e mellifluo, che Roma deve espandersi verso i Colli e verso il mare: tra queste due direttrici, sarebbe rimasto intatto «il grande cuneo della zona archeologica (che), a cavallo dell'Appia Antica, si spinge fino al cuore della città, al Campidoglio, come una riposante fascia di verde, dalla quale emergeranno, testimonianza perenne di storia e civiltà, i resti dei gloriosi monumenti», ecc. ecc. Farebbe un'opera buona chi volesse spiegarci perché mai, in meno di due anni, il cuneo archeologico e la riposante fascia di verde si sono trasformati in cuneo, fascia e baluardo di cemento armato.
Pochi metri oltre la basilica di San Sebastiano, sulla nostra destra, il muro della via è abbattuto: un centinaio di metri in là, nella bella campagna, ecco il primo esempio della nuova edilizia che distruggerà per sempre l'integrità monumentale e paesistica di tutta la via Appia. Sei villini son già pronti, arancione, gialli e rossi, strani nella pianta e nell'alzato, a mezzo tra la piccola stazione ferroviaria, la vecchia fattoria e la casina della bambola; tetti, terrazze, verande, scale esterne si accostano, si susseguono, si incastrano ad angoli retti, ottusi, acuti: vediamo finti comignoli di forma indescrivibile, torrette cilindriche, loggiati ad arcate, balconcini a tettoia sorrettida travi di legno, pensiline sorrette da pilastri di tufo, finestre lunghe e corte, alte e basse, strette e larghe, rettangolari e quadrate, barbacani ed oblò. Retrocediamo in fretta, e superiamo la tomba di Cecilia Metella.
Comincia il tratto più splendido e più famoso della via Appia. Al quarto chilometro, di fronte alla casa in cui Pio IX nel 1853 si fermò a sperimentare il telegrafo (elettrico relatori experi-undo), entriamo nei campi alla nostra sinistra. Ecco, a un centinaio di metri, un altro gruppo di ville (tutto il vasto terreno è già lottizzato, tra la via Appia e la via dell'Acquasanta), giallognole, dal tetto a spioventi, con alti comignoli: nonostante che portici e finestre siano «moderni», queste ville hanno qualcosa di vecchio, di cui non sappiamo per ora renderci ragione. Ci inoltriamo ancora nella campagna, fin che arriviamo sul ciglio di una vecchia cava di selce, e per poco non vi precipitiamo dalla meraviglia: una decina di metri sotto ai nostri piedi ci appare una vasta macchia di un azzurro accecante, una grande piscina privata con fondo in mosaico di vetro, orlo ondulato di cemento come le fosse degli orsi, toboga, trampolino, ombrelloni gialli, rossi e blu.
Tornati sulla via e fatto un centinaio di passi, pieghiamo a sinistra in una nuova strada asfaltata: eccoci di fronte a un grande edificio in costruzione, arrivato al primo piano. A terra vediamo un mucchio di tegole, e comprendiamo quanto prima ci aveva sorpreso: l'aria di «antico» delle case, che a decine e a centinaia vanno sorgendo sulla via Appia, deriva in gran parte dall'impiego di tegole usate; un muratore che sta lavandosi i piedi in una vasca dove sono a bagno i mattoni ci spiega che ciò avviene per legge. Con simili espedienti i responsabili si mettono a posto la coscienza.
Guardiamo meglio l'edificio in costruzione, un'altra grande sorpresa ci aspetta: per un paio di metri di altezza il muro esterno è rustico, fatto di pietre chiare e scure, ma tutte, di nuovo, hanno qualcosa di «antico», molte addirittura sono già coperte di muschio. C'era da aspettarselo: per tutta la sua ampiezza il muro è composto di pietre antiche, rubate alla viaAppia e ai suoi monumenti. Giriamo intorno all'edificio, tra cataste di mattoni e pozzi di calce, e contiamo, sull'erba, una dozzina di grossi mucchi (carico di altrettanti camion) di pietre antiche rubate alla via Appia e ai suoi monumenti: sono blocchi di selce del pavimento antico della via, inconfondibili perla forma e l'impronta delle carreggiate, sono grossi pezzi di marmo lunense e di pietra albana tolti al rivestimento dei sepolcri, sono (chi non ci crede vada a verificare) grossi frammenti di statue.
Non basta: tutti i muretti e relativi pilastri d'ingresso, che sono stati costruiti per centinaia di metri lungo la via Appia, a delimitazione delle nuove proprietà, sono tutti fatti con pietre antiche rubate alla via Appia e ai suoi monumentí; tra le pietre antiche vediamo ancora iscrizioni, frammenti di sarcofagi, di ornati architettonici, di colonne, basi e capitelli, frantumi di selce dell'antico pavimento. Un secolo fa l'archeologo Luigi Canina eresse lungo la via delle piccole pareti in cotto e con gusto eccellente vi murò i frammenti antichi che man mano veniva scoprendo: da anni, un giorno dopo l'altro, questi frammenti vengono smurati, trafugati, venduti, usati come materiale di costruzione.
Torniamo sull'Appia: un cartello ci informa che «42.000 metri quadrati di terreno, eventualmente divisibili» sono in vendita; passiamo davanti a una nuova villa (n. 201, «Sola beatitudo»: vedremo tra un paio d'anni dove sarà andata a finire la beata solitudo), e arriviamo al n. 203: ci balza innanzi la massa informe, orrenda della Pia Casa Santa Rosa, ormai famosa per lo scandalo che suscitò un paio di anni fa. Se non ricordiamo male, l'edificio, progettato a tre piani, venne autorizzato dal Consiglio Superiore del Ministero della Pubblica Istruzione «per deferenza alla benefica istituzione» (bel principio urbanistico). Nell'entusiasmo dei lavori l'architetto (Spina Alberto) pensò bene di aggiungere un quarto piano: contro il quarto piano insorsero la Commissione provinciale per le bellezze naturali, panoramiche e paesístiche, insorse la Soprintendenza ai Monumenti, insorse lo stesso ConsiglioSuperiore, che ne ordinò «l'immediata demolizione». L'ordine rimase naturalmente lettera morta, capitò invece che i fondi stanziati venissero anzitempo esauriti, tanto che si sperò vivamente che la Pia Casa rimanesse incompiuta: ma intervenne la Provvidenza, e oggi la Pia Casa è in funzione, con tutti i suoi quattro piani e il suo macabro intonaco violetto. È psicologicamente interessante ricordare che l'architetto Spina si difese dalle critiche, non solo paragonando il suo capolavoro alle badie di Farfa, Casamari e Subiaco e al monastero di Montecassino, ma sostenendo che la via Appia, lungi dall'esserne danneggiata, ci guadagnava.
Andiamo avanti ancora, osservando i monumenti a testa bassa, per non scoprire altri scempi. Ma i monumenti stessi sono ridotti a letamai, sommersi da immondizie di ogni genere: sembra che per il bilancio del Comune di Roma (o della Soprintendenza alle Antichità? o di quella ai Monumenti?) un paio di spazzini per la via Appia siano un carico eccessivo. Gíungiamo all'altezza di Tor Carbone: qui sulla destra dell'Appia dovrebbe sorgere, grazie alla Società Immobiliare, un grande quartiere di villini di lusso, collegato con una strada all'E 42. Prendiamo a sinistra la via Erode Attico che porta all'Appía Pignatelli: fatti pochi metri, riceviamo un altro tremendo colpo nello stomaco.
Nel vasto angolo formato dalla via Erode Attico con la via Appia, ci feriscono la vista una dozzina di «víllini signorili», di varia foggia e dimensione. Tra i colori predominano il víola e l'arancione: le case hanno forma assai complessa, con avancorpi, sporgenze e rientranze, i tetti hanno i soliti comignoli e le solite tegole; vediamo portici ad arco pieno, ad arco ribassato, ad architrave, finestre a feritoia, arcuate, quadrate, finte colombaie, lampioni di ferro battuto: ogni casa è recintata da un muro di tufo giallo, talvolta con pilastri copertí a tettuccio. Il bel quartierino ha la solita aria finto paesana da città dei balocchi, come fosse costruito da uno scenografo incerto tra Italia centrale, Tirolo e Svizzera, con qualche reminiscenza classica. Tra le curiosità principali notiamouna casa con grondaia in su anziché in giù, e una specie di pagoda cinese a due piani, il primo ad arcate di mattoni, il secondo a vetrate continue.
Gíriamo intorno gli occhi: verso nord, dietro al bel quartierino, si innalza in tutta la sua profondità lo spettro della Pia Casa; verso sud, cioè sempre sulla sinistra della via Appia, ci appaiono adesso altre ville e villini; verso oriente, in basso, ecco distendersi un nuovo e maggiore quartiere, dall'aspetto meno «signorile» del primo; scendiamo nella stessa direzione e passiamo in mezzo alla vasta e miserabile nuova Borgata di Santa Maria Nuova. Quanto all'Appia Pignatelli, la bella via solitaria a valle dell'Appia Antica, sappiamo che verrà allargata per essere trasformata in grande strada di traffici (naturalmente con costruzioni ai lati, anche attorno al Circo di Massenzio), che sarà prolungata fino a Roma con un tronco parallelo all'Appia Antica, portando nuova rovina nella valle della Caffarella, fino a Porta Latina: sarà quindi la quinta grande nuova strada che cancellerà dalla faccia della terra la campagna a sud di Roma.
Ríentrati a Roma, fermatici davanti alla stupida e spropositata mole del palazzo della Fao, rovina della Passeggiata Archeologica, cioè del primo tratto della via Appia, nel riporre una vecchia guida, rileggiamo la frase di Goethe, dell'11 novembre 1786, messa a epigrafe del primo capitolo: «Questi uomini lavoravano per l'eternità; tutto essi hanno preveduto tranne la demenza dei devastatori, cui tutto ha dovuto cedere».
La demenza dei devastatori ha raggiunto oggi vette inimmaginabili: un ultimo esempio corona per il momento il nostro triste e parzialissimo elenco. Al sesto chilometro della via Appía, sulla sinistra, isolate nella campagna, sorgono le rovine famose, vaste, imponenti della villa dei Quintili, del secondo secolo dopo Cristo, avanzi di un ninfeo, di un acquedotto, di un criptoportico, di terme, di cisterne, di sale grandiose, ecc., con una vista stupenda sui Colli e i Castelli. Ebbene, anche qui i nuovi vandali dementi stanno tramando un colpo inaudito: un «nucleo residenziale» (grazie alla SocietàGenerale Immobiliare) sorgerà immediatamente a ridosso delle rovine, per una profondità di circa trecento metri nella campagna; la lottizzazione si estenderà in uguale misura, complessivamente per una cinquantina di lotti, anche sulla destra della via Appia: questa, chiusa in mezzo, sarà affiancata da due strade parallele, una a destra, l'altra a sinistra. Lottizzare il Foro Romano o la villa Adriana non sarebbe misfatto peggiore.
Ingenuo chiedersi come avvenga tutto ciò. Esistono articoli di leggi (legge 1939 sulla tutela delle cose d'interesse artistico e storico, legge 1939 sulla protezione delle bellezze naturali e panoramiche, regolamento 1940 per l'applicazione della precedente), intesi a salvaguardare «l'integrità», le condizioni di «prospettiva», «luce», «ambiente», «decoro», dei monumenti, la «bellezza panoramica», la «spontanea concordanza e fusione fra la espressione della natura e quella del lavoro umano», e via dicendo. Esiste un vincolo di rispetto per un centinaio di metri da una parte e dall'altra della via Appia, esiste un altro vincolo di poco più esteso, proposto il gennaio scorso dalla Commissione provinciale per le bellezze naturali, ecc., ma che non comporta l'inedificabilità delle aree, limitandosi solo a imporre generici riguardi ai costruttori. Esistono organi di tutela, statali, comunali, provinciali, cui manca spesso la cultura e l'intelligenza, cui manca sempre l'iniziativa e la forza di intervenire.
Da un paio d'anni lo scempio della via Appia è entrato nella sua fase definitiva. Le lottizzazioni da sporadiche si vanno facendo organizzate, stringendosi a soffocare tutta la via in un abbraccio mortale, la campagna assume un aspetto da stazione climatica, gli edifici cui abbiamo accennato (ipocrisia delle sottili strisce di rispetto) sono e saranno tutti visibili dalla via: il gioco degli interessi stronca in partenza qualsiasi iniziativa sensata.
Per tutta la sua lunghezza, per un chilometro e più da una parte e dall'altra, la via Appia era un monumento unico da salvare religiosamente intatto, per la sua storia e per le sueleggende, per le sue rovine e per i suoi alberi, per la campagna e per il paesaggio, per la vista, la solitudine, il silenzio, per la sua luce, le sue albe e i suoi tramonti. Perfino per la cattiva letteratura che nel nostro secolo vi era sorta intorno. Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l'avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un'opera d'arte di una opera d'arte: la via Appia era intoccabile, come l'Acropoli di Atene. Ma che importa ai funzionari, agli architetti, agli speculatori? Il loro ideale estetico sono gli obelischi di via della Conciliazione, e i baracconí di gesso dell'E 42, nati per ospitare le «Olimpiadi della Civiltà» e scaduti, com'era giusto, a fiera campionaria e parco dei divertimenti, e poi malauguratamente diventati massimo centro d'attrazione per lo sviluppo di Roma.
«Il Mondo», 8 settembre 1953
Onorevole Presidente, Signore e Signori, l'introduzione della Dott.ssa Caporaso è stata di una estrema chiarezza quando ha messo in luce l'esigenza che i servizi sociali siano riconosciuti obbligatori fin dalla formazione degli stessi piani regolatori.
L'esigenza discende dalla nuova situazione della società, che si trova oggi in un periodo di rapido trapasso verso una nuova sistemazione generale di cui già intravediamo gli elementi essenziali. Una riduzione molto elevata del numero dei lavoratori nell'agricoltura, un'accentuazione del lavoro nei settori secondari e terziari, e soprattutto nei settori terziari ed altamente qualificati e un apporto considerevole, in tutto questo, del lavoro femminile, sono gli elementi dinamici del processo in atto.
Per questa società che si sta configurando vi è un travaglio veramente profondo, in tutto il Paese, per l'adeguamento di strutture estremamente antiquate a quella che, è la realtà presente ed a quella che sarà la realtà di domani, di un domani che si sta rapidamente avvicinando ai nostri occhi.
Nel problema di questo adeguamento si inserisce molto bene il discorso delle attrezzature e servizi sociali, di cui qui si è già cominciato a parlare, come di uno degli elementi di spinta, di ossatura che possono caratterizzare la nuova Società con maggiore o minore qualificazione, a seconda della loro maggiore o minore presenza, e, soprattutto, della loro qualità.
Mi pare che sia oltremodo interessante notare come l'intuito femminile che raggiunge immediatamente il bersaglio, passando spesso oltre alle lunghe e faticose elaborazioni della logica, abbia qui centrato il problema sostanziale, cioè che questi servizi si debbono inserire nei programmi economici ed urbanistici e, soprattutto, che per questi servizi occorre riservare i luoghi e cioè le aree che sono necessari per poterli edificare.
Questo mi sembra il punto veramente fondamentale e, in un certo senso, l'elemento nuovo e integrativa di un discorso già ampiamente svolto per quello che concerne le esigenze dei servizi stessi e la loro caratterizzazione; discorso che si impone in questo momento e si colloca nel giusto istante della formazione della nuova legge urbanistica in preparazione secondo gli accordi di Governo.
Farò un breve accenno a quello che rappresentano i servizi sociali nell'ambito di un piano regolatore.
Per mettere a fuoco il problema occorre partire da quel personaggio che è l'utente del piano regolatore, l'utente della città. Ogni individuo, uomo e donna, domanda alla città almeno un vano per sè; ma non basta, occorre per tutti i cittadini una quantità di servizi di vario genere, sanitari, educativi, ricreazionali, ecc. A questi si aggiungono quei servizi che sono quelli relativi alla donna che partecipa all'attività produttiva e che richiede nuovi servizi di tipo aggiuntivo e particolare, sostitutivi di gran parte di quelle attività che un tempo erano svolte nell'ambito della casa come lavoro domestico.
Ogni utente del piano regolatore e della città ha dunque le sue specifiche esigenze; tutti assieme pongono le loro domande. Interessa qui vedere quanto questi servizi di carattere sociale incidano nel complesso delle domande che i cittadini pongono alla città. Non sono purtroppo in grado di dare delle risposte precise, perchè queste potranno venire attraverso degli approfondimenti svolti dagli Istituti di Ricerca che oggi non hanno ancora affrontato, nella loro complessità e in tutti gli elementi, questo tema. Ma dirò soltanto che l'infrastruttura sociale è da considerarsi uno degli elementi di base per la valutazione del grado di efficienza di un agglomerato urbano, di una città o di un territorio, di un insieme di agglomerati urbani, alla stessa stregua delle infrastrutture tecniche ed economiche. E cioè se l'equipaggiamento in strade; in reti di distribuzione dell'energia, in impianti industriali che forma l'infrastruttura tecnica ed economica, rappresenta l'ossatura sulla quale si svolge l'attività produttiva, e caratterizza l'efficienza di uno sviluppo produttivo maggiore o minore, così alla stessa stregua, la rete infrastrutturale dei servizi sociali caratterizza l'efficienza di un agglomerato urbano e quindi di una società.
Questo concetto è da tener presente perchè la infrastruttura tecnica ed economica è ormai considerata da tutti gli economisti come l'elemento necessario per il passaggio dalle società primitive alle società che tendono ad un processo di sviluppo economico.
La rete infrastrutturale sociale è così l'elemento fondamentale per consentire il decollo verso una vita associativa di maggiori prospettive.
Dello sviluppo demografico e dei fenomeni di accentramento sono state fornite alcune considerazioni. Vorrei soltanto aggiungere, a quanto egregiamente è stato detto nella introduzione, che questo è un fenomeno mondiale.
L'accrescimento di popolazione, in questi ultimi decenni, ha infatti avuto un'accelerazione che sta diventando sempre più grande. Un documento delle Nazioni Unite rileva che sulla terra erano occorsi 200.000 anni per raggiungere i due miliardi e mezzo di uomini, ma che è presumibile che nei prossimi trenta anni si aggiungano altri due miliardi a quelli attuali.
Ma questa espansione demografica - è a tutti noto - si accompagna a processi di concentrazione urbana, cosicchè mentre all'inizio del secolo, su tutta la superficie terrestre, solo il 2,4% di popolazione era concentrata nelle agglomerazioni con più di 20.000 abitanti, oggi abbiamo una percentuale del 20% ed è presumibile che alla fine del secolo questa concentrazione raggiunga il 40%.
In questo duplice processo di espansione demografica e di contemporanea concentrazione urbana, il rischio di una espansione incontrollata della città e di una assenza di strutture, e soprattutto di una assenza di infrastrutture sociali, è enorme, nel nostro come negli altri Paesi in rapido sviluppo. Per cui, mentre l'infrastruttura tecnica ed economica è richiesta per dare avvio al processo di sviluppo economico e trova quindi i suoi sostenitori in quanto costituisce il binario su cui cammina lo sviluppo economico, l'infrastruttura sociale dipende unicamente dalla richiesta degli utenti e molte volte, assai spesso, la voce degli utenti è troppo debole.
Tutto ciò rientra nello studio dei costi dell'uomo. Siamo tutti convinti che ogni individuo ha un suo costo sociale, ma questo costo deve essere tale da consentirgli di raggiungere determinati fini, e precisamente di aprire a tutti una prospettiva di sviluppo. I sociologhi hanno individuato
a) un gruppo di spese per rendere massima la speranza di vita alla nascita di ogni individuo, spese che comprendono varie previdenze e provvidenze nel settore igienico-sanitario, ospedaliero, ecc.;
b) un gruppo di spese per consentire all'uomo le migliori condizioni di efficienza fisica e mentale ed urbanistica, in cui i servizi sociali entrano di pieno diritto per una grossa aliquota;
c) le spese per l'accesso alla cultura ed al tempo libero ed anche qui le spese riguardano infrastrutture a carattere sociale;
d) le spese per le migliori probabilità di maggiore sviluppo delle proprie capacità creative.
Quest'ultimo scopo dipende da tutti i precedenti, dalle condizioni igienico-sanitarie e soprattutto dalla presenza, maggiore o minore, delle infrastrutture sociali e dal loro grado di efficienza.
Rileviamo dunque che nel costo di formazione dell'uomo i servizi sociali entrano per una grossa aliquota e che, per garantire il conseguimento di questi fini è necessario premunirsi, al più presto possibile, delle aree, su cui poter effettivamente impiantare i servizi :sociali. I servizi sociali entrano dunque nel quadro di sviluppo della città ed in quelle previsioni dello sviluppo della città che sono i piani regolatori.
Nei piani regolatori fin qui allestiti le aree per i servizi sono entrate quasi sempre in modo estremamente vago, attraverso a delle indicazioni piuttosto sommarie e generiche; per esse si sono individuate la quantità, la ubicazione e la distribuzione spaziale. Ma la quantità e la distribuzione spaziale erano, fino ad oggi, condizionate da una situazione di carattere generale, perchè i piani regolatori sono stati formati nel quadro di una legge, la legge urbanistica del '42, la quale, pur ammettendo la ubicazione delle aree per i servizi nel piano regolatore, non ne garantiva l'attuazione.
Infatti il piano regolatore, secondo la legge del '42, agisce in modo indiretto. Esso indica tutto ciò che non si deve fare, e ciò che si può fare, ma non stabilisce ciò che si deve fare. Attraverso ad un miscuglio di negazioni, di vincoli e di possibilità. si formano i piani regolatori che vigono attualmente nelle nostre città.
La possibilità di fare risultava sempre amplissima: i cittadini, le Amministrazioni, le Autorità chiamate ad esprimere il loro parere sul piano, erano indotti a presumere che lo sviluppo potenziale di un agglomerato urbano potesse essere sempre assai grande.
Ma l'inconveniente era questo che appena fatto il piano, o per meglio dire, ancor prima del piano, in quell'ambito di potenzialità, ogni proprietario era e si sentiva libero di costruire, o di non costruire, quando e come, sia pure entro alcuni limiti, ma sempre secondo il suo gradimento.
Questo era l'elemento che infirmava tutto il meccanismo, tutto il processo di formazione del piano. Esso serviva, unicamente, a fornire alcune norme tecniche da seguire nel caso in cui, Tizio in un punto e Caio nell'altro, avessero desiderato di costruire.
Costruire che cosa? Abitazioni o industrie, ma non certamente servizi sociali che non sono, tranne qualche eccezione, di iniziativa privata.
Da questo meccanismo sono nate situazioni veramente paradossali; nei piani erano anche indicati i servizi, ma le aree ad essi destinate venivano, via via, consumate attraverso le continue richieste, fino a scomparire. Mi sto occupando, in questo periodo, della revisione del piano di Genova; abbiamo, come prima constatazione, misurato la ricettività del piano vigente, approvato con decreto del '59; ebbene, il piano di Genova consente una ricettività di oltre 7 milioni di abitanti, con dei servizi sociali quasi inesistenti. Prendiamo ad esempio le scuole: per le scuole vi sono 140 aree per una totale ricettività di 40.000 studenti; oggi essi sono 38.000 per una città di 800.000 abitanti.
Queste distorsioni che raggiungono livelli assurdi, sono state determinate dal fatta che i privati, proprietari di aree, si cautelavano tutti circa la possibilità di poter utilizzare il terreno a fini abitativi determinando una pressione di richieste che si acquetava solo con la garanzia di aver consacrata la possibilità di utilizzazione futura.
La situazione di Genova è poi peggiorata dal fatto che le condizioni particolari orografiche hanno creato una città, abbarbicata sulle colline. Le aree per i servizi non esistono nel piano; il Comune, disperato, oggi cerca aree per collocare delle scuole e non le trova, e contende ai privati frammenti di aree a prezzi altissimi.
Ma anche nei piani in cui le aree per i servizi erano indicate, queste venivano erose o scomparivano inghiottite dall'edilizia privata.
A contrastare questo stato di cose vi è stato un duplice processo di studio: uno è quello che tende a risolvere il problema alla radice. eliminando il sistema di pianificazione indiretta e scalzando alla base la pressione dei privati, che deriva dallo stato di potenziale utilizzazione generalizzata delle aree. L'altro è stato un parallelo processo di ricerca per quelli che sono i caratteri qualitativi e quantitativi dei vari servizi che formano il tessuto connettivo, il supporto della vita associativa in una città.
Quest'ultimo è lo studio sugli standards. Su questo argomento è mia opinione personale che gli standards possano essere utilmente studiati, ma non mai in astratto. Io preferirei che Istituti di ricerca o Commissioni Parlamentari potessero studiare nella realtà dei fatti, nelle situazioni così differenziate del nostro Paese, quelle che sono le attuali situazioni dei servizi sociali, quali sono i gradi di efficienza che si riscontrano nelle situazioni reali, per individuare quali sono i provvedimenti da attuare.
Io non ritengo infatti che tutto l'argomento si riduca a fare una somma algebrica di 0,05 mq. per abitante per questo servizio, di 1,2 mq. per quest'altro servizio, ecc., per arrivare ad un totale di tanti mq. di servizio per abitante. Questi possono essere degli elementi indicativi, a carattere didattico, ma non sono sufficienti. Ritengo che sia indispensabile studiare, per i singoli servizi, le caratteristiche interne che rappresentano il grado di efficienza della loro utilizzazione.
Faccio due esempi. Sono stato ad Amburgo circa due anni fa, in una visita rapidissima, per l'esame del piano regolatore; ed ho visti alcuni progetti di scuole elementari negli uffici del piano. Grossi uffici, che non hanno nulla a che vedere con i piccoli ufficetti dei nostri Comuni (ad Amburgo, nell'ufficio per l'urbanistica e l'edilizia pubblica, vi sono 40 urbanisti e 70 architetti). Nella visita, dunque, questi progetti di scuole mi venivano presentati con una certa titubanza; i tecnici comunali si sentivano quasi in colpa perchè le loro scuole sono troppo costose, mi hanno spiegato che ad Amburgo c'è una tradizione popolare che richiede che le scuole siano ben finite, dotate di giardino e di biblioteca, ecc. perchè le scuole sono aperte la sera a disposizione della popolazione, con un doppio uso quindi. Altro esempio. A Vienna ho visitato una casa del popolo, dotata di biblioteca e di sale trasformabili per molti usi: conferenze, riunioni, musica, ballo etc. Di queste case del popolo esiste a Vienna non solo un prototipo, ma un piano per dotare tutta la città di tali servizi, in modo che sorgano entro un raggio di non più di 600 metri uno dall'altro Questi complessi, estremamente duttili, hanno quasi nessun riscontro da noi, salvo l'iniziativa della Biblioteca Einaudi a Dogliani. Ecco, questi, a mio avviso, dovrebbero essere dei modelli per i servizi sociali, in una prospettiva molto più elastica, più ricca di quella in cui oggi è ancora concepita l'attrezzatura sociale di settore., limitata, ad all'uso di settore. Con questo spirito, potremmo calcolare per ogni città non solo la sommatoria delle aree dei singoli addendi, ma soprattutto riferirci alla qualità dei servizi stessi.
Dirò ora qualcosa sulla nuova legge urbanistica predisposta secondo gli accordi di Governo. Il progetto di legge urbanistica ha degli elementi innovatori anche rispetto alla stessa legge Sullo.
Vi è, infatti, una ricerca per trovare sistemi che consentano la messa in moto graduale del processo di pianificazione, tenendo conto però dell'urgente intervento nelle zone di accelerata urbanizzazione. La programmazione economica è impegno di prossima scadenza, ed al primo, sia pure embrionale e grezzo, ma reale programma economico, si dovrebbe agganciare anche il piano urbanistico nazionale. Ma ciò che è veramente innovatore è il fatto che tutto il processo di urbanizzazione sia pubblicizzato, attraverso quello ormai definito l'esproprio generalizzato; il piano particolareggiato è infatti l'elemento esclusivo di attuazione dei piani regolatori comunali e comprensoriali (entrambi sono allo stesso livello; il piano regolatore comunale è ammesso per i Comuni dotati di gestione urbanistica, capaci cioè di autoregolarsi, e i comprensori sono raggruppamenti di Comuni dotati di organi e di uffici tali da garantire la gestione urbanistica). Il processo di urbanizzazione consta delle seguenti fasi: individuazione delle aree; loro espropriazione, urbanizzazione e, quindi, utilizzazione di quelle edificabili attraverso differenti forme. Il Comune può cioè riservare a se stesso le aree, o cederle in affitto, a tempo indeterminato, cederle allo Stato o a Enti Pubblici, oppure metterle all'asta per la cessione a privati.
Questo è il meccanismo che è stato congegnato per la pubblicizzazione dello sviluppo della città, che esclude ogni altra alternativa, ciò è necessario perchè se si immaginasse un doppio regime di licenza in talune zone e di esproprio in altre si determinerebbe una situazione insostenibile di concorrenza e di conflitto, con sperequazioni e con l'insorgenza di pressioni. I mali del sistema attuale non sarebbero curati. Solo l'esproprio generalizzato preventivo garant:isce l'efficienza della espansione urbanistica, della organizzazione lei territori e delle città, degli insediamenti in generale e della riorganizzazione di tutto un territorio.
In questo processo continuo la gestione urbanistica diventa una gestione specifica, separata da quella che è la gestione comunale, che continuerà ad esistere per tutti gli altri settori della vita pubblica; in tal modo si renderanno fattibili dei bilanci nei quali siano effettiramente visibili tutti gli addendi dei costi e dei ricavi delle operasioni, dove i ricavi dell'operazione siano reimpiegati per garantire il processo di miglioramento dello stesso sviluppo di urbanizzazione.
Questa è la innovazione fondamentale che era già presente in 'orma grezza nella precedente formulazione del progetto Sullo ma che ha avuto un chiarimento preciso solo in questo studio. La gestione urbanistica si traduce, nella proposta in atto, in un programma annuale che consente, di poter predisporre tutti i mezzi finanziari adeguati per le operazioni e che impegna tutte le amministrazioni. mezzi, o provengono dallo stesso processo, che una volta acceso si sviluppa, oppure possono essere frutto di apporti esterni, di contributi dello Stato, di contributi previsti da varie leggi; ecc. In questo programma i servizi sociali si possono collocare, avranno la loro individuazione ed il loro capitolo.
Nel programma annuale saranno individuate tutte le opere che verranno attuate, iniziate o compiute durante l'anno e le singole amministrazioni che eventualmente concorressero a queste operazioni, sono chiamate a legare il proprio bilancio a quello della gestione urbanistica.
Ecco che allora il piano urbanistico, in questa prospettiva, cessa di essere un piano unicamente di possibilità; diventa un piano che in certi casi è anche di vincoli, ma è soprattutto di cose che si fanno. E' il piano di ciò che si fà, non. un piano di ciò che si potrebbe fare e poi non si fà. Allora penso che la vostra richiesta che l'infra struttura sociale sia tenuta presente, ha una possibilità, una prospettiva, di essere accettata ed inserita in piani che vincoleranno tutte le Amministrazioni interessate. Una prospettiva dunque si apre: che i servizi sociali possano effettivamente concretarsi.
La prospettiva della nuova legge urbanistica contrappone al vecchio mondo possibilista, leggermente vincolistico, ma soprattutto aperto a qualsiasi iniziativa privata, un mondo di amministrazioni responsabilizzate, che decidono ciò che si farà.
Sarà allora possibile istituire un più ampio bilancio, oltre a quello della gestione urbanistica, ma che è possibile soltanto quando esista la gestione urbanistica: ed è il bilancio economico di una intera città e di un intero territorio. Oggi è impossibile pensarvi, perchè sfugge completamente il campo dei costi sociali, delle infrastrutture, dipendenti in parte da iniziative dello Stato, in parte da possibilità di applicazione di infinite leggi, senza che sia possibile prevedere quando i fondi richiesti possano arrivare, ciascuno dopo un lunghissimo iter, nella più disordinata, nella più incredibile delle situazioni di caos amministrativo che si possa immaginare.
Si abbandona questa situazione e si passa ad una situazione più metodica e forse un pochino ragionieristica - qualcuno potrà anche dire - ma certamente chiara -, della gestione della cosa pubblica, come ossatura di una economia che comprenda tutte le attività di una città e di un territorio. A quel momento sarà possibile impostare il bilancio fondamentale che fino ad oggi non siamo mai riusciti ad ottenere, tra ciò che la città offre ai suoi cittadini e ciò che i cittadini chiedono, e di stabilire con precisione ciò che i cittadini devono pagare per ottenere un certo tipo di città.
Questo bilancio chiaro, portato all'attenzione degli utenti, consentirà precisamente di confrontare ciò che da una parte i cittadini chiedono e ciò che sono disposti a pagare e dall'altra ciò che la città offre. I risultati urbanistici non saranno più soltanto il frutto delle pressioni dei privati che spingono l'espansione verso un lato o verso l'altro lato della città per il loro esclusivo interesse, ma l'abilità tecnica degli urbanisti sarà chiamata a far sì che la domanda dei cittadini ottenga il massimo grado di efficienza, a parità di costo. Questa è la prospettiva, veramente nuova ed innovatrice che ci si offre, quando sia stato sgombrato il campo della proprietà privata del suolo e di tutte quelle che sono le implicazioni e le pressioni che essa crea.
In questa prospettiva, mi pare che il pilone fondamentale dell'infrastruttura sociale, studiato nella sua consistenza, nella sua qualificazione, e nelle possibilità di rendere vivo il tessuto sociale, finora trascurato, possa ora essere progettato e costruito.
L'UDI (un'associazione militante di donne, in prevalenza aderenti ai partiti della sinistra)organizzò questo convegno sulla base di una iniziativa sociale e politica che era partita da un documento "Per l'obbligatoriertà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico", del dicembre 1963, e si era prolungata nella raccolta di firma per una proposta di legge d'iniziativa popolare. E' l'avvio di un'azione che condurrà, nel 1968, al Decreto interministeriale sugli standards urbanistici, che imporrà di riservare, in ogni piano urbanistico, aree in misura idonea per la costituzione di spazi pubblici o di uso pubblico. Le altre relazioni sono state svolte da Elena Caporaso(Il lavoro della donna nella società moderna), Alberto Todros (La legislazione per l’attuazione dei servizi sociali), Edoardo Detti (I servizi sociali nei piani di zona della legge 167), le conclusioni da Luciana Viviani.
Il testo di Astengo rivela come già da allora (cioè prima del decreto sugli standard) fosse chiaro che una previsione meramente quantitativa, sebbene indispensabile, non fosse però sufficiente: i temi della qualità dei servizi erogati, della loro connessione e accessibilità, del loro compiuto significato urbanistico, infine della loro gestione apparivano già allora temi altrettanto rilevanti. (es)
La vicenda della sovracomunalità nell'area milanese è piuttosto lunga, complessa, articolata. Come già messo in evidenza in altri articoli e cartelle di eddyburg, l'emergere della dimensione metropolitana nella "capitale morale" italiana è più o meno parallelo alle prime esperienze di pianificazione internazionale a scala regionale. Già nel bando di concorso per il piano regolatore del 1926, si richiede ai partecipanti di tener conto della dimensione metropolitana, e il coordinatore dell'ufficio urbanistico del comune, Cesare Albertini, interverrà ripetutamente nel corso degli anni '30 sul tema del piano regionale.
E' comunque soltanto col dopoguerra e gli strumenti messi a disposizione dalla legge urbanistica del 1942, che il dibattito sul piano sovracomunale per l'area milanese inizia ad uscire dalle pagine delle riviste e dalle aule dei convegni, per diventare oggetto di dibattito politico, tecnico, amministrativo.
Tra gli elementi più interessanti, oltre quelli strettamente legati a modi e forme della pianificazione, ci sono la perimetrazione e le forme decisionali del nuovo organismo. Proprio questi sono i temi al centro della breve antologia proposta, per il loro riflettere oltre le contingenze locali aspirazioni e contraddizioni di carattere nazionale, sul tema della modernità, dell'idea di democrazia e partecipazione, sviluppo, equità.
Marco Romano, nell'estratto dall'articolo introduttivo al PIM di Urbanistica 50-51, 1967, ricostruisce da un lato il contesto entro cui matura storicamente il piano, e dall'altro ne traccia (col senno di poi, a quasi vent'anni dall'inizio) l'arco delle vicende politico-amministrative.
Amos Edallo, nel breve testo allegato su Urbanistica 18-19, 1956, al Piano Regolatore Generale comunale di Milano, chiarisce il senso originario dello schema intercomunale, proprio a partire dalle questioni irrisolte del capoluogo.
L'introduzione generale di Adriano Olivetti al Congresso nazionale INU del 1956 di Torino, convocato proprio sul tema della pianificazione intercomunale, contestualizza in senso culturale "alto" le aspirazioni dei piani di dimensione vasta, chiarendo se necessario come soprattutto a questa scala al centro siano gli obiettivi sociali, ben oltre quelli spaziali e di generica efficienza.
L'intervento di Ezio Cerutti ancora al Congresso INU del 1956, sottolinea alcune tendenze già evidenziate ad esempio da Astengo e Bianco nel loro primo Piano piemontese del 1946: la pianificazione territoriale come utopia anche politica, attraverso una profonda riorganizzazione territoriale e amministrativa dello stato e degli enti locali.
Ma la razionalità solo spaziale dell'urbanistica non basta da sola a contenere la complessità del reale, come chiarisce l'articolo di Domenico Rodella da Città di Milano marzo 1957, totalmente orientato a rispondere sostanzialmente ad una sola domanda: esiste un bisogno, e se sì anche un diffuso consenso, a forme complesse di riorganizzazione come quelle che sottendono una pianificaizone metropolitana?
Se la caratteristica principale del PIM del dopoguerra è il suo auspicare un percorso "ascendente", la Provincia Ambrosiana proposta dal progetto di legge del Partito Liberale torna, pur nel quadro democratico delle autonomie elettive, a un sistema più simile a quello centralizzato di cui si dibatteva negli anni '30. Sono sostanzialmente gli obiettivi di carattere politico, espressi nella relazione di Giovanni Malagodi al convegno di presentazione della legge (1956), e efficienza economica sottolineati da Mario Golanel suo articolo dalla Rivista di Politica Economica marzo 1956.
L'intervento di Rossana Rossanda, da Rinascita, n. 10, 1960, spiega come attorno al dibattito sulla pianificazione metropolitana si sia dispiegato un intero catalogo delle ambizioni di potere della classe dirigente italiana. Ben oltre, quindi, una semplice idea di spazio, ambiente, efficienza, servizi.
Su Mall/Antologia il resoconto del seminario internazionale ILSES di Stresa del 1962 sul tema, essenziale per la cultura del PIM, della "Città-Regione", di Umberto Toschi, dalla Rivista Geografica Italiana.
La Premessa al Secondo Schema PIM di Giancarlo De Carlo precisa sia in senso socioeconomico generale che nei termini più disciplinari della pianificazione territoriale gli obiettivi e gli strumenti decisionali dello schema metropolitano, con particolare attenzione al suo processo formativo ed evolutivo (da "La pianificazione territoriale e urbanistica nell'area milanese", Marsilio 1967)
Il racconto di Giampiero Spinelli, estratto da uno studio del PIM, di come si sia sviluppata nel tempo una delle grandi idee portanti del piano ovvero la greenbelt metropolitana del Parco agricolo Sud Milano (da Il Paesaggio, La Natura, la Città, 205)
I pochi allegati, sono nell'ordine: l'intervento di Ezio Cerutti completo della tabella di dati statistici (impossibile da inserire nella pagina) senza la quale non si coglie il senso della sua proposta di riorganizzazione circoscrizionale; lo schema del sistema intercomunale allegato all'articolo di Amos Edallo (curiosamente sbilanciato verso lo scalo aeroportuale di Malpensa); una carta della zona del piano nel 1967; la versione integrale della Premessa al Secondo Schema di De Carlo, 1963; due powerpoint che riassumono per immagini alcuni dei temi spaziali degli articoli, con l'aggiunta di alcuni degli schizzi di Giancarlo De Carlo che descrivono le modalità di sviluppo metropolitano milanese.
