CAPO I - RIQUALIFICAZIONE DEL PATRIMONIO EDILIZIO
Art. 1 - Oggetto e finalità
1. La presente legge, anche in considerazione dell'intesa espressa dalla Conferenza unificata in data 1° aprile 2009, detta misure di semplificazione delle procedure vigenti per la realizzazione degli interventi sul patrimonio edilizio e disciplina ulteriori incentivazioni volte a favorire il miglioramento della qualità degli edifici, l'efficienza energetica, la sostenibilità ambientale e l'utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili.
2. La presente legge si applica al patrimonio edilizio destinato ad abitazione permanente o principale, temporanea, ad usi ed attività produttive artigianali o commerciali di interesse prevalentemente locale, ad attività produttive e commerciali non collocabili in contesti urbano-abitativi e ad attività turistiche e ricettive extra-alberghiere.
Art. 2 - Interventi sul patrimonio edilizio
1. Ai fini di cui alla presente legge, è consentito l'ampliamento o la realizzazione di unità immobiliari mediante l'esecuzione di nuovi volumi e superfici in deroga agli strumenti urbanistici generali e ai regolamenti edilizi, nel rispetto delle destinazioni d'uso previste dal piano regolatore generale comunale urbanistico e paesaggistico (PRG), a condizione che siano garantite le prestazioni energetiche e igienico-sanitarie esistenti e la sostenibilità ambientale dell'unità immobiliare oggetto dell'intervento.
2. L'ampliamento di cui al comma 1 non può essere superiore complessivamente al 20 per cento del volume esistente.
3. L'ampliamento può essere realizzato una sola volta per ogni unità immobiliare.
4. Gli interventi di cui al presente articolo sono comunque effettuati nel rispetto della normativa vigente relativa