" Dopo oltre quaranta giorni dalla trasmissione da parte del Governo, un primo stop del Presidente della Repubblica e affrettate e marginali correzioni, è stato emanato il decreto legislativo "in materia ambientale".
Restano unanimi tutte le critiche, di metodo e di merito, della Conferenza delle Regioni e delle Autonomie locali, per esproprio di competenze istituzionali, centralizzazione impropria, rovesciamento dei principi di cooperazione e di sussidiarietà; come del mondo scientifico, delle associazioni ambientaliste, sociali, e di gran parte di quelle economiche; delle opposizioni in parlamento: per eccesso di delega, stravolgimento di un quindicennio di riforme che avevano invece bisogno di "riordino, coordinamento e integrazione" come richiedeva la legge di delega 308/2005; e per contrasto con diverse direttive comunitarie.
A Camere sciolte e a meno di una settimana dalle elezioni, a fronte di un periodo di vuoto istituzionale fino all'insediamento del nuovo Parlamento e alla formazione del prossimo Governo, il decreto legislativo apre già nell'immediato una condizione di ingovernabilità dell'ambiente, aggravato ulteriormente - per acque e suolo - dallo scioglimento delle Autorità di bacino, addirittura entro la fine del prossimo mese (anche delle Autorità regionali e interregionali? E con quale copertura degli oneri finanziari per il loro funzionamento, che passerebbero allo Stato centrale?). "
Il resto di questo articolo, e i materiali scaricabili dei testi approvati, al sito del Gruppo 183
Le discussioni, anche tecnico-scientifiche, che si sono sviluppate a seguito del disastro provocato dall’uragano Katrina nell’area del delta del Mississippi e sulla città di New Orleans in particolare, convergono (come quasi sempre accade in questi casi) su un punto: la “fatalità” invocata dai vari livelli di governo, non è affatto tale. Lo dimostra tra l’altro il corposo documento allegato di seguito, sintesi di studi condotti da varie amministrazioni e discipline. Uno studio ostinatamente ignorato dall’amministrazione Bush, e che propone in sostanza – e per quanto possibile in un’area ampiamente antropizzata – la reimmissione attraverso grandi opere organizzate in sistema di elementi “naturali” tali da ricostruire un sistema almeno in parte autorigenerante, anziché interamente poggiato sulla rete degli argini, dei canali e dei sistemi di pompaggio. Un’operazione tanto più urgente, quando i dati sul riscaldamento globale, l’innalzamento del livello degli oceani, la previsione dell’intensificarsi di eventi meteorologici estremi, riducono a ben poca cosa anche il più massiccio utilizzo di tecniche “artificiali”, per non parlare di quelle al limite della criminalità, come l’urbanizzazione indiscriminata di aree di esondazione, e comunque inadatte all’insediamento umano complesso.
Ciò premesso, allego di seguito il rapporto Coast 2050: Toward a Sustainable Coastal Louisiana, predisposto congiuntamente da: Louisiana Coastal Wetlands Conservation and Restoration Task Force, e Wetlands Conservation and Restoration Authority nel 1998 (circa 180 pp. con illustrazioni, 2 Mb). Per inciso, in questi giorni di polemiche sulla mancata prevenzione del disastro, non si tratta di un documento facile da reperire in rete, anche e soprattutto nelle sedi delle pubbliche amministrazioni che l’hanno prodotto. Una descrizione di massima delle intenzioni di Coast 2050 si trova anche nell'interessantissimo articolo di Mark Fischetti sul tema, riportato da Eddyburg (f.b.)
La serie di esperienze e resoconti contenuti nello strumento di lavoro predisposto dalla APA/American Planning Association, in collaborazione con la FEMA/Federal Emergency Management Agency (Protezione Civile), si propone di aiutare i pianificatori - tecnici e amministratori - ad affrontare le emergenze, valutare i rischi, contribuire a ridurli al minimo. I temi ricorrenti sono quelli del rapporto fra rischio e organizzazione dello spazio e delle sue componenti (casa, trasporti ecc.).
Vengono esposte anche modalità di finanziamenti, collaborazione fra amministrazioni e livelli di governo, tipi di organizzazione degli uffici, ai sensi delle leggi americane (Disaster Mitigation Act 2000), e in base ad esperienze di vario tipo accumulate nel corso di un decennio di studi e piani.
A riprova, se necessario, del fatto che le conoscenze teoriche e pratiche sul tema esistono e sono anche piuttosto consolidate. Quello che sembra mancare è, invece, la decisione politica di limitare alcuni “interessi particolari”, in favore di quello generale. Tanto più grave quando si tratta di tutelare la sopravvivenza fisica degli insediamenti umani nell’ambiente naturale. (f.b.)
Di seguito, scaricabile il file PDF: Planning for a Disaster-Resistant Community - An AICP Professional Development Workshop for City and County Planners, Elected Officials, and Consultants, 2005 Annual Conference, American Planning Association
Titolo originale: Planning reform bill to be introduced – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il Governo pubblica oggi il disegno di legge di riforma della legge urbanistica che ha provocato critiche da parte dei gruppi ambientalisti per i timori riguardo ai discussi progetti di autostrade e aeroporti che potrebbero avere una corsia preferenziale.
Il Planning Reform Bill nasce per consentire al paese di rispondere al bisogno di abitazioni e infrastrutture, e rispondere alle sfide del cambiamento climatico, dell’energia, del carico sull’ambiente, affermano i responsabili.
Il disegno di legge istituisce una Commissione responsabile per le infrastrutture e facilita la continuità delle procedure, ad esempio ad agevolare progetti di rilevanza nazionale.
L’obiettivo è di garantire decisioni “puntuali e certe” in material di progetti infrastrutturali essenziali per la crescita economica, la fornitura di energia, la qualità della vita e la risposta al cambiamento climatico.
Col nuovo sistema verranno sostituiti otto diversi ambiti di autorizzazione. Che riguardano produzione di elettricità, line elettriche, fornitura di gas, aeroporti, porti, strade, ferrovie, bacini idrici e smaltimento rifiuti.
La responsabilità delle decisioni attualmente si distribuisce fra quattro diversi ministeri. L’iter è diverso per ciascuno degli otto ambiti.
Si spera che le modifiche introdotte riducano i tempi medi delle decisioni sui grandi progetti a meno di un anno, ponendo fine ai lunghi rinvii per le opere infrastrutturali. Il governo sostiene che si risparmieranno così 300 milioni di sterline l’anno, complessivamente quasi 5 miliardi sino al 2030.
Ma i gruppi ambientalisti sono preoccupati perché le riforme proposte consentono opere che indeboliranno la lotta al cambiamento climatico.
La Campaign to Protect Rural England (CPRE) teme che il progeto di legge possa tagliari fuori i cittadini dalle decisioni di trasformazione, facilitando aeroporti, strade, centrali.
Il direttore delle politiche di CPRE Neil Sinden ha affermato: “Protezione dell’ambiente e partecipazione dei cittadini sono il fondamento di un efficace sistema di piano”.
“L’agenda di riforme in questo campo del governo sembra voler indebolire entrambi questi aspetti. E in modo perverso, probabilmente non soddisferà neppure il desiderio dei ministeri di decisioni più rapide sulle grandi opere”.
Il direttore di Friends of the Earth Tony Juniper avverte: “Le proposte governative per il sistema di pianificazione pongono gli interessi dei grandi affari al di sopra di quello delle popolazioni locali e dell’ambiente”.
“Progetti discutibili come quelli, dannosi per il clima, di aeroporti, inceneritori e strade, avranno una corsia preferenziale nel sistema delle decisioni”.
“I ministeri devono assicurare una adeguata pubblicità ai grandi progetti, consentendo alle comunità locali di partecipare alle decisioni”.
La pubblicazione del progetto di legge segue il discorso del primo ministro Gordon Brown al congresso annuale della Confederazione Industriali, dove ha sostenuto l’ampliamento di Heathrow e annunciato progetti di nuove centrali nucleari.
La ministro alle aree urbane [ con deleghe anche all’urbanistica alla casa ecc. n.d.T] Hazel Blears oggi dichiarerà che le riforme significano non solo un sistema più rapido, ma anche più giusto, e che la conclusione di progetti fermi da lungo tempo sarà a vantaggio di tutti.
“Spesso le popolazioni locali trovano complesso accedere ai processi: ora saranno previste a tutti i passaggi consultazioni pubbliche”.
“Non possiamo ignorare il fatto che il sistema attuale di programmazione delle infrastrutture è inadatto al XXI secolo. Il Planning Bill offre una serie di misure per migliorare il processo decisionale, assicurando al tempo stesso che le procedure siano sottoposte a un rigoroso controllo e sottoposte ad ampia consultazione pubblica”.
“Ci saranno sempre progetti controversi, che scuotono l’opinione e richiedono di assumere decisioni difficili. Ma avere un sistema più solido garantisce di acquisire tutte le opinioni – in particolare quelle del pubblico - tempestivamente. Prendere buone decisioni in meno tempo avvantaggia tutti”.
Nota: di seguito scaricabile il testo completo del disegno di legge di riforma ripreso dal sito parlamentare; sull'evoluzione e le polemiche di questo disegno di legge, numerosi articoli su Mall, sia nella sezione Urbanistica/Piani per quanto riguarda il rapporto dell'economista Kate Barker, sia in Città/Spazi della Dispersione sui temi ambientali e della green belt (f.b.)
Di seguito la relazione; in allegato il testo completo dell'articolato, in formato .pdf
Disposizioni per la tutela e la valorizzazione del paesaggio rurale
Relazione
Onorevoli Senatori. – L’esigenza di un intervento legislativo per la tutela e la valorizzazione del paesaggio rurale italiano nasce dalla constatazione che il processo di consumo e di abbandono del territorio agricolo nazionale non si arresta ed ha anzi conosciuto nel decennio trascorso una ulteriore e preoccupante accelerazione.
Vorrei avviare l’illustrazione del presente disegno di legge proprio con i dati diffusi recentemente dall’Associazione nazionale bonifiche e irrigazione (ANBI) relativi all’evoluzione nazionale della superficie agricola utilizzata (SAU). Nel periodo intercorso fra il 1990 ed il 2003 la SAU si è ridotta del 20,4 per cento passando da oltre 15 milioni di ettari a poco più 12, con 3 milioni di ettari (10 per cento del territorio nazionale) conquistati dalla cementificazione o dai processi di abbandono e desertificazione. Un’analisi su base regionale dei dati del «bollettino di guerra» aiuta ad interpretare le tendenze in atto: impressionante il calo della SAU nel Lazio (dal 48 per cento al 35 per cento della sup. regionale), nell’Abruzzo (dal 48 per cento al 27 per cento), nella Liguria (dal 17 per cento all’8 per cento), nella Campania (dal 48 per cento al 36 per cento), nella Sardegna (dal 56 per cento al 42 per cento) con un trend che interessa peraltro, anche se in modo disomogeneo, l’intero territorio nazionale. Ad agire sono spinte all’urbanizzazione diffusa, che interessano le aree periurbane ma anche comprensori di grande pregio agricolo, una politica delle infrastrutture disordinata e con crescente impatto territoriale, e il procedere di fenomeni di marginalizzazione di aree agricole periferiche, dove le difficili condizioni di redditività e il forte tasso di invecchiamento dei conduttori accelerano l’abbandono dell’attività.
Sono recentemente assurti all’onore delle cronache, per le caratteristiche di particolare valore paesaggistico delle aree interessate, i casi della Val d’Orcia e della Valpolicella. Il Ministro per i beni e le attività culturali, in una conferenza stampa tenutasi il 4 aprile scorso, ha parlato di «sfregio silenzioso del paesaggio italiano», denunciando alcuni casi particolarmente eclatanti, ma anche evidenziando la preoccupante quotidianità di una pressione continua sulle zone vincolate, ad esempio con oltre 30.000 richieste di trasformazione all’anno inoltrate all’esame delle competenti Soprintendenze nella sola Lombardia. Andrea Zanzotto, uno dei massimi poeti italiani viventi, ha avuto modo di affermare di recente, con riferimento ai processi in atto nel natìo Veneto: «una volta esistevano i campi di sterminio, oggi siamo allo sterminio dei campi».
Eppure a soccombere è un patrimonio di storia, cultura e natura di importanza inestimabile per il nostro Paese. Una secolare evoluzione che ha incontrato condizioni particolarmente favorevoli nella diversità geografica, litologica, climatica e biologica della penisola, dando sostanza a quelle «cento agricolture» e a quella pluralità e qualità dei paesaggi rurali ammirata dai viaggiatori di tutto il mondo fin dal secolo XVIII, arricchita dalla varietà delle tipologie dell’architettura rurale regionale. Non si può non sottolineare in questo contesto il ruolo insostituibile degli agricoltori nel determinare la straordinaria ricchezza di forme del «Bel Paese», laddove è stato l’ingegno e la capacità di adattamento dell’attività produttiva ad ambienti naturali a volte ostili a consentire la strutturazione del mosaico delle campagne italiane. Un mosaico ancora vivo nel quale si leggono però i segni di una riduzione delle caratteristiche identitarie, della tendenza all’impoverimento delle componenti arboree, arbustive ed erbacee, dell’abbandono del pascolo brado e delle colture promiscue.
L’urgenza di agire per la conservazione di questo patrimonio nasce dalla consapevolezza del suo carattere multifunzionale che travalica la dimensione, pure di eccezionale rilevanza, concernente il valore estetico e di identità nazionale, riconosciuto dal dettato costituzionale. Il mantenimento del paesaggio rurale e delle attività che lo supportano è la più efficace forma di contrasto del dissesto idrogeologico, che interessa attualmente il territorio di 5.500 comuni, e di prevenzione dei processi indotti dal cambiamento climatico ed in particolare della tendenza alla desertificazione, già così evidente in alcune regioni. Il territorio rurale svolge inoltre un ruolo ambientale insostituibile a partire dai cicli biogechimici, con il mantenimento di superfici fotosinteticamente attive che metabolizzano l’anidride carbonica e contribuiscono ad ammortizzare l’effetto serra e con il ruolo di «serbatoio» della diversità genetica rappresentato dalle varietà vegetali agricole e dalle razze animali autoctone, un patrimonio ancora ricco nel nostro Paese che merita una politica mirata di protezione.
Ma il paesaggio rurale può essere anche il volano di un nuovo sviluppo economico-territoriale, duraturo e sostenibile, che si va affermando in alcune aree del Paese. Il riferimento è a quella offerta integrata di prodotti agricoli tipici e dell’artigianato alimentare con servizi culturali e di fruizione del paesaggio che conosce, con l’agriturismo e il turismo enogastronomico, una importante fase di crescita nell’attenzione degli utenti. L’offerta integrata di risorse del territorio, che si incentra sulla conservazione attiva e non sul consumo irreversibile, rappresenta oggi l’unica alternativa effettivamente praticabile in molte realtà del nostro Paese, altrimenti destinate al degrado urbanistico o all’abbandono. Le stesse produzioni alimentari di qualità si identificano oggi con sempre maggiore frequenza con il territorio dal quale provengono, in tutto il mondo la qualità dei sapori italiani, purtroppo anche quando è contraffatta, si accompagna con le immagini-simbolo dei paesaggi di pregio ed è questa una grande opportunità di crescita per il nostro comparto agroalimentare.
Una nuova prospettiva nelle politiche di tutela e valorizzazione del paesaggio rurale si è del resto già manifestata a partire dal contesto internazionale. L’UNESCO, con l’adozione e l’applicazione della World Heritage Convention, ratificata in Italia con legge 6 aprile 1977, n. 184, ha avviato il riconoscimento, quali parti integranti del patrimonio culturale dell’umanità, di sistemi di paesaggio profondamente modellati dall’attività umana, con i primi esempi in Italia costituiti dai comprensori delle Cinque Terre (1997), della costiera amalfitana (1997) e della Val d’Orcia (2004). La Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha riscoperto il valore per il futuro dell’alimentazione umana di pratiche agricole tradizionali che vengono studiate e salvaguardate con il progetto GIIAHS (Globally Important Ingenious Agricultural Heritage Systems). L’Unione europea ha aperto alla firma dei Paesi membri nell’ottobre del 2000 la Convenzione europea sul paesaggio, quale strumento di indirizzo per le politiche comuni in materia di salvaguardia, gestione e pianificazione dei paesaggi, ratificato dall’Italia ai sensi della legge 9 gennaio 2006, n. 14, ed ha adottato nel corso del 2003, nel quadro della riforma di medio termine della politica agricola comune, importanti orientamenti innovativi finalizzati a promuovere il carattere multifunzionale dell’agricoltura. La scelta di adottare il disaccoppiamento totale degli aiuti e l’ecocondizionalità, nonché di incrementare progressivamente le risorse per il «secondo pilastro» dello sviluppo rurale, ha aperto la strada ad un orientamento ormai irreversibile nella politica agricola europea che pone al centro dell’attenzione la qualità delle produzioni e l’integrazione con le politiche di sostenibilità ambientale.
Le politiche italiane per il paesaggio rurale nascono nel segno della separatezza fra la pianificazione urbanistica e gli interventi di sostegno del mercato agricolo. Una incomunicabilità che ha coniugato per tutta una fase storica normative di conservazione statica, peraltro inefficaci, con interventi prevalentemente rivolti alla politica dei prezzi, alla specializzazione intensiva e alla standardizzazione delle colture. Più recente è il tentativo di sistematizzare il quadro giuridico in materia, condotto con l’approvazione del codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), e l’avvio di esperienze innovative di integrazione riconducibili alla pianificazione paesaggistica regionale e ad alcuni piani di assetto delle aree naturali protette, in un quadro generale comunque inadeguato a fronteggiare le dinamiche di erosione del paesaggio rurale. Di notevole interesse in questo campo anche alcune iniziative di regolazione concertata, avviate in collaborazione fra enti locali e categorie rappresentative del mondo agricolo, fra le quali si segnala in particolare la «Carta per l’uso sostenibile del territorio rurale del Chianti», recentemente ufficializzata, e il piano regolatore della Città del Vino, un compendio di linee etodologiche per la pianificazione nei comuni a forte vocazione viticola, promosso dall’Associazione «Città del Vino».
Il disegno di legge qui proposto muove dall’assunto che la storicità del paesaggio rurale debba essere considerata una risorsa preziosa per il futuro e che occorra dedicare maggiore attenzione alle condizioni concrete di esercizio di quelle attività di conduzione agricola a cui tuttora è affidata la manutenzione del 40 per cento del territorio nazionale e la sopravvivenza di alcuni dei contesti ambientali più rappresentativi del Paese. Un obiettivo che si può perseguire solo determinando la convergenza delle politiche urbanistiche, agricole e fiscali verso una strategia comune e avviando una più proficua sinergia nell’azione dei molteplici attori istituzionali competenti, in grado di determinare un salto di qualità nelle politiche nazionali e locali per la tutela del paesaggio.
L’articolo 1 del disegno di legge attiene alle finalità generali dell’intervento legislativo, che si propone, in attuazione dell’articolo 9 del dettato costituzionale, di collocare le politiche di tutela del paesaggio rurale, in quanto componente fondante del patrimonio naturale e culturale del Paese, fra le priorità delle politiche ambientali, di pianificazione urbanistica e di sviluppo rurale e di dare nuovo impulso all’azione dei diversi livelli istituzionali, nel rispetto delle competenze attribuite.
L’articolo 2 sostanzia le modifiche che si intendono apportare al codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. In primo luogo si interviene sull’articolo 142 del citato provvedimento, concernente le aree tutelate per legge, per inserire in tale ambito una nuova categoria sottoposta ope legis alla tutela paesaggistica: il territorio che supporta l’agricoltura tipica e di qualità del nostro Paese, vale a dire le aree interessate da colture agricole o pratiche zootecniche finalizzate all’ottenimento di prodotti a denominazione d’origine geografica di cui al regolamento (CE) n. 510/2006, del Consiglio, del 20 marzo 2006, i comprensori coinvolti nella coltivazione di vitigni finalizzata alla produzione dei vini tipici a denominazione geografica di cui alla legge 10 febbraio 1992, n. 164, e le aree che ospitano coltivazioni biologiche ai sensi del regolamento (CE) n. 2092/91 del Consiglio, del 24 giugno 1991. Si tratta concretamente di meglio tutelare i 159 riconoscimenti comunitari già assegnati a prodotti italiani DOP (denominazione d’origine protetta) e IGP (indicazione geografica protetta), i 477 vini nazionali di qualità registrati come denominazione di origine controllata e garantita (DOCG), denominazione di origine controllata (DOC) e indicazione geografica tipica (IGT) e circa un milione di ettari riservati dalle aziende agricole italiane a produzioni biologiche certificate, nel suo complesso un patrimonio di produzioni gastronomiche di alta qualità che ci pone all’avanguardia in merito a livello europeo. Una più accorta vigilanza preventiva quindi sui processi di trasformazione urbanistica delle aree agricole di pregio, laddove occorre meglio proteggere attività che svolgono un ruolo di rilievo nelle formazione del paesaggio e della stessa identità culturale delle comunità locali, ma anche assumono una valenza crescente a livello economico, con un valore sul mercato, per i soli prodotti DOP e IGP, di 9 miliardi di euro, con il primato delle esportazioni vinicole italiane a livello mondiale e circa 1,5 miliardi di euro di prodotti biologici e biodinamici consumati sul mercato interno.
La seconda importante innovazione legislativa introdotta dall’articolo 2 concerne la previsione della possibilità, ricondotta sia alle competenze dello Stato che delle regioni e delle province autonome, di individuare «sistemi prioritari di paesaggio storico-rurale», definiti come quei comprensori che presentano eccezionali relazioni di qualità fra paesaggio e pratiche agronomiche e che si intendono tutelare in via prioritaria in quanto rappresentativi di quelle caratteristiche irripetibili storicamente consolidatesi nel paesaggio rurale italiano. Per questi sistemi territoriali viene introdotta una disciplina di salvaguardia urbanistica finalizzata a prevenire il consumo di territorio agricolo: in sede di approvazione degli strumenti di pianificazione si prescrive una valutazione prioritaria della sussistenza di alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti a fronte di eventuali proposte di espansione delle residenze e delle infrastrutture, con l’obiettivo di privilegiare e mantenere l’utilizzazione agricola dei suoli. È stata inoltre inibita la localizzazione in queste aree degli impianti di deposito e smaltimento dei rifiuti, degli impianti di produzione elettrica a generazione eolica di potenza superiore a 50 Kw e delle linee ad alta tensione di portata superiore a 220 Kv. Sono fatti salvi gli interventi funzionali all’esercizio dell’attività agricola e agrituristica e, qualora compatibili con l’indirizzo dettato dalle suddette norme di salvaguardia, i piani paesaggistici di cui all’articolo 135 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, già adottati o approvati alla data di entrata in vigore della legge. Nella consapevolezza di agire in una materia di delicato rilievo costituzionale, si è scelto pertanto, nella formulazione dell’articolo 2, di fornire allo Stato e alle regioni una opportunità ulteriore di intervento per una più efficace tutela del paesaggio quale patrimonio culturale della Repubblica nel contesto degli articoli 9 e 117 della Costituzione, senza scardinare il quadro giuridico vigente, nel solco della recente sentenza della Corte costituzionale n. 182 del 5 maggio 2006.
Con l’articolo 3 si concretizza l’esercizio da parte dello Stato di tale nuova opportunità mediante individuazione sul territorio nazionale di una selezione di 19 «sistemi prioritari di paesaggio storico-rurale» che si ritengono solo parzialmente rappresentativi dell’eccezionale mosaico del paesaggio rurale italiano, alla cui perimetrazione sul territorio dovranno provvedere le regioni competenti; a tal fine ci si è avvalsi del prezioso lavoro scientifico, tuttora in corso, condotto dal gruppo di ricerca nazionale GECOAGRI-LANDITALY, coordinato dalla Prof.ssa Maria Gemma Grillotti docente di Geografia presso l’Università Roma Tre, finalizzato alla costruzione di un Catalogo nazionale dei paesaggi rurali, così come auspicato dalla Dichiarazione finale del Colloquium internazionale «Quality Agriculture», accolta in sede FAO in data 5 luglio 2005. Si tratta con ogni evidenza di una elencazione non esaustiva, tendente a definire una prima rete delle tipologie più rappresentative dei diversi paesaggi agricoli in relazione alle colture e alle tecniche di allevamento tradizionali del nostro Paese, che le regioni potranno ampiamente integrare con una autonoma attività di individuazione, anche in rapporto ai propri strumenti di pianificazione paesistica e di sviluppo rurale. Questa prima «rete» di protezione dei paesaggi rurali irrinunciabili colma peraltro, a nostro avviso, un vuoto reale nel sistema nazionale di tutela delle aree di interesse ambientale e paesaggistico e pone le premesse per valorizzare a pieno la dimensione storica del lavoro agricolo nella formazione dell’immagine del Paese.
Con l’articolo 4 si definiscono un serie di interventi rivolti alla valorizzazione delle attività agricole e alla promozione del paesaggio nei «sistemi prioritari di paesaggio storico-rurale», nella convinzione che il mantenimento dell’integrità di questi comprensori non possa essere affidata solo a politiche di tutela passiva, ma debba contemporaneamente fondarsi sulle condizioni reali di conduzione e di redditività delle aziende agricole, di attrattività culturale e di vivibilità delle aree. È necessario pertanto determinare una convergenza degli strumenti di sostegno per le imprese agricole e degli strumenti delle politiche di coesione e sviluppo locale verso questi obiettivi, nonché una nuova finalizzazione di alcune opportunità di investimento oggi non adeguatamente orientate. Il riferimento è in primo luogo a quelle risorse della politica agricola comunitaria specificamente riservate alla qualità e all’ambiente (articolo 69 del regolamento (CE) 1782/2003) che, in sede di applicazione nazionale, il nostro Paese ha scelto ad oggi di distribuire a pioggia, senza alcuna reale efficacia di orientamento verso pratiche apprezzabili in termini di sostenibilità ambientale. L’articolato proposto prevede che il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, d’intesa con le regioni, provveda ad una nuova formulazione del decreto attuativo per l’impegno di tali risorse, orientandole parzialmente a sostegno delle attività agricole e zootecniche in atto nei «sistemi prioritari di paesaggio storico rurale», dove potrebbero trovare un impiego più coerente con lo spirito della riforma, con particolare riferimento ad alcuni seminativi e alla zootecnia. Il comma 3 dell’articolo 4 introduce inoltre l’integrale deducibilità dal reddito imponibile a fini IRPEF e lRES per le erogazioni liberali effettuate quale contributo alla realizzazione di interventi di recupero ambientale e paesaggistico, approvati dagli enti locali, nei sistemi prioritari di paesaggio storico-rurale. Si tratta di una misura innovativa, che risponde ad alcune sollecitazioni provenienti dal mondo associativo del vino, ed intende facilitare l’investimento privato in opere di miglioramento ambientale, laddove le imprese possono trarre proprio dal rapporto con le qualità territoriali le ragioni fondanti del proprio sviluppo.
Gli articoli 5, 6, e 7 sono destinati ad introdurre misure specifiche di tutela e valorizzazione per tre pratiche tradizionali di grande valore storico per l’agricoltura mediterranea, che rivestono un ruolo primario nella definizione dei paesaggi rurali più tipici: l’olivicoltura, la viticoltura e il pascolo di alta quota.
Per quanto concerne la coltura dell’ulivo si intendono salvaguardare in primo luogo quei complessi arborei che rivestono particolare interesse dal punto di vista botanico, paesaggistico o di tutela dell’assetto idrogeologico ed arginare il fenomeno dell’espianto e del commercio degli ulivi secolari. Si tratta di interventi che depauperano del loro patrimonio ambientale aree consistenti della Puglia, della Toscana e di altre regioni, rivolti a fornire a vivai e giardini privati piante di eccezionali qualità estetiche, in gran parte destinate a deperire in breve tempo. Un censimento degli esemplari e delle aree interessate effettuato dalle regioni consentirà di vietare, con sanzioni adeguate, il danneggiamento, l’espianto e il commercio delle piante tutelate, mentre gli esercizi florovivaistici dovranno esibire, a richiesta degli organi di controllo idonea documentazione atta a risalire all’origine. Per eventuali interventi di manutenzione e gestione delle aree olivicole di particolare pregio le regioni, le province autonome e gli enti locali possono ricorrere a convenzioni con gli imprenditori agricoli ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, anche per promuovere progetti di agricoltura sociale finalizzati al recupero produttivo.
Il nostro Paese presenta una grande varietà di vitigni autoctoni e forme tradizionali di viticoltura di eccezionale valenza agronomica ed ambientale, come la viticoltura «eroica» dei versanti montani, la viticoltura isolana e quella praticata sulle terrazze costiere. Per tutelare questo patrimonio l’articolo 6 propone che le regioni provvedano a censire sul territorio di rispettiva competenza le aree viticole di interesse storico e ambientale, ad introdurre eventuali disposizioni specifiche per il recupero e la corretta conduzione colturale e a promuovere convenzioni con gli imprenditori agricoli per la gestione delle aree anche con forme di agricoltura sociale.
La pratica dell’alpeggio e della transumanza sui pascoli in quota hanno contribuito a determinare alcuni dei paesaggi alpini e appenninici di maggiore pregio del nostro Paese, nonché prodotti derivati dal latte di grande qualità, apprezzati con sempre maggiore interesse dai consumatori e spesso ad alto rischio di estinzione, unitamente ad alcune razze bovine e ovicaprine autoctone. La forte diminuzione dei piccoli allevamenti in altura procede di pari passo con l’espansione indiscriminata di insediamenti turistici non rispettosi del delicato equilibrio della montagna e con la riduzione della biodiversità vegetale delle praterie alpine. L’articolo 7 intende introdurre indirizzi per le regioni, le province autonome e gli enti locali rivolti a contrastare l’abbandono, la frammentazione e il cambio di destinazione dei pascoli montani e a facilitare la prosecuzione sul posto delle attività di trasformazione del latte. Sono previste fra l’altro una maggiore attenzione alle razze animali autoctone nelle procedure di concessione dei pascoli demaniali e il trasferimento alle regioni e alle province autonome delle competenze in materia di deroghe igienico-sanitarie per le produzioni alimentari tradizionali di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173, al fine di consentire una più adeguata valutazione delle problematiche concernenti le tecniche artigianali in altura. Anche in questo caso le province e gli enti locali possono promuovere convenzioni con gli imprenditori agricoli per la conduzione conservativa dei pascoli, sulla scorta di alcune interessanti esperienze già avviate.
Le misure di contrasto della tendenza all’abbandono delle aree agricole marginali devono entrare a pieno titolo nelle politiche finalizzate alla prevenzione del dissesto idrogeologico, della desertificazione e del degrado dei paesaggi rurali e sono all’ordine del giorno in diversi paesi europei. In Francia la nuova legge d’orientamento in agricoltura (legge n. 157 del 23 febbraio 2005) ha definito le cosiddette «zone di rivitalizzazione rurale», che godono di un particolare regime di esenzione fiscale per le attività agricole ed artigianali, mentre interventi analoghi sono in discussione in Spagna nell’ambito delle politiche nazionali a favore delle aree svantaggiate. Con l’articolo 8 si intende introdurre nel nostro Paese una prima forma di fiscalità di vantaggio per le aree rurali a più forte rischio di abbandono, da identificarsi, con successivi atti, in quei comuni nei quali si registra contemporaneamente declino demografico e forte riduzione della superficie agricola utilizzata. In queste aree si prevede, a decorrere dall’anno 2009, l’applicazione di aliquote IRPEF e IRES ridotte del 25 per cento per gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 2135 del codice civile e per le società agricole, come definite dall’articolo 2 del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99, misure che possono entrare in sinergia con quelle previste dall’articolo 4 del presente disegno di legge per i «sistemi prioritari di paesaggio storico-rurale».
Nei commi 3 e 4 dello stesso articolo viene inoltre introdotta una premialità nei trasferimenti erariali allo Stato per quei comuni dove si registrino risultati significativi in termini di conservazione della superficie agricola utile, al fine di riequilibrare lo stato di fatto che vede avvantaggiati nelle entrate gli enti locali che facilitano le trasformazioni a fini edificatori.
Nell’articolo 9 vengono definite le disposizioni per la copertura finanziaria. Per l’agevolazione fiscale di cui all’articolo 4, comma 3 (deducibilità integrale delle erogazioni liberali per interventi di recupero ambientale) è concessa la spesa di 10 milioni di euro all’anno, per l’attuazione delle convenzioni con gli imprenditori agricoli di cui all’articolo 5, comma 4 e all’articolo 6, comma 3, finalizzate alla gestione delle aree olivicole e vitivinicole di interesse storico e paesistico, è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro all’anno, per la fiscalità di vantaggio per le aree rurali a rischio di abbandono (articolo 8) è prevista una copertura annua pari a 20 milioni di euro. Da notare infine che una parte della copertura finanziaria del provvedimento viene reperita attraverso la soppressione di ingiustificate agevolazioni IVA attualmente concesse a prodotti alimentari riconosciuti dannosi per la salute, quali i grassi idrogenati e le bibite analcoliche di fantasia, che godono tuttora di aliquota ridotta al 10 per cento.
MADRID - Zapatero dichiara guerra al mattone selvaggio. Dopo decenni di cementificazione delle coste, il governo spagnolo ha deciso di porre non solo uno «stop» alle nuove costruzioni, ma si è impegnato anche ad abbattere gli edifici fuorilegge. Si comincerà dalla Costa Brava, il litorale della Catalogna, che proprio in seguito all´edificazione su larga scala di hotel e villaggi turistici, ha registrato un incontenibile boom turistico a partire dagli anni Sessanta e Settanta. Ma l´esecutivo socialista non ha intenzione di fermarsi a questa fascia del litorale: la cementificazione selvaggia delle coste è un fenomeno che interessa da tempo (soprattutto gli ultimi vent´anni), la Costa del Sol in Andalusia (da Torremolinos a Marbella), e il litorale della Comunità Valenziana (con Benidorm e, in tempi più recenti, villaggi-vacanze come Marina d´Or).
Lo strumento che Zapatero ha deciso di utilizzare per affermare l´urgenza di un intervento di risanamento delle coste è un rapporto accuratissimo affidato al Ministero dell´Ambiente: «Strategia per la sostenibilità» fissa misure drastiche, per cominciare, soprattutto per la parte settentrionale della costa di Barcellona e quella meridionale della provincia di Gerona. Per Madrid non è sufficiente la decisione della Generalitat, l´esecutivo regionale catalano, di blindare una parte della costa bloccando l´edificazione di nuovi insediamenti turistici. Il governo socialista fa un passo più lungo: prevede un piano per l´abbattimento di edifici che non sono stati costruiti nel rispetto delle norme e propone la sospensione di piani di costruzione già varati ma non ancora realizzati. Nel mirino del governo, il cemento che ha provocato lo scempio delle coste occupando i terreni a meno di 500 metri dal mare.
Sulla Costa Brava e nella zona del Maresme, potrebbero presto sparire decine di alberghi, ristoranti, camping, edifici costruiti per essere affittati nella stagione estiva ai vacanzieri di tutta Europa. Una «guerra al cemento» che potrebbe presto restituire al litorale catalano il volto che aveva alcuni decenni fa, prima che cominciasse l´assalto urbanistico. Molti dei palazzi in questione vennero edificati tra gli anni ‘60 e ‘70, prima dell´approvazione della Legge sulle Coste, un periodo che ha contribuito a fare della Spagna una delle destinazioni preferite dai turisti di tutto il continente. Ma il ministero dell´Ambiente, nella sua operazione di risanamento, ha in mente anche un altro obiettivo: quello di smantellare una serie di porti turistici nel momento in cui scadrà la concessione che avevano ottenuto dalle autorità regionali.
Per il momento, il piano del governo riguarda 260 chilometri di costa catalana. Ma presto la guerra al mattone potrebbe essere estesa al resto della Spagna.
TITOLO I - DISPOSIZIONI GENERALI
Art. 1 - Finalità della legge
Art. 2 - Soggetti e livelli di pianificazione
Art. 3 - Strumenti di pianificazione
TITOLO II - PIANIFICAZIONE TERRITORIALE REGIONALE
CAPO I - PIANO TERRITORIALE REGIONALE GENERALE (PTRG)
Art. 4 - Finalità
Art. 5 - Contenuti
Art. 6 - Elementi
Art. 7 - Formazione, adozione ed approvazione
Art. 8 - Durata e varianti
CAPO II - PIANI REGIONALI DI SETTORE
Art. 9 - Funzioni
Art. 10 - Contenuto
Art. 11 - Formazione ed approvazione
CAPO III - PIANI TERRITORIALI REGIONALI PARTICOLAREGGIATI(PTRP)
Art. 12 - Funzioni
Art. 13 - Programmazione
Art. 14 - Contenuti
Art. 15 - Elementi
Art. 16 - Formazione, adozione ed approvazione
Art. 17 - Durata e varianti
CAPO IV - DISPOSIZIONI SPECIALI PER LE PARTI DEL TERRITORIO REGIONALE DI PARTICOLARE PREGIO PAESISTICO ED AMBIENTALE O DESTINATE A PARCHI O RISERVE NATURALI
Art. 18 - PTRP con contenuti paesistici ed ambientali
Art. 19 - Piani di conservazione e sviluppo dei parchi e delle riserve naturali - Rinvio a legge speciale
CAPO V - EFFICACIA DELLA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE REGIONALE
Art. 20 - Efficacia del PTRG
Art. 21 - Efficacia del PTRP
Art. 22 - Norme transitorie di salvaguardia delle aree destinate a parco o riserva naturale e delle zone di particolare pregio paesistico ed ambientale
TITOLO III - PIANIFICAZIONE TERRITORIALE PROVINCIALE
CAPO I - PIANI TERRITORIALI PROVINCIALI DI COORDINAMENTO (PTPC)
Art. 23 - Finalità
Art. 24 - Contenuti
Art. 25 - Elementi
Art. 26 - Formazione, adozione ed approvazione
Art. 27 - Durata e varianti
Art. 28 - Efficacia
TITOLO IV - PIANIFICAZIONE TERRITORIALE COMUNALE
CAPO I - PIANO REGOLATORE GENERALE COMUNALE (PRGC)
Art. 29 - Finalità
Art. 30 - Contenuti ed elementi
Art. 31 - Direttive per la formazione
Art. 32 - Adozione ed approvazione
Art. 32 bis - Adozione ed approvazione di varianti
Art. 33 - Validità temporale e varianti
Art. 34 - Piani comunali di settore
Art. 35 - Salvaguardia
Art. 36 - Decadenza dei vincoli
Art. 37 - Norme transitorie in pendenza della decadenza dei vincoli
Art. 38 - Decadenza dei vincoli urbanistici e competenze urbanistiche comunali
Art. 39 - Decadenza dei vincoli procedurali di inedificabilità e competenze urbanistiche
Art. 40 - Sostituzione dei programmi di fabbricazione
Art. 41 - Deroghe
Art. 41 bis - Disposizioni particolari per la disciplina delle attività estrattive
CAPO II - PIANI REGOLATORI PARTICOLAREGGIATI COMUNALI (PRPC)
SEZIONE I - Disposizioni generali
Art. 42 - Finalità
Art. 43 - Contenuti
Art. 44 - Elementi
Art. 45 - Adozione, pubblicazione ed approvazione
Art. 46 - Durata e varianti
Art. 47 - Salvaguardia
Art. 47 bis - Strumenti attuativi dei programmi di fabbricazione
SEZIONE II - Disposizioni particolari
Art. 48 - Disposizioni particolari per i PRPC di iniziativa pubblica
Art. 49 - Disposizioni particolari per i PRPC di iniziativa privata
Art. 50 - Disposizioni particolari per i piani per l’edilizia economica e popolare, per i piani per insediamenti produttivi e per i piani di recupero
Art. 51 - Disposizione per gli strumenti di pianificazione infraregionali
Art. 52 - Accordi di programma per l'attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento di interesse pubblico
CAPO III - REGOLAMENTO EDILIZIO
Art. 53 - Funzioni
Art. 54 - Contenuti
Art. 55 - Regolamento edilizio tipo
Art. 56 - Formazione ed approvazione
TITOLO V - VALUTAZIONE DI IMPATTO AMBIENTALE
CAPO I - DISPOSIZIONI PROCEDURALI
Art. 57 - Finalità
Art. 58 - Strumenti di pianificazione soggetti a VIA
Art. 59 - Procedure
Art. 60 - Contenuti dello studio di impatto ambientale
TITOLO VI - DISCIPLINA DELL’ATTIVITÀ URBANISTICA ED EDILIZIA
CAPO I - INTERVENTI AVENTI RILEVANZA URBANISTICA
Art. 61 - Definizione
Art. 62 - Interventi di nuova realizzazione
Art. 63 - Interventi di ampliamento
Art. 64 - Interventi di ristrutturazione urbanistica
Art. 65 - Interventi di ristrutturazione edilizia
Art. 66 - Interventi di rilevanza urbanistico – ambientale
CAPO II - INTERVENTI AVENTI RILEVANZA EDILIZIA
Art. 67 - Definizione
Art. 68 - Interventi di manutenzione edilizia
Art. 69 - Interventi di restauro
Art. 70 - Interventi di conservazione tipologica
Art. 71 - Interventi di risanamento conservativo
Art. 72 - Nuovi interventi non aventi rilevanza urbanistica
CAPO III - DISCIPLINA DELLE DESTINAZIONI D'USO
Art. 73 - Definizioni delle destinazioni d’uso
Art. 74 - Determinazione della destinazione d’uso degli immobili
Art. 75 - Mutamento di destinazione d’uso degli immobili
CAPO IV - REGIME AUTORIZZATIVO
Art. 76 - Norme generali
Art. 77 - Concessione edilizia
Art. 78 - Autorizzazione edilizia
Art. 78 bis - Opere comunali
Art. 78 ter - Strutture ricettive all'aria aperta
Art. 79 - Rilascio della concessione e dell’autorizzazione
Art. 80 - Presentazione della denuncia
Art. 81 - Autorizzazione edilizia in precario
Art. 82 - Modalità per il rilascio e per il diniego della concessione edilizia
Art. 83 - Pubblicità della concessione edilizia
Art. 84 - Silenzio-assenso
Art. 85 - Validità della concessione e dell'autorizzazione edilizia
Art. 86 - Certificato di abitabilità ed agibilità
Art. 87 - Certificato di destinazione urbanistica
Art. 88 - Area di pertinenza urbanistica
Art. 89 - Conformità urbanistica degli interventi da eseguirsi dalle amministrazioni statali, da enti istituzionalmente competenti, dall'Amministrazione regionale e da quelle provinciali, nonché dai loro formali concessionari
CAPO V - ONEROSITÀ DELLA CONCESSIONE EDILIZIA
Art. 90 - Norme generali
Art. 91 - Opere di urbanizzazione primaria e secondaria
Art. 92 - Determinazione del contributo commisurato alle spese di urbanizzazione
Art. 93 - Determinazione del contributo commisurato al costo di costruzione
Art. 94 - Concessione gratuita
Art. 95 - Concessione convenzionata
Art. 96 - Convenzione – tipo
TITOLO VII - DISCIPLINA DELLE SANZIONI URBANISTICHE
Art. 97 - Ritardato od omesso pagamento del contributo afferente alla concessione
Art. 98 - Vigilanza sull’attività urbanistico – edilizia
Art. 99 - Opere di Amministrazioni statali e degli altri enti soggette all’accertamento di compatibilità urbanistica
Art. 100 - Responsabilità del titolare della concessione, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori
Art. 101 - Interventi eseguiti in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali
Art. 102 - Determinazione delle variazioni essenziali
Art. 103 - Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di concessione o in totale difformità
Art. 104 - Interventi eseguiti senza autorizzazione
Art. 105 - Interventi eseguiti senza denuncia o invio al Comune delle planimetrie catastali
Art. 106 - Annullamento della concessione
Art. 107 - Interventi eseguiti in parziale difformità della concessione
Art. 108 - Accertamento di conformità
Art. 109 - Interventi eseguiti su suoli di proprietà dello Stato e di enti pubblici
Art. 110 - Varianti in corso d'opera
Art. 111 - Riscossione
Art. 112 - Controlli periodici mediante rilevamenti aerofotogrammetrici
Art. 113 - Demolizione di opere
Art. 114 - Valore venale dell’immobile
Art. 115 - Intervento regionale nella repressione degli abusi edilizi
Art. 116 - Disposizioni applicative
TITOLO VIII - SISTEMA INFORMATIVO TERRITORIALE (SITER)
Art. 117 - Supporti informativi e cartografici
Art. 118 - Sistema informativo
Art. 119 - Relazione sullo stato di attuazione del PTRG
TITOLO IX - DISPOSIZIONI COMPLEMENTARI E TRANSITORIE
Art. 120 - Procedimento sostitutivo
Art. 121 - Norme regolamentari di esecuzione
Art. 122 - Ispezioni e rilevamenti
Art. 123 – Incarichi
Art. 123 bis - Incarichi professionali
Art. 124 - Revisione degli indirizzi e criteri metodologici del Piano urbanistico regionale generale
Art. 125 - Facoltà di adeguamento degli strumenti urbanistici generali
Art. 126 - Competenze della Direzione regionale della pianificazione territoriale
Art. 127 - Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere e di impianti pubblici
Art. 128 - Piani regolatori generali intercomunali
Art. 129 - Piani di lottizzazione in corso di esecuzione
Art. 130 - Norme transitorie di salvaguardia per i Comuni non adeguati al Piano urbanistico regionale generale
Art. 130 bis - Piani di riordino fondiario
TITOLO X - DISPOSIZIONI IN MATERIA DI PROTEZIONE DELLE BELLEZZE NATURALI
Art. 130 ter - Finalità
Art. 130 quater - Individuazione degli organi competenti in materia paesaggistica
Art. 130 quinquies - Funzioni paesaggistiche della sezione prima del Comitato tecnico regionale
Art. 130 sexies - Elenchi dei beni e delle località soggetti a tutela
Art. 131 - Competenze regionali e comunali
Art. 132 - Opere da eseguirsi da parte di amministrazioni ed enti pubblici
Art. 132 bis - Attività colturali comportanti riduzione di superficie boscata
Art. 133 - Integrazione delle Commissioni edilizie comunali
Art. 134 - Ricognizione ed aggiornamento dei vincoli esistenti
Art. 135 - Disposizioni transitorie concernenti gli strumenti urbanistici riguardanti beni e località sottoposti a vincolo paesaggistico
Art. 136 - Decorrenza dell’efficacia dei commi 7, 8 e 9 dell’articolo 131
Art. 137 - Interventi negli ambiti di tutela ambientale e nei parchi naturali
Art. 138 - Annullamento delle autorizzazioni
Art. 138 bis - Applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 164, comma 1, del decreto legislativo 490/1999
Art. 139 - Disposizioni transitorie di salvaguardia e di esclusione dal vincolo dei beni e località sottoposti a vincolo paesaggistico
Art. 140 - Rinvio legislativo
TITOLO XI - DISPOSIZIONI FINALI
Art. 141 - Abrogazione di norme
Art. 142 - Entrata in vigore
Allo Spazio M.I.L. di via Granelli a Sesto S. Giovanni(Mi) è in corso fino al 4 novembre la mostra dei progetti presentati al Concorso indetto dalla Banca di Credito cooperativo di Sesto S. Giovanni. Il Concorso consente a studenti e neolaureati del Politecnico di Milano di misurarsi pubblicamente con un grande nome dell'architettura contemporanea (Renzo Piano), indicando alternative credibili. Consente soprattutto ai cittadini di valutare alternative possibili al progetto “ufficiale”.
Gran parte dei progetti è stata elaborata nel Laboratorio di Progetto urbano e di paesaggio della facoltà di Architettura civile di Milano-Bovisa, tenuto da Giancarlo Consonni, di cui pubblichiamo un testo di valutazione dell’area e del progetto di Piano.In calce il testo scaricabile in .pdf, con le note a piè di pagina.
Il contesto
Sesto San Giovanni nella seconda metà dell’ottocento è un insieme policentrico di villaggi rurali, piccoli agglomerati di corti coloniche e di ville, interessati, come tutto l’altopiano milanese, dall’insediamento di filande. Ai primi del novecento la svolta: le rilevanti opportunità localizzative (la vicinanza a Milano; la ferrovia; la baricentricità fra due mercati del lavoro, urbano e rurale; la ricca disponibilità di acqua di falda) si traducono in una concentrazione repentina di grandi e medie industrie, fra le più alte d’Europa. Vi concorrono tre processi: il decentramento da Milano, il trasferimento della Falck dal Lecchese e il costituirsi di nuove industrie metalmeccaniche, elettromeccaniche e di altri comparti produttivi che scelgono di insediarsi nel contesto sestese. In brevissimo tempo Sesto passa dalla condizione rurale a quella di area forte della metropoli.
Ma la conquista di una qualità urbana degli insediamenti si presenta subito problematica. Per due ragioni: l’indifferenza al problema degli operatori privati e il corto respiro della cultura degli amministratori e dei tecnici. Solo una solida struttura dell’associazionismo di base, di varia matrice ideologica, ha fatto da contraltare a un forte potere aziendale senza tuttavia incidere in modo sostanziale sulle scelte urbanistiche. Il piano d'ampliamento del 1924 è senza idee: nessuna focalità e trama relazionale: un mero piano di lottizzazione al servizio della speculazione edilizia da cui nasce un tessuto imitativo della peggiore periferia milanese coeva. Si va avanti così fino al piano regolatore dell’ingegner Franco Cambi del 1958 che, se ha il merito di prevedere la formazione di un nuovo centro civico, contempla un’edificazione estesa all’intero territorio comunale.
Bisogna aspettare il 1962, con il lavoro progettuale di Piero Bottoni che si protrarrà continuativamente fino al 1973 (anno della sua morte), perché il problema di fare di Sesto una città venga posto al centro della politica comunale [2]. Due i punti alti del lascito bottoniano: 1) la fondazione di un cuore urbano imperniato sul broletto del nuovo Palazzo comunale, architettura notevole e dalla forte valenza simbolica; 2) l’anello verde con cui vengono recuperati in continuità con il centro civico i giardini di alcune ville storiche. Più contraddittorio è il risultato ottenuto da Bottoni nella costruzione di un quartiere popolare nella zona di cascina Gatti (l’esteso Piano 167 realizzato dopo la sua morte): a fronte di una buona organizzazione degli spazi collettivi e del verde, il punto critico è il mancato raggiungimento dell’obiettivo più ambizioso: la costituzione della strada vitale, elemento urbanistico messo a punto dall'architetto milanese proprio per fare da tramite fra centro e periferia. In quel contesto la proposta finisce per non attecchire per due ragioni: il forte carico di traffico di transito che è andato a gravare sulle arterie stradali e la scarsa presenza di attività che avrebbero dovuto sorreggerne la vitalità, a cominciare da quelle del piccolo commercio.
A partire dalla seconda metà degli anni settanta del secolo scorso lo scenario cambia drasticamente. Con la stessa rapidità con cui erano sorte, le industrie sestesi chiudono una dopo l’altra. Un quadro drammatico ma che, grazie alla posizione di Sesto, è in parte controbilanciata dalla trasformazione terziaria. La compensazione si ferma però al terreno economico: debole, se non inesistente, è invece la risposta in termini di qualità urbana. L’ultima preoccupazione di chi si è trovato a governare questo passaggio traumatico è stata quella di raccogliere il testimone lasciato da Bottoni sul terreno di fare città.
Le aree fino a oggi interessate dal rinnovamento sono però solo una parte minima della vastissima porzione del territorio sestese investita dalla dismissione industriale. Grosso modo un quarto del territorio comunale è ancora disponibile per una trasformazione urbanistica che, per quantità e importanza strategica, ha pochi confronti in Europa e nel mondo. Estensione, giacitura e compattezza fanno delle aree un tempo occupate dalla Falck il punto di forza dell’intera operazione. Anche il destino di diversi altri lotti che giacciono inutilizzati dipende da quanto verrà deciso per quelle aree.
Il progetto di Renzo Piano per le aree ex Falck
C'è una differenza fra l'essere grandi architetti e l’essere realizzatori di città. Renzo Piano lo conferma in modo paradigmatico. Il progetto da lui messo a punto per Sesto San Giovanni per conto della proprietà delle aree (Risanamento Spa del Gruppo Zunino) non sembra cogliere appieno le opportunità del contesto. La rigida divisione funzionale e spaziale tra residenza e terziario e il complessivo impianto proposto non sono in grado di promuovere e sostenere relazioni urbane: quelle che affidano alla socialità il compito primario nel qualificare i luoghi in termini di urbanità e sicurezza.
Le matrici. Il progetto ha alla base l’impostazione del peggior Le Corbusier urbanista: quello che va dalla Città contemporanea per tre milioni d’abitanti alla Ville Radieuse (mentre di tutt'altra qualità sono i suoi progetti urbanistici successivi alla guerra). Piano privilegia infatti il binomio natura/tecnica e pensa che in questa combinazione stia la sintesi di una modernità possibile e auspicabile in fatto di insediamenti umani. Si tratta in realtà di un’impostazione antiurbana. È pur vero che l'architetto genovese corregge il tiro ricorrendo all’immagine della Rambla (condita in sala newyorkese). Ma il riferimento non trova riscontro in quanto messo a punto da lui e dai suoi collaboratori. La Rambla di Barcellona è un organismo vitale per almeno due ragioni: è una passeggiata che collega due fulcri urbani di importanza primaria (Plaza Catalunya e Plaza Colón) ed è fiancheggiata da due quartieri storici pieni di vita (condizione che qui Piano si guarda bene dal tentare di riprodurre). Quanto a New York non si capisce perché dovrebbe fare da modello. Su questo ormai si può tirare le somme. Tutte le megalopoli, nello scimmiottare Manhattan, hanno prodotto e vanno producendo mostruosità decontestualizzate e disorientanti. Non è dello smisurato che abbiamo bisogno; tanto meno in Italia e in Europa, dove ha dato frutti straordinari l’opposto: il senso di proporzione, risultato, insieme, della ricerca di una misura fra terra e cielo e dell’intento di offrire ‘teatri’ commisurati al vivere associato. Al contrario, come ha scritto Claude Lévi-Strauss,
“La bellezza di New York non dipende dalla sua natura di città, ma dalla sua trasposizione inevitabile per il nostro occhio se rinunziamo a irrigidirci, dal livello di città a quello di paesaggio artificiale, dove i principi dell’urbanesimo non hanno più ragione di esistere: unici valori significativi, il vellutato della luce, la evanescenza delle lontananze, i precipizi sublimi ai piedi dei grattacieli e le vallate ombrose cosparse di automobili multicolori come fiori”.
Evidentemente Piano fa affidamento sul fatto che una densità molto elevata possa di per sé generare vitalità. In realtà per costituire strade dotate di qualità architettonica e urbana nel disastrato comparto orientale di Sesto San Giovanni occorrerebbe creare insieme perni e tramiti forti, nel senso di strutturati da relazioni intense e complesse. Per essere più espliciti, il recupero delle aree ex Falck avrebbe bisogno di almeno quattro fulcri:
- in prossimità del Villaggio Falck, così da romperne finalmente la segregazione originaria voluta dal paternalismo padronale;
- immediatamente a est della prevista stazione-ponte FS, così da dare forza alla connessione fra le due parti della città separate dalla ferrovia;
- alla convergenza del sistema cardo-decumanico, là dove viale Italia dovrebbe incrociare almeno un paio di trasversali est-ovest, canali relazionali e non di traffico motorizzato: un cuore articolato capace di inglobare le straordinarie testimonianze di archeologia industriale del T3 (ex altoforno) e dell’ Omec (ex officina meccanica), facendone i cardini monumentali della nuova città;
- infine nei pressi del T5 (altro edificio storico, un tempo ospitante il laminatoio): il fulcro più difficile da mettere a punto, ma assolutamente necessario per fare da ponte con il comparto insediativo situato a est di viale Edison.
Nel progetto di Piano il tema dell'intelaiatura della socialità è invece pressoché trascurato. L’unico tramite est-ovest da lui proposto (il ‘decumano’ rispetto al ‘cardo’ di viale Italia) è tutt’altro che una strada vitale: è un canale monofunzionale, tutto fiancheggiato da sordi blocchi di uffici. Quanto al ‘cardo’, esso si distende per due chilometri con una successione parattatica di 34 coloratissime ‘torri’ (19 edifici alti 104 metri, 15 alti 74 metri.). Ma cosa collega? Un inizio e una fine totalmente privi di forza, mentre nel suo interminabile sviluppo, il boulevard non incontra punti intermedi che possano dirsi notevoli per l'architettura dei luoghi e per l'elevata densità relazionale.
Visto l’impianto cardo-decumanico, il minimo che ci si poteva attendere è che venisse dato vita a un 'foro' all’incrocio dei due assi. Rimane la smisurata ‘Rambla’ di due chilometri che non sarà mai una passeggiata. Tanto che lo stesso progettista ha sentito la necessità di ricorrere a una protesi - dei tapis roulant - per portare il più rapidamente possibile gli affannati abitanti dall'alloggio alla prima stazione di metropolitana e viceversa.
La carta neotecnica. L'impiego dei tapis roulant è rivelatore di una debolezza progettuale complessiva. Per non parlare delle difficoltà di gestione (dall’assegnazione delle spese di funzionamento e di manutenzione di simili congegni al loro effettivo mantenimento nel tempo). Questa e altre soluzioni presentate come «neotecniche» (come gli “Elfi”, piccoli veicoli a idrogeno per il trasporto pubblico, del tutto diseconomici) sono più di facciata che sostanziali: funzionali a strategie di marketing invece che atti a offrire risposte strutturali praticabili per la nuova realtà insediativa. Le reti di trasporto e le reti ecologiche vanno sicuramente concepite in chiave neotecnica. Ma vanno definite in modo integrato con il reticolo della socialità: è dalla sintesi fra queste due maglie che può nascere la città del XXI secolo.
Il verde. L’offerta in abbondanza di aree a parco (900.000 mq) sembra il classico specchietto per le allodole (certi ‘ecologisti’ compresi). È anche grazie a questo che alla Risanamento Spa, promotrice del progetto di Piano, è stato consentito di raddoppiare le volumetrie concesse al precedente proprietario. All’estesa area verde non sono però assegnati né una struttura né un disegno significativi, quando invece gli interventi più riusciti - esemplare l’esperienza parigina della Villette - dimostrano che il parco, oggi più che mai, va concepito come una trama relazionale. Il rischio concreto è che la grande area verde diventi uno spazio informe, insicuro e di difficile gestione.
A non convincere è anche il modo in cui vengono trattate le notevoli testimonianze di archeologia industriale: lasciate allo stato di ruderi, mere presenze scenografiche nel verde.
Quantità e qualità. Nell’insieme la soluzione delineata non scommette sulla città. Mentre mette in campo numeri rilevanti - 13.000 nuovi abitanti, 15.000 nuovi posti di lavoro - non sa tradurre la quantità in qualità. E questo perché non ha alla base un progetto di relazioni, di interferenza di flussi relazionali, di rapporti pubblico-privato e, in ultimo, non punta sulla costituzione di luoghi dotati diqualità e continuità urbana. Tanto meno dà vita a un amalgama di nuovo e preesistente in grado di imprimere uno scatto complessivo al quadro insediativo. Per non dire che, a dispetto della sbandierata scelta neotecnica, non si cura di dotare l’area e la città di un sistema dei trasporti in grado di sostenere il nuovo carico insediativo.
Complessità. A completare in senso negativo il quadro c’è la monoliticità dell’offerta residenziale. Si punta in modo esclusivo su una fascia di mercato alta, se non altissima, mentre la cosiddetta edilizia sociale viene relegata in uno scampolo ai margini dell’intervento. Gli edifici di prestigio si ergono su pilotis alti ben 15 metri: le abitazioni non scendono sotto questa quota. Non ci sono gated communities ma un loro surrogato più raffinato: torri che tagliano i ponti con il suolo non meno che un tempo a San Gimignano. In altri termini, il progetto incamera, assecondandola e alimentandola, una richiesta di sicurezza che è nell’aria. Se tutto questo dovesse essere attuato, alla Sesto che conosciamo verrà a giustapporsi una non-città monoclasse arroccata in grattacieli-fortilizio. A dispetto degli slogan sulla leggerezza e sulla trasparenza, il progetto di Renzo Piano per le aree ex Falck esprime una paura del suolo assai indicativa. La possiamo definire sindrome di Blade Runner.
Il controllo e la gestione pubblica del progetto
Ai rilievi critici sul progetto di Renzo Piano si aggiungono interrogativi sul ruolo della Pubblica amministrazione. Li sintetizzo in tre punti:
1. la contrattazione tra pubblico e privato, quantunque condotta dagli amministratori locali con grande dedizione e passione civica, rischia di essere appiattita su necessità e richieste contingenti, e comunque impostate sulla vecchia logica degli standard;
2. è evidente la mancata messa a problema della rilevanza dell’area e delle sue potenzialità sui due versanti, urbano e metropolitano;
3. una volta approvato il progetto, il vasto comparto interessato dalla trasformazione verrà sicuramente frazionato con la rivendita di ciascuna parte a un diverso operatore. Ciò porrà dei problemi in ordine alla realizzazione unitaria e contestuale dell’insieme. Vi è il forte rischio che il controllo sui tempi e il rispetto di quanto concordato con la proprietà e sfugga di mano all'amministrazione comunale.
Nota: sul recupero de lle grandi superfici dismesse a Sesto San Giovanni si vedano dalle pagine di Mall anche La Banlieu Capovolta, da "D" 4 marzo 2006, e l'intervista a Renzo Piano del Corriere/Magazine, 16 marzo 2006 (f.b.)
La renitenza delle regioni (salvo rare eccezioni) ad applicare la legge Galasso invita a riflettere ancora una volta sui perché della radicata avversione tutta italiana verso ambiente paesaggio natura. Amministrazioni affette da un attivismo senza qualità e senza scopo sostengono che quella legge (ci sono voluti quarantatré governi della Repubblica) costituisce una remora, un impedimento, un “blocco” (è la parola più usata) allo sviluppo dell’edilizia, delle infrastrutture, delle opere pubbliche: quando invece altro non è che uno stimolo a una pianificazione finalmente appena un poco riguardosa di quei valori che una recente sentenza della Corte Costituzionale ha definito primari, prioritari, prevalenti.
Tra le spiegazioni che si sono date di quell’avversione ci sarebbe il fatto che in Italia la natura si è spesso identificata con un territorio avaro, fonte di povertà e fatica; oppure, d’altro lato, la mitezza del clima (da noi come negli altri paesi mediterranei) avrebbe favorito un’equivoca familiarità, e quindi una generale sottovalutazione, che ha annullato quel carattere sacro che gli antichi attribuivano alle selve, alle sorgenti, ai corsi d’acqua: cosa per cui solo i paesi che hanno avuto a che fare con una natura più ingrata (l’“orrore” delle foreste, il clima rigido eccetera) hanno imparato a rispettarla e ad usarla nel migliore dei modi. Un esempio fra tutti l’Olanda, che prosciuga il mare, realizzando insediamenti modello, ricreando agricoltura, vegetazione, biotopi.
Tutto vero, questo e altro: ciò che accomuna la maggioranza degli italiani, uomini di cultura e gente semplice, proletari e borghesi, chierici e laici è una profonda malformazione mentale che ci ha portato a una vera e propria rimozione del territorio: anziché una risorsa scarsa, preziosa e irriproducibile per definizione, esso viene degradato a terra di nessuno ovvero a semplice vuoto da riempire, a tutto vantaggio del parimenti radicato culto funesto per la crescita illimitata scambiata per progresso, per l’aumento, quale che sia, di costruzioni, strade, industrie: causa di un’urbanizzazione indiscriminata e selvaggia, per decenni condivisa dalle stesse forze della sinistra che, in cambio di pochi posti di lavoro, hanno sostenuto e incoraggiato la costruzione degli impianti industriali più inquinanti, più energivori e più costosi. La devastazione delle coste, nei varchi lasciati liberi dalla speculazione edilizia, ne è l’esempio peggiore.
La società industriale ha così fatto propria quell’altra malformazione propria della vecchia tradizione giudaico-cristiana che ha reso l’uomo despota di ambiente e natura: e San Francesco (fatto patrono dell’ecologia e d’Italia) che ha predicato la fratellanza con ogni altro essere vivente, uccellacci dei cimiteri compresi, appare un santo immeritato ed estraneo, passato come una meteora nella nostra cultura, tutta basata sull’uomo sfruttatore rapinoso della natura. Non a caso abbiamo il maggior esercito d’Europa di cacciatori e sfoghiamo a bastonate il nostro odio contro gli animali domestici: abbiamo avuto un papa, Pio XII, che benedisse i tiratori di piccione, e Bertrand Russell ricorda che Pio IX si rifiutò di ricevere quelli della protezione animali, considerando eretico credere che verso di essi l’uomo avesse qualche dovere.
C’è anche chi sostiene che la natura è femmina e come tale va trattata. Conservazione, tutela, salvaguardia sono tutti sostantivi femminili: le metafore con cui viene qualificata l’opera dell’uomo-padrone sono esplicite. La terra va “fecondata”, il viadotto (immancabilmente ardito) “cavalca” la valle, il tunnel “perfora” il monte, la strada “si insinua” tra le colline. Se il territorio è terra di nessuno, diventa proprietà di chi lo arraffa per primo, spazio aperto alle manovre di chi fonda le sue fortune sul suo saccheggio. Gli speculatori sono abili nel diffondere demagogici luoghi comuni che fanno presa sulla gente: “prima l’uomo e poi il camoscio”, “prima l’uomo e poi il muflone” sono gli slogan che negli anni passati hanno paralizzato i parchi nazionali esistenti e impedito la creazione di nuovi (ricordiamo l’ultrasinistra di Orgosolo che sparava a zero contro il parco del Gennargentu).
Di qui le alienazioni di terreni comunali, la privatizzazione del territorio naturale, le lottizzazioni per qualche posto di lavoro temporaneo nell’edilizia. Tutti i calcoli sono stati sbagliati: perché lavoro, occupazione diretta e indotta e benessere duraturo possono, al contrario, essere garantiti proprio dalla tutela dell’ambiente naturale, purché le aree protette siano messe in grado di funzionare; cosa che nel parco d’Abruzzo hanno cominciato a capire in molti, come mostra il caso esemplare del piccolo comune di Civitella Alfedena, la cui Cassa Rurale ha stampato sui propri assegni l’orsetto del parco. Sbagliare i calcoli economici e i conti ecologici è tipico di una società stravolta. La conservazione della natura sarebbe “antieconomica” dice un altro luogo comune: vorrà allora dire che è “economico” lo spreco edilizio e stradale (100 milioni di stanze per 56 milioni di abitanti; tre milioni di ettari, cioè un decimo dell’Italia, distrutti in un quarto di secolo sotto cemento e asfalto; e che è segno magnifico di benessere il costo spaventoso del dissesto idrogeologico causato dal disprezzo per il territorio e l’ambiente (circa tremila miliardi l’anno).
L’Italia si avvia così ad essere un paese a termine, che può essere consumato, finito entro poco più di un secolo. È una prospettiva che non allarma i nostri uomini di cultura, tutti lettere e arti belle, che tutt’al più si mobilitano per Capri o Portofino; né tanto meno preoccupa gli architetti, nella gran maggioranza smaniosi di lasciare la loro “impronta”. Come i fautori del nucleare (fautori dello spreco energetico) accusano gli ambientalisti di voler “tornare al lume di candela”, così gli architetti li accusano, senza vergognarsi, di voler tornare all’arcadia, di “imbalsamare” la natura ovvero di metterla sotto una “campana di vetro” e via spropositando. Ed esultano per i quattro milioni di metri cubi che l’operazione Fiat-Fondiaria vorrebbe scaricare sulla piana di Sesto presso Firenze e sono convinti che la natura proprio non esiste se non è corredata dalle loro opere.
A stento anni fa si riuscì a impedire che venissero lottizzati la campagna e i ruderi della Via Appia Antica, che qualche superstite macchia-pineta costiera (come S. Rossore-Migliarino) venisse cementificata; c’era un illustre professore romano che invitava gli studenti a progettare edifici al posto dei giardini pubblici, perché – diceva – il verde in città “fa giungla”. (A titolo di merito, va ricordato l’architetto Giancarlo De Carlo che rinunciò a lottizzare una fascia litoranea toscana, per la buona ragione, che la qualità dell’architettura non può mai riscattare l’errore ambientale e urbanistico). Assai diffusa è la protesta contro i vincoli di tutela: sarebbe ora che capissero che i vincoli di tutela (paesistici, naturalistici, forestali, idrogeologici eccetera) sono un servizio pubblico, a difesa del nostro spazio di vita, della nostra cultura e della nostra stessa incolumità.
La pianificazione dei vuoti, l’individuazione delle “aree irrinunciabili” alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni ipotesi di trasformazione e sviluppo, la creazione di riserve, aree protette, parchi naturali, costieri, fluviali, urbani, territoriali, la gelosa salvaguardia del terreno agricolo: questo è il compito dell’urbanistica moderna.
È l’esempio dei paesi avanzati, anche nelle zone più densamente abitate, dalle new towns inglesi alla Grande Stoccolma alle villes nouvelles francesi: ad Amsterdam non esistono le Appie antiche, ma se le sono create nelle maglie dell’espansione edilizia.
Sono paesi che applicano da decenni una politica che abbatte la rendita fondiaria: altra conquista civile a noi sconosciuta. Ma anche da noi sono sempre più evidenti i segni di una presa di coscienza, sempre più numerose le iniziative, le denunce, le battaglie delle associazioni, dei verdi, dei sodalizi sparsi per l’Italia. Quanto agli irriducibili occorrerà rispondere come rispose il naturalista alla signora impellicciata che gli chiedeva a cosa servono i castori vivi: “a niente, signora, come Mozart”.
Il giudizio sulla proposta di legge Ronchi sul governo del territorio è ampiamente positivo. L’impostazione della relazione è molto chiara e convincente: i nodi della crisi del governo del territorio sono affrontati con rigore e efficacia. Lo stesso impianto della legge è molto positivo, poiché è snello e comprensibile. E’ insomma un ottimo testo di legge che renderà più facile l’eventuale percorso all’interno della commissione parlamentare.
Le considerazioni che seguono sono pertanto redatte nell’intento di contribuire alla precisazione di alcune formulazioni che non sembrano pienamente convincenti, sono dunque osservazioni di merito specifico nel quadro di una generale condivisione del testo. Le considerazioni riguardano:
a) la questione dell’efficacia e gli effetti degli strumenti di pianificazione sul regime conformativo degli immobili (articolo 9, comma 1, lettera a);
b) la questione della durata delle previsioni urbanistiche (artt. 9 e 17);
c) la questione dei diritti edificatori e delle dotazioni territoriali (artt. 15 e 10);
d) alcune questioni relative agli strumenti di piano (artt. 9 e 15).
Aggiungerei infine due ulteriori questioni relative alla concorrenzialità, trattata nell’articolo 14 e alla mancanza di riferimenti alla necessità dell’abrogazione delle deroghe legate al modello ”programma complesso-accordo di programma” oggi vincente. Ma in questi due casi mi fermerei a brevi accenni, visto che sono temi che andrebbero discussi in forma di contraddittorio con gli stessi estensori della legge.
a) Questione dell’efficacia e gli effetti degli strumenti di pianificazione sul regime conformativo degli immobili
Nell’articolo 9 dedicato agli strumenti di pianificazione, il primo comma dell’articolo 1 afferma che “la legge regionale disciplina il contenuto, la durata temporale, le modalità di attuazione, l’efficacia e gli effetti degli strumenti di pianificazione sul regime conformativo degli immobili”. Credo che questa formulazione non sia corretta perché la definizione della durata dei regimi conformativi deve essere mantenuta in capo all’amministrazione centrale.
b) Questione della durata delle previsioni urbanistiche
Sempre nell’articolo 9 si afferma che gli interventi di trasformazione definiti dal piano operativo hanno durata non superiore a cinque anni “decorsi i quali ne decade la validità” (comma 5). Senza entrare nel merito se questa formulazione sia soddisfacente dal punto di vista della gestione del piano o se non sia portatrice di problemi ulteriori, c’è però da rilevare che al comma 7 dell’articolo 17 (articolo dedicato alla materia espropriativa) si afferma che “il vincolo preordinato all’esproprio, come il diritto edificatorio, può essere motivatamente reiterato”. Vedremo nel punto successivo la critica al concetto di “diritto edificatorio”, per ora va sottolineata che la legge contiene una formulazione incerta. E’ preferibile quanto invece, e contraddittoriamente, recita il comma 7 dello stesso articolo 9, e cioè “le previsioni urbanistiche inattuale……decadono di diritto al momento dell’adozione delle nuove previsioni”.
c) Questione del diritto edificatorio e delle dotazioni territoriali
Una formulazione da rivedere riguarda il concetto di “ diritto edificatorio” che compare nella rubrica dell’articolo 15 e nei commi che compongono quello ed altri articoli. E’ un tema troppo noto ai lettori di eddyburg per motivare la critica. Basterebbe sostituire la formulazione con “ previsioni urbanistiche”, o “edificatorie”.
Altra perplessità riguarda il punto g) del comma 2 dell’articolo 10 ( livelli minimi delle dotazioni territoriali) dove si afferma che rientra tra le dotazioni territoriali essenziali anche il “ sostegno alla iniziativa economica, in coerenza con l’utilità sociale e la sicurezza del territorio e dei lavoratori”
Ha senso inserire le attività economiche, già protette da leggi, comportamenti e meccanismi reali, tra quegli “standard urbanistici” nati per soddisfare esigenze sociali che iul sistema economico di per sé non è in grado di garantire? all’interno di un articolo redatto molto bene: credo che sarebbe meglio cancellarlo.
d) Alcune questioni relative alle strumenti di piano
Negli articoli che definiscono la strumentazione urbanistica ci sono tre problemi:
- il primo è relativo all’estensione a tutte le regioni del modello “tripartito” (livello strutturale, livello operativo e regolamento urbanistico-edilizio). Sarebbe opportuno di specificare soltanto la necessità della divisione ai fini conformativi e lasciare a ciascuna regione il modello preferito, rispettando tradizioni e storie ormai ventennali;
- il secondo è relativo ad una infelice formulazione contenuta nel terzo punto del comma 1 dell’articolo 9 in cui si afferma che le leggi regionali disciplinano “ i casi in cui gli strumenti di pianificazione sono sottoposti a verifica di coerenza con gli strumenti di programmazione economica, con la pianificazione di settore e con ogni altra disposizione o piano”. E’ invece opportuno che la verifica di coerenza sia mantenuta in ogni caso;
- il terzo è relativo alla comparsa all’interno del comma 2 e definito nel comma 5 dell’articolo 15 (Perequazione urbanistica e disciplina dei diritti edificatori) della dizione “piano del governo del territorio”. Non è ben chiaro il rapporto con il modello di pianificazione definito nell’articolo 9.
Ultime due questioni. Il concetto di concorrenzialità urbanistica cui si dedica l’articolo 14 non convince per la questione dell’esclusività della proprietà dei suoli. C’è certamente da discutere su eventuali modalità procedurali che permettano di migliorare la qualità dei progetti di trasformazione, ma credo che sia indispensabile legarla al ruolo degli uffici pubblici di pianificazione, lasciando ai privati esclusivamente la parte conclusiva del percorso progettuale.
Questa e la mancanza di riferimenti alla chiusura della stagione della deroga sono però questioni complesse che sarebbe opportuno discutere con gli estensori della legge.
La proposta commentata nell'articolo è inserita qui, con le altre proposte presentate al Parlamento.
Con l’approvazione della legge provinciale 2 luglio 2007, n. 3, pubblicata sul bollettino ufficiale il 17 luglio scorso, è stata profondamente innovata la normativa urbanistica della provincia di Bolzano. Anche se, formalmente, si tratta di una legge che modifica e non sostituisce la legge previgente, la sua corposità (ben 134 nuovi articoli) e la portata dei suoi contenuti fanno pensare all’apertura di una nuova stagione urbanistica.
Fra i tanti aspetti toccati dalla nuova legge, due sembrano di particolare rilevanza. Il primo riguarda la politica per la casa, mentre il secondo attiene all’introduzione, per la prima volta in Sudtirolo, di una forma di contrattualità nel rapporto fra pubblico e privato.
Da sempre, uno dei pilastri della politica per la casa in Sudtirolo è costituito dall’obbligo di destinare il 60% della cubatura nelle zone residenziali private alla costruzione di alloggi “non aventi le caratteristiche di lusso”; almeno la metà di questi non deve avere una superficie utile inferiore a 65 mq (art. 27). L’effettiva realizzazione di tale obbligo è garantito dal convenzionamento in sede di concessione edilizia (così continua a chiamarsi in Sudtirolo il “permesso a costruire”) e dall’obbligo di trascrizione del vincolo sul libro fondiario (art. 79). Le abitazioni convenzionate servono dichiaratamente a coprire il fabbisogno abitativo della popolazione residente; possono essere vendute o affittate esclusivamente in regime di prima casa e devono essere messe a disposizione dell’istituto per l’edilizia sociale se non occupate per un periodo superiore ai sei mesi.
La novità introdotta dalla nuova legge riguarda l’estensione temporale di tale vincolo, da vent’anni prima a tempo indeterminato ora; l’obbligo dell’affitto a canone calmierato rimane, invece, limitato comunque a vent’anni. È una novità non di poco conto che, infatti, ha incontrato una strenua opposizione da parte degli operatori immobiliari. La parola d’ordine della politica è però il rischio di “Ausverkauf der Heimat”, vale a dire di “svendita della patria” – e di fronte a un argomento di tale emotività nessuno si può tirare indietro.
Certo, già dieci anni fa, in tempo di stesura della legge urbanistica previgente, questo argomento tenne banco. La sua efficacia è stata però piuttosto ridotta se si considera la dinamica della produzione edilizia degli ultimi anni. Secondo i dati Istat, dal 2000 in poi, la crescita della produzione edilizia residenziale è stata nettamente superiore in Sudtirolo rispetto alla media italiana. Nella provincia di Bolzano, infatti, fra il 2000 e il 2005 il numero di alloggi costruiti all’anno è quasi raddoppiato, mentre nel resto d’Italia è cresciuto del 50%. L’enorme produzione di nuovi alloggi che, negli ultimi anni, ha superato quota 4.000 unità all’anno, risulta circa il doppio rispetto alle nuove famiglie. È dunque probabile che almeno la metà degli alloggi prodotti siano stati destinati al mercato delle seconde case.
In questo quadro, l’enfasi posta sull’originalità dello strumento di convenzionamento è forse un po’ esagerata. Per quanto utile nella costituzione di uno stock di case in affitto, esso, da solo, certamente non basta per frenare un’attività edilizia, oggi non più compatibile con l’identità preziosa del territorio sudtirolese. Soprattutto se si considera l’assenza quasi totale di limitazioni agli interventi sul patrimonio edilizio esistente è facile prevedere lo spostamento degli interessi immobiliari dalle zone di espansione a quelle della trasformazione. Qui, infatti, la legge non prevede l’obbligo al convenzionamento per l’edilizia residenziale, ammette cospicue possibilità per aumentare la densità edilizia, e dispone di una griglia di tutela dei beni culturali molto larga, facente capo, peraltro, al presidente della Giunta provinciale.
Se in tema di politiche per la casa il Sudtirolo continua comunque a tenere una delle posizioni più avanzate e originali nel panorama italiano, per quanto riguarda l’introduzione di forme contrattualistiche nelle procedure urbanistiche non si può dire altrettanto. Ciò che dall’assessore provinciale all’urbanistica viene salutato come vero cuore, come omaggio alla modernità, della nuova legge, sembra invece essere un retaggio di altri luoghi e altre stagioni.
La possibilità di contrattazione urbanistica viene introdotta dall’articolo 40bis della nuova legge. Questo prevede (comma 1), che “nel pubblico interesse” può essere stipulata una convenzione tra comune e operatori privati che deve riguardare “l’attuazione di interventi previsti nel piano urbanistico comunale oppure in un piano attuativo oppure in un altro documento di contenuto programmatico”.
Le convenzioni possono riguardare interventi volti a coprire il fabbisogno abitativo primario, il reperimento di aree per insediamenti produttivi oppure la realizzazione e la gestione di opere e impianti pubblici (comma 2).
Le risorse messe in campo da parte del privato possono essere immobili, opere di compensazione, assunzione di costi di gestione oppure semplicemente indennizzi in denaro; il pubblico, invece, può rinunciare agli oneri di concessione ma è soprattutto chiamato a mettere in campo risorse normative: “creazione di diritti edificatori tramite modifica del piano urbanistico comunale” (comma 3).
Ma il comma 1 non afferma che le convenzioni devono essere stipulate in attuazione del piano urbanistico? Venuto a mancare questo principio, a nulla vale allora che “la controprestazione deve essere congrua”, valutata dall’ufficio estimo provinciale oppure da un professionista abilitato (comma 6). Altrettanto sembra essere debole l’obbligo di contrassegnare le aree soggette a convenzione urbanistica sul piano regolatore e di seguire, per la loro approvazione, le procedure delle varianti dei piani generali o attuativi (comma 7): è evidente che in una posizione di debolezza, il consiglio comunale non potrà fare molto di più che registrare le scelte fatte altrove.
Insomma, in urbanistica tutte le forme di collaborazione tra il comune e gli operatori privati possono essere lecite fintantoché siano volte all’attuazione del piano regolatore. La procedura introdotta dall’articolo 40bis prefigura invece lo scardinamento della disciplina urbanistica. Essa prelude al “rito ambrosiano”! altro che novità! altro che modernità! Ma non finisce qui. La possibilità di stipulare tali convenzioni, riservata anche alla Giunta provinciale per gli interventi di sua competenza (comma 8), rafforza i dubbi sulla trasparenza e democraticità della norma. Guarda caso, fra gli interventi di competenza della Giunta figurano i centri commerciali e gli impianti di produzione energetica, ambedue di enorme potenziale conflittuale tra provincia, comuni e cittadini.
Potrà dispiacere, ma nel dibattito sulla nuova legge la posizione più lucida è quella del partito Union für Südtirol che sostiene che le nuove norme favoriscono insieme la dispersione urbana e la speculazione edilizia – cioè proprio la “svendita della patria”.
Di seguito la relazione e il testo dell’articolato, con link al documento ufficiale, nel formato .pdf.
Disposizioni concernenti gli strumenti di programmazione territoriale e urbanistica
Relazione
Onorevoli Colleghi! - Nell'ambito del nostro sistema il rapporto tra forma e uso dello spazio fisico è stato affidato alla rigidità della pianificazione sia in termini di elaborazione che in termini di gestione.
L'inadeguatezza del sistema si è mano mano aggravata con l'accrescersi della sensibilità nei confronti dei temi legati alla tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale.
Risulta quindi evidente come sia nodale risolvere le questioni legate alla forma delle città e del territorio ( urbis et orbis). Una relazione diretta tra forma urbis (città) e forma orbis (territorio) si riflette evidentemente nella fruibilità del territorio stesso e, dunque, direttamente sulla sua produttività in generale e indirettamente sul valore aggiunto del turismo che si rivolge ai beni culturali e ambientali.
A tale proposito è utile osservare cosa è stato fatto nei maggiori Paesi europei. E, al di là delle singole soluzioni, emerge un elemento comune, ovvero che proprio nelle culture più evolute si tende a gestire il problema con continui aggiustamenti, senza cercare astratte formule risolutive. Le differenze tra il nostro e gli altri sistemi ci sono e sono evidenti, risiedono in fattori che potremmo definire di secondo livello rispetto al quadro normativo o, come afferma l'analisi comparata, rispetto al formante legale:
1) organizzazione del testo normativo ed efficacia del «codice»;
2) la presenza amministrativa è importante presupposto per la costruzione dell'efficienza e dell'efficacia dell'azione amministrativa. Il nostro istituto del «silenzio assenso» misura l'impotenza dei nostri uffici ed è il sintomo della presa di coscienza della incapacità di porvi rimedio;
3) « public department» cui potersi rivolgere ordinariamente al fine di costituire i migliori presupposti per l'ottenimento delle autorizzazioni. Il rapporto con la pubblica amministrazione dei singoli privati e, soprattutto, dei soggetti investitori è in queste realtà generalmente più facile. La pubblica amministrazione trae credibilità proprio da questa facilità e pubblicità del rapporto con i privati.
Anche per ciò che riguarda il contenuto delle leggi, la lezione europea ci parla di maggiore attenzione verso le procedure attuative piuttosto che nei confronti della ricerca di nuovi princìpi o istituti amministrativi. I vari sistemi hanno rivolto particolare attenzione nel chiarire esattamente i limiti e le funzioni della pianificazione generale rispetto a quelli della pianificazione attuativa. In tale senso il sistema italiano risulta molto arretrato: il piano regolatore generale è oggi un istituto indefinito in molti suoi connotati essenziali, secondo le scelte dell'amministrazione esso diventa strumento di indirizzo o documento di dettaglio.
Lo spazio tra noi e le migliori realtà europee non è fatto dunque di leggi risolutive o di meccanismi tecnicamente perfetti. Esso piuttosto è fatto di una attenzione costante a quelli che abbiamo chiamato problemi amministrativi di secondo livello, di cura nel pensare i passaggi procedurali, di organizzazione e di «pulizia» dei testi di legge, di funzionalità degli uffici, di tutto ciò che costituisce la costante presenza dell'amministrazione nella vita sociale, senza la quale non è pensabile attendersi risultati di rilievo dalla pianificazione, quale che ne sia il livello tecnico di elaborazione.
Analisi comparata
Preliminarmente è necessario procedere alla ricerca degli elementi fondativi dei vari sistemi. Per elementi fondativi non si intende solo il focalizzare le questioni di principio, ma più concretamente si intende la ricerca dei passaggi più importanti che connotano un sistema e ne assicurano il funzionamento. Una sorta di memorandum per il legislatore che vorrà mettere mano alla materia.
In questo quadro occorre subito porre l'accento su un primo risultato: la produzione legislativa della materia oggetto del nostro interesse è sempre ampia, articolata e complessa.
Questo significa abbandonare le suggestioni di ipotetiche «delegiferazioni» e rassegnarsi ad avere a che fare con un gran numero di parole scritte. Tale conclusione porta in evidenza la questione, apparentemente solo tecnica e di contorno, dell'attenzione posta alla redazione dei testi e alla relazione che si stabilisce tra loro.
L'organizzazione del quadro normativo
La Germania e la Francia si sono date un codice organico. Ogni nuova legge così entra a fare parte del testo, secondo un meccanismo semplice di doppia numerazione degli articoli: il primo numero è quello relativo alla collocazione nel testo ed il secondo è esclusivamente riferito all'articolo di nuova promulgazione.
Il Regno Unito utilizza un sistema detto di « Consolidation», attraverso il quale compatta, ogni dieci anni, tutte le leggi in materia urbanistica in un solo testo, che prende il nome di « Town & Country Planning Act», e in quella sede provvede anche a modificare le parti dei precedenti testi la cui applicazione sia stata deludente o negativa.
Lo strumento a disposizione del legislatore spagnolo è il « Testo Refundido», che pur essendo il testo base non esaurisce la materia.
Da questa panoramica pare evidente l'arretratezza del sistema italiano. Lo strumento per ovviare a tale situazione è già presente nel nostro ordinamento ed è il testo unico, che consiste nella raccolta sistematica delle leggi relative a una certa materia. Ricordiamo che il testo unico viene emanato dal Governo, su parere del Consiglio di Stato, nell'esercizio di una delega del Parlamento. Il testo unico può avere valore amministrativo, ossia non modificare nulla di quanto in vigore, ovvero legislativo, e in tale caso, proprio come avviene per la « Consolidation», può anche apportare modifiche, eliminare incongruenze sostanziali, perfezionare aspetti attuativi delle leggi considerate.
La legislazione aperta
È chiaro che l'adozione di un codice dell'urbanistica non è solo un esempio di buona amministrazione, ma è anche un importante connotato di una cultura giuridica diversa il cui principale carattere è un sorprendente pragmatismo: il pragmatismo giuridico.
Se il problema è di rilevanza sociale, e se la soluzione prevista è in grado di risolverlo, si determina una condizione di fattibilità giuridica che non richiede, come invece nella cultura italiana, la verifica della congruenza formale con i princìpi generali che regolano la materia o addirittura l'intero sistema istituzionale.
« Enterprise zone», aree degradate perché zone ex industriali, sottratte d'autorità alla competenza degli enti locali, sottoposte a regime fiscale agevolato e governate, di fatto, da società di capitale pubblico. Il giudizio su tale istituto è oggi prevalentemente negativo. Esso però viene attaccato in patria non perché illegittimo, ma in quanto inefficace, cioè per non avere prodotto i risultati previsti in termini economici e di qualità urbana.
In tale senso il pragmatismo giuridico favorisce una legislazione «aperta», che non è costituita da una serie di provvedimenti speciali o eccezionali, ma incentiva l'attitudine ad occuparsi dei problemi posti dall'evoluzione della realtà, isolandoli, identificandoli e cercando la loro specifica soluzione.
Condizione essenziale, perché il pragmatismo mantenga una dimensione istituzionalmente accettabile, e perché una legislazione «aperta» abbia caratteri di coerenza complessiva, è da un lato che il quadro normativo mantenga una grande compattezza formale e leggibilità sostanziale; dall'altro, che gli strumenti attuativi siano sempre innescati su di una griglia di indicazioni di ampia scala, che assicuri razionalità alle scelte che connotano la politica territoriale. E ciò si ottiene con il doppio livello di pianificazione che, come vedremo, ha un diverso significato nel nostro Paese rispetto ad altre realtà comunitarie.
Il doppio livello di pianificazione
La cultura urbanistica moderna si è mossa sempre e dovunque accettando il principio che debba esserci un doppio livello di pianificazione.
Nell'adottare questo modello tutti i Paesi indagati si sono trovati di fronte al medesimo problema, che potremo definire della invadenza dello strumento generale di piano, ossia della tendenza ad attribuire un sempre maggiore livello di dettaglio tecnico al momento pianificatorio generale, al fine di rafforzarne il significato. I piani così concepiti si sono però rivelati di difficilissima produzione e, soprattutto, gestione. Lenti nell'elaborazione, tecnicamente incapaci di occuparsi di tutto in modo accettabile, hanno finito con il provocare la reazione dei proprietari e del settore economico interessato in genere. Il legislatore ha posto rimedio costringendo il piano generale entro limiti precisi, secondo tecniche giuridiche diverse. In Francia si è fatto leva ad esempio sulla scala: lo strumento generale che è oggi lo «Schema Directeur» è redatto al 50.000, e solo per le realtà minori è consentito scendere al 20.000. In Germania il piano generale ( Flachennutzungplan) è un atto interno all' amministrazione: pure se pubblico, esso non ha effetti sul regime dei suoli e non determina diritti o doveri per i privati.
Nel Regno Unito il pragmatismo anglosassone portò al divieto di accompagnare la relazione illustrativa dello Structure Plan con mappe o con carte. Oggi tale divieto è di fatto caduto, ma lo structure plan è di fatto abolito per le aree maggiori.
Al contrario, in Italia il piano regolatore generale ha continuato a espandere il suo ambito di applicazione che è sostanzialmente discrezionale. Il fatto che in molti casi sia usato come strumento di dettaglio non è infatti previsto dalla legge n. 1150 del 1942, che sembrerebbe anzi attribuirgli un significato assai più «europeo». Tuttavia, mentre in altri Paesi si è ritenuto opportuno specificare dettagliatamente, a mezzo di legge nazionale, cosa lo strumento generale deve o non deve disciplinare, in Italia tale limite è lasciato alla cultura locale. Esistono così oggi realtà pianificatorie assai disomogenee, anche se la tendenza prevalente è quella di dilatare le conseguenze dirette del piano regolatore generale.
Sistema amministrativo e amministrazione del territorio
Nel dopoguerra si è assistito alla crescita del ruolo e delle funzioni attribuiti agli enti locali, cui di diritto è stato trasferito il compito di redigere e di attuare i principali strumenti di piano. Negli ultimi decenni la pianificazione su base locale si è quindi dovuta confrontare con la realizzazione delle grandi reti di infrastrutture, con problemi di equilibrio ambientale e di gestione della risorsa idrica, insomma con una serie di questioni affrontabili solo a livello sovracomunale o addirittura solo a livello nazionale. E il livello nazionale ha dovuto cedere il passo alla scala internazionale, si pensi ad esempio ai sistemi dei trasporti.
Tale problema naturalmente è risultato più facilmente gestibile in Francia, in cui il Governo centrale ha conservato una sostanziale priorità amministrativa. Quel che sembra sorprendente, almeno apparentemente, è che i modelli federalisti hanno dimostrato maggiore elasticità e adattabilità di quelli autonomisti, la cui rigidità ha generato un continuo conflitto di competenze, e in genere è risultata un ostacolo alle politiche territoriali nazionali.
Nei fatti notiamo che vi è stata una differenza sostanziale tra la Germania, in cui i Lander hanno di fatto riattribuito potestà al Governo federale, e il Regno Unito, dove le Camere tale potere lo hanno evocato d'autorità, non senza provocare reazioni e resistenze. Ci aiuta a comprendere tale vicenda storica, di grande interesse, il fatto che il Bund tedesco è il luogo di coordinamento dell'azione governativa dei Lander, e tra le due istituzioni vi è quindi una sostanziale identità di fondo. Al contrario, l'assetto istituzionale anglosassone non ha tali caratteristiche, e il livello di relazioni tra centro e periferia è di, seppure fisiologica, contrapposizione. Questa vicenda, se comporta un ulteriore interesse di studio verso il sistema tedesco, ne denuncia tutta la distanza dalla tradizione italiana, evidenziando come lo stesso concetto di organizzazione di tipo federalista sia praticamente assente dalla nostra cultura.
Il sistema autonomista articolato sulle deleghe amministrative alle regioni, male sembra adattarsi invece alla evoluzione delle esigenze poste dalla pianificazione di grande scala. Italia e Spagna hanno vissuto e vivono gravi conflitti di competenza, che portano troppo spesso a una sostanziale incoerenza tra i diversi livelli di pianificazione. Si è così venuta a creare la paradossale situazione di amministrazioni che si comportano come fossero equiordinate, pianificando in modo indipendente, e spesso incongruente, la stessa porzione di territorio.
Attuare il piano: i conflitti di interesse
Una delle ragioni sostanziali che rendono difficile l'attività di pianificazione è certamente data dalla stratificazione degli interessi su aree e su immobili da parte di soggetti privati, società ed enti pubblici. Il comune deve predisporre il piano regolatore generale, prescindendo dagli interessi dei singoli e senza considerare le propensioni dei proprietari. Le stesse osservazioni che le parti pubbliche e sociali possono esporre una volta che il piano sia stato presentato devono avere carattere generale e non possono riguardare interessi precisi od opporsi a soluzioni economicamente penalizzanti per i singoli. Negli angusti spazi lasciati da questo quadro istituzionale, che risente delle aspirazioni ottocentesche di disporre di una amministrazione comunque « super partes», sono stati in realtà tentati a più riprese esperimenti di maggiore coinvolgimento diretto delle parti economiche e sociali. Ma è certo che l'assoluta mancanza di copertura istituzionale di questi meccanismi di relazione tra pubblico e privato ne ha frenato assai lo sviluppo. Il legislatore spagnolo nell'ambito della stessa posizione ha previsto la possibilità per il privato di assumere un ruolo determinante, tramite la «giunta di compensazione».
L'esperienza britannica vede nel conflitto di interessi, economici e non, una situazione fisiologica, che viene gestita in modo ordinario. Ogni decisione che sposti interessi legati alle aree, e comunque ogni modifica sostanziale delle previsioni di piano, è sottoposta a un vero processo, detto « Pubblic Inquire», in cui l'autorità locale può assumere una posizione di parte, e la cui decisione è rimessa al Governo centrale.
Il legislatore francese concentra i maggiori investimenti in zone perimetrate e sottoposte a regime di accordo con i privati investitori (le «ZAC»), attuando così un regime differenziato nei confronti degli operatori economici con cui concordare investimenti sul territorio, e della piccola proprietà distribuita cui assicurare la tutela dei diritti essenziali compatibilmente con l'interesse comune.
Il sistema tedesco fa costante, quasi caparbio, riferimento a strumenti di amministrazione ordinaria. Il piano edilizio attuativo (« Bebauungsplan») può essere di iniziativa privata, naturalmente intendendo per privati i costruttori, le società immobiliari o finanziarie, e in tale modo si innesca un meccanismo di contrattazione, il cui eventuale esito favorevole viene recepito in sede di pianificazione attuativa.
In conclusione le esperienze esaminate ci forniscono due indicazioni abbastanza chiare: la prima è che l'amministrazione del territorio porta con sé inevitabilmente il rischio di provocare conflitti di interesse anche fra privati; la seconda è che esistono due interlocutori separati dell'amministrazione, i privati cittadini, proprietari e no, ed i soggetti investitori, quali le imprese di costruzioni, finanziarie, immobiliari, e che è utile assumere atteggiamenti e darsi strumenti diversi per regolare i rapporti con essi. È utile dirigere l'investimento sugli obiettivi che la politica territoriale adottata ritiene prioritari: espansione, recupero, riuso.
Pare opportuno sottolineare che in Inghilterra e in Francia è istituzionalmente accettato e formalizzato il regime giuridico differenziato per i soggetti investitori, rispetto a quello riservato a tutti gli altri soggetti amministrati.
Le proposte si muovono sempre all'interno di quanto stabilito dallo strumento generale di piano, e riguardano l'assetto definitivo di un'area preventivamente e genericamente dichiarata trasformabile da parte dell'ente locale. L'attenzione si sposta sui contenuti di tali proposte e sulla loro effettiva vantaggiosità per l'ente pubblico.
Attuare il piano: la politica fondiaria
In ogni esperienza pianificatoria è presto o tardi emersa la tendenza a porre l'accento sulla necessità, per l'autorità di piano, di controllare direttamente una porzione significativa delle aree oggetto dell'azione amministrativa. La costituzione e la gestione di una congrua riserva fondiaria pubblica diventano elemento strategico essenziale della politica territoriale anche in funzione antispeculativa. La fine, o comunque il forte rallentamento della crescita urbana, ha tolto a questo tema priorità, in Italia come in altri Paesi.
Tuttavia la questione relativa alla formazione della riserva fondiaria trova di volta in volta una sua attualità come ad esempio nel caso delle aree ex industriali. Così in Francia la «legge di orientamento delle città» rilancia la politica di acquisizione fondiaria in modo deciso ed esplicito.
Il tema pone comunque due ordini di problemi: l'acquisizione dei terreni e la loro gestione. Per quel che riguarda il primo punto i metodi sono tre, l'espropriazione, l'esercizio del diritto di prelazione e l'acquisto.
Più rilevante è il problema delle risorse economiche che tale politica richiede, per fare fronte alle quali la politica francese, ad esempio, ha introdotto una specifica tassa, che grava sui proprietari delle aree comprese nelle zone destinate alla valorizzazione urbana.
Le espropriazioni
La questione delle espropriazioni è negli altri Paesi considerata questione di secondo piano. La pratica della specializzazione degli strumenti attuativi e della contrattazione con i principali attori economici riduce di molto il problema del controllo diretto delle aree, inoltre vige il sempre più utilizzato diritto di prelazione. A ciò si aggiunga che alcune amministrazioni, controllando il meccanismo delle previsioni urbanistiche, hanno acquistato aree in netto anticipo sull'espansione urbana, pagandone quindi il solo valore agricolo. Infine si consideri che quando la facoltà espropriativa può essere esercitata con relativa facilità si ha come effetto la comprensibile propensione dei proprietari a ricercare celermente una transazione. Ciò è garantito dalla disponibilità finanziaria e dal buon funzionamento degli uffici.
Diritto di trasformazione dell'immobile: ius aedificandi
Separabilità del diritto a edificare rispetto al diritto di proprietà.
Nel modello tedesco l'edificabilità costituisce un diritto puro, solitamente non soggetto a scadenza, e con l'unico limite dato dal fatto che parte degli oneri a esso relativi vanno pagati indipendentemente dall'esercizio di tale diritto. Diametralmente opposta è la tendenza rilevata in Spagna, dove la figura del proprietario di un lotto edificabile tende sempre di più al tipo di diritto dovere. Il diritto dovere presuppone infatti capacità di sostituzione da parte dell'amministrazione pubblica. Ritornano le esigenze di avere uffici capaci di controllare e di intervenire, il che richiede dotazioni tecniche, capacità professionali e risorse economiche, tre elementi tanto preziosi quanto difficili da ottenere.
Ancora una volta si profila la differenza tra i sistemi italiano, spagnolo e francese, in cui l'amministrazione viene impegnata da leggi riferendosi esclusivamente ai suoi compiti istituzionali, come definiti dai princìpi generali, e gli altri due sistemi, dove i compiti istituzionali sono dati da una sorta di mediazione tra ciò che i princìpi generali prevedono e ciò che in realtà può essere fatto. L'adattamento dei princìpi alle capacità attuative della funzione amministrativa costituisce una ennesima prova del più volte richiamato pragmatismo giuridico.
L'abusivismo
In Francia il fenomeno è ridotto ai minimi termini.
La Germania ha conosciuto nel passato una diffusa forma di abusivismo nelle aree rurali, abbastanza tollerata.
Sono tipici dell'esperienza britannica abusi minori essenzialmente configurantisi come ampliamenti non autorizzati di immobili esistenti.
La Spagna presenta invece una situazione più vicina a quella italiana, con una ampia e diffusa presenza del fenomeno. Sono soprattutto le periferie delle maggiori città e le coste a essere aggredite dall'attività illegale. Avendo raggiunto livelli sostenuti che ne rendono impensabile la sistematica repressione, l'abusivismo ha potuto beneficiare di provvedimenti di sanatoria a carattere generale, a seguito dei quali hanno fatto la loro comparsa provvedimenti legislativi, quali la legge delle coste, diretti a determinare una auspicabile inversione di tendenza. La fase di sanatoria di una parte del pregresso è stata però accompagnata dal passaggio delle competenze alle regioni, che sono intervenute con diversi livelli di determinatezza.
Il contenzioso
L'amministrazione del territorio, per il livello e per la quantità di interessi che colpisce, pare attività inevitabilmente destinata a suscitare contenzioso in misura rilevante. Di fronte a questo problema, fino ad oggi, solo l'esperienza inglese e quella tedesca sembrano avere prodotto soluzioni positive, anche se di carattere diverso, riuscendo a sopportare il peso di un forte incremento del contraddittorio derivante dalla crescita dei movimenti ecologisti e di difesa ambientale. Negli altri tre Paesi il problema ricade sul funzionamento della macchina giudiziaria con le note patologie che affliggono tale branca del sistema, prime fra tutte la lentezza e la contraddittorietà nella emanazione delle sentenze.
I temi critici
La compatibilità con il ciclo di investimento evidenzia come le amministrazioni più efficienti sono quelle delle aree più ricche del Paese, e ciò configura la pericolosa tendenza a concentrare gli investimenti nelle aree economicamente più mature, con gli enti locali più affidabili ed i mercati immobiliari più reattivi. Il sistema così concepito rischia di assecondare, aggravandoli, gli squilibri già così fortemente presenti nel Paese.
In considerazione di quanto esposto, la presente proposta di legge prevede, quindi, una serie di nuove disposizioni finalizzate a stabilire adeguati strumenti di programmazione territoriale e urbanistica.
Testo degli articoli
CAPO I
DENOMINAZIONE, NATURA E FUNZIONI DEGLI STRUMENTI DI PROGRAMMAZIONE TERRITORIALE E URBANISTICA
Art. 1.
(Princìpi generali).
1. Gli strumenti di programmazione territoriale e urbanistica, di seguito denominate «strumenti», hanno funzioni di indirizzo e sono distinti in strumenti di previsione generale e in strumenti di previsione attuativa.
2. La formazione degli strumenti è costituita da due fasi distinte: le previsioni di massima e le previsioni esecutive.
3. Ai fini dell'applicazione degli strumenti, il governo del territorio è realizzato mediante i seguenti schemi di previsione:
a) schema generale di massima;
b) schema generale esecutivo;
c) schema attuativo di massima;
d) schema attuativo esecutivo.
4. Le disposizioni della presente legge costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale e princìpi della legislazione dello Stato ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, anche ai fini degli obblighi internazionali dello Stato.
Art. 2.
(Ambito dello schema generale).
1. Lo schema generale ha valenza territoriale e urbana.
2. Nell'ambito territoriale dello schema generale la zona rurale deve essere sud divisa per bacini idrografici, per i quali, con apposita legge regionale, si prevedono adeguati interventi di forestazione lungo gli impluvi e presso i parchi suburbani e territoriali, con appositi programmi di utilizzazione, realizzati anche mediante incentivi in termini di indici edificatori con distanza minima tra fabbricati di 20 metri. Lo schema generale è attuato nei rispettivi territori dalle province e dai comuni, fermo restando il divieto, da parte di tali enti, di derogare alle indicazioni dello schema stesso.
3. Nell'ambito urbano, oltre le eventuali zone di espansione residenziali e non residenziali, lo schema generale individua nell'ambito delle zone con spiccata vocazione edificatoria apposite aree per l'insediamento di attività turistiche, commerciali, artigianali e direzionali. L'utilizzazione di tali aree può avvenire mediante schemi esecutivi predisposti dagli operatori e con densità territoriale assegnata dallo schema generale, o attraverso iniziative particolari quali contratti d'area, patti territoriali e programmi urbani complessi.
4. Alle zone residenziali di espansione viene attribuita dallo schema generale la sola densità territoriale, e l'edificazione può essere determinata da appositi schemi attuativi di iniziativa privata, assoggettati alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria, alla cessione delle aree per urbanizzazione primaria e secondaria, e al versamento dei soli oneri di urbanizzazione secondaria. L'edificazione può altresì avvenire con il concorso di tutti i proprietari interessati, ovvero attraverso l'istituto del comparto; partecipano alla volumetria realizzabile anche i proprietari delle aree destinate a urbanizzazioni primarie e secondarie. Ove ritenuto utile, in base alla valutazione dell'autorità statale competente di concerto con l'autorità di programmazione, è consentita la realizzazione diretta delle opere di urbanizzazione secondaria.
5. Non è obbligatorio, nell'ambito dello schema generale, redigere gli schemi attuativi e individuare strutture e zonizzazioni di competenza degli schemi territoriali regionali e provinciali.
6. I comuni costituiscono un fondo di volume edificabile in regime di quote volume al quale possono attingere ai fini dell'attuazione delle previsioni dello schema generale.
CAPO II
FORMAZIONE
Art. 3.
(Aggiornamento dello schema generale).
1. Ai fini dell'aggiornamento dello schema generale, in conformità a quanto previsto per i piani regolatori generali resi conformi al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, con deliberazione consiliare, può essere confermata o variata la titolazione delle zone «A» e «B».
2. Ai fini di cui al comma 1, la titolazione delle zone «A» e «B» è approvata con deliberazione del consiglio comunale, esaminate le osservazioni e le opposizioni. Tale deliberazione è inviata, entro due mesi, all'assessorato regionale competente per il territorio e l'ambiente.
3. Con la deliberazione di cui al comma 2 viene confermata o modificata la previsione degli standard urbanistici previsti dallo schema generale.
4. Preso atto dell'avvenuta edificazione della zona «C» si procede al conseguente cambio di titolazione in zona «B».
5. L'ambito dell'aggiornamento del piano regolatore generale, ove il fabbisogno abitativo non sia già soddisfatto dalle zone «A» e «B», è limitato alla individuazione di nuove zone residenziali anche attraverso l'individuazione di ambiti urbani da riqualificare attraverso schemi esecutivi di riassetto urbanistico per entrambe le zone citate.
Art. 4.
(Procedura di formazione dello schema generale).
1. I comuni, indipendentemente dal procedimento di aggiornamento dello schema generale di cui all'articolo 3, sono tenuti alla redazione della fase di analisi che costituisce supporto alla redazione dello stesso schema in quanto strumento conoscitivo e di tutela del rispettivo territorio. I comuni sono altresì tenuti all'aggiornamento costante di tali analisi.
2. Lo schema generale, corredato delle norme di attuazione, è sottoposto al parere preventivo dell'assessorato regionale competente per il territorio e l'ambiente, che solo in questa fase può esprimere un giudizio di merito impartendo le eventuali prescrizioni.
3. Successivamente all'espressione del parere di cui al comma 2, lo schema generale prosegue il suo iter normale ai fini della redazione finale. A tale scopo è previsto il solo giudizio di conformità, da parte dell'assessorato regionale competente per il territorio e l'ambiente, ai criteri fissati nello schema generale di massima.
4. Per gli strumenti generali non sono previste cause di incompatibilità nei confronti dei consiglieri comunali.
Art. 5.
(Strumenti attuativi).
1. Ai fini dell'approvazione degli strumenti attuativi dello schema generale i consiglieri comunali sono obbligati a dichiarare le proprie cause di incompatibilità.
2. Per l'approvazione degli strumenti attuativi il numero legale per rendere valida la seduta deliberante del consiglio comunale è pari al numero dei consiglieri che non hanno dichiarato situazioni di incompatibilità e comunque non inferiore a un terzo dei componenti il consiglio.
3. I comuni, dopo avere acquisito il giudizio di merito dell'assessorato regionale competente per il territorio e l'ambiente, procedono, secondo le indicazioni dello schema generale di massima, alla redazione di prescrizioni esecutive, le quali, una volta approvate, sono trasmesse al medesimo assessorato.
4. L'approvazione degli strumenti attuativi è di competenza dei comuni. L'approvazione diventa esecutiva dopo quarantacinque giorni dall'invio della relativa deliberazione all'assessorato regionale competente per il territorio e l'ambiente ai fini del giudizio di conformità allo schema generale di massima.
Art. 6.
(Zone urbane consolidate).
1. Nell'ambito delle zone urbane consolidate si interviene tramite appositi schemi attuativi, che devono essere successivi all'approvazione dello schema generale. Gli schemi attuativi devono prevedere:
a) la conferma o l'integrazione degli standard urbanistici;
b) l'assetto urbanistico.
2. Nell'ambito della zona «A», ai sensi della legislazione vigente in materia, sono stabilite le modalità di intervento sugli isolati con l'individuazione delle parti da assoggettare a interventi diretti, ovvero a schemi di recupero di iniziativa pubblica e privata estesi almeno a una unità edilizia, nonché delle parti da assoggettare a interventi diretti di recupero quali la manutenzione straordinaria, il restauro, il risanamento conservativo e la ristrutturazione. Tali previsioni sono fissate con un apposito regolamento edilizio che assicura la coerenza degli interventi.
3. Nella zona «B», oltre all'esecuzione di interventi diretti, in analogia alla zona «A», possono essere oggetto di iniziativa privata ambiti di riqualificazione urbana individuati dal comune, prevedendo adeguati incentivi per gli interventi di nuova edificazione, anche sotto forma di volumetria, al fine di favorire il riassetto urbanistico e il riuso dei volumi attraverso apposite demolizioni e ricostruzioni.
Art. 7.
(Definizione degli interventi edilizi).
1. Il rinnovo degli elementi costitutivi previsti dall'articolo 3 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e successive modificazioni, comprende l'intervento di smontaggio totale degli edifici esistenti e il successivo rimontaggio con gli stessi materiali e le stesse tecniche costruttive al fine di adeguare le strutture delle fondazioni ai moderni standard di sicurezza statica e antisismica.
Art. 8.
(Edilizia economica e popolare).
1. I finanziamenti pubblici per la dotazione della prima casa sono assegnati direttamente ai soggetti in possesso dei prescritti requisiti, sia per l'acquisto che per la costruzione in economia; in entrambi i casi si può procedere in forma associata cooperativa. In quest'ultima ipotesi i soggetti si fanno promotori della presentazione dell'intervento di nuova edificazione attraverso la richiesta di concessione edilizia o di approvazione del piano costruttivo nell'ambito delle aree residenziali.
2. Per gli interventi di nuove edificazioni la regione concede un contributo in conto capitale pari al 20 per cento della differenza tra il prezzo di esproprio e il valore catastale dell'immobile.
Art. 9.
(Assegnazione dei compiti di governo. Programmazione e realizzazione).
1. I compiti di governo del territorio sono attribuiti agli enti pubblici competenti per territorio e per materia secondo le specifiche articolazioni interne.
2. Le attività di programmazione sono attribuite agli uffici tecnici degli enti pubblici.
3. Gli enti pubblici individuano gli obiettivi e verificano la coerenza degli schemi di programmazione territoriale e urbanistica redatti dai rispettivi uffici tecnici.
4. Gli uffici tecnici degli enti pubblici redigono gli schemi di programmazione territoriale e urbanistica e verificano la conformità ai medesimi delle attività di realizzazione.
5. Le attività di realizzazione degli schemi di cui al comma 4 sono attribuite esclusivamente ai tecnici liberi professionisti. I medesimi tecnici rilasciano le autorizzazioni e le concessioni edilizie previo deposito negli archivi degli enti pubblici di tutta la documentazione e degli studi specialistici relativi alla loro attività di progettazione, direzione dei lavori, attestazione di coerenza con le normative vigenti e con gli strumenti urbanistici.
6. I lavori relativi a tutti gli interventi di realizzazione asseverati da tecnici abilitati ai sensi del comma 5 possono essere iniziati dopo il termine di trenta, di sessanta, di novanta o di centottanta giorni dal loro deposito allo sportello unico comunale per l'edilizia, in relazione alla complessità dei lavori stessi. Entro i medesimi termini, gli enti pubblici possono comunicare le proprie prescrizioni o l'esistenza di motivi ostativi.
7. Al fine di facilitare la sorveglianza e il controllo da parte degli uffici tecnici degli enti pubblici sui lavori di cui al presente articolo, il tecnico libero professionista deposita la documentazione dello stato di avanzamento dei lavori stessi. La documentazione è fotografica e descrittiva. Le dichiarazioni infedeli sono denunciate dal responsabile del procedimento immediatamente all'Ordine o al collegio professionale competente. La denuncia determina la contestuale sospensione del tecnico dall'albo professionale in attesa dei successivi provvedimenti definitivi che, nei casi più gravi, possono arrivare alla radiazione dal medesimo albo.
Presentato in data 19 giugno 2007; ora all'esame della XIII Commissione “Territorio, ambiente, beni ambientali” assieme ai disegni di legge nn. 1298 (Sodano) e 1691 (Ronchi). Di seguito la relazione, con link al documento ufficiale, completo dell'articolato, in formato .pdf.
Principi fondamentali per il governo del territorio. Delega al Governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare
Relazione
Onorevoli Senatori. – Il tema del governo del territorio ha una grande rilevanza per far esprimere all’Italia le sue potenzialità, determinate dalla complessità e dalla ricchezza del patrimonio urbano, infrastrutturale, storico-artistico, ambientale e paesaggistico. Solo declinando questi temi in un’ottica di sviluppo sostenibile è possibile costruire un’ipotesi di modernizzazione e di innovazione del Paese.
Uno dei punti fondamentali per il rilancio del Paese e per l’azione di governo è rappresentato dalla sostenibilità ambientale, economica e sociale delle politiche e delle strategie che interessano il territorio e la sua sicurezza, il sistema delle città e delle infrastrutture, la qualità dell’ambiente urbano e la riconversione ecologica del sistema produttivo.
Per vincere questa sfida è necessario pensare alla qualità del territorio, delle città e della produzione, come uno dei motori per far ripartire l’Italia, coniugando le opportunità della modernizzazione con il limite delle risorse non rinnovabili, a cominciare dal suolo, dall’aria e dall’acqua, e con le politiche di solidarietà, di equità e di inclusione sociale.
Per affrontare il tema del governo del territorio, dei suoi princìpi e delle sue regole, è necessario partire dalle condizioni che hanno determinato le trasformazioni subite dal territorio e dalle città in questi anni, ma anche dalle scelte effettuate e dagli strumenti utilizzati per governare il cambiamento. Affrontare questo tema significa, anche oggi, rendere esplicito e positivo il tema della leale collaborazione tra le istituzioni titolari di diverse competenze che contribuiscono a determinare le decisioni democratiche, condivise e trasparenti sugli obiettivi dello sviluppo e della trasformazione del territorio, rendendo consapevoli i cittadini dell’effetto di tali scelte.
Il ruolo delle regioni è stato determinante, molte di queste hanno avviato significativi percorsi legislativi, con riforme di nuova generazione in virtù delle responsabilità che la Costituzione ha loro assegnato.
Il dibattito sul governo del territorio è ormai avviato da più di dieci anni. In questo periodo si sono registrati alcuni fatti di particolare rilevanza, passaggi istituzionali e di mutamento della società italiana; questi elementi sono utili per l’impostazione del nostro ragionamento e riguardano:
a) il contesto istituzionale e politico di riferimento del quadro legislativo nazionale costituito dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150, del tutto diverso e antitetico a quello attuale, che si è poi evoluto nella realtà dello sviluppo immobiliare del dopoguerra e dei successivi periodi di contrazione economica, con la modificazione dei modelli insediativi e della produzione, che hanno provocato una stratificazione normativa, spesso di settore, che rende oggi particolarmente complessa e contraddittoria l’azione di pianificazione del territorio;
b) il progressivo e sempre più deciso riformismo regionale che ha visto dal 1995 ad oggi l’introduzione e la sperimentazione operativa di strumenti, regole e istituti che possono costituire una solida base di partenza;
c) in ultimo, l’esperienza – con aspetti positivi e negativi – prodotta con le diverse generazioni di programmi complessi e integrati, i quali si sono inseriti, progressivamente, all’interno delle regole di pianificazione delle regioni.
Oggi abbiamo le premesse e le condizioni per riorganizzare, ottimizzare e innovare una disciplina che vede coinvolte tutte le istituzioni della Repubblica e che è centrale rispetto al tema della competitività e della coesione in ambito europeo per le nostre città e per i sistemi territoriali.
Al riguardo, la coalizione dell’Unione si è assunta un esplicito impegno con i propri elettori con il programma depositato ai sensi del comma 3 dell’articolo 14-bis del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, nel quale il territorio è indicato quale grande patrimonio per la sua ricca biodiversità, per la sua qualità ambientale e paesistica, per la presenza diffusa di beni culturali, storici e archeologici, e rappresenta, quindi, una risorsa fondamentale per la qualità della vita e dello sviluppo presente e futuro.
Tale impostazione presuppone alcune priorità di indirizzo:
1) la necessità di coordinare e di allineare la normativa nazionale vigente sul governo del territorio alla realtà istituzionale rinnovata e alle esperienze regionali, rendendola sinergica con le discipline interconnesse e con quelle settoriali (ambiente, tutela e valorizzazione dei beni paesistico-ambientali, aree protette, infrastrutture e mobilità) e inquadrando le regole in un sistema coerente e condiviso di «princìpi»;
2) l’esigenza di programmare lo sviluppo e la trasformazione del territorio, delle infrastrutture e delle nostre città, tenendo conto della programmazione e degli indirizzi comunitari, con la partecipazione dello Stato, delle regioni, delle province, dei comuni e delle città metropolitane per costituire un sistema unico coordinato del governo del territorio;
3) la possibilità di creare le condizioni per rafforzare la capacità di governo del territorio da parte delle amministrazioni locali per la riqualificazione delle città, per la manutenzione del territorio, per lo sviluppo dell’impresa agricola multifunzionale e per la prevenzione dai rischi naturali e antropici.
La riforma costituzionale del titolo V della parte seconda della Costituzione ha costruito un sistema complesso di materie e di funzioni che hanno attinenza allo sviluppo e alla trasformazione del territorio, con una diversa attribuzione delle funzioni legislative in via esclusiva, concorrente e, in parte, anche residuale. Riconnettere e rendere sinergici tutti gli aspetti che contribuiscono alla qualità della vita dei cittadini è un compito della riforma del governo del territorio attuata da un sistema istituzionale, nazionale, regionale e locale, coeso e che agisca con programmi, piani, misure e strumenti coerenti.
I soggetti protagonisti di questa azione di rinnovamento e di nuova capacità di gestione del territorio sono principalmente le regioni e gli enti territoriali, i quali devono trovare in una legge quadro per il governo del territorio gli elementi costitutivi e i princìpi fondamentali al fine di operare con riferimenti di certezza e di omogeneità, ma dotati della necessaria flessibilità per consentirne la declinazione in base alle diverse situazioni economico-sociali e ambientali dei territori regionali.
Ma la complessità della materia e la sua interconnessione con diverse altre comportano, tuttavia, una formulazione normativa differenziata e dinamica, in particolare per quanto riguarda gli elementi e i requisiti minimi da rendere omogenei sul territorio nazionale.
Se le funzioni legislative concorrenti e quelle amministrative sono attribuite alle regioni, vi sono però alcuni aspetti di competenza esclusiva dello Stato che devono essere espressi con norma di dettaglio: si tratta delle dotazioni territoriali per la garanzia dei livelli minimi essenziali, del diritto di proprietà, della parità nel processo di pianificazione e di attuazione fra diritti pubblici e diritti privati, della fiscalità urbanistica.
Il dibattito che si è svolto fino ad oggi ha consolidato una serie di orientamenti.
La legge non deve prefigurare modelli astratti o standardizzati, ma favorire le migliori pratiche già in essere, assumendo queste come riferimenti per far progredire il complesso delle normative, degli strumenti, dei metodi e dei processi di governo del territorio.
Infatti, l’attuazione della funzione di governo alla luce della novellata Costituzione risiede nella capacità di governare il territorio programmandone lo sviluppo, l’assetto e l’uso del suolo, in connessione con le tematiche di tutela e di valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici e delle risorse ambientali.
Una coerente struttura del governo del territorio dovrà allora contenere:
a) la definizione dei princìpi e delle finalità del governo del territorio;
b) il sistema di relazione tra i soggetti istituzionali e il coordinamento tra le diverse materie ricomprese nel governo del territorio e quelle connesse di tutela e di valorizzazione dei beni paesaggistici e culturali e dell’ambiente nonchè la programmazione economica e quella del sistema infrastrutturale;
c) la disciplina della pianificazione, i contenuti, gli strumenti e le relative modalità di attuazione;
d) la disciplina edilizia e le regole per la legalità del territorio.
L’individuazione dei princìpi fondamentali, operata dal capo I della presente proposta di legge, rappresenta il terreno sul quale la collaborazione tra le istituzioni deve essere stringente e fattiva. Si tratta, infatti, di definire i cardini e i fondamenti della nuova forma di pianificazione, di programmazione e di gestione del territorio in tutte le sue componenti economiche, sociali e ambientali.
I princìpi sono diretta espressione della coscienza civile di una società: in questo senso, essi devono essere riconoscibili ed espressi con chiarezza. Ma l’espressione di princìpi fondamentali non può essere considerato un punto di arrivo. Se il tema di una moderna disciplina è, da una parte, la revisione in termini attuali di princìpi esistenti – primo fra tutti, quello di pianificazione – nonchè il consolidamento di princìpi già contenuti in alcune leggi regionali, dall’altra il nodo della questione consiste nella formulazione di princìpi che consentano alle leggi regionali di essere più stringenti sugli obiettivi da perseguire e più efficaci nell’attuazione.
Il primo, il principio di pianificazione (articolo 2), espresso in relazione ai diversi livelli istituzionali, deve garantire la funzione pubblica di tale attività, salvaguardando i beni comuni e contrastando il consumo di nuovo suolo non urbanizzato e consentendo, altresì, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri all’uso e al godimento degli stessi beni.
In questa logica, i princìpi fondamentali rispetto ai quali costruire le regole che devono governare i processi di trasformazione del territorio sono:
a) la sostenibilità ambientale, sociale ed economica, la tutela delle risorse naturali e del paesaggio, la prevenzione dei rischi e l’adozione del principio di precauzione nelle scelte e nella valutazione delle possibili alternative per gli interventi di trasformazione (articolo 3);
b) la sussidiarietà, l’adeguatezza delle istituzioni, l’equità, la trasparenza e la democrazia nella cooperazione istituzionale, la partecipazione e il coinvolgimento nei processi decisionali dei cittadini per l’adozione delle scelte (articolo 5).
Gli atti di governo del territorio dovranno fondare le proprie previsioni sul principio di sostenibilità, sulla necessità di preservare le risorse non rinnovabili ed essenziali, limitando in particolare il consumo di suolo non urbanizzato, favorendo il recupero delle risorse degradate e garantendo una efficace tutela e valorizzazione del patrimonio paesaggistico, storico e culturale, nonchè la riduzione dei consumi e l’incremento dell’efficienza energetica.
Altro principio fondamentale è rappresentato dalla tutela delle risorse non rinnovabili ed essenziali e dalla sicurezza dai rischi, da perseguire con misure di prevenzione e di riduzione dei danni per il territorio e per l’ambiente derivanti da forme di inquinamento di qualunque natura, di prevenzione dei rischi e di mitigazione delle calamità naturali e degli eventi incidentali determinati dall’attività antropica, ispirandosi al principio comunitario della precauzione (articolo 4).
Il principio di sussidiarietà dovrà creare il processo virtuoso della filiera istituzionale, ispirando la ripartizione dei poteri e delle competenze fra i diversi soggetti istituzionali, nonchè i rapporti tra questi e i cittadini secondo i criteri della tutela, dell’affidamento, della responsabilità e della concorsualità. Secondo il criterio di differenziazione e adeguatezza, le istituzioni dovranno agire mediante intese e accordi procedimentali in sedi stabili di concertazione per perseguire il coordinamento, l’armonizzazione, la coerenza e la riduzione dei tempi delle procedure di pianificazione del territorio.
Anche per questo, è importante assumere come principio la trasparenza e la democrazia nei processi di scelta e di decisione con il massimo coinvolgimento dei cittadini nella fase di predisposizione e di approvazione degli strumenti di pianificazione (articolo 6).
Il principio di equità consente di offrire a tutti i soggetti la possibilità di accedere con le stesse opportunità ai diritti e ai vantaggi offerti dalle trasformazioni del territorio in termini di residenza, accessibilità, mobilità, servizi collettivi, qualità dell’ambiente urbano e migliore qualità della vita (articolo 7).
Perchè tali princìpi possano tradursi in linee guida e concrete azioni attuative è fondamentale declinare le competenze dei soggetti istituzionali, ma è anche necessario che la riforma nazionale preveda il coordinamento con le materie non ricomprese nel governo del territorio, bensì strettamente connesse alla pianificazione e alla programmazione del medesimo: infrastrutture della mobilità e dell’energia, tutela e valorizzazione dell’ambiente, tutela e valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali (articoli da 9 a 14).
I soggetti titolari delle funzioni amministrative dovrebbero agire in un sistema unico e coordinato per la programmazione, la pianificazione, l’attuazione, il monitoraggio e la verifica delle trasformazioni del territorio, partecipando a tale attività in conformità ai princìpi di leale collaborazione e di responsabilità amministrativa.
Di particolare importanza nella riforma sarà il passaggio dalla tutela dei beni paesaggistici a quella più complessiva della tutela e valorizzazione dei paesaggi, così come previsto dalla Convenzione europea sul paesaggio, ratificata con la legge 9 gennaio 2006, n. 14, riconoscendo che il paesaggio concorre al consolidamento delle culture locali e «che ogni luogo rappresenta un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati come in quelli di grande qualità».
Anche per la tutela e la valorizzazione dell’ambiente è necessario identificare gli elementi di coordinamento con le pianificazioni settoriali.
L’altro elemento di particolare rilevanza è costituito dalla stretta connessione tra la programmazione economica, quella infrastrutturale e per la mobilità, con la pianificazione del territorio.
La modernizzazione del sistema infrastrutturale, della mobilità, della logistica, ma anche del sistema energetico, deve essere strettamente connessa, da una parte, all’allocazione certa dei finanziamenti e, dall’altra, essere affidata a un sistema decisionale istituzionale basato sulla leale collaborazione e sulla sussidiarietà, tale da consentire di effettuare le scelte e, poi, di garantirne la realizzazione.
Una buona programmazione e la certezza di attuazione sono possibili solo se pensiamo a un sistema rinnovato e a una «cassetta di attrezzi» adeguata alle esigenze attuali.
Le regioni hanno predisposto strumenti, regole e modalità di attuazione e, nell’ambito della loro potestà regolamentare, hanno definito i contenuti e l’attuazione dell’attività di pianificazione di area vasta e di quella comunale.
È ormai consolidata l’esigenza di assegnare agli strumenti di pianificazione un doppio livello, con un piano di governo del territorio strategico strutturale, non conformativo della proprietà, e l’altro operativo, che invece conforma il regime dei suoli e dà attuazione alle previsioni. A questi sarà necessario affiancare strumenti regolamentari che le regioni hanno già individuato con varie rubriche e che rappresentano l’attuazione della disciplina di trasformazione urbanistica ed edilizia degli insediamenti esistenti.
Occorre una differenziazione dei livelli da utilizzare, senza generalizzare, ma tenendo conto delle effettive esigenze delle realtà amministrative e delle condizioni territoriali. Regole rigide potrebbero far risultare inutilmente onerosa una pianificazione di questo tipo per comuni di piccola dimensione e, invece, farla risultare limitativa per situazioni in cui sia più opportuno, date le condizioni territoriali e socio-economiche, avere una pianificazione che interessa più comuni.
Alla base di un buon piano non può che esserci una adeguata e significativa conoscenza del territorio. È per questo che si prevedono modalità di acquisizione, valutazione e validazione dei dati territoriali, costituiti dai vincoli, dall’uso del suolo, dalle invarianti ambientali e territoriali, dalle condizioni di vulnerabilità e di rischio del territorio. La sinergia – quindi la rete – tra sistemi di informazione e di conoscenza tra regioni ed enti statali preposti dovrà essere stringente. Banche dati e sistemi informativi territoriali dovranno parlare la stessa lingua ed essere a disposizione degli enti territoriali e dei cittadini in maniera automatica e trasparente (articolo 15).
Questa è un’innovazione necessaria per l’azione amministrativa e comporterebbe anche una sensibile riduzione della spesa pubblica. Disporre di uno strumento unico sul quale verificare la conformità alle invarianti territoriali e ambientali consentirebbe uno snellimento significativo nella fase di predisposizione, di attuazione e di verifica dei processi di trasformazione urbanistica ed edilizia.
La conoscenza del territorio consente anche una più efficace azione di tutela e di prevenzione soprattutto per il territorio non urbanizzato. La riforma proposta, inoltre, enuncia il principio fondamentale che il territorio rurale è un patrimonio di identità, di biodiversità, di pratiche agronomiche e forestali da preservare. Sarà necessario perseguire gli obiettivi di qualità e di sostenibilità nella pianificazione delle aree agricole anche al fine di consolidare il ruolo multifunzionale dell’impresa agricola e di contrastare il consumo di suolo non urbanizzato. Dovrà essere tutelato e valorizzato lo straordinario patrimonio costituito dai nostri paesaggi agrari e montani, dalle risorse non rinnovabili, a partire soprattutto dall’acqua e dal suolo, oltre che valorizzato il patrimonio dell’architettura rurale (articolo 18).
La riforma affronta altresì il complesso del sistema città: uno straordinario crocevia di opportunità ma, anche, di forti contraddizioni ambientali e sociali (articolo 19), delineando gli obiettivi della tutela dei centri storici, della promozione della qualità urbana e architettonica, ma soprattutto della riduzione dei livelli di inquinamento, promuovendo un nuovo processo di riqualificazione delle aree degradate integrando le politiche di recupero edilizio e urbanistico con politiche sociali e assistenziali che possano consentire un maggior grado di coesione sociale e di solidarietà.
Insomma, una vera e propria politica per le città, che utilizzi gli strumenti ordinari ma anche la leva della fiscalità e degli incentivi, che faccia del recupero e della sostituzione edilizi una grande occasione di rigenerazione dei tessuti urbani e del contenimento dei consumi, essendo le città sistemi altamente «energivori», una priorità della politica energetica nazionale.
Sulle dotazioni territoriali minime – i vecchi standard urbanistici – non è sufficiente definire un livello quantitativo minimo, ma occorre creare i presupposti di tipo qualitativo affinchè attraverso le dotazioni territoriali sia possibile garantire l’effettività dei servizi ai cittadini. Quelli statali non possono che essere considerati requisiti minimi (articolo 16) per garantire i livelli essenziali sul territorio nazionale, come previsto costituzionalmente; così anche per l’edilizia residenziale pubblica per l’affitto sociale, che dovrà essere una dotazione di risposta al fabbisogno locale.
Le regioni, nella loro piena autonomia, dovranno verificare i fabbisogni pregressi e futuri e determinare le modalità, i criteri e i parametri tecnici ed economici dei servizi da fornire ai cittadini.
Molti sono gli obiettivi da raggiungere e importanti sono i diritti di cittadinanza da garantire. Pertanto è necessario che la legge statale offra strumenti innovativi per l’attuazione e per la stabilizzazione di alcune pratiche operative che gli enti locali adottano per garantire la realizzazione degli interventi. Quindi è importante definire le regole per la collaborazione tra il pubblico e i soggetti privati, prevedendo il partenariato pubblico-privato per l’attuazione degli interventi, in un quadro di riferimento strategico a regìa pubblica definita dal piano del governo del territorio, con modalità che tutelino la concorrenza, la trasparenza dei procedimenti e la partecipazione dei soggetti privati ai quali affidare, anche per la capacità imprenditoriale e per l’effcienza, il miglioramento e l’innovazione nei processi di trasformazione urbanistica ed edilizia.
Anche sulla definizione dei contenuti minimi della proprietà e dell’equa attribuzione dei diritti edificatori è importante che la legge statale, data la competenza esclusiva nella materia, offra un quadro di riferimento chiaro e articolato per le amministrazioni locali le quali, tenendo conto delle ristrettezze di bilancio, potranno dare attuazione alle previsioni e garantire le necessarie dotazioni territoriali con interventi diretti, modalità espropriative, perequative e compensative.
L’amministrazione potrà acquisire gli immobili con la perequazione urbanistica (articolo 21) e con gli obiettivi individuati dagli strumenti urbanistici; in alternativa si prevede che si possa ricorrere all’esproprio (articolo 24).
La modalità operativa della perequazione potrà essere attuata negli ambiti di trasformazione urbanistica individuati dal piano del governo del territorio e riguardanti gli ambiti territoriali da trasformare, escludendo le aree agricole, i tessuti storici e consolidati, le aree non soggette a trasformazione urbanistica. Il piano di governo del territorio dovrà inoltre stabilire: l’edificabilità territoriale attribuita agli ambiti di trasformazione perequativa, l’obbligo di cessione di beni immobili al comune per la realizzazione delle dotazioni territoriali o comunque per spazi pubblici, di pubblica utilità, di interesse generale e collettivo, nonchè le modalità di progettazione unitaria dell’ambito di trasformazione.
Uno dei punti di particolare delicatezza è quello della decadenza del diritto di edificazione che si propone possa essere limitato a cinque anni o comunque non superiore alla durata del piano operativo, riallineando le previsioni di trasformazione pubblica e privata.
Altro tema essenziale per l’attuazione delle previsioni di sviluppo del territorio è quello della fiscalità urbanistica e immobiliare (articolo 23). Si tratta di una questione molto complessa che deve essere affrontata con alcuni indirizzi di base.
In primo luogo, sottraendo gli enti locali alla necessità di coprire una parte cospicua del bilancio con le entrate derivanti dall’imposta comunale sugli immobili (ICI) e dagli oneri concessori, si potrà consentire agli stessi enti di favorire una politica di recupero e di riutilizzazione di immobili esistenti con la conseguente riduzione del consumo del suolo e con la riduzione della dispersione urbana. Inoltre, si dovranno rimodulare e riorganizzare le diverse imposte relative ai trasferimenti immobiliari per favorire e orientare la trasformazione urbanistica ed edilizia verso la riqualificazione urbana e del territorio, con forme di incentivazione e di premialità fiscali. Infine, attraverso l’armonizzazione e la stabilizzazione delle misure per l’incentivazione delle opere di recupero e la loro specializzazione per alcuni settori (efficienza energetica, sicurezza statica e tecnologica degli edifici, accessibilità eccetera) si potrà avere, a regime, una massa critica di investimenti finalizzati al miglioramento sostanziale della qualità urbana.
La riforma statale dovrà anche prevedere che le azioni di trasformazione del territorio siano soggette a procedure preventive, in itinere ed ex post, di valutazione degli effetti ambientali ed economico-sociali valutati e analizzati in base a un bilancio complessivo degli effetti sulle risorse essenziali del territorio, al fine di garantire l’effettiva realizzabilità e la verifica dell’efficacia delle azioni svolte.
Nessuna legge è immutabile nel tempo, soprattutto quando si tratta di regolare comportamenti sociali o istituzionali. Cambiano oggi, anche rapidamente, le condizioni economiche e sociali del contesto. Rispetto a questi cambiamenti è necessario essere in grado di fornire risposte adeguate alle nuove esigenze e alle nuove domande della società. Occorre tenere conto che la riforma del governo del territorio si deve inserire in un complesso di normative esistenti, in particolare urbanistiche ed edilizie, di livello sia nazionale che regionale. A tale proposito, nel testo della proposta di legge non viene riportato il complesso delle abrogazioni che sarebbero necessarie per ottenere un quadro organico delle diverse discipline ricomprese nel governo del territorio, per alcune delle quali – ad esempio quella relativa agli standard urbanistici o parte della disciplina edilizia e dell’esproprio – si dovrebbe intervenire anche in modo differenziato, in ragione di un progressivo rinnovo della materia. È difficile pensare a una legge sul governo del territorio che non sia oggetto di un accompagnamento istituzionale, di un programma per la sua attuazione basato su diversi strumenti di conoscenza, di esperienza, di valutazione per la revisione o per l’implementazione della stessa normativa. Anche in questo caso sono chiamate in causa sia le diverse componenti della società sia le istituzioni regionali, provinciali e comunali competenti, queste ultime coinvolte, da una parte, nel definire «l’idea di città e di territorio» e le relative regole e, dall’altra, nell’attuare un processo di pianificazione che risponda ai nuovi «diritti di cittadinanza» e al «diritto all’abitare» che la società e i singoli cittadini richiedono alle amministrazioni.
L’impostazione che si deve dare, quindi, alle nuove regole sul governo del territorio deve essere basata sulla cultura della valutazione delle scelte e sulla cultura della risposta e del risultato.
Se la sfida per la qualità del governo del territorio deve essere affrontata con strumenti adatti e coerenti alle reali esigenze della società contemporanea, una parte sostanziale di questa sfida consiste anche nella rinnovata capacità dei soggetti istituzionali nazionali e territoriali di esprimere, sulla base dei princìpi fondamentali, la volontà politica di costruire la «filiera istituzionale» e di coordinare le decisioni determinando la qualità della vita e dell’ambiente, assumendosi la responsabilità dell’attuazione delle decisioni e condividendo metodi e scelte con i cittadini.
Presentato in data 7 febbraio 2007; ora all'esame della XIII Commissione “Territorio, ambiente, beni ambientali” assieme ai disegni di legge nn. 1652 (Piglionica) e 1691 (Ronchi e altri).Di seguito la relazione e il testo dell’articolato, con link al documento ufficiale, nel formato .pdf.
Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio e recepimento della direttiva 2001/42/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull' ambiente
Relazione
Onorevoli Senatori. – Il presente disegno di legge è volto a stabilire i princìpi fondamentali in materia di pianificazione del territorio e recepimento della direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente.
Il primo principio fondamentale, con la dichiarazione del quale si apre l’articolato del provvedimento, è che il territorio e le sue risorse sono patrimonio comune. Le autorità pubbliche ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze.
A questa importante enunciazione di principio fa immediatamente seguito, al comma 2 dell’articolo 1, la qualificazione della pianificazione territoriale come strumento mediante il quale le pubbliche autorità, nell’ambito e nell’esercizio delle rispettive competenze, promuovono la tutela, la valorizzazione e lo sviluppo sostenibile del territorio in quanto patrimonio comune, identificandone e regolandone gli usi ammissibili.
L’articolo 2 afferma poi con grande nettezza e perentorietà la titolarità esclusivamente pubblica della pianificazione, precisando tra l’altro che la legge può attribuire ad autorità pubbliche diverse dagli enti territoriali specifici compiti relativamente alla formazione di strumenti di pianificazione specialistica o settoriale attinenti alla difesa del suolo, alle aree naturali protette e all’erogazione di servizi di interesse collettivo, facendo salva in ogni caso la competenza decisionale finale degli enti territoriali medesimi.
Sempre l’articolo 2 rimette alle leggi statali e regionali la specificazione dei casi in cui gli strumenti di pianificazione specialistica o settoriale prevalgono sugli strumenti ordinari di pianificazione e delle modalità di adeguamento degli strumenti ordinari di pianificazione alle disposizioni degli strumenti di pianificazione specialistica o settoriale, nonché l’indicazione dei casi in cui il raggiungimento d’intese con altre autorità pubbliche conferisce agli ordinari strumenti di pianificazione dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Regioni la valenza e l’efficacia degli strumenti di pianificazione specialistica o settoriale.
Si confermano poi con gli articoli 3 e 4 princìpi già presenti nella legislazione statale e regionale, quali la pianificazione come metodo generale per il governo del territorio e l’onerosità per l’operatore immobiliare delle opere necessarie alla trasformazione urbanistica.
L’articolo 5 prevede la partecipazione dei cittadini alle scelte di pianificazione territoriale.
L’articolo 6 mira ad ampliare i princìpi cui deve essere soggetta la pianificazione urbanistica, ricomprendendo fra di essi quelli relativi al “diritto alla città e all’abitare”, nell’intento di estendere la storica conquista degli standard urbanistici al diritto ad un’abitazione, ai servizi, alla mobilità e alle risorse territoriali.
Una novità di grande rilievo è sicuramente rappresentata dalle prescrizioni contenute nell’articolo 7, che impongono un rigoroso contenimento del consumo del suolo, campo questo in cui l’Italia è stata finora completamente assente, mentre in tutti i più importanti Paesi europei nell’ultimo decennio sono state avviate politiche concretamente mirate a impedire la dissipazione del territorio.
Uno dei princìpi cardine del presente disegno di legge è infatti quello di limitare al massimo il consumo di suolo e di evitare il consumo di nuovo territorio, in quanto risorsa scarsa, senza aver prima verificato tutte le possibilità di recupero, di riutilizzazione e di sostituzione.
Significato normativo di non poco momento rivestono anche le disposizioni introdotte recate dall’articolo 8 allo scopo di stabilire ope legis un vincolo di tutela sui centri storici e su tutte le strutture insediative storiche (anche non urbane), nonché quelle recate dall’articolo 5 e dall’articolo 11 per assicurare la formazione partecipata degli strumenti di pianificazione. È quest’ultimo un tema che in qualche modo esula dallo specifico campo della pianificazione, riguardando la qualità della vita democratica del Paese, ma è indubbio che, per il loro carattere «statutario», le scelte di sviluppo del territorio e delle città rappresentano uno dei campi fondamentali in cui deve essere perseguita la più ampia partecipazione sociale.
L’articolo 9 affida la definizione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da emanare previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per l’ambiente e la tutela del territorio e del mare, di concerto con i Ministri per i beni e le attività culturali, delle infrastrutture e dei trasporti, sentita la Conferenza unificata e acquisiti i pareri delle competenti commissioni parlamentari. Le linee fondamentali riportano, assicurandone la coerenza, il complesso dei piani specialistici e di settore riguardanti il territorio nazionale, con particolare riferimento al piano dei trasporti, al piano energetico, ai piani delle aree naturali protette e ai piani paesaggistici, e tengono altresì conto degli atti dell’Unione europea comunque incidenti sull’assetto del territorio nazionale.
L’articolo 10 detta princìpi in materia di strumenti di pianificazione delle regioni e degli enti locali, mentre l’articolo 12 disciplina la stipulazione di accordi di programma e l’articolo 13 l’indennizzabilità dei vincoli di tutela.
L’articolo 14, nel disciplinare i vincoli a contenuto espropriativo, dà soluzione alla vexata questio della decadenza dei vincoli a contenuto espropriativo imponendo ai comuni l’obbligo ad acquisire entro un termine perentorio i beni che i piani assoggettano ad esproprio.
L’articolo 15 stabilisce i princìpi fondamentali relativi all’attuazione degli strumenti di pianificazione, mentre l’articolo 16 reca una serie di disposizioni particolarmente importanti ed innovative perché dirette a recepire la normativa europea in materia di valutazione ambientale strategica.
L’articolo 17 individua nella pianificazione territoriale e urbanistica generale comunale la carta unica del territorio, che deve rappresentare il riferimento esclusivo per la pianificazione attuativa e per la verifica di conformità urbanistica ed edilizia.
L’articolo 18 definisce i compiti del sistema informativo territoriale, che costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale per la definizione degli strumenti di pianificazione e per la verifica dei loro effetti, mentre l’articolo 19 reca una serie di modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
L’articolo 20, infine, con riferimento al territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, vieta ogni modificazione dell’assetto del territorio salvo quelle finalizzate alla difesa del suolo e alla riqualificazione ambientale, fino all’adeguamento delle leggi regionali ai princìpi fondamentali stabiliti dalla presente legge, nonché fino all’entrata in vigore dei piani paesaggistici e all’eventuale adeguamento degli strumenti urbanistici.
Il presente disegno di legge è stato messo a punto grazie al contributo di alcuni studiosi, giuristi ed urbanisti, facenti capo all’associazione Eddyburg.
Testo degli articoli
Art. 1.
(Finalità)
1. Il territorio e le sue risorse sono patrimonio comune e le pubbliche autorità ne sono i custodi e i garanti.
2. La presente legge detta norme relative alla pianificazione del territorio, quale strumento mediante il quale le pubbliche autorità, nell’ambito e nell’esercizio delle rispettive competenze, promuovono la tutela, la valorizzazione e lo sviluppo sostenibile del territorio in quanto patrimonio comune, identificandone e regolandone gli usi ammissibili.
3. La presente legge provvede anche al recepimento, per quanto di competenza della legislazione dello Stato e con esclusivo riferimento alla pianificazione del territorio, della direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente.
Art. 2.
(Titolarità pubblica della pianificazione del territorio)
1. Le funzioni e i compiti di pianificazione del territorio sono esercitati esclusivamente da pubbliche autorità ed in particolare dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato.
2. Con legge statale o regionale possono essere attribuiti ad autorità pubbliche, diverse dagli enti territoriali di cui al comma 1, specifici compiti relativamente alla formazione di strumenti di pianificazione specialistica o settoriale attinenti alla difesa del suolo, alle aree naturali protette e all’erogazione di servizi di interesse collettivo, facendo salva in ogni caso la competenza decisionale finale degli enti territoriali di cui al comma 1.
3. La legge statale e la legge regionale specificano i casi in cui gli strumenti di pianificazione specialistica o settoriale di cui al comma 2 prevalgono sugli strumenti ordinari di pianificazione. La legge statale e la legge regionale specificano altresì le modalità di adeguamento degli strumenti ordinari di pianificazione alle disposizioni degli strumenti di pianificazione specialistica o settoriale, nonché i casi in cui il raggiungimento di intese con altre autorità pubbliche conferisce agli ordinari strumenti di pianificazione dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni la valenza e l’efficacia degli strumenti di pianificazione specialistica o settoriale.
Art. 3.
(Oggetto ed efficacia degli strumenti di pianificazione)
1. Gli strumenti di pianificazione recano la regolazione delle trasformazioni fisiche e funzionali del territorio e degli immobili che lo compongono al fine di assicurarne la coerenza in relazione alla loro collocazione nello spazio e alla loro successione nel tempo.
2. Gli atti e le attività delle pubbliche amministrazioni concernenti le trasformazioni di cui al comma 1 devono essere conformi agli strumenti di pianificazione, salvo il caso di atti assunti, conformemente alla legislazione vigente, nel ricorrere della straordinaria necessità di provvedere con interventi urgenti alla difesa militare o alla sicurezza della Nazione o di prevenire il verificarsi di calamità naturali, di catastrofi e di altri eventi calamitosi o di porre rimedio alle conseguenze di simili eventi.
3. La facoltà di operare trasformazioni fisiche e funzionali degli immobili può essere esclusa o limitata anche da sopravvenuti strumenti urbanistici, salvo il caso in cui sia stato già ottenuto il provvedimento abilitativo ad operare le trasformazioni e le relative attività abbiano avuto inizio entro il periodo di tempo predeterminato dalla legge.
Art. 4.
(Onerosità della trasformazione urbanistica)
1. L’esistenza o la contemporanea predisposizione delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale, ivi comprese quelle necessarie ai fini della mitigazione ambientale, costituisce presupposto necessario e indefettibile di ogni trasformazione urbanistica.
2. Ogni attività comportante trasformazione urbanistica concorre al pagamento delle opere di urbanizzazione generale, primaria e secondaria, in relazione all’entità delle opere necessarie e delle trasformazioni previste. La legge regionale stabilisce le modalità e le garanzie per assicurare che, negli ambiti sprovvisti, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria siano realizzate in modo da realizzare un equilibrio tra somme introitate dal comune e costi da sostenere e che le opere di urbanizzazione generale siano ripartite, sulla base di riferimenti parametrici, sull’insieme degli interventi ricadenti nel territorio comunale.
Art. 5.
(Partecipazione dei cittadini alle scelte di pianificazione)
1. La partecipazione dei cittadini è elemento costitutivo ed indefettibile delle procedure di formazione delle scelte di pianificazione territoriale e deve essere assicurata dagli enti pubblici territoriali anche attraverso la costituzione di strutture idonee a garantire una diffusa e completa informazione in ordine a tutte le fasi, anche preliminari ed istruttorie, dei procedimenti di pianificazione territoriale e di trasformazione urbana.
Art. 6.
(Pianificazione del territorio e diritti fondamentali)
1. La pianificazione territoriale assicura un impiego delle risorse del territorio tale da non comprometterne la consistenza e garantisce l’utilizzazione delle medesime risorse in condizioni equivalenti per tutti i cittadini, in riferimento ai diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale delle risorse territoriali ed ambientali e del patrimonio culturale, alla dignità umana e alla proprietà.
2. Ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, la legge statale determina le quantità minime di dotazioni di opere di urbanizzazione, di spazi per servizi pubblici, per la fruizione collettiva e per l’edilizia sociale, nonché i requisiti inderogabili di tali dotazioni, che devono essere assicurate negli strumenti di pianificazione dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni, nell’ambito delle rispettive competenze.
3. Allo scopo di ridurre le condizioni di disagio abitativo i comuni definiscono, nell’ambito delle previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, le localizzazioni e le modalità realizzative degli interventi finalizzati all’ampliamento dell’offerta di edilizia sociale.
Art. 7.
(Contenimento dell’uso del suolo e tutela delle attività agro-silvo-pastorali)
1. Gli strumenti della pianificazione territoriale possono consentire nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali esclusivamente nel caso in cui non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti.
2. Sul territorio non urbanizzato gli strumenti di pianificazione non possono consentire nuove costruzioni o demolizioni e ricostruzioni o consistenti ampliamenti di edifici, salvo quelli strettamente funzionali all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto comunque di precisi parametri rapportati alla qualità e all’estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi.
3. Le trasformazioni strettamente funzionali all’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale di cui al comma 2 sono assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali si prevede la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l’impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici o delle loro parti attraverso utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente alla superficie oggetto della trasformazione assentita.
4. Le leggi regionali disciplinano le trasformazioni ammissibili dei manufatti edilizi esistenti con utilizzazioni in atto non strettamente funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, limitandole a quelle di manutenzione, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia con esclusione di qualsiasi fattispecie di demolizione e ricostruzione.
5. I manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici sono demoliti senza ricostruzione qualora perdano la destinazione originaria.
6. Le leggi regionali e gli strumenti di pianificazione possono prevedere limitazioni ulteriori rispetto a quelle contemplate dal presente articolo, e anche la totale non trasformabilità del patrimonio edilizio esistente, in relazione a condizioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell’ambiente e dell’ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale.
Art. 8.
(Tutela degli insediamenti storici)
1. Ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, lettera s), della Costituzione, a seguito dell’individuazione ad opera degli strumenti di pianificazione dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni, d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali, sono qualificati come beni culturali e conseguentemente assoggettati alla relativa disciplina:
a) gli insediamenti urbani storici e le strutture insediative storiche non urbane, le addizioni urbane aventi un impianto urbanistico significativo, le strutture insediative, anche minori o isolate, che presentino, singolarmente o come complesso, valore di testimonianza di civiltà, nonché le rispettive zone di integrazione ambientale;
b) le unità edilizie e gli spazi scoperti, siti in qualsiasi altra parte del territorio, aventi riconoscibili e significative caratteristiche strutturali, tipologiche e formali che presentino valore di testimonianza di civiltà.
2. Le trasformazioni ammissibili e le utilizzazioni compatibili degli immobili di cui al comma l sono disciplinate dagli strumenti di pianificazione dei comuni, delle province, delle città metropolitane e delle regioni. Laddove siano oggetto di disposizioni immediatamente precettive e operative definite d’intesa con i competenti organi del Ministero per i beni e le attività culturali, i provvedimenti abilitativi comunali conformi a tali disposizioni tengono luogo delle speciali autorizzazioni di competenza del Ministero per i beni e le attività culturali richieste dalle vigenti norme di legge.
Art. 9.
(Linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale)
1. Le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale sono approvate, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con i Ministri per i beni e le attività culturali, delle infrastrutture e dei trasporti, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, e acquisiti i pareri delle competenti Commissioni parlamentari. Secondo la medesima procedura si procede al loro aggiornamento e alla loro eventuale variazione ogni tre anni e comunque in qualsiasi momento se ne presenti la necessità.
2. Le linee di cui al comma 1 riportano, assicurandone la coerenza, il complesso dei piani specialistici e di settore riguardanti il territorio nazionale, con particolare riferimento al piano dei trasporti, al piano energetico, ai piani delle aree naturali protette e ai piani paesaggistici.
3. Le linee di cui al comma 1 tengono altresì conto degli atti dell’Unione europea comunque incidenti sull’assetto del territorio nazionale.
Art. 10.
(Strumenti di pianificazione delle regioni e degli enti locali)
1. Le leggi regionali definiscono l’articolazione della pianificazione delle regioni e degli enti locali nei suoi diversi strumenti e indicano per ciascuno di questi:
a) la pubblica autorità competente, in base ai principi di sussidiarietà, adeguatezza e responsabilità;
b) i contenuti, l’efficacia, l’arco temporale di riferimento, le modalità di attuazione;
c) le procedure di formazione, nel rispetto dell’articolo 11.
2. È attribuita alla pianificazione provinciale o delle città metropolitane la competenza relativa alle scelte per le quali la scala comunale risulti, con particolare riferimento alle aree conurbate e alla finalità di contenere la dispersione insediativa, non adeguata a governare la localizzazione, il dimensionamento e gli effetti delle trasformazioni e degli interventi. È attribuita alla pianificazione regionale la competenza relativa alle scelte per le quali la scala provinciale o della città metropolitana risulti, con particolare riferimento alle aree conurbate e alla finalità di contenere la dispersione insediativa, non adeguata a governare la localizzazione, il dimensionamento e gli effetti delle trasformazioni e degli interventi.
Art. 11.
(Formazione partecipata degli strumenti di pianificazione)
1. Il quadro conoscitivo è elemento costitutivo dello strumento di pianificazione e le scelte oggetto dello strumento di pianificazione devono essere basate su un adeguato quadro conoscitivo dello stato del territorio, dei vincoli derivanti da leggi e atti amministrativi e dei contenuti degli altri strumenti di pianificazione inerenti l’ambito da pianificare.
2. In vista dell’adozione degli strumenti di pianificazione deve essere assicurata la partecipazione al rispettivo processo di formazione degli enti territoriali competenti all’adozione degli atti amministrativi, nonché di ogni autorità competente in materia di tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale.
3. Deve essere altresì assicurata la consultazione dei cittadini in tutte le fasi del rispettivo processo di formazione. A tal fine sono stabilite forme e modalità paritarie di accesso a tutti gli atti e di coinvolgimento nel processo decisionale.
4. L’amministrazione procedente dà conto nel provvedimento di adozione dello strumento di pianificazione dei risultati delle consultazioni dei cittadini e del modo in cui sono stati tenuti in considerazione i pareri espressi dalle altre amministrazioni.
5. Successivamente all’adozione dello strumento di pianificazione deve essere previsto un congruo termine di tempo entro il quale chiunque possa prenderne visione e presentare formali osservazioni.
6. A decorrere dalla data di adozione dello strumento di pianificazione non è ammissibile l’effettuazione di trasformazioni, fisiche e funzionali, che siano con esso in contrasto ovvero tali da comprometterne o renderne più gravosa l’attuazione. La legge regionale può prevedere che anche in fasi anteriori del procedimento di formazione dello strumento di pianificazione possano essere inibite trasformazioni suscettibili di contraddire le scelte in corso di assunzione.
7. Nel provvedimento di approvazione dello strumento di pianificazione l’amministrazione procedente deve motivare le determinazioni assunte e rispondere alle osservazioni pervenute.
8. Ai fini dell’approvazione di cui al comma 7, deve essere altresì conclusa la verifica di conformità con gli atti legislativi e amministrativi e gli strumenti di pianificazione sovraordinati mediante intesa con il soggetto istituzionale competente da raggiungere in sede di conferenza di amministrazioni.
9. Eventuali successive variazioni delle previsioni di piano devono essere adeguatamente motivate in rapporto alla coerenza complessiva del processo di pianificazione.
Art. 12.
(Accordi di programma)
1. Qualora la definizione e l’esecuzione di interventi complessi, di programmi di intervento, di opere pubbliche o di interesse pubblico, anche di iniziativa privata, richieda l’azione integrata e coordinata di comuni, province, città metropolitane, regioni, amministrazioni dello Stato e altri enti pubblici, si procede alla stipula di un accordo di programma, ai sensi dell’articolo 34 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
2. Gli accordi di programma sono stipulati in conformità alle prescrizioni della vigente pianificazione ordinaria, specialistica e settoriale.
3. Gli accordi di programma con la partecipazione dei privati devono rispettare i princìpi della trasparenza nelle condizioni contrattuali e della competizione fra attori e progetti e devono adeguatamente motivare il profilo dell’interesse pubblico alla loro realizzazione.
Art. 13.
(Vincoli di tutela)
1. Non danno luogo all’obbligo di corrispondere indennizzi le limitazioni alle trasformazioni fisiche ammissibili e alle utilizzazioni compatibili degli immobili, anche comportanti totale immodificabilità, disposte dagli strumenti di pianificazione o da atti amministrativi dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle regioni e dello Stato, nell’ambito delle rispettive competenze, per finalità di tutela dell’identità culturale e dell’integrità fisica del territorio, nonché in conseguenza del riconoscimento delle caratteristiche intrinseche degli immobili sotto il profilo dell’interesse culturale o delle condizioni di fragilità o di pericolosità.
2. Non danno luogo all’obbligo di corrispondere indennizzi le limitazioni alle trasformazioni fisiche ammissibili e alle utilizzazioni compatibili degli immobili, anche comportanti totale immodificabilità, disposte dagli strumenti di pianificazione o da atti amministrativi dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle regioni e dello Stato, nell’ambito delle rispettive competenze, con riferimento a intere categorie di immobili che si trovino in predefinite relazioni con altri immobili ovvero con interessi pubblici preminenti, quali le fasce di rispetto delle strade, delle ferrovie, degli aeroporti.
3. Non danno luogo a obbligo di corrispondere indennizzi le regole conformative delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili degli immobili disposte dagli strumenti di pianificazione o da atti amministrativi dei comuni, delle province, delle città metropolitane, delle regioni e dello Stato, nell’ambito delle rispettive competenze.
Art. 14.
(Vincoli a contenuto espropriativo)
1. Gli immobili esattamente individuati dagli strumenti di pianificazione e da questi assoggettati a disposizioni immediatamente operative che comportino la loro utilizzazione solamente per funzioni pubbliche o collettive, attivabili e gestibili soltanto dal soggetto pubblico competente, devono essere acquisiti dal medesimo soggetto pubblico entro il termine perentorio di dieci anni dalla data di entrata in vigore delle disposizioni comportanti la loro utilizzazione solamente per funzioni pubbliche o collettive.
2. Decorso inutilmente il termine di cui al comma l, gli immobili sono acquisiti direttamente ed immediatamente al patrimonio del soggetto pubblico competente e i rispettivi proprietari hanno diritto a percepire una somma pari all’indennità di espropriazione determinata ai sensi delle leggi con riferimento al momento del perfezionamento dell’acquisizione al patrimonio del soggetto pubblico. Il diritto riconosciuto dal presente comma è soggetto alla prescrizione di cui all’articolo 2946 del codice civile.
3. La somma di cui al comma 2 è rivalutata di anno in anno, con riferimento alla data della sua liquidazione, in base alle intervenute variazioni dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati accertate dall’Istituto nazionale di statistica. Sulla somma rivalutata di anno in anno sono dovuti gli interessi in misura pari a quella del tasso di sconto.
4. I commi 1, 2 e 3 non trovano applicazione, sempre che al riguardo sussista un’apposita previsione dello strumento di pianificazione, nel caso in cui l’attivazione delle destinazioni d’uso imposte agli immobili non comporti necessariamente la preventiva acquisizione e la gestione di questi da parte del soggetto pubblico competente, trattandosi di utilizzazioni e gestioni rientranti nell’ambito dell’ordinaria iniziativa economica privata, pur se regolata da convenzioni che garantiscano il conseguimento di obiettivi di interesse generale.
Art. 15.
(Attuazione degli strumenti di pianificazione)
1. Le trasformazioni degli assetti morfologici del sistema insediativo, in particolare i nuovi impianti urbanizzativi ed edificatori, le ristrutturazioni urbane e le variazioni funzionali significative, devono essere disciplinate da strumenti di pianificazione specificamente e unitariamente riferiti agli ambiti territoriali da esse interessati.
2. Gli strumenti di cui al comma 1 assicurano la perequazione tra gli eventuali diversi proprietari degli immobili compresi negli ambiti oggetto di pianificazione. La partecipazione ai benefici e ai gravami derivanti agli immobili dagli strumenti di pianificazione è definita in misura proporzionale alle superfici e ai valori dei suoli e degli edifici eventualmente esistenti.
3. Al fine di favorire la realizzazione di interventi previsti dagli strumenti di pianificazione relativi a complessi di immobili aventi particolare rilevanza urbanistica ed economica nei quali sia coinvolta una pluralità di soggetti pubblici e privati, il comune può dichiarane la pubblica utilità finalizzata all’acquisizione.
Art. 16.
(Procedure di valutazione)
1. Gli strumenti di pianificazione, ad esclusione di quelli destinati esclusivamente a scopi di difesa nazionale e di protezione civile, sono soggetti a valutazione ambientale strategica durante la fase di elaborazione e anteriormente alla loro adozione. Le leggi regionali specificano i casi in cui, previa dimostrazione dell’insussistenza di effetti ambientali significativi, non è necessaria la valutazione ambientale.
2. La valutazione ambientale è volta a garantire un livello elevato di protezione dell’ambiente, assicurando che i prevedibili effetti ambientali delle scelte contenute negli strumenti di pianificazione siano individuati, descritti e adeguatamente presi in considerazione durante la fase di elaborazione e anteriormente al momento dell’adozione.
3. Devono essere privilegiate le scelte che consentono di conseguire gli obiettivi fissati dagli strumenti di pianificazione con il minore impiego di risorse naturali e il minore impatto negativo sull’ambiente. A tal fine, ove necessario, sono sottoposte a confronto le proposte alternative.
4. Le leggi regionali, nello stabilire le modalità di svolgimento della valutazione ambientale strategica in relazione all’articolazione della pianificazione nei suoi diversi strumenti, tengono conto:
a) del livello delle conoscenze e dei metodi di valutazione attuali;
b) dei contenuti e del livello di dettaglio dello strumento di pianificazione;
c) della fase in cui lo strumento di pianificazione si colloca all’interno del processo decisionale;
d) della possibilità che taluni aspetti possano essere più adeguatamente valutati in altre fasi del processo decisionale ovvero da altri strumenti di pianificazione di maggiore dettaglio al fine di evitare duplicazioni della valutazione.
5. Le leggi regionali assicurano che:
a) qualora l’attuazione dello strumento di pianificazione possa avere effetti significativi sull’ambiente di un altro Stato membro dell’Unione europea, siano previste adeguate forme di consultazione transfrontaliera;
b) qualora l’attuazione dello strumento di pianificazione possa avere effetti significativi sull’ambiente di una regione confinante, sia prevista la consultazione delle autorità di quella regione competenti in ordine alla tutela dell’ambiente e degli enti territoriali ricompresi nella regione medesima.
6. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e le regioni assicurano il monitoraggio degli effetti ambientali degli strumenti di pianificazione. A tal fine le regioni, o gli enti da esse delegati, predispongono e divulgano, con cadenza programmata, rapporti sullo stato di attuazione degli strumenti di pianificazione, nei quali siano evidenziati gli effetti ambientali significativi determinati dall’attuazione delle scelte di piano.
Art. 17.
(Carta unica del territorio)
1. La pianificazione territoriale e urbanistica generale comunale recepisce e coordina le prescrizioni relative alla regolazione dell’uso del suolo e delle sue risorse ed i vincoli territoriali, paesaggistici e ambientali che derivano dai piani sovraordinati, da singoli provvedimenti amministrativi o da previsioni legislative.
2. La pianificazione territoriale e urbanistica generale comunale costituisce la carta unica del territorio e rappresenta il riferimento esclusivo per la pianificazione attuativa e per la verifica di conformità urbanistica ed edilizia, fatti salvi le prescrizioni e i vincoli sopravvenuti.
Art. 18.
(Sistema informativo territoriale)
1. I comuni, le province, le città metropolitane, le regioni e lo Stato partecipano alla formazione e alla gestione del sistema informativo territoriale che costituisce il riferimento conoscitivo fondamentale per la definizione degli strumenti di pianificazione e per la verifica dei loro effetti.
2. Sono compiti del sistema informativo territoriale:
a) l’organizzazione della conoscenza necessaria alla pianificazione del territorio, articolata nelle fasi della individuazione e raccolta dei dati riferiti alle risorse essenziali del territorio, della loro integrazione con i dati statistici, della georeferenziazione, della conservazione, della diffusione e dell’aggiornamento dei dati medesimi;
b) la definizione in modo univoco per tutti i livelli operativi della documentazione informativa a sostegno dell’elaborazione programmatica e progettuale dei diversi soggetti e nei diversi settori;
c) la registrazione degli effetti indotti dall’applicazione delle normative e delle azioni di trasformazioni del territorio.
3. Il sistema informativo territoriale è accessibile a tutti i cittadini e vi possono confluire, previa certificazione, informazioni provenienti da enti pubblici e dalla comunità scientifica.
Art. 19.
(Modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42)
1. Al codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 142, comma 1, dopo la lettera m), è aggiunta la seguente:
«m-bis) il territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale»;
b) all’articolo 142, dopo il comma 4, sono aggiunti i seguenti:
«4-bis. I comuni, d’intesa con la competente soprintendenza, individuano, nell’ambito dei rispettivi strumenti di pianificazione, il territorio di cui alla lettera m-bis) del comma 1.
4-ter. Fino all’intervenuta individuazione ai sensi del comma 4-bis, il territorio di cui alla lettera m-bis) del comma 1, coincide con l’insieme delle zone di cui alla lettera E) dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, n. 97, ovvero delle omologhe zone comunque denominate nelle leggi regionali, individuate e perimetrate negli strumenti di pianificazione vigenti.
4-quater. L’utilizzazione del territorio di cui alla lettera m-bis) del comma 1 al fine di realizzare nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali o attrezzature puntuali, può essere ammessa dai nuovi strumenti di pianificazione d’intesa con la competente soprintendenza e soltanto qualora non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture o attrezzature esistenti.»;
c) all’articolo 143, comma 1, dopo la lettera i) è inserita la seguente:
«i-bis) previsione, per il territorio di cui all’articolo 142, comma 1, lettera m-bis), di obiettivi e strumenti per la conservazione e il restauro del paesaggio agrario e non urbanizzato».
Art. 20.
(Disposizione transitoria)
1. Nel territorio di cui all’articolo 142, comma 1, lettera m-bis), del citato codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, come inserito dall’articolo 19 della presente legge, fino all’adeguamento delle leggi regionali ai princìpi fondamentali stabiliti dalla presente legge, nonché fino alla data di entrata in vigore dei piani paesaggistici ai sensi degli articoli 135 e 156 del medesimo codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni, e all’eventuale adeguamento degli strumenti urbanistici, è vietata ogni modificazione dell’assetto del territorio salvo quelle finalizzate alla difesa del suolo e alla riqualificazione ambientale.
La sistematica espositiva generale (e delle singole parti) del disegno di legge raggiunge presumibilmente i massimi livelli sinora visti, nelle leggi e nelle proposte di legge statali e regionali degli ultimi lustri, nei quali peraltro pare essersi scatenata quasi una gara al fare peggio, di disordine inutilmente complicato (non di complessità, che può essere una necessità, e financo un pregio).
Conseguentemente gli argomenti si succedono secondo raggruppamenti di discutibile omogeneità individuativa, posti secondo una sequenza la cui logica è di ardua, se non impossibile, percepibilità, e vengono, talvolta, più volte ripresi, non sempre in termini di coerenza contenutistica e concettuale.
Quanto al linguaggio usato, ben lungi dall’assomigliare a quello della storica espressione di atti normativi che nell’Ottocento veniva additata come modello per la coeva grande letteratura, presenta un’immagine di complessiva sciatteria e di generalizzato pressappochismo, nella quale risaltano parti evocanti lo stile “parolibero”, non già di Marinetti, però, ma piuttosto di qualche telecronista sportivo. Basti, per esemplificare, senza andare oltre l’articolo 1, la disposizione (comma 3) per cui gli atti di pianificazione “definiti con modalità strategiche, strutturali ed attuative si basano su attività di tipo conoscitivo, valutativo e concertativo”.
Vengono incluse tra “i soggetti istituzionali della pianificazione territoriale e urbanistica” le Comunità montane (articolo 3, comma 1, e passim), il che, ammesso e non concesso che sia mai stato fondatamente sostenibile in base a qualche univoca disposizione della legislazione statale previdente, è stato chiaramente escluso, da vari combinati disposti, fin dalla legge 8 giugno 1990, n.142, che ha ridefinito l’ordinamento degli enti locali, e che oggi trova i suoi contenuti fondamentali, ivi compreso quello di cui si sta trattando, nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267, recante il “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali” (spettando alla legislazione esclusiva dello Stato, anche a norma del novellato Titolo V della Costituzione, la determinazione delle funzioni fondamentali degli enti locali). Le Comunità montane potrebbero a buon diritto essere piuttosto incluse tra i soggetti che “concorrono […] alla formazione delle scelte della pianificazione territoriale e urbanistica” (articolo 3, comma 2), il cui elenco appare peraltro assai discutibile, stante che vi compaiono, per citare soltanto gli “svarioni” più clamorosi, gli “enti parco” (i cui piani, inderogabilmente ove si tratti di parchi nazionali, “sostituiscono” ogni altro strumento di pianificazione, a norma della legge 6 dicembre 1991, n.394, pur’essa indiscutibilmente appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, e ciò a prescindere dalle opinioni, pienamente condivise dall’autore di queste noterelle, circa l’imbecillità della disposizione di legge appena rammentata), e altresì le “autorità di bacino” (i cui piani, invece, a norma della legge 18 maggio 1989, n.183, con la speranza che l’attività istituzionale delle prossime settimane la salvi dal massacro che ne farebbe il decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, recante “Norme in materia ambientale”, prevalgono, per quanto di specialistica competenza, su qualsiasi strumento di pianificazione afferente al medesimo territorio).
Stando a una delle primissime disposizioni del disegno di legge (articolo 3, comma 3), parrebbe che gli “strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica” fossero tutti ascrivibili a tre, e non più di tre, categorie: i “Piani di contenuto generale” (i quali, viene detto, “definiscono le previsioni di assetto strutturale”), i “Programmi integrati di intervento”, i “Piani attuativi”. Se si prosegue nella lettura del disegno di legge, per converso, si rinvengono miriadi (forse sopravanzando anche le più prolifiche leggi regionali delle ultime generazioni) di “figure pianificatorie” che è arduo collocare in una delle succitate categorie. A cominciare da quella che dovrebbe essere la base del sistema: la “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi“ (articoli 6, 7 e passim), che peraltro, paradossalmente, non è neppure elencata tra gli strumenti attraverso i quali “la Regione svolge attività di programmazione e pianificazione” (articolo 4, comma 2), anche se poi ci si ricorda di essa per proclamare che definirla “è compito primario della Regione” (articolo 4, comma 3). Per continuare con quella che viene chiamata “Pianificazione Strategica” (articolo 12), comprendente il “Quadro di Riferimento Regionale” (articolo 20) e il “Documento Preliminare” (articolo 22), il quale ultimo, peraltro, non è proprio della pianificazione regionale, ma di quelle provinciale e comunale. Altra cosa sarebbe la “Pianificazione strutturale” (articolo 13), la quale comprende innanzitutto i “Piani Territoriali di coordinamento delle Province” (articolo 23). Essa comprende altresì i “Piani Generali dei Comuni” (articolo 24), i quali peraltro sono costituiti sia da una “parte strutturale” che dovrebbe “specificare lo Schema di Assetto Strutturale”, che da una “parte regolativa” che dovrebbe esprimersi, pare di capire, mediante un “Regolamento urbanistico” (del quale, ahinoi, più non si parla nell’intero disegno di legge) ovvero mediante piani attuativi, il che non toglie che si preveda che anche la “parte strutturale” possa avere efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa (articolo 24, comma 7), anche se purtroppo soltanto rispetto a specifici oggetti, scelti in base a una logica di cui è arduo cogliere la ratio. La “Pianificazione strutturale” comprende infine, sorpresa!, i “Piani di Settore” (articolo 25, dove però diventano “Piani e Programmi di Settore”). E altre cosa ancora sarebbe la “Pianificazione Attuativa” (articolo 14), la quale comprenderebbe sia i “Piani Attuativi” (articolo 28) che i “Programmi Integrati di Intervento” (articolo 26), i quali nella disposizione per prima ricordata costituivano due distinte categorie di strumenti, e altresì i “Piani comunali della Armatura Urbana e Territoriale” (articolo 30). A tutto ciò si aggiungerebbero, non è chiaro dove collocati, i “Bilanci Urbanistici e Ambientali” e i “Rapporti urbanistici” (articolo 27). Nonché i “Comparti edificatori” (articolo 29).
La già ricordata “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” dovrebbe innanzitutto individuare, con riferimento all’intero territorio regionale, i “Sistemi naturali” e i “Sistemi insediativi” (articolo 6, comma 1). Tale articolazione (così come, si presume, quelle ulteriori delle quali si dirà) dovrebbe avvenire “attraverso il riconoscimento delle Unità Geomorfologiche, Paesaggistiche e Ambientali” (articolo 6, comma 2), entità che, come descritta, pare potere avere ben poca utilità per l’individuazione dei sistemi di cui si è detto, e delle loro ulteriori articolazioni, e al cui riconoscimento non pare comunque il disegno di legge correli altre significative conseguenze. E’ invece previsto che il “sistema naturale” si articoli in “ambiti naturali”, “ambiti seminaturali” e “ambiti agricoli” (articolo 6, comma 4). Ed è parimenti previsto che il “sistema insediativo” si articoli in “ambiti urbani” e “ambiti periurbani” (articolo 6, comma 6), questi ultimi a loro volta distinti in “suoli agricoli abbandonati, contigui agli ambiti urbani” e “sistemi insediativi diffusi extraurbani, privi di organicità” (articolo 6, comma 7).
Appena appresso (articolo 7, comma 1), il medesimo disegno di legge pare disporre che la medesima “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” classifichi i suoli regionali secondo una nomenclatura avente con quella appena sopra elencata appena qualche parentela. Si prevede infatti una articolazione in “suoli urbanizzati”, “suoli urbani programmati”, per essi intendendosi “le parti del territorio non servite da viabilità e infrastrutture a rete ma ricomprese nelle previsioni insediative degli strumenti urbanistici vigenti”, “suoli riservati all’armatura urbana”, e “suoli non urbanizzati”, per essi intendendosi “le parti del territorio prevalentemente costituite da ambiti naturali, seminaturali e agricoli non impegnati dalle previsioni insediative degli strumenti urbanistici vigenti”.
Sia nel primo che, soprattutto, nel secondo caso, in buona sostanza, la “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” pare derivare da una insostenibile contaminazione tra una ipersemplificata carta dell’uso reale del suolo e un altrettanto ipersemplificato mosaico dei piani vigenti.
Il disegno di legge soggiunge, peraltro (articolo 7, comma 2), che la “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” operi un’ulteriore classificazione, individuando “areali di valore”, “areali di rischio”, “areali di vincolo”, “areali di coflittualità”, “areali di abbandono e di degrado”, “areali di frattura”, “reti di continuità ecologica”. Accantonando per il momento i possibili appunti critici che si potrebbero/dovrebbero muovere a quest’ultima definita nomenclatura, il primo e più rilevante dei quali riguarda l’ineluttabile sovrapporsi e intrecciarsi di quasi tutte le voci contemplate, si può riconoscere che con essa si tenta, almeno, una classificazione “valoriale”, cioè correlata alle caratteristiche qualitative riconosciute nelle diverse articolazioni del territorio.
Ma ecco il disegno di legge disporre (articolo 7, comma 3) che la “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” assegni i “regimi generali di intervento” alle “classi dei suoli” di cui al secondo elenco dianzi riportato, seppure “sulla base delle attività ricognitive” che devono aver portato alla classificazione “valoriale” di cui poi si è riferito (del resto i suddetti “regimi generali di intervento” – articolo 9, comma 1 – sono soltanto due: conservazione e trasformazione, anche se è detto – articolo 9, comma 2 - che “possono essere ulteriormente articolati”, ma non è chiaro se dalla stessa “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi”).
Insomma, per evidenziare un solo nodo problematico (il più facile e intuitivo, magari), i “suoli urbani programmati” riconosciuti nella “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” per il solo fatto di essere“ ricompresi nelle previsioni insediative degli strumenti urbanistici vigenti” possono essere dalla medesima “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” esclusi dall’urbanizzazione e dall’edificazione in ragione della valutazione di specifiche loro caratteristiche, o, viceversa, vengono “consacrati” come urbanizzabili ed edificabili dall’elemento fondante della pianificazione regionale? la risposta è tutt’altro che univoca, per non dire di peggio.
Vero è che una disposizione del disegno di legge (articolo 6, comma 9), pur riconoscendo che, almeno in una prima fase (ma altre disposizioni tra quelle sommarissimamente ricordate dovrebbero/potrebbero rendere la cosa permanente), il sistema insediativo corrisponde, in buona sostanza, alla sommatoria dei suoli insediati e di quelli, di espansione, insediabili secondo la pianificazione generale comunale vigente, soggiunge che “la loro conferma nei successivi atti urbanistici è subordinata a verifica di compatibilità”. Ma la “verifica di compatibilità” viene effettuata essenzialmente (articolo 18, comma 2) “rispetto alla Carta dei Luoghi e dei Paesaggi e al Piano paesaggistico regionale”. Per cui si ripropone la domanda: i due ultimi citati strumenti di pianificazione (e, come si vedrà nella successiva noterella, essenzialmente la “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi”) “distinguono”, tra i “suoli urbani programmati”, quelli confermabili e quelli non confermabili altri, o no? Allo stato delle formulazioni del disegno di legge il quesito resta irrisolto.
Infine, non si può non fare presente il paradosso (per usare un termine elegante e moderato) per cui il fondamento di tutta l’attività pianificatoria, cioè la “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi”, seppur costruita con il più largo coinvolgimento di soggetti, è previsto (articolo 7, comma 8) sia approvata dalla Giunta regionale!
Il già ricordato Piano paesaggistico regionale è definito (articolo 21) quale “piano di settore”, e si stabilisce che la “Carta dei Luoghi e dei Paesaggi” ne costituisca “il supporto conoscitivo e ricognitivo”. Basterebbe ciò a marcare l’abissale distanza tra la trattazione dello strumento effettuata dal disegno di legge e i pertinenti disposti del decreto legislativo 22 gennaio 2004, di approvazione del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, che pure viene, ma incongruamente, citato.
Il fatto è che, come ha chiarito la giurisprudenza della Corte costituzionale (si veda, da ultimo, la sentenza 20 aprile – 5 maggio 2006, n.182), il “Codice dei beni culturali e del paesaggio” contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione come riscritto per effetto della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto del novellato articolo 117 della Costituzione).
Per cui, ha affermato la Corte, relativamente all’insieme delle disposizioni del “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, le regioni “devono sottostare nell'esercizio delle proprie competenze, cooperando eventualmente a una maggior tutela del paesaggio, ma sempre nel rispetto dei principi fondamentali fissati dallo Stato”. Giacché “la tutela tanto dell'ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato […], mentre la valorizzazione dei secondi è di competenza legislativa concorrente […]: da un lato, spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, e, dall'altro, le leggi regionali, emanate nell'esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato”. Cosicché, ha concluso sul punto la Corte, “appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l'intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell'interesse ambientale”.
E ha ulteriormente specificato che “in relazione alla pianificazione paesaggistica, lo Stato, nella Parte III del Codice dei beni culturali e del paesaggio, pone una disciplina dettagliata, cui le regioni devono conformarsi, provvedendo o attraverso tipici piani paesaggistici, o attraverso piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici”.
Ben poco di ciò, per non dire pressoché nulla, è rispettato nel disegno di legge.
Men che meno il disegno di legge prevede (neppure quale eventualità) la possibilità che le disposizioni del Piano paesaggistico regionale, e le loro necessarie specificazioni nelle pianificazione sottordinata, siano definite d’intesa con i competenti organi dell’amministrazione statale per i beni culturali, condizione irrinunciabile posta dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, e ribadita dalla giurisprudenza costituzionale, affinché possa prodursi l’effetto per cui dalla definizione della disciplina dei “beni paesaggistici” operata dagli strumenti di pianificazione regionali, provinciali e comunali, possa derivare, in buona sostanza, la sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento di speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata. Eppure tale previsione potrebbe condurre a un vastissimo snellimento delle procedure burocratiche di ottenimento delle abilitazioni a operare trasformazioni di immobili, e quindi risultare assai gradita a quantità ingenti di cittadini (senza che le finalità di tutela dell’identità culturale del territorio abbiano minimamente a soffrirne).
Com’era ampiamente prevedibile stante l’impianto complessivo del disegno di legge, in esso viene esaltato il mito della “perequazione urbanistica”, da realizzarsi non soltanto (come, più che ammissibile, è logico e doveroso e dovrebbe essere scontato) in ognuno dei “comparti”, o “ambiti sottoposti a unitaria pianificazione particolareggiata”, o “distretti di trasformazione”, o come altro li si voglia denominare, ma anche (articolo 19, comma 3) “attraverso la definizione di un indice di utilizzazione omogeneo esteso a tutti i distretti urbani”, e altresì “prevedendo il trasferimento tra i diversi distretti dei diritti immobiliari derivanti dai regimi urbanistici”. Con riferimento alla seconda possibilità si deve ancora una volta far presente che se la pianificazione ha attribuito alle diverse articolazioni del territorio che essa stessa ha individuato e perimetrato (distretti, zone, sottozone, aree, ambiti, o altrimenti chiamate) indici urbanistici differenziati a ragion veduta, la possibilità di trasferire potenzialità edificatorie da un’articolazione all’altra (ovviamente, anche se nel disegno di legge non lo si proclama, sulla base di negoziazioni con la proprietà immobiliare interessata) comporta come minimo eccessi di carico urbanistico nelle articolazioni di recapito di tali potenzialità edificatorie.
Discorso analogo a quest’ultimo potrebbe farsi anche per la previsione (articolo 31) di compensare la realizzazione di opere pubbliche e/o destinate alla fruizione collettiva mediante “la concessione di ulteriori potenzialità edificatorie”.
Su molti altri punti specifici del disegno di legge si potrebbe soffermarsi. criticamente Si reputa peraltro che quanto detto, seppure in sommarie e asistematiche noterelle, sia sufficiente a evidenziare la necessità di un suo completo ripensamento, e di una sua quasi totale ristesura.
Il testo, inedito, è uno dei numerosi contributi critici di cui Gigi era prodigo quando la causa gli sembrava giusta; è stato pubblicato su Le belle bandiere, Periodico del Gruppo consiliare alla Regione Abruzzo del Partito della Rifondazione Comunista, Anno 3, numero 1, aprile 2007
In allegato, anche i testi delle leggi 1150/1942, 167/1962 e 865/1971 aggiornati alla L 10/1977 (formati .doc e .pdf)
INDICE
Art. 1 - Trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare
Art. 2 - Piani di zona e demani comunali di aree
Art. 3 - Contributo per il rilascio della concessione
Art. 4 - Caratteristiche della concessione
Art. 5 - Determinazione degli oneri di urbanizzazione
Art. 6 - Determinazione del costo di costruzione
Art. 7 - Edilizia convenzionata
Art. 8 - Convenzione-tipo
Art. 9 - Cessione gratuita
Art. 10 - Concessione relativa ad opere o impianti non destinati alla residenza
Art. 11 - Versamento del contributo afferente alla concessione
Art. 12 - Destinazione dei proventi delle concessioni
Art. 13 - Programmi pluriennali di attuazione
Art. 14 - Indennità di espropriazione
Art. 15 - Sanzioni amministrative
Art. 16 - Tutela giurisdizionale
Art. 17 - Sanzioni penali
Art. 18 - Norme transitorie
Art. 19
Art. 20 - Norme tributarie
Art. 21 - Disposizioni finali
Art. 22
Art. 1 - Trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare
Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del Sindaco, ai sensi della presente legge.
Art. 2 - Piani di zona e demani comunali di aree
Per le aree comprese nei piani di zona di cui alla legge 8 aprile 1962, n. 167, e per quelle acquisite ai sensi degli articoli 27 e 51 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, resta fermo il regime previsto dalle norme della stessa legge n. 865.
Anche per tali aree è necessario il provvedimento del Sindaco di cui all'articolo 1 della presente legge.
Il primo comma dell'articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 167, già sostituito dall'articolo 29 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, è sostituito dal seguente:
“L'estensione delle zone da includere nei piani è determinata in relazione alle esigenze dell'edilizia economica e popolare per un decennio e non può essere inferiore al 40 per cento e superiore al 70 per cento di quella necessaria a soddisfare il fabbisogno complessivo di edilizia abitativa nel periodo considerato.”.
L'articolo 26 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, è abrogato. Le aree già vincolate ai sensi di detto articolo sono assoggettate al regime previsto dall'articolo 35 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, salvo quanto previsto nell'undicesimo, nel sedicesimo e nel diciottesimo comma dello stesso articolo 35 per ciò che concerne i requisiti soggettivi.
Nei Comuni con popolazione superiore a ventimila abitanti, secondo i dati risultanti dall'ultimo censimento, l'articolo 51 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e successive modificazioni, si applica fino alla data del 31 dicembre 1980.
Art. 3 - Contributo per il rilascio della concessione
La concessione comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione nonché al costo di costruzione.
Art. 4 - Caratteristiche della concessione
La concessione è data dal Sindaco al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla con le modalità, con la procedura e con gli effetti di cui all'articolo 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e, nei Comuni sprovvisti di detti strumenti, a norma dell'articolo 41-quinquies, primo e terzo comma, della legge medesima, nonché delle ulteriori norme regionali.
Per gli immobili di proprietà dello Stato la concessione è data a coloro che siano muniti di titolo, rilasciato dai competenti organi dell'amministrazione, al godimento del bene.
Nell'atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori.
Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata.
La concessione è trasferibile ai successori o aventi causa. Essa non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio ed è irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza ai sensi della presente legge e le sanzioni previste dall'articolo 15 della stessa. Resta fermo inoltre il disposto di cui al penultimo comma dell'articolo 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150.
La Regione stabilisce le forme e le modalità d'esercizio dei poteri sostitutivi nel caso di mancato rilascio della concessione nei termini di legge.
A decorrere dal 1 gennaio 1979, salva l'applicazione dell'articolo 4 della legge 1 giugno 1971, n. 291, nei Comuni sprovvisti degli strumenti urbanistici generali e in mancanza di norme regionali e fino all'entrata in vigore di queste, la concessione deve osservare i seguenti limiti:
a) fuori del perimetro dei centri abitati definito ai sensi dell'articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, l'edificazione a scopo residenziale non può superare l'indice di metri cubi 0,03, per metro quadrato di area edificabile;
b) nell'ambito dei centri abitati definiti ai sensi dell'articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, sono consentite soltanto opere di restauro e di risanamento conservativo, di manutenzione ordinaria o straordinaria, di consolidamento statico e di risanamento igienico;
c) le superfici coperte degli edifici o dei complessi produttivi non possono superare un decimo dell'area di proprietà.
Art. 5 - Determinazione degli oneri di urbanizzazione
L'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, previsti dall'articolo 4 della legge 29 settembre 1964, n. 847, modificato dall'articolo 44 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, nonché dalle leggi regionali, è stabilita, ai fini del precedente articolo 3, con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la Regione definisce, entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, per classi di Comuni in relazione:
a) all'ampiezza ed all'andamento demografico dei Comuni;
b) alle caratteristiche geografiche dei Comuni;
c) alle destinazioni di zona previste negli strumenti urbanistici vigenti;
d) ai limiti e rapporti minimi inderogabili fissati in applicazione dall'articolo 41-quinquies, penultimo e ultimo comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modifiche e integrazioni, nonché delle leggi regionali.
Fino all'approvazione delle tabelle di cui al precedente comma, i Comuni continuano ad applicare le disposizioni adottate in attuazione della legge 6 agosto 1967, n. 765.
Nel caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da parte della Regione entro il termine stabilito nel primo comma e fino alla definizione delle tabelle stesse, i Comuni provvedono, in via provvisoria, con deliberazione del consiglio comunale.
Art. 6 - Determinazione del costo di costruzione
Il costo di costruzione di cui all'articolo 3 per i nuovi edifici è determinato annualmente, con decreto del Ministro per i lavori pubblici, sulla base del costo dell’edilizia agevolata di cui all’articolo 8, terzo comma, del decreto-legge 6 settembre 1965, n. 1022, convertito, con modificazioni, nella legge 1 novembre 1965, n. 1179.
Con lo stesso provvedimento sono identificate classi di edifici con caratteristiche tipologiche superiori a quelle considerate dalla citata legge, per le quali sono determinate maggiorazioni del detto costo di costruzione in misura non superiore al 50 per cento.
Il contributo afferente alla concessione comprende una quota di detto costo, variabile dal 5 per cento al 20 per cento, quota che viene determinata dalla Regione in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione ed ubicazione.
Nella prima applicazione della presente legge il decreto di cui al primo e secondo comma deve essere emanato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge medesima.
Nel caso di interventi su edifici esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi così come individuati dal Comune in base ai progetti presentati per ottenere la concessione.
Art. 7 - Edilizia convenzionata
Per gli interventi di edilizia abitativa, ivi compresi quelli sugli edifici esistenti, il contributo di cui al precedente articolo 3 è ridotto alla sola quota di cui all'articolo 5 qualora il concessionario si impegni, a mezzo di una convenzione con il Comune, ad applicare prezzi di vendita e canoni di locazione determinati ai sensi della convenzione-tipo prevista dal successivo articolo 8.
Nella convenzione può essere prevista la diretta esecuzione da parte dell'interessato delle opere di urbanizzazione, in luogo del pagamento della quota di cui al comma precedente; in tal caso debbono essere descritte le opere da eseguire e precisati i termini e le garanzie per l'esecuzione delle opere medesime.
Fino all'approvazione da parte della Regione della convenzione-tipo, le convenzioni previste dal presente articolo sono stipulate in conformità ad uno schema di convenzione-tipo, deliberato dal Consiglio comunale, contenente gli elementi di cui al successivo articolo 8.
Può tener luogo della convenzione un atto unilaterale d'obbligo con il quale il concessionario si impegna ad osservare le condizioni stabilite nella convenzione-tipo ed a corrispondere nel termine stabilito la quota relativa alle opere di urbanizzazione ovvero ad eseguire direttamente le opere stesse.
La convenzione o l'atto d'obbligo unilaterale sono trascritti nei registri immobiliari a cura del Comune e a spese del concessionario.
Art. 8 - Convenzione-tipo
Ai fini della concessione relativa agli interventi di edilizia abitativa di cui al precedente articolo 7, la Regione approva una convenzione-tipo, con la quale sono stabiliti i criteri nonché i parametri, definiti con meccanismi tabellari per classi di Comuni, ai quali debbono uniformarsi le convenzioni comunali nonché gli atti di obbligo in ordine essenzialmente a:
a) l'indicazione delle caratteristiche tipologiche e costruttive degli alloggi;
b) la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi, sulla base del costo delle aree, così come definito dal comma successivo, della costruzione e delle opere di urbanizzazione, nonché delle spese generali, comprese quelle per la progettazione e degli oneri di preammortamento e di finanziamento;
c) la determinazione dei canoni di locazione in percentuale del valore desunto dai prezzi fissati per la cessione degli alloggi;
d) la durata di validità della convenzione non superiore a 30 e non inferiore a 20 anni.
La Regione stabilisce criteri e parametri per la determinazione del costo delle aree, in misura tale che la sua incidenza non superi il 20 per cento del costo di costruzione come definito ai sensi del precedente articolo 6.
Per un periodo di 10 anni dall'entrata in vigore della presente legge il concessionario può chiedere che il costo delle aree, ai fini della convenzione, sia determinato in misura pari al valore definito in occasione di trasferimenti di proprietà avvenuti nel quinquennio anteriore alla data della convenzione.
I prezzi di cessione ed i canoni di locazione determinati nelle convenzioni ai sensi del primo comma sono suscettibili di periodiche variazioni, con frequenza non inferiore al biennio, in relazione agli indici ufficiali ISTAT dei costi di costruzione intervenuti dopo la stipula delle convenzioni medesime.
Ogni pattuizione stipulata in violazione dei prezzi di cessione e dei canoni di locazione è nulla per la parte eccedente.
Art. 9 - Cessione gratuita
Il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto:
a) per le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'articolo 12 della legge 9 maggio 1975, n. 153;
b) per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo e di ristrutturazione che non comportino aumento delle superfici utili di calpestio e mutamento della destinazione d'uso, quando il concessionario si impegni, mediante convenzione o atto d'obbligo unilaterale a praticare prezzi di vendita e canoni di locazione degli alloggi concordati con il Comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione;
c) per gli interventi di manutenzione straordinaria, restando fermo che per la manutenzione ordinaria la concessione non è richiesta;
d) per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento, di edifici unifamiliari;
e) per le modifiche interne necessarie per migliorare le condizioni igieniche o statiche delle abitazioni, nonché per la realizzazione dei volumi tecnici che si rendano indispensabili a seguito della installazione di impianti tecnologici necessari per le esigenze delle abitazioni;
f) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici;
g) per le opere da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità.
Per le opere realizzate dai soggetti di cui al secondo comma dell'articolo 4 il contributo per la concessione - da determinarsi dal Comune ai sensi del precedente articolo 5 - è commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione.
Restano ferme le norme di cui agli articoli 29 e 31, secondo comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni.
Art. 10 - Concessione relativa ad opere o impianti non destinati alla residenza
La concessione relativa a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla presentazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. La incidenza di tali opere è stabilita con deliberazione del Consiglio comunale in base a parametri che la Regione definisce con i criteri di cui alle lettere a) e b) del precedente articolo 5, nonché in relazione ai tipi di attività produttiva.
La concessione relativa a costruzioni o impianti destinati ad attività turistiche, commerciali e direzionali comporta la corresponsione di un contributo pari all'incidenza delle opere di urbanizzazione, determinata ai sensi del precedente articolo 5, nonché una quota non superiore al 10 per cento del costo documentato di costruzione da stabilirsi, in relazione ai diversi tipi di attività, con deliberazione del consiglio comunale.
Qualora la destinazione d'uso delle opere indicate nei commi precedenti, nonché di quelle nelle zone agricole previste dal precedente articolo 9, venga comunque modificata nei dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo per la concessione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinata con riferimento al momento della intervenuta variazione.
Art. 11 - Versamento del contributo afferente alla concessione
La quota di contributo di cui al precedente articolo 5 è corrisposta al Comune all'atto del rilascio della concessione. A scomputo totale o parziale della quota dovuta, il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune.
La quota di contributo di cui al precedente articolo 6 è determinata all'atto del rilascio della concessione ed è corrisposta in corso d'opera con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune e, comunque, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione delle opere.
Art. 12 - Destinazione dei proventi delle concessioni
I proventi delle concessioni e delle sanzioni di cui agli articoli 15 e 18 sono versati in un conto corrente vincolato presso la Tesoreria del Comune e sono destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché all'acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali di cui al successivo articolo 13.
Art. 13 - Programmi pluriennali di attuazione
L'attuazione degli strumenti urbanistici generali avviene sulla base di programmi pluriennali di attuazione che delimitano le aree e le zone - incluse o meno in piani particolareggiati o in piani convenzionati di lottizzazione - nelle quali debbono realizzarsi, anche a mezzo di comparti, le previsioni di detti strumenti e le relative urbanizzazioni, con riferimento ad un periodo di tempo non inferiore a tre e non superiore a cinque anni.
Nella formulazione dei programmi deve essere osservata la proporzione tra aree destinate all'edilizia economica e popolare e aree riservate all'attività edilizia privata, stabilita ai sensi dell'articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni, come modificato ai sensi dell'articolo 2 della presente legge.
La Regione stabilisce con propria legge, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il contenuto ed il procedimento di formazione dei programmi pluriennali di attuazione, individua i Comuni esonerati, anche in relazione alla dimensione, all'andamento demografico ed alle caratteristiche geografiche, storiche ed ambientali - fatta comunque eccezione per quelli di particolare espansione industriale e turistica - dall'obbligo di dotarsi di tali programmi e prevede le forme e le modalità di esercizio dei poteri sostitutivi nei confronti dei Comuni inadempienti.
Nei Comuni obbligati ai sensi del terzo comma la concessione di cui all'articolo 1 della presente legge è data solo per le aree incluse nei programmi di attuazione e, al di fuori di esse, per le opere e gli interventi previsti dal precedente articolo 9, sempreché non siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici generali.
Fino all'approvazione dei programmi di attuazione, al di fuori dei casi previsti nel precedente comma, la concessione è data dai Comuni obbligati soltanto su aree dotate di opere di urbanizzazione o per le quali esista l'impegno dei concessionari a realizzarle.
Qualora nei tempi indicati dai programmi di attuazione gli aventi titolo non presentino istanza di concessione singolarmente o riuniti in consorzio, il Comune espropria le aree sulla base delle disposizioni della legge 22 ottobre 1971, n. 865, come modificata dalla presente legge.
Le disposizioni del comma precedente non si applicano ai beni immobili di proprietà dello Stato.
La legge regionale prevede le modalità di utilizzazione delle aree espropriate.
Nei Comuni esonerati trova applicazione la norma di cui al primo comma del precedente articolo 4.
Art. 14 - Indennità di espropriazione
Al primo comma dell'articolo 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, modificato dall'articolo 6 del decreto-legge 2 maggio 1974, n. 115, convertito, con modificazioni, nella legge 27 giugno 1974, n. 247, la cifra “30 per cento”, è sostituita dalla cifra “50 per cento”.
All'articolo 12 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, sono aggiunti i seguenti commi:
“L'espropriante dispone il pagamento dell'indennità accettata entro sessanta giorni dal provvedimento di cui al terzo comma.
Per le espropriazioni in dipendenza di opere di competenza statale, l'amministrazione competente emette il provvedimento che dispone il pagamento entro sessanta giorni a decorrere dalla comunicazione del provvedimento di autorizzazione a pagare di cui alla legge 3 aprile 1926, n. 686, e successive modificazioni.
A decorrere dalla scadenza dei termini di cui ai commi precedenti, sono dovuti gli interessi in misura pari a quella del tasso di sconto.”.
L'articolo 15 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, è sostituito dal seguente:
“Qualora l'indennità non sia accettata nel termine di cui al primo comma dell'articolo 12, il Presidente della Giunta regionale richiede la determinazione dell'indennità alla commissione competente per territorio di cui all'articolo 16. La commissione, entro trenta giorni dalla richiesta del Presidente della Giunta regionale, determina l'indennità sulla base del valore agricolo con riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo espropriato, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola e la comunica all'espropriante.
L'espropriante comunica le indennità ai proprietari degli immobili ai quali le stime si riferiscono mediante avvisi notificati nelle forme degli atti processuali civili; deposita la relazione della commissione nelle segreterie del Comune e rende noto al pubblico l'eseguito deposito nei modi previsti dal secondo comma dell'articolo 10.”.
I primi quattro commi dell'articolo 16 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, sono sostituiti dai seguenti:
“Con provvedimento della Regione è istituita, in ogni Provincia, una commissione composta dal Presidente dell'Amministrazione provinciale o da un suo delegato, che la presiede, dall'ingegnere capo dell'Ufficio tecnico erariale o da un suo delegato, dall'ingegnere capo delgenio civile o da un suo delegato, dal Presidente dell'Istituto autonomo delle case popolari della Provincia o da un suo delegato, nonché da due esperti nominati dalla Regione in materia urbanistica ed edilizia e da tre esperti in materia di agricoltura e di foreste scelti dalla Regione stessa su terne proposte dalle associazioni sindacali agricole maggiormente rappresentative.
La Regione, ove particolari esigenze lo richiedano, può disporre la formazione di sottocommissioni, le quali opereranno nella medesima composizione della commissione di cui al primo comma. A tal fine la Regione nomina gli ulteriori componenti.
La commissione di cui al primo comma ha sede presso l'Ufficio tecnico erariale. L'Intendente di finanza provvede alla costituzione della segreteria della commissione ed all'assegnazione ad essa del personale necessario.
La commissione determina ogni anno, entro il 31 gennaio, nell'ambito delle singole regioni agrarie delimitate secondo l'ultima pubblicazione ufficiale dell'Istituto centrale di statistica, il valore agricolo medio, nel precedente anno solare, dei terreni, considerati liberi da vincoli di contratti agrari, secondo i tipi di coltura effettivamente praticati.
L'indennità di espropriazione, per le aree esterne ai centri edificati di cui all'articolo 18, è commisurata al valore agricolo medio di cui al comma precedente corrispondente al tipo di coltura in atto nell'area da espropriare.
Nelle aree comprese nei centri edificati l'indennità è commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l'area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 percento di quella coltivata della regione agraria stessa.
Tale valore è moltiplicato per un coefficiente:
- da 2 a 5 se l'area ricade nel territorio di Comuni fino a 100 mila abitanti;
- da 4 a 10 se l'area ricade nel territorio di Comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti.
Per la determinazione dell'indennità relativa alle aree comprese nei centri edificati, la commissione di cui al primo comma è integrata dal Sindaco o da un suo delegato.”.
Il primo comma dell'articolo 17 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, è sostituito dal seguente:
“Nel caso che l'area da espropriare sia coltivata dal proprietario diretto coltivatore, nell'ipotesi di cessione volontaria ai sensi dell'articolo 12, primo comma, il prezzo di cessione è determinato in misura tripla rispetto all'indennità provvisoria, esclusa la maggiorazione prevista dal suddetto articolo.”.
Al primo comma dell'articolo 19 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, le parole: “ dell'Ufficio tecnico erariale”, sono sostituite dalle seguenti: “della commissione di cui all'art. 16”.
Al terzo comma dell'articolo 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, le parole: “L'Ufficio tecnico erariale provvede”, sono sostituite dalle seguenti: “La commissione di cui all'art. 16 provvede” e le parole: “un ventesimo dell'indennità”, sono sostituite dalle seguenti: “un dodicesimo dell'indennità”.
All'articolo 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, è aggiunto in fine il seguente comma:
“Il disposto del secondo comma del presente articolo deve intendersi applicabile anche alle occupazioni preordinate alla realizzazione delle opere e degli interventi previsti dall'art. 4 del decreto-legge 2 maggio 1974, n. 115, convertito, con modificazioni, nella legge 27 giugno 1974, n. 247.”.
Art. 15 - Sanzioni amministrative
Il mancato versamento del contributo nei termini di cui al precedente articolo 11 comporta:
a) la corresponsione degli interessi legali di mora se il versamento avviene nei successivi trenta giorni;
b) la corresponsione di una penale pari al doppio degli interessi legali qualora il versamento avvenga negli ulteriori trenta giorni;
c) l'aumento di un terzo del contributo dovuto, quando il ritardo si protragga oltre il termine di cui alla precedente lettera b).
La vigilanza sulle costruzioni è esercitata dal Sindaco ai sensi dell'articolo 32 della legge 17 agosto 1942, n. 1150.
Le opere eseguite in totale difformità o in assenza della concessione debbono essere demolite, a cura e spese del proprietario, entro il termine fissato dal Sindaco con ordinanza. In mancanza, le predette opere sono gratuitamente acquisite, con l'area su cui insistono, al patrimonio indisponibile del Comune che le utilizza a fini pubblici, compresi quelli di edilizia residenziale pubblica.
L'acquisizione si effettua con ordinanza motivata del Sindaco.
L'ordinanza è vidimata e resa esecutiva dal Pretore nella cui giurisdizione ricade il Comune interessato e costituisce titolo per la trascrizione nei registri immobiliari e per la immissione in possesso.
Contro l'ordinanza del Sindaco può essere presentato ricorso al Tribunale amministrativo regionale competente per territorio.
Gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione.
Qualora l'opera eseguita in totale difformità o in assenza della concessione contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali ovvero non possa essere utilizzata per fini pubblici, viene demolita a spese del suo costruttore.
In caso di annullamento della concessione, qualora non sia possibile la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la riduzione in pristino, il Sindaco applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Ufficio tecnico erariale. La valutazione dell'Ufficio tecnico è notificata alla parte dal Comune e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.
I contributi, le sanzioni e le spese di cui alla presente legge vengono riscossi con l'ingiunzione prevista dall'articolo 2 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, che è emessa dal Sindaco del Comune interessato.
Le opere realizzate in parziale difformità dalla concessione debbono essere demolite a spese del concessionario. Nel caso in cui le opere difformi non possono essere rimosse senza pregiudizio della parte conforme, il Sindaco applica una sanzione pari al doppio del valore della parte dell'opera realizzata in difformità dalla concessione.
Non si procede alla demolizione ovvero all'applicazione della sanzione di cui al comma precedente nel caso di realizzazione di varianti, purché esse non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e non modifichino la sagoma, le superfici utili e la destinazione d'uso delle costruzioni per le quali è stata rilasciata la concessione. Le varianti dovranno comunque essere approvate prima del rilascio del certificato di abitabilità.
Le opere eseguite da terzi, in totale difformità dalla concessione o in assenza di essa, su suoli di proprietà dello Stato e di enti territoriali, sono gratuitamente acquisite, rispettivamente, al demanio dello Stato e al patrimonio indisponibile degli enti stessi (salvo il potere di ordinarne la demolizione, da effettuarsi a cura e spese del costruttore entro sessanta giorni, qualora l'opera contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali). In caso di mancata esecuzione dell'ordine, alla demolizione provvede il Comune, con recupero delle spese ai sensi del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639.
Qualora le opere siano solo parzialmente difformi dalla concessione si applica il disposto dell'undicesimo comma del presente articolo. La sanzione ivi prevista è comminata dallo Stato o dagli altri enti territoriali interessati.
È vietato a tutte le aziende erogatrici di servizi pubblici di somministrare le loro forniture per l'esecuzione di opere prive di concessione.
Art. 16 - Tutela giurisdizionale
I ricorsi giurisdizionali contro il provvedimento con il quale la concessione viene data o negata nonché contro la determinazione e la liquidazione del contributo e delle sanzioni previste dagli articoli 15 e 18 sono devoluti alla competenza dei Tribunali amministrativi regionali, i quali, oltre i mezzi di prova previsti dall'articolo 44, primo comma del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, possono disporre altresì le perizie di cui all'articolo 27 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642.
Art. 17 - Sanzioni penali
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato e ferme le sanzioni previste dal precedente articolo 15 si applica:
a) l'ammenda fino a lire 2 milioni per la inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalla presente legge, dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, in quanto applicabile, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione;
b) l'arresto fino a sei mesi e l'ammenda fino a lire 5 milioni nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza della concessione o di prosecuzione di essi nonostante l'ordine di sospensione o di inosservanza del disposto dell’articolo 28 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni.
Art. 18 - Norme transitorie
Rimangono salve le licenze edilizie già rilasciate, anche in attuazione di piani di lottizzazione, prima della data di entrata in vigore della presente legge, purché i lavori siano completati entro quattro anni dalla stessa data così da rendere gli edifici abitabili o agibili. Per la parte non completata entro tale termine dovrà essere richiesta la concessione.
Fermi restando gli oneri di urbanizzazione, la quota di cui all'articolo 6 riguardante il costo di costruzione:
- non è dovuta per le istanze presentate fino a sei mesi dalla data predetta;
- è ridotta al 30 per cento della misura stabilita dalle norme della presente legge per le istanze di concessione presentate entro dodici mesi dalla stessa data;
- è ridotta al 60 per cento della misura medesima per le istanze di concessione presentate entro ventiquattro mesi da tale data.
Le disposizioni del precedente comma non si applicano qualora le istanze non siano corredate dagli atti, documenti ed elaborati previsti dalle vigenti norme urbanistico-edilizie ovvero i progetti presentati vengano assoggettati a varianti essenziali su richiesta del concessionario prodotta oltre i termini suindicati.
In ordine alle istanze di cui al secondo comma, la concessione, con i benefici ivi previsti, non può essere data dopo un anno dalla presentazione delle istanze stesse, salvo che sia successivamente intervenuta decisione di annullamento del silenzio-rifiuto o di un provvedimento negativo emesso dal Comune.
I lavori oggetto delle concessioni di cui sopra debbono essere completati entro tre anni dalla data di rilascio, così da rendere gli edifici abitabili o agibili. In caso di mancato completamento delle opere entro il termine suindicato, il concessionario è tenuto al pagamento di una sanzione pari al doppio del contributo di concessione dovuto per la parte dell'opera non ultimata.
Per i piani di lottizzazione convenzionata di cui all'articolo 8 della legge 6 agosto 1967, n. 765, già approvati, restano fermi gli oneri di urbanizzazione convenzionata. Il rilascio delle singole concessioni è subordinato soltanto al pagamento della quota del costo di costruzione, secondo le norme della presente legge.
Art. 19
Le disposizioni di cui al precedente articolo 14, in materia di determinazione dell'indennità di espropriazione e di occupazione, non si applicano ai procedimenti in corso se la liquidazione dell'indennità predetta sia divenuta definitiva o non impugnabile o definita con sentenza passata in giudicato alla data di entrata in vigore della presente legge.
Fino all'insediamento delle commissioni di cui all'articolo 14, le competenze attribuite a queste sono svolte dall'Ufficio tecnico erariale, il quale applica i criteri previsti dalla presente legge per la determinazione dell'indennità di espropriazione e di occupazione.
Art. 20 - Norme tributarie
Ai provvedimenti, alle convenzioni e agli atti d'obbligo previsti dalla presente legge si applica il trattamento tributario di cui all'articolo 32, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601.
La trascrizione prevista dall'articolo 15 della presente legge si effettua a tassa fissa.
Art. 21 - Disposizioni finali
Restano in vigore le norme della legge 18 dicembre 1973, n. 880, e della legge 2 agosto 1975, n. 393.
Restano altresì in vigore le norme della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, sempreché non siano incompatibili con quelle della presente legge ed intendendosi la espressione “licenza edilizia” sostituita dall'espressione “concessione”.
Art. 22
La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
1 “Governo del territorio” e “pianificazione del territorio”
La presente proposta di legge intende dare risposta a un’esigenza di costruzione dell’ordinamento legislativo italiano di cui è particolarmente avvertita l’urgenza già da molti decenni: quella di determinare i “principi fondamentali” della legislazione statale in merito alle finalità, agli obiettivi, alla titolarità, ai caratteri essenziali, alle facoltà e alle efficacie, ai procedimenti decisionali, dell’attività di pianificazione territoriale e urbanistica, la cui disciplina di dettaglio compete, fin dalle origini dell’assetto costituzionale repubblicano, alla legislazione regionale. Ciò sia al fine di tracciare alla produzione legislativa regionale un quadro di orientamenti unificanti, che garantissero a tutto il territorio nazionale, alle sue risorse, ai suoi beni e valori, nonché a tutti i cittadini in esso dimoranti, l’eguaglianza dei livelli essenziali delle tutele e delle prestazioni offerte, sia al fine di supportare la medesima legislazione regionale, innanzitutto e soprattutto ove vi fosse interferenza con questioni di riserva di legge nazionale, come a esempio in merito alla latitudine delle facoltà connesse con il diritto di proprietà.
Già a norma del primo comma dell’articolo 117 della Costituzione della Repubblica italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948 spettava alle regioni emanare, per le “materie” ivi elencate, tre le quali l’”urbanistica”, “norme legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempre che le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre regioni”.
Al momento della concreta costituzione delle regioni, al fine di consentire alle regioni stesse di iniziare immediatamente a legiferare nelle “materie” di competenza (senza attendere l’emanazione di leggi statali enuncianti i “principi fondamentali” della disciplina di ognuna di esse) la legge 16 maggio 1970, n.281, dispose che la produzione legislativa regionale poteva svolgersi “nei limiti dei principi fondamentali quali risultano da leggi che espressamente li stabiliscono per le singole materie o quali si desumono dalle leggi vigenti” (articolo 17, ultimo comma). Questa seconda possibilità implicò la necessità che le regioni si impegnassero a sceverare i contenuti ai quali riconoscere la natura di “principi fondamentali”, relativamente alla materia denominata “urbanistica”, nell’ambito delle disposizioni, essenzialmente, della legge 17 agosto 1942, n.1150, e successive modificazioni e integrazioni.
Con il tempo, l’accezione del termine costituzionale “urbanistica” è stata evolutivamente riconosciuta assai larga dalla dottrina, dalla giurisprudenza, e anche dal diritto positivo: basti citare, per quest’ultimo, la definizione data dall’articolo 80 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n.616, per cui l’”urbanistica” concerne “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente”. In buona sostanza, si dava della “materia” denominata “urbanistica” una definizione tale da avvicinarla al concetto di “governo del territorio”, quand’anche quest’ultimo concetto possa avere un’ancora più vasta latitudine.
Nei fatti, relativamente a non pochi degli argomenti che la definizione appena sopra riportata riconduce nell’ambito dell’”urbanistica” la legislazione statale si è arricchita, dopo la concreta costituzione delle regioni, e ancor più dopo l’enunciazione della suddetta definizione, di provvedimenti più o meno integralmente innovativi: da quello sulla difesa del suolo a quello sulle aree naturali protette, da quello sulle trasformazioni edilizie a quello sulle espropriazioni di immobili, a quelli sulle opere pubbliche, e l’elencazione potrebbe proseguire.
Per converso, ancora prima della concreta costituzione delle regioni (ma avendo ben chiara la sua imminenza), cioè nei primi anni ’60, iniziarono i tentativi di definire provvedimenti legislativi statali innovativi relativamente agli aspetti e ai profili della pianificazione territoriale e urbanistica di cui s’è detto all’inizio di questa relazione, tentativi che si succedettero, nei decenni che seguirono fino a tempi recentissimi, seppure con variabile intensità di frequenza: sostanzialmente, nessuno d’essi andò in porto, se si eccettua la cosiddetta “legge ponte” del 1967 (che, anziché costituire una tappa intermedia del percorso di costruzione di una nuova legge urbanistica, si risolse ed esaurì nella più incisiva integrazione e modificazione della legge 1150/1042), e se si eccettuano le leggi essenzialmente rivolte a innestare e a fondare sulla pianificazione le politiche finalizzate a dare risposta alle esigenze di edilizia abitativa economica e popolare, nonché la legge 28 gennaio 1977, n.10 (che, per ricordare soltanto i suoi contenuti più significativi, generalizzava l’obbligo posto a carico degli operatori delle trasformazioni di immobili di contribuire alle spese di attrezzamento del territorio, e l’introduceva l’istituto della programmazione nel tempo degli interventi previsti e disciplinati dalla pianificazione).
La proposta di legge nasce quindi dalla convinzione dell’urgenza, non ulteriormente dilazionabile, di provvedere a determinare i “principi fondamentali” della legislazione statale relativamente agli aspetti e ai profili della pianificazione territoriale e urbanistica di cui s’è detto all’inizio di questa relazione, per i fini ivi pure sinteticamente enunciati.
Si avverte infatti, come e forse più che nel periodo ultraquarantennale del quale dianzi si è tracciato il ricordo, la necessità, che si vorrebbe fosse riconosciuta tra le priorità nazionali, di rilanciare con forza la “cultura” (e la prassi) della pianificazione territoriale e urbanistica, quale attività relativa a un patrimonio comune non negoziabile (in quanto, tipicamente, non riproducibile e non fungibile), di titolarità irrinunciabilmente pubblica, volta al perseguimento esclusivo, o almeno prioritario, di interessi collettivi, neppure essi tra loro “equiordinati”, ma piuttosto gerarchizzati secondo un ordine che veda la priorità della tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale dello stesso territorio, da preservare anche per le generazioni future.
E’ sufficiente l’enunciazione dei concetti appena sopra sinteticissimamente espressi circa le finalità e i caratteri della pianificazione territoriale e urbanistica per evidenziare come i contenuti della presente proposta di legge siano radicalmente antitendenziali rispetto alla “cultura” (e alla prassi) via via sempre più protervamente affermatasi a partire dagli anni ’80, e che stava, nella scorsa legislatura, per ricevere la sua consacrazione in termini di “principi fondamentali della legislazione dello Stato” grazie al disegno di legge divenuto noto, dal nome del suo presentatore, come “legge Lupi”, approvato dalla Camera dei Deputati il 28 giugno 2005, trasmesso al Presidente del Senato il giorno successivo (Atti Senato n.3519), e in tale ramo del Parlamento fortunatamente (e grazie all’impegno di alcuni, pochi, Senatori) arenatosi.
E’ per converso doveroso riconoscere che la presente proposta di legge rinuncia a priori a configurarsi come la legge statale “organica” nella materia che il comma terzo dell’atuale articolo 117 della Costituzione denomina “governo del territorio”.
Ciò in ragione del fatto che una concezione adeguatamente matura (o almeno non più riduttiva di quella alla quale la legislazione ordinaria di attuazione della previgente normativa costituzionale era giunta nel definire l’estensione della materia allora denominata “urbanistica”) della nozione di “governo del territorio” non può non comprendervi, in tutto o in parte, materie che lo stesso comma terzo del novellato articolo 117 della Costituzione enumera, assieme al suddetto “governo del territorio”, tra quelle parimenti “di legislazione concorrente” (nelle quali, a norma del quarto comma del medesimo novellato articolo 117 della Costituzione, “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservati alla legislazione dello Stato”): protezione civile; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali. Come non può non ricomprendervi anche, almeno in parte, una materia che lo stesso novellato articolo 117 della Costituzione ha inserito nell’elenco, di cui al secondo comma, delle materie nelle quali lo Stato ha “legislazione esclusiva”, e cioè la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, come ha chiarito la dottrina della Corte costituzionale nelle pronunce con le quali ha negato la pretesa dello Stato di inibire alla legislazione regionale di dettare disposizioni in tale materia, peculiarmente prevedendo che alla tutela dei beni culturali, paesaggistici, naturalistico-ambientali, si provveda anche attraverso la pianificazione territoriale, ordinaria e specialistica.
Per cui un provvedimento legislativo statale effettivamente “organico” dovrebbe trattare, unitariamente, tutte le materie che sono state appena sopra richiamate, dettando solamente “principi fondamentali” in quelle “di legislazione concorrente” (salvo stabilire anche disposizioni direttamente operative destinate ad avere vigore sino alla definizione di quelle correlative regionali), e statuendo sia disposizioni immediatamente vincolanti erga omnes che precetti richiedenti l’intervento specificativo della legislazione regionale in quella che la ricordata dottrina della Corte costituzionale ha chiamato una “materia-attività”. E’ possibile che a definire un siffatto provvedimento legislativo statale si riesca a pervenire, nonostanti le indubbie gravosissime difficoltà tecniche (per non fare neppure cenno a quelle politico-istituzionali), e non si vuole negare che, se ciò mai accadesse, tutti i soggetti, pubblici e privati, in qualsiasi misura e modo interessati alle trasformazioni e alle utilizzazioni del territorio, ne apprezzerebbero l’utilità: la qual cosa, peraltro, non esime dal rifiutare risolutamente di considerare il porvi mano neppure paragonabile, per importanza, urgenza, rispondenza all’ordine gerarchico e temporali degli interessi pubblici del Paese, alla definizione dei contenuti della presente proposta di legge, a ai fini che a essi sono sottesi.
2. I principi per il governo del territorio
La proposta che qui si presenta concerne quindi il solo campo della pianificazione urbanistica e territoriale,:come del resto le medesima “Legge Lupi”, e gran parte delle leggi regionali che recano invece il titolo di “governo del territorio. Ciò non significa peraltro che, nel definire finalità, strumenti e procedure della pianificazione non si sia tenuto conto di un insieme di principi che - si ritiene - dovranno ispirare l’insieme degli atti normativi relativi al”governo del territorio”.
Nel corso della discussione della proposta ci si è anzi più volte domandati se fosse opportuno inserire esplicitamente nell’articolato una più ampia enunciazione d1 “principi per il governo del territorio”. Si è convenuto di preferire un impianto il più snello possibile,e finalizzato al massimo di efficacia nel campo prescelto. È peraltro opportuno, in questa sede, enunciare i principi sui quali si era convenuto,e che costituiscono in qualche modo il substrato delle norme elaborate.
Il governo del territorio, qualunque sia lo specifico campo al quale si riferisce, viene esercitato ponendo come obbiettivo di ogni atto di conservazione e trasformazione, il benessere dei cittadini, il miglioramento delle condizioni di qualità, sicurezza, e fruibilità collettiva del territorio, dando priorità alla conservazione della natura, alla gestione prudente degli ecosistemi e delle risorse primarie, alla tutela e alla valorizzazione del paesaggio e del patrimonio storico, artistico e culturale, alla qualità degli spazi urbani, dell’architettura, delle infrastrutture. A tal fine gli obiettivi di conservazione, tutela e valorizzazione fanno parte irrinunciabile di ogni atto di governo suscettibile di incidere sulle condizioni dell’ambiente urbano, del paesaggio e del patrimonio naturale e culturale.
Tutte le scelte relative alla conservazione e alla trasformazione del territorio, debbono pertanto essere informate dai seguenti principi:
- prevalenza dell’interesse generale su quello particolare e dell’interesse pubblico su quello privato;
- attribuzione alla risorsa ambientale di un valore primario per la collettività;
- promozione di un uso del territorio che favorisca l’equità, estenda la partecipazione e la democrazia nella consapevolezza che il territorio è un bene comune ed ogni azione compiuta da soggetti pubblici e privati deve essere ispirata e compatibile con questo principio.
Le amministrazioni che, ai differenti livelli, concorrono nell’azione di governo del territorio devono essere impegnate a:
- promuovere la qualità della vita degli abitanti attraverso 1) l’offerta di spazi e servizi che soddisfino bisogni individuali e favoriscano relazioni sociali 2) la riduzione del tempo destinato agli spostamenti individuali e collettivi 3) la tutela della salute attraverso la riconversione dei fattori che producono agenti inquinanti;
- sviluppare il senso e il valore della cura, della cultura, dell’identità dei luoghi generatori dei diritti di cittadinanza;
- affermare il valore imprescindibile della unità del territorio nella globalità dei significati, ecologici, storici, culturali e sociali
3. La direttiva europea sulla valutazione degli effetti della pianificazione sull’ambiente
La presente proposta di legge, nel determinare i “principi fondamentali” della legislazione statale in merito alla pianificazione del territorio, provvede doverosamente a recepire, per quanto di competenza della legislazione e statale e con esclusivo riferimento alla medesima pianificazione del territorio, la direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente. Ciò non (soltanto) ai fini del formale adempimento a un obbligo sovrastatale, ma (soprattutto) in ragione della profonda adesione, che sottende all’insieme della medesima presente proposta di legge, e che si manifesta in molteplici sue disposizioni, per cui la valutazione degli effetti ambientali delle scelte pianificatorie e programmatorie deve essere inclusa nei processi conoscitivi, dapprima, e decisionali, quindi, propri dell’attività pianificatoria e programmatoria, anche a evitare che il ricorso a separate procedure di valutazione dell’impatto ambientale di singole opere, trasformazioni, azioni comunque modificative del territorio, finisca con l’essere utilizzato, come troppo spesso è accaduto da non pochi anni, come un “grimaldello” mediante il quale (concedendo come contropartita, tutt’al più, qualche sistemazione “mitigatoria”) scardinare quelle complessive coerenze sistemiche nelle quali sussiste l’essenza della pianificazione e della programmazione.
Il recepimento della direttiva è realizzato sia sottolineando l’obbligo, nel corso del procedimento di formazione degli strumenti di pianificazione (articolo 11), di plurimi momenti di confronto con la cittadinanza, non limitandosi al tradizionale ricevimento delle osservazioni dei diversi soggetti ai documenti costitutivi dello strumento adottato, sia dettando (articolo 16) specifiche disposizioni in merito all’effettuazione della valutazione degli effetti sull’ambiente.
Alle tematiche di cui si è trattato appena sopra è strettamente legato l’indirizzo volto a promuovere la conoscenza diffusa dei processi di pianificazione e delle azioni di trasformazione del territorio, anche mediante la costituzione di forme organizzative autonome rispetto all’amministrazione attiva (articolo 6). E, a ben vedere, è a esse connessa anche la previsione per cui gli elaborati della pianificazione del territorio di competenza comunale, una volta che abbiano recepito e/o specificato tutti i contenuti degli strumenti di pianificazione, e degli altri atti incidenti sulla disciplina del territorio, sovraordinati, ordinari, specialistici e settoriali, costituisce la “carta unica del territorio”, cioè l’unico riferimento per la verifica di ammissibilità degli strumenti di specificazione attuativa, e dei progetti delle trasformazioni (articolo 17). E altresì la previsione per cui i comuni, le province o città metropolitane, le regioni e lo Stato devono concorrere alla costruzione e alla gestione di un sistema informativo territoriale integrato (articolo 18).
4. La competenza della pianificazione del territorio
Ribadito l’assunto fondamentale e irrinunciabile della titolarità pubblica della pianificazione del territorio (articolo 2, comma 1), si provvede sia ad attribuire le competenze relative alla formazione degli strumenti di pianificazione ordinaria esclusivamente agli enti territoriali dotati di organismo decisionale elettivo di primo grado (assumendo un aspetto essenziale e strutturale del nuovo ordinamento degli enti locali instaurato dalla legge 8 giugno 1990, n.142, e sanzionato dal Testo unico approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267), sia anche a ricondurre ai medesimi suddetti enti territoriali, sulla base dei principi di sussidiarietà e di adeguatezza, le competenze decisionali finali in merito agli strumenti di pianificazione specialistica e settoriale la cui predisposizione sia ragionevolmente necessario affidare ad altre pubbliche autorità (articolo 2, commi 2 e 4).
E’ il caso di sottolineare che si propone (articolo 2, comma 3) che il riconoscimento delle competenze pianificatorie dei comuni, nonché delle province o città metropolitane, sia operato dalla legislazione dello Stato anche con riferimento alla sua competenza legislativa esclusiva (a norma della lettera p. del secondo comma del novellato articolo 117 della Costituzione) di definizione delle funzioni fondamentali di tali enti territoriali, conseguendone che alle regioni “a statuto ordinario” sarebbe inibito sottrarre, in toto o sostanzialmente, le predette competenze pianificatorie a una delle indicate categorie di enti territoriali (essendo ciò invece legittimamente fattibile da parte delle regioni cui i relativi “statuti speciali” abbiano attribuito ogni determinazione in merito all’ordinamento e alle funzioni degli enti locali subregionali).
E’ inoltre, da altre disposizioni della presente proposta di legge (articolo 10, comma 1), ribadito e precisato che spetta alla legislazione regionale la puntuale specificazione delle pubbliche autorità competenti alla formazione dei diversi strumenti di pianificazione, nonché dei contenuti, delle efficace, degli archi temporali di riferimento, dei procedimenti di formazione dei medesimi predetti diversi strumenti di pianificazione. Vale la pena di sottolineare come venga esplicitata un’accezione del principio di sussidiarietà effettivamente omogenea, a differenza di quelle frequentemente espresse, con quella presente nei trattati costitutivi dell’Unione europea, per cui le competenze decisionali relativamente alle diverse scelte tipiche dell’attività pianificatoria devono essere attribuite al soggetto istituzionale che possa operarle con il massimo dell’efficienza e dell’efficacia, rispetto agli interessi dei cittadini amministrati, in ragione dell’ambito di incidenza delle scelte considerate e dei loro effetti (articolo 10, comma 2).
Quanto all’attività pianificatoria di competenza dello Stato, essa è sostanzialmente ricondotta a quella definizione delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale” che era già prevista dalla lettera a) del primo comma dell’articolo 81 del decreto del Presidente della Repubblica 616/1977, e relativamente alla quale vengono specificati sia i contenuti essenziali che la procedura decisionale (articolo 9).
Riaffermata la competenza degli strumenti di pianificazione a regolare ogni trasformazione, fisica e funzionale, del territorio e degli immobili che lo compongono, ivi comprese, salvo pochissime eccezioni puntualmente circoscritte, quelle indotte da atti e azioni delle pubbliche amministrazioni, si ribadisce il carattere, già riconosciuto dalla giurisprudenza pressoché costante, e certamente consolidata, nel sessantennio trascorso, di piena discrezionalità culturale, tecnica e politica, dell’attività pianificatoria, comprensiva della possibilità di variare, anche radicalmente, le possibilità di trasformazione precedentemente attribuite a determinati immobili, o complessi di immobili, o componenti territoriali, con l’unico limite di non incidere sulle facoltà riconosciute da un provvedimento abilitativo già rilasciato, e, anche in questo caso, a condizione che tali facoltà siano state attivate entro un predeterminato periodo di tempo (articolo 3).
In piena coerenza concettuale con l’attribuzione in via esclusiva agli strumenti di pianificazione della competenza a regolare ogni trasformazione, fisica e funzionale, del territorio e degli immobili che lo compongono, l’istituto degli accordi di programma, di cui all’articolo 34 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267, è ricondotto alla sua originaria, preziosissima funzione, di strumento di coordinamento per l’attuazione di interventi che richiedano l’azione integrata e combinata di più soggetti pubblici, escludendo che essi possano comportare variazioni ai vigenti strumenti di pianificazione (articolo 12).
5. I diritti alla città e all’abitare
Per la prima volta, si propone di riconoscere, nell’ordinamento legislativo della Repubblica, quali diritti dell’uomo, quelli all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale delle risorse territoriali e ambientali (articolo 4, comma 1).
La competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (a norma della lettera m. del secondo comma del novellato articolo 117 della Costituzione) è posta come fondamento del ribadimento dell’attribuzione alla legislazione dello Stato del compito di determinare le quantità minime di dotazioni di opere di urbanizzazione, di spazi per servizi pubblici e per la fruizione collettiva, per l’edilizia sociale, nonché i requisiti inderogabili di tali dotazioni (articolo 4, comma 2). Si mantiene pertanto un assunto che era stato giudicato (oltre che essenziale al fine di perseguire la qualità degli insediamenti urbani, e della vita in essi dei singoli e della collettività) di grande valenza egualitaria, in aderenza a uno dei principi fondamentali della lettera e dello spirito della carta costituzionale, sin da quando era stato posto, per le opere di urbanizzazione e gli spazi per servizi pubblici e per la fruizione collettiva, dall’ottavo comma dell’articolo 41-quinquies della legge 1150/1942, in esso introdotto dall’articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n.765 (cui poi era data attuazione con il decreto ministeriale 2 aprile 1968, n.1444, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 aprile 1968, n.97), e, per l’edilizia sociale, dal terzo comma dell’articolo 2 della legge 28 gennaio 1977, n.10, sostitutivo del primo comma dell’articolo 3 della legge 18 aprile 1962, n.167.
Anche ai fini del soddisfacimento dei diritti di cui appena sopra s’è detto è ribadito il principio per cui ogni trasformazione urbanistica deve concorrere al pagamento delle opere di urbanizzazione generale, primaria e secondaria (articolo 5).
6. Il contenimento dell’uso del suolo e
il patrimonio edilizio storico
La prima e fondamentale disposizione a carattere “sostanziale” della presente proposta di legge riguarda la finalità di contenere al massimo l’utilizzazione del territorio non urbanizzato, sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale, per realizzarvi nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali, e comunque manufatti diversi da quelli strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale. Per ciò viene perentoriamente affermato (articolo 7, comma 1) che “nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti”. E allo stesso fine vengono dettati (articolo 7, commi 2 e seguenti) i principi fondamentali da rispettarsi nella legislazione regionale per disciplinare le trasformazioni (fisiche e/o funzionali) ammissibili nel territorio non urbanizzato, riproponendo un modello di disciplina già sperimentato, seppure a diversi livelli di compiutezza e di rigore, ma comunque per consistenti periodi di tempo, in diverse regioni (Calabria, Campania, Lazio, Emilia – Romagna, Piemonte, Sardegna, Toscana, Umbria, Veneto, Provincia autonoma di Bolzano), e, anche per tale ragione, assunto come ottimale.
L’operazione viene rafforzata dalla proposta (formulata dal comma 1 dell’articolo 19) di aggiungere alle categorie di elementi e componenti territoriali qualificati ope legis quali beni paesaggistici a norma del comma 1 dell’articolo 142 del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, quella del “territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale”.
La seconda disposizione a carattere “sostanziale” della presente proposta di legge concerne il patrimonio edilizio storico. Riprendendo suggerimenti avanzati già dalle Commissioni istituite dal Parlamento o dal Governo, negli anni ’60, per elaborare proposte relative alla riforma della legislazione sui beni culturali e paesaggistici, nonché l’istanza posta uno specifico disegno di legge presentato, due legislature or sono, dal Ministero per i beni e le attività culturali, e assumendo come modello procedimentale quello definito, con riferimento ai beni paesaggistici, dalla Parte terza del “Codice dei beni culturali e del paesaggio” approvato con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, viene previsto (articolo 8) che siano qualificati come beni culturali, per effetto dell’essere individuati dagli strumenti di pianificazione dei comuni, delle province o città metropolitane, delle regioni, nell’ambito delle rispettive competenze, purché d’intesa con la competente Soprintendenza:
- gli insediamenti urbani storici e le strutture insediative storiche non urbane, le addizioni urbane aventi un impianto urbanistico significativo, le strutture insediative, anche minori o isolate, che presentino, singolarmente o come complesso, valore di testimonianza di civiltà, nonché le rispettive zone di integrazione ambientale;
- le unità edilizie, e gli spazi scoperti, siti in qualsiasi altra parte del territorio, aventi riconoscibili e significative caratteristiche strutturali, tipologiche e formali.
E si stabilisce altresì che, laddove le trasformazioni ammissibili e le utilizzazioni compatibili degli immobili sopra ndicati siano oggetto di disposizioni immediatamente precettive e operative definite dagli strumenti di pianificazione dei comuni, delle province o città metropolitane, delle regioni, d’intesa con la competente Soprintendenza, i provvedimenti abilitativi comunali conformi a tali disposizioni tengano luogo delle speciali autorizzazioni dell’amministrazione statale dei beni culturali richiesti dalle vigenti norme di legge.
7. I vincoli di tutela, quelli a contenuto espropriativi e la perequazione
La presente proposta di legge si fa altresì carico di tradurre in statuizioni di diritto positivo la giurisprudenza della Corte costituzionale, definita a partire dalla storica sentenza 29 maggio 1968, n.56, e brillantemente riassunta, in tempi relativamente recenti, dalla sentenza 20 maggio 1999, n.179, relativamente ai casi in cui il problema di un indennizzo in conseguenza dell'apposizione di vincoli, cioè di limitazioni alle trasformazioni fisiche ammissibili e alle utilizzazioni compatibili degli immobili, anche comportanti totale immodificabilità, non si pone (articolo 13).
Per converso, la medesima presente proposta di legge si fa carico di dare una soluzione reale e definitiva alla questione (si riportano virgolettate le espressioni della citata sentenza della Corte costituzionale 179/1999) dell’”alternativa non eludibile tra previsione di indennizzo ovvero di un termine di durata massima dell'efficacia del vincolo" che si pone ove i vincoli "siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati”, i quali imprimano una destinazione di interesse pubblico a specifici immobili individuati discrezionalmente in un contesto di immobili aventi connotati sostanzialmente analoghi.
A tale questione si propone di dare una soluzione alternativa a quella individuata a partire dalla legge 19 novembre 1968, n.1187, consistente nella fissazione di una “durata massima dell'efficacia del vincolo”, per stabilire invece (articolo 14) che gli immobili esattamente individuati dagli strumenti di pianificazione, e dagli stessi assoggettati a disposizioni immediatamente operative che comportino la loro utilizzazione solamente per funzioni pubbliche o collettive, attivabili e gestibili soltanto dal soggetto pubblico competente, devono essere acquisiti dal predetto soggetto pubblico entro il termine perentorio di dieci anni dalla data di inizio dell'efficacia della suddette disposizioni, scaduto inutilmente il quale termine gli immobili sono acquisiti in forza di legge al patrimonio del soggetto pubblico competente, avendo i relativi proprietari diritto al pagamento del loro controvalore, determinato secondo i criteri stabiliti per la determinazione dell'indennità di espropriazione. E si stabilisce altresì che valgano in tali casi le medesime disposizioni dettate per quelli di acquisizione pubblica secondo il modello dell'"espropriazione sostanziale" (e assunte dai più maturi e organici approdi della giurisprudenza della Cassazione, alla quale si deve la definizione di tale modello, susseguente alla creazione giurisprudenziale della figura dell’”accessione invertita”).
E’ infine stabilito (articolo 15) che le trasformazioni degli assetti morfologici del sistema insediativo, quali i nuovi impianti urbanizzativi ed edificatori, le ristrutturazioni urbane e significative variazioni funzionali, devono essere disciplinate da strumenti di pianificazione di tipo attuativo specificamente e unitariamente riferiti agli ambiti territoriali interessati dalle predette trasformazioni. E che tali strumenti di pianificazione devono garantire la perequazione tra gli eventuali diversi proprietari degli immobili compresi negli ambiti ai quali si riferiscono, essendo la partecipazione ai benefici e ai gravami conferiti ai predetti immobili dagli strumenti di pianificazione definita in misura proporzionale alle superfici e ai valori dei suoli e degli edifici eventualmente esistenti.
Ma anche che, nel caso di interventi, previsti dalla pianificazione, di particolare rilevanza urbanistica ed economica, nei quali sia coinvolta una pluralità di soggetti pubblici e privati, si possa dichiararne la pubblica utilità quale premessa dell’acquisizione pubblica dell’insieme degli immobili interessati.
8. Vietare i condoni edilizi?
Nel corso della elaborazione della proposta si è più volta posto l’interrogativo sulla possibilità di evitare, con una legge ordinaria, la pratica devastante (malauguratamente posta in atto reiteratamente nell’ultimo decennio) di condonare le trasformazioni del territorio avvenute in difformità alla strumentazione urbanistica. I condoni edilizi sono stati infatti una delle maggiori cause della delegittimazione della pianificazione del territorio e, insieme alla cattiva pianificazione, della devastazione del patrimonio comune. Che senso ha – ci si è domandati – costruire un sistema di norme garantista dell’interesse collettivo, se poi subentrano ulteriori condoni a svuotarne l’efficacia?
Si è ragionato sulla possibilità di inserire in una “legge di principi” norme che rendessero più efficace la repressione dell’abuso, più tassativo l’obbligo di riduzione in pristino e più aspre le sanzioni. Esiste già negli atti parlamentari una proposta in talsinso,presentata dall’on. Gianni Mattioli,cui è possibile ricollegarsi ma – si è ritenuto – in un distinto atto legislativo.
Una maggiore efficacia delle norme repressive non peraltro sufficiente a impedire al legislatore ordinario a non modificare le proprie determinazioni. Si è periò ritenuto necessario limitarsi,m in questa sede, ad auspicare un intervento del legislatore costituzionale che introducesse,nelle modifiche alla Costituzione,una norma che esplicitamente facesse divieto agli organi di governo a tutti i livelli di promulgare a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione provvedimenti di condono di uso del territorio in deroga ai piani territoriali.
Crediti
L’iniziativa di questa proposta di legge è di Paolo Berdini, Giancarlo Storto e Giulio Tamburini, ai quali si deve la prima stesura del testo, elaborato sulla base di documenti presentati al Parlamento dalle associazioni Polis e Italia Nostra in occasione della discussione sulla legge “per il governo del territorio”. Il testo venne successivamente discusso,modificato e integrato da Mauro Baioni, Vezio e Luca De Lucia, Edoardo Salzano, Luigi Scano. Il testo così definito venne inviato ad alcuni autori di testi critici nei confronti della “Legge Lupi” che avevano espresso posizioni analoghe a quelle contenute nella proposta. Tra questi hanno espresso consenso e/o formulato proposte di correzione e integrazionePiergiorgio Bellagamba, Luisa Calimani, Roberto Camagni, Pierluigi Cervellati, Antonio di Gennaro, Maria Cristina Gibelli, Maria Pia Guermandi, Francesco Indovina; delle loro proposte si è tenuto conto nell’ultima stesura del testo e,dove ciò non è stato ritenuto possibile od opportuno, se ne fatti cenno nella relazione.
Di seguito la relazione, con link al documento ufficiale, completo dell'articolato, in formato .pdf
Norme per la tutela ed il governo del territorio e deleghe al Governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare e per il riordino e il coordinamento della legislazione vigente
Relazione
Onorevoli Senatori. – Il territorio italiano è investito da profonde trasformazioni che sollecitano un nuovo quadro normativo per governarle, o, almeno, indirizzarle in una direzione di sostenibilità.
Il territorio rurale, in contrasto deciso con la sua immagine tradizionale, si sta avviando a ospitare gran parte dei processi trasformativi.
Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (1997), in tutti i paesi industrializzati maturi lo spazio rurale è destinato ad essere coinvolto sempre di più nei sistemi di relazioni economiche e sociali che interessano i sistemi urbani e ad essere sempre meno legato all’attività agricola, aumentando progressivamente i propri caratteri multifunzionali. Nei prossimi anni, secondo lo «Schema di sviluppo dello spazio europeo», dal 30 all’80 per cento delle aree agricole potrebbe essere abbandonato.
È un’indicazione di tutto rilievo, se si considera che attualmente più del 50 per cento del territorio europeo è dedicato all’agricoltura. Nonostante l’apparente esiguità del ruolo strettamente economico del reddito agricolo, gran parte della biodiversità europea ricade in paesaggi coltivati e la sua salute dipende dal modo in cui l’agricoltura è condotta. Lo sviluppo degli spazi rurali, sulla base di un’economia diversificata e multifunzionale (che include ad esempio il turismo e l’industria culturale, insieme a produzioni agricole di qualità), è quindi decisivo per il mantenimento o l’arricchimento della diversità biologica e paesistica del territorio. L’abbandono, con il conseguente depauperamento di vasti territori, provoca una spirale complessa di cambiamenti destinati a destabilizzare i preesistenti equilibri. L’interruzione, spesso repentina, delle cure manutentive con cui l’uomo aveva nei secoli adattato gli spazi naturali alle proprie esigenze produttive e abitative, l’abbandono dei versanti terrazzati, delle cure forestali e dei reticoli di drenaggio superficiale hanno in alcune circostanze accentuato i rischi idrogeologici e aggravato i rischi alluvionali (riduzione delle capacità di ritenzione idrica dei suoli con aumento del deflussi superficiali, innalzamento dei picchi di piena nei canali ricettori, innesco di frane e dissesti, sovraccarico della copertura boschiva su suoli instabili, ostruzione di alvei e formazione di sezioni critiche per mancata pulizia a monte e così via).
Inoltre i processi di abbandono pregiudicano, spesso in modo irreversibile, la conservazione del patrimonio storico edilizio, urbanistico e infrastrutturale nei territori rurali, soprattutto collinari e montani, accelerandone il degrado fino al cedimento, alla trasformazione in rudere e alla definitiva scomparsa. L’interruzione delle attività agricole è da tempo alla base dei processi di abbandono della montagna e dell’accresciuta spinta a dare un diverso valore ai terreni non più coltivati, trasformandoli in aree edificate ed edificabili.
Nei territori rurali si registrano però anche nuove tendenze positive: come il ritorno di giovani a produzioni agricole biologiche e di qualità, molto aumentate in questi anni, come il forte sviluppo dell’agriturismo e l’avvio di alcune esperienze (in particolare nelle zone limitrofe ai Parchi) di un tipo di agricoltura multifunzionale, impegnata anche in interventi di manutenzione del territorio e di recupero ambientale. Questo cambiamento di tendenza, che andrebbe comunque sostenuto con convinzione e risorse, non ha però ancora il peso sufficiente a invertire la tendenza generale – e consolidata da molti anni – all’abbandono delle attività agricole.
I processi di abbandono delle attività agricole hanno assunto da tempo un’estrema rilevanza nelle aree montane, vale a dire in gran parte del territorio nazionale (54 per cento). Le modificazioni conseguenti all’abbandono originano sintomi di collasso degli apparati tradizionali di difesa e di sistemazione del suolo, di desertificazione e destabilizzazione ecosistemica, di infragilimento o di scomparsa dei sistemi economici locali e delle culture tradizionali, con gravi ripercussioni anche sulle aree di pianura.
A fronte di tali fenomeni, che si associano ai costi sociali ed economici determinati dal rapido depauperamento delle risorse umane e dalla crisi degli antichi tessuti comunitari, l’operatore pubblico – dalle comunità montane e dalle regioni direttamente interessate fino al livello europeo – ha avvertito da tempo la necessità di frenare i processi di abbandono con politiche di sostegno, incentivazione e assistenza. Sono interventi spesso molto onerosi ma largamente insufficienti e di scarsa efficacia, nonostante abbiano contribuito al ripensamento delle strategie riguardanti il mondo agricolo e spostato progressivamente l’attenzione sulle funzioni ambientali dell’agricoltura.
Due dei grandi sistemi territoriali, che il CIPE già nel 1999 ha considerato in sede di programmazione dei fondi strutturali, sono proprio i due maggiori sistemi montuosi del nostro paese: le Alpi e gli Appennini. Entrambi i sistemi sono anche oggetto di due dei più importanti «progetti» di valorizzazione territoriale di interesse europeo: la Convenzione delle Alpi, ratificata ai sensi della legge 14 ottobre 1999, n. 403, e il Progetto Appennino Parco d’Europa (APE).
Sebbene per ambedue i progetti le iniziative, le proposte e gli accordi istituzionali procedano a rilento e diano l’impressione di essere ancora lontani dal generare azioni concrete ed efficaci, il ricco dibattito politico e culturale che attorno ad essi si è sviluppato negli ultimi anni dimostra che, in entrambi i casi, si è riconosciuto che si tratta di territori strategici di straordinaria importanza ecologica e culturale per l’intero continente, esposti a rischi e minacce di crescente gravità. In entrambi i casi, pur in presenza di una ricchissima diversificazione ambientale, paesistica e culturale, si ha a che fare con sistemi territoriali dotati di una riconoscibile identità e coerenza, caratterizzati da un’immagine unitaria e da un gran numero di problemi comuni.
I processi di abbandono hanno un peso rilevante, ma non sono i soli problemi della montagna. Alcune zone soffrono per le pressioni e le trasformazioni derivanti dal turismo, dagli sconfinamenti delle aree urbane in espansione, dallo sviluppo delle reti infrastrutturali: pressioni e trasformazioni che producono impatti locali rilevanti.
Il declino della presenza e delle attività antropiche porta però con sé, oltre ai rischi citati, anche nuove possibilità di rinaturalizzazione e di riequilibrio ecologico. Il ritorno del bosco, se opportunamente assecondato, può in molti casi ripristinare antichi equilibri, ponendo termine ad anni di eccessiva domesticazione degli spazi e delle risorse naturali.
Occorre comunque considerare che un tale ritorno comporta anche difficili problemi di gestione attiva di stadi successionali non stabili, perché siamo ormai in presenza di una frammentazione non naturale del territorio; né va dimenticato che, per far restare i giovani e richiamare in montagna nuovi montanari, indispensabili per mantenere in vita quei territori, occorre realizzare le condizioni per una buona qualità della vita in quei territori, diversa dal modello di benessere e di consumismo urbano, sostenendo tecnologia e formazione attraverso incentivi e promuovendo lo sviluppo di attività (agricole, artigianali, di turismo culturale e così via) sostenibili per il territorio montano.
Se la sindrome dell’abbandono caratterizza in modo emblematico i territori di montagna, una situazione ben diversa caratterizza invece i territori di pianura e delle coste, assaliti dall’espansione edilizia e dalla proliferazione di insediamenti.
Nella storia della città europea e italiana si è prodotto negli ultimi decenni un cambiamento epocale. Da forme insediative concentrate si è passati, in modi evidenti e dilaganti, a forme insediative sempre più disperse; tale dispersione è avvenuta con estensioni eccessive di nuove edificazioni, con costruzioni di scarsa qualità e spesso mal inserite nel territorio e nel paesaggio.
Intere regioni del paese sono state investite da massicci fenomeni di proliferazione degli insediamenti: nel Nord dalla Lombardia al Friuli; lungo la costa adriatica dalla Romagna alla Puglia; in Toscana da Firenze a Prato e Pistoia o lungo la direttrice di Empoli; e poi in Lazio, in Campania e in Sicilia. Ovunque sono state toccate in modo particolare le coste, ma anche le pianure interne, le aree turistiche ma anche quelle in corrispondenza dello sviluppo di nuovi distretti produttivi o del loro potenziamento.
La proliferazione insediativa non è sempre l’esito di un movimento centrifugo della città verso la campagna né sempre si manifesta in un processo di urbanizzazione della campagna. In molti casi è l’esito di una progressiva densificazione di insediamenti dispersi che hanno – come nel caso del Veneto, delle Marche, dell’Umbria o della Puglia – una lunga storia alle spalle: storia di crescita di piccole frazioni o attorno a piccoli nuclei abitati, connessa o meno all’abbandono dell’agricoltura. La città diffusa, che ha alimentato una tale proliferazione di insediamenti, è al contempo il risultato di fenomeni di dispersione, densificazione, riuso, modifica e trasformazione della città esistente.
All’origine di questi fenomeni ci sono cause molteplici e tra loro differenti: la predilezione per la casa unifamiliare, isolata, con giardino; la forte domanda di seconde e terze case; l’allontanamento dalla città, dove la casa è diventata troppo cara e dove con il reddito disponibile si spende di più e si vive male in una casa piccola; la scelta di costruire case per valorizzare terreni che non conviene più coltivare.
Una parte consistente di questa proliferazione insediativa di bassa qualità è la conseguenza di un diffuso abusivismo edilizio, soprattutto in alcune regioni. L’abusivismo ha invaso aree prossime alle città e aree costiere e di notevole pregio ambientale e paesistico. Il danno prodotto da questo fenomeno all’ambiente e al paesaggio è, in alcune regioni, di estrema gravità, per di più accentuata dai condoni che hanno alimentato aspettative di impunità.
La mancata comprensione dei processi in atto sul territorio ha portato spesso la politica delle infrastrutture a commettere errori gravi e a fissare le priorità in modo profondamente errato, alimentando il traffico stradale e incentivando l’uso dell’automobile nei territori della dispersione e proliferazione insediativi.
Anche per questo fenomeno le preoccupazioni sono in aumento e l’attenzione è viva da tempo. In alcune regioni e in alcune province sono stati elaborati piani per contenerlo, con nuove politiche di governo del territorio. Ma siamo ancora ben lontani dalla definizione di strategie adeguate, in grado di incidere efficacemente: la proliferazione insediativa infatti continua con modalità insostenibili e senza adeguati interventi regolativi in grado di tutelare i valori naturali e ambientali del territorio.
La collaudata resilienza degli ecosistemi del paese ha da tempo un potente alleato nell’ampia fungibilità del patrimonio storico insediativo e infrastrutturale: entrambi hanno dimostrato nel corso dei secoli di poter accogliere cambiamenti e innovazioni, di potersi arricchire reagendo positivamente alle spinte trasformatrici.
Come nell’800, sotto l’impulso delle riforme teresiane, la lenta evoluzione dei paesaggi agrari descritti dal Sereni diede spazio all’innovativa edificazione della campagna lombarda, così le fitte maglie urbanizzative storicamente consolidate dell’Italia centrale o delle fasce prealpine hanno rappresentato e rappresentano una risorsa di eccezionale valore per incanalare e radicare nel territorio le spinte diffusive, resistendo alle tendenze omologatrici.
Persino nelle anonime periferie urbane e metropolitane, per poco che si scavi sotto la coltre uniforme degli sviluppi recenti, riaffiorano con inaspettata densità i segni superstiti degli antichi palinsesti, le trame delle precedenti organizzazioni territoriali, segni in grado di restituire loro identità e riconoscibilità, di sconfiggere l’idea che possa trattarsi di aree vuote, giacimenti immobiliari cui attingere in modo indiscriminato per le nuove edificazioni: la periferia italiana ha probabilmente più possibilità di quella di altri paesi di uscire dalla condizione di marginalità e di dequalificazione. I principali processi di transizione in atto nello spazio rurale, nei territori montani e in quelli sottoposti alla proliferazione insediativa (e a volte anche infrastrutturale) comportano rilevanti problemi e rischi di degrado, che tuttavia possono essere fronteggiati in un territorio che dispone ancora di grandi risorse e di straordinarie potenzialità.
L’enfasi recentemente accordata da molte pubbliche amministrazioni (comuni, province, regioni, autorità di gestione delle aree protette, autorità di bacino) alla pianificazione strategica e ai problemi di governance territoriale – anche se rappresenta un positivo indicatore di una nuova e vigile attenzione – non sempre riflette piena consapevolezza delle sfide che l’azione pubblica deve fronteggiare.
La messa in campo di strategie appropriate si scontra infatti con dinamiche di cambiamento sempre più complesse e imprevedibili (basti pensare agli effetti del cambiamento climatico), con l’intreccio a volte inestricabile dei problemi che si pongono alle diverse scale (locali, regionali, interregionali e sempre più globali), con la necessità di cooperazione tra diverse istituzioni di governo (spesso assai gelose delle proprie autonomie), e naturalmente ancor di più con la difficile coniugazione tra istanze conservative e di tutela e istanze innovative e di sviluppo.
Tali difficoltà non sembrano affrontabili solo con i tradizionali meccanismi autorizzativi del tipo comando-controllo, ma richiedono anche – e soprattutto – strumenti di indirizzo, promozione e condivisione, che scontano il pluralismo dei processi decisionali, la relativa reversibilità delle scelte, l’incertezza dei quadri di riferimento.
Le attività di visioning, di costruzione di immagini e di progetti-guida, possono svolgere un ruolo rilevante nella formazione del consenso sulle strategie. In questo senso le azioni di governo effettivamente esercitabili dalle istituzioni nell’ambito della propria sfera di competenza vanno viste nel quadro di processi assai più articolati e complessi di governance territoriale. I soggetti coinvolti a vario titolo nei processi di trasformazione ambientale-territoriale devono interagire ma, prima di ogni altra cosa, devono riuscire a «dialogare». In questo quadro va certamente potenziato il ruolo degli attori locali e va allargata la possibilità di partecipazione e partenariato in vista di comuni obiettivi di sviluppo sostenibile.
Ma questo allargamento e questa riarticolazione dell’azione pubblica non possono in alcun modo confondersi con l’indebolimento o la rinuncia a un’efficace regolazione dei processi. Le sfide ambientali sempre più complesse e la stessa crescita di domande sociali (di qualità ambientale, di sicurezza, di accesso alle risorse, di natura e di paesaggio) richiedono al contrario un rafforzamento dell’azione pubblica regolatrice.
Tuttavia il necessario spostamento verso l’alto dei sistemi di controllo, l’urgenza di avviare una «regolazione preventiva» dei processi di cambiamento, la salvaguardia del patrimonio naturale-culturale e la difesa dei valori di identità richiedono forme di regolazione assai più sofisticate e complesse delle «gabbie di vincoli» cui si è spesso ridotta la funzione della pianificazione.
Lungimiranza delle strategie ed efficacia della regolazione devono coabitare sempre più nella nuova cultura del governo del territorio, così come occorre promuovere un’efficace integrazione della valutazione (della conoscenza, del monitoraggio) dei valori naturali e ambientali e dei potenziali impatti sul territorio nei processi di governance e di pianificazione.
A tal fine pare necessario partire con la definizione, sia pure in forma sintetica e generale, le linee fondamentali per l’assetto del territorio italiano con riferimento ai valori naturali e ambientali (articolo 2): una visione d’insieme, delle priorità nazionali, una griglia di indirizzo omogenea per il territorio nazionale.
Vengono inoltre definiti (articolo 3) i princìpi generali del governo del territorio quale riferimento per le funzioni legislative concorrenti e amministrative attribuite alle regioni ed agli enti locali. Solo alcuni aspetti di competenza dello Stato hanno richiesto norme di dettaglio: si tratta delle dotazioni territoriali per la garanzia dei livelli minimi essenziali, del diritto di proprietà, della parità nel processo di pianificazione e di attuazione fra diritti pubblici e diritti privati, della fiscalità urbanistica.
Il primo, il principio di pianificazione, espresso in relazione ai diversi livelli istituzionali, deve garantire la funzione pubblica di tale attività, salvaguardando i beni comuni e contrastando il consumo di nuovo suolo non urbanizzato e consentendo, altresì, l’uguaglianza dei diritti e dei doveri all’uso e al godimento degli stessi beni.
Gli atti di governo del territorio dovranno fondare le proprie previsioni sul principio di sostenibilità, sulla necessità di preservare le risorse naturali e ambientali, limitando in particolare il consumo di suolo non urbanizzato, favorendo il recupero delle risorse degradate e garantendo una efficace tutela e valorizzazione del patrimonio paesaggistico, storico e culturale, nonché la riduzione dei consumi e l’incremento dell’efficienza energetica.
Altro principio fondamentale è rappresentato dalla tutela delle risorse non rinnovabili ed essenziali e dalla sicurezza dai rischi, da perseguire con misure di prevenzione e di riduzione dei danni per il territorio e per l’ambiente derivanti da forme di inquinamento di qualunque natura, di prevenzione dei rischi e di mitigazione delle calamità naturali e degli eventi incidentali determinati dall’attività antropica, ispirandosi al principio comunitario della precauzione.
Il principio di sussidiarietà dovrà creare il processo virtuoso della «filiera istituzionale», ispirando la ripartizione dei poteri e delle competenze fra i diversi soggetti istituzionali, nonché i rapporti tra questi e i cittadini secondo i criteri della tutela, dell’affidamento, della responsabilità e della concorsualità. Secondo il criterio di differenziazione e adeguatezza, le istituzioni dovranno agire mediante intese e accordi procedimentali in sedi stabili di concertazione per perseguire il coordinamento, l’armonizzazione, la coerenza e la riduzione dei tempi delle procedure di pianificazione del territorio.
Anche per questo, è importante assumere come principio la trasparenza e la democrazia nei processi di scelta e di decisione con il massimo coinvolgimento dei cittadini nella fase di predisposizione e di approvazione degli strumenti di pianificazione.
Il principio di equità consente di offrire a tutti i soggetti la possibilità di accedere con le stesse opportunità ai diritti e ai vantaggi offerti dalle trasformazioni del territorio in termini di residenza, accessibilità, mobilità, servizi collettivi, qualità dell’ambiente urbano e migliore qualità della vita.
Perché tali princìpi possano tradursi in linee guida e concrete azioni attuative è fondamentale declinare le competenze dei soggetti istituzionali, ma è anche necessario che la riforma nazionale preveda il coordinamento con le materie non ricomprese nel «governo del territorio», bensì strettamente connesse alla pianificazione e alla programmazione del medesimo: infrastrutture della mobilità e dell’energia, tutela e valorizzazione dell’ambiente, tutela e valorizzazione del paesaggio e dei beni culturali (articoli 6-7-8).
I soggetti titolari delle funzioni amministrative dovrebbero agire in un sistema unico e coordinato per la programmazione, la pianificazione, l’attuazione, il monitoraggio e la verifica delle trasformazioni del territorio, partecipando a tale attività in conformità ai princìpi di leale collaborazione e di responsabilità amministrativa.
L’altro elemento di particolare rilevanza è costituito dalla stretta connessione tra la programmazione economica, quella infrastrutturale e per la mobilità, con la pianificazione del territorio.
La modernizzazione del sistema infrastrutturale, della mobilità, della logistica, ma anche del sistema energetico, deve essere strettamente connessa, da una parte, all’allocazione certa dei finanziamenti e, dall’altra, essere affidata a un sistema decisionale istituzionale basato sulla leale collaborazione e sulla sussidiarietà, tale da consentire di effettuare le scelte e, poi, di garantirne la realizzazione.
Una buona programmazione e la certezza di attuazione sono possibili solo se pensiamo a un sistema rinnovato e a una «cassetta di attrezzi» adeguata alle esigenze attuali.
Le regioni hanno predisposto strumenti, regole e modalità di attuazione e, nell’ambito della loro potestà regolamentare, hanno definito i contenuti e l’attuazione dell’attività di pianificazione di area vasta e di quella comunale.
È ormai consolidata l’esigenza di assegnare agli strumenti di pianificazione un doppio livello, con un piano di governo del territorio strategico strutturale, non conformativo della proprietà, e l’altro operativo, che invece conforma il regime dei suoli e dà attuazione alle previsioni. A questi sarà necessario affiancare strumenti regolamentari che le regioni hanno già individuato con varie rubriche e che rappresentano l’attuazione della disciplina di trasformazione urbanistica ed edilizia degli insediamenti esistenti.
Occorre una differenziazione dei livelli da utilizzare, senza generalizzare, ma tenendo conto delle effettive esigenze delle realtà amministrative e delle condizioni territoriali.
Alla base di un buon piano non può che esserci una adeguata e significativa conoscenza del territorio. È per questo che si prevedono modalità di acquisizione, valutazione e validazione dei dati territoriali, costituiti dai vincoli, dall’uso del suolo, dalle invarianti ambientali e territoriali, dalle condizioni di vulnerabilità e di rischio del territorio. La sinergia – quindi la rete – tra sistemi di informazione e di conoscenza tra regioni ed enti statali preposti dovrà essere stringente. Banche dati e sistemi informativi territoriali dovranno «parlare la stessa lingua» ed essere a disposizione degli enti territoriali e dei cittadini in maniera automatica e trasparente (articolo 11).
Questa è un’innovazione necessaria per l’azione amministrativa e comporterebbe anche una sensibile riduzione della spesa pubblica. Disporre di uno strumento unico sul quale verificare la conformità alle invarianti territoriali e ambientali consentirebbe uno snellimento significativo nella fase di predisposizione, di attuazione e di verifica dei processi di trasformazione urbanistica ed edilizia.
La conoscenza del territorio consente anche una più efficace azione di tutela e di prevenzione soprattutto per il territorio non urbanizzato. La riforma proposta, inoltre, enuncia il principio fondamentale che il territorio rurale è un patrimonio di identità, di biodiversità, di pratiche agronomiche e forestali da preservare. Sarà necessario perseguire gli obiettivi di qualità e di sostenibilità nella pianificazione delle aree agricole anche al fine di consolidare il ruolo multifunzionale dell’impresa agricola e di contrastare il consumo di suolo non urbanizzato. Dovrà essere tutelato e valorizzato lo straordinario patrimonio costituito dai nostri paesaggi agrari e montani, dalle risorse non rinnovabili, a partire soprattutto dall’acqua e dal suolo, oltre che valorizzato il patrimonio dell’architettura rurale (articolo 12).
La riforma affronta altresì il complesso del sistema città: uno straordinario crocevia di opportunità ma, anche, di forti contraddizioni ambientali e sociali (articolo 13), delineando gli obiettivi della tutela dei centri storici, della promozione della qualità urbana e architettonica, ma soprattutto della riduzione dei livelli di inquinamento, promuovendo un nuovo processo di riqualificazione delle aree degradate integrando le politiche di recupero edilizio e urbanistico con politiche sociali e assistenziali che possano consentire un maggior grado di coesione sociale e di solidarietà.
Insomma, una vera e propria «politica per le città», che utilizzi gli strumenti ordinari ma anche la leva della fiscalità e degli incentivi, che faccia del recupero e della sostituzione edilizi una grande occasione di rigenerazione dei tessuti urbani e del contenimento dei consumi, essendo le città sistemi altamente «energivori», una priorità della politica energetica nazionale.
Sulle dotazioni territoriali minime – i vecchi standard urbanistici – non è sufficiente definire un livello quantitativo minimo, ma occorre creare i presupposti di tipo qualitativo affinché attraverso le dotazioni territoriali sia possibile garantire l’effettività dei servizi ai cittadini. Quelli statali non possono che essere considerati requisiti minimi per garantire i livelli essenziali sul territorio nazionale, come previsto costituzionalmente; così anche per l’edilizia residenziale pubblica per l’affitto sociale, che dovrà essere una dotazione di risposta al fabbisogno locale.
Le regioni, nella loro piena autonomia, dovranno verificare i fabbisogni pregressi e futuri e determinare le modalità, i criteri e i parametri tecnici ed economici dei servizi da fornire ai cittadini.
Molti sono gli obiettivi da raggiungere e importanti sono i diritti di cittadinanza da garantire. Pertanto è necessario che la legge statale offra strumenti innovativi per l’attuazione e per la stabilizzazione di alcune pratiche operative che gli enti locali adottano per garantire la realizzazione degli interventi. Quindi è importante definire le regole per la collaborazione tra il pubblico e i soggetti privati, prevedendo il partenariato pubblico-privato per l’attuazione degli interventi, in un quadro di riferimento strategico a regìa pubblica definita dal piano del governo del territorio, con modalità che tutelino la concorrenza, la trasparenza dei procedimenti e la partecipazione dei soggetti privati ai quali affidare, anche per la capacità imprenditoriale e per l’efficienza, il miglioramento e l’innovazione nei processi di trasformazione urbanistica ed edilizia.
Anche sulla definizione dei contenuti minimi della proprietà e dell’equa attribuzione dei diritti edificatori è importante che la legge statale, data la competenza esclusiva nella materia, offra un quadro di riferimento chiaro e articolato per le amministrazioni locali le quali, tenendo conto delle ristrettezze di bilancio, potranno dare attuazione alle previsioni e garantire le necessarie dotazioni territoriali con interventi diretti, modalità espropriative, perequative e compensative.
L’amministrazione potrà acquisire gli immobili con la perequazione urbanistica (articolo 15) e con gli obiettivi individuati dagli strumenti urbanistici; in alternativa si prevede che si possa ricorrere all’esproprio.
La modalità operativa della perequazione potrà essere attuata negli ambiti di trasformazione urbanistica individuati dal piano del governo del territorio e riguardanti gli ambiti territoriali da trasformare, escludendo le aree agricole, i tessuti storici e consolidati, le aree non soggette a trasformazione urbanistica. Il piano di governo del territorio dovrà inoltre stabilire: l’edificabilità territoriale attribuita agli ambiti di trasformazione perequativa, l’obbligo di cessione di beni immobili al comune per la realizzazione delle dotazioni territoriali o comunque per spazi pubblici, di pubblica utilità, di interesse generale e collettivo, nonché le modalità di progettazione unitaria dell’ambito di trasformazione.
Uno dei punti di particolare delicatezza è quello della decadenza del diritto di edificazione che si propone possa essere limitato a cinque anni o comunque non superiore alla durata del piano operativo, riallineando le previsioni di trasformazione pubblica e privata.
Altro tema essenziale per l’attuazione delle previsioni di sviluppo del territorio è quello della fiscalità urbanistica e immobiliare (articolo 16). Si tratta di una questione molto complessa che deve essere affrontata con alcuni indirizzi di base.
In primo luogo, sottraendo gli enti locali dalla necessità di coprire una parte cospicua del bilancio con le entrate derivanti dall’imposta comunale sugli immobili (ICI) e dagli oneri concessori, si potrà consentire agli stessi enti di favorire una politica di recupero e di riutilizzazione di immobili esistenti con la conseguente riduzione del consumo del suolo e con la riduzione della dispersione urbana. Inoltre, si dovranno rimodulare e riorganizzare le diverse imposte relative ai trasferimenti immobiliari per favorire e orientare la trasformazione urbanistica ed edilizia verso la riqualificazione urbana e del territorio, con forme di incentivazione e di premialità fiscali. Infine, attraverso l’armonizzazione e la stabilizzazione delle misure per l’incentivazione delle opere di recupero e la loro specializzazione per alcuni settori (efficienza energetica, sicurezza statica e tecnologica degli edifici, accessibilità e così via) si potrà avere, a regime, una massa critica di investimenti finalizzati al miglioramento sostanziale della qualità urbana.
Occorre tenere conto che la riforma del governo del territorio si inserisce in un complesso di normative esistenti, in particolare urbanistiche ed edilizie, di livello sia nazionale che regionale. A tale proposito, nel testo del disegno di legge, è previsto (articolo 18) l’adeguamento della legislazione regionale e è delegato il Governo al riordino ed al coordinamento della legislazione vigente (articolo 19).
Infine (articolo 20) è prevista una relazione al Parlamento sulla attuazione delle presenti norme.
Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di urbanistica e di viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale e dei relativi personali ed uffici
Art. 1
Le funzioni amministrative esercitate dagli organi centrali e periferici dello Stato in materia di urbanistica sono trasferite, per il rispettivo territorio, alle Regioni a statuto ordinario.
Il trasferimento predetto riguarda, tra l'altro, le funzioni amministrative statali concernenti:
a) l'approvazione dei piani territoriali di coordinamento previsti dall'art. 5 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni;
b) la determinazione dell'estensione del piano intercomunale previsto dall'art. 12 della predetta legge n. 1150 e la sua approvazione;
c) l'approvazione dell'elenco dei comuni soggetti all'obbligo della formazione del piano regolatore generale e l'adozione delle misure previste dall'art. 8, quinto comma, della citata legge n. 1150 relativamente all'obbligo medesimo;
d) l'approvazione dei piani regolatori generali; l'autorizzazione e la approvazione delle relative varianti, ivi comprese quelle soggette a procedimento speciale in quanto connesse agli insediamenti scolastici, universitari ed ospedalieri;
e) l'approvazione dei piani di ricostruzione degli abitati danneggiati dalla guerra;
f) l'approvazione dei piani delle zone destinate all'edilizia economica e popolare (legge 18 aprile 1962, n. 167, e successive modificazioni);
g) la fissazione dei termini per la formazione dei piani particolareggiati, l'approvazione dei medesimi e delle relative varianti; l'adozione di misure per la compilazione dei piani stessi in sostituzione di quelli rimasti inattuati in tutto o in parte;
h) l'approvazione dei regolamenti edilizi comunali e dei programmi di fabbricazione;
i) il nulla-osta all'autorizzazione comunale dei piani di lottizzazione;
l) il nulla-osta al rilascio di licenze edilizie in deroga alle norme dei piani regolatori e dei regolamenti edilizi, ivi comprese le deroghe alle altezze stabilite dalle norme urbanistico-edilizie per le costruzioni alberghiere;
m) la sospensione e demolizione di opere difformi dal piano regolatore oppure comunque non rispondenti alle prescrizioni del piano medesimo;
n) il parere sulla demolizione di costruzioni abusive ai sensi dell'art. 32 della citata legge n. 1150;
o) ogni altra funzione amministrativa esercitata dagli organi centrali e periferici dello Stato nella materia di cui al presente articolo, salvo quanto disposto dai successivi articoli.
Il trasferimento delle funzioni amministrative di cui al presente articolo riguarda anche le attribuzioni esercitate dagli organi centrali e periferici del Ministero della pubblica istruzione ai sensi della legge 6 agosto 1967, n. 765 nonché da organi centrali e periferici di altri Ministeri.
Il trasferimento predetto riguarda altresì la redazione e l'approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all'art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497.
Art. 2
(omissis)
Art. 3
Sono trasferite altresì alle Regioni a statuto ordinario, per le opere di competenza delle Regioni stesse e per quelle ad esse delegate con il presente decreto, le competenze degli organi centrali e periferici dello Stato in ordine alle dichiarazioni di pubblica utilità, di urgenza e di indifferibilità dei lavori nonché l'esercizio delle attribuzioni di carattere amministrativo attualmente spettanti agli organi medesimi in materia di espropriazione per pubblica utilità e di occupazione temporanea e di urgenza, comprese la determinazione amministrativa delle indennità e la retrocessione.
Artt. 4 - 8
(omissis)
Art. 9
La funzione d'indirizzo e coordinamento delle attività amministrative delle Regioni a statuto ordinario che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali, spetta allo Stato e viene esercitata, fuori dei casi in cui si provvede con legge o con atto avente forza di legge, mediante deliberazioni del Consiglio dei Ministri su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri d'intesa con il Ministro o con i Ministri competenti.
L'esercizio della funzione di cui al precedente comma può essere delegato di volta in volta dal consiglio dei Ministri al Comitato interministeriale per la programmazione economica (C.I.P.E.) per la determinazione dei criteri operativi nelle materie di sua competenza oppure al Presidente del Consiglio dei Ministri con il Ministro competente quando si tratti di affari particolari.
(omissis - commi III-V)
La funzione di indirizzo e di coordinamento, di cui ai commi primo e secondo del presente articolo, si esercita al fine di assicurare anche unitarietà e coordinamento all'attività di pianificazione urbanistica ai vari livelli di circoscrizione territoriale.
In particolare, mediante l'esercizio della suddetta funzione, su proposta del Ministro per i lavori pubblici:
1) sono identificate le linee fondamentali dall'assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento all'articolazione territoriale degli interventi statali o di rilevanza nazionale, alla tutela paesistica, ambientale ed ecologica del territorio ed alla difesa e conservazione del suolo; viene verificata periodicamente la coerenza di tali linee con gli obiettivi della programmazione economica nazionale;
2) sono definiti gli aspetti metodologici e procedurali da osservare nella formazione dei piani territoriali regionali nonché gli standard urbanistici ed edilizi, quali minimi o massimi inderogabili da osservare ai fini della formazione dei piani urbanistici.
Art. 10 - 23
(omissis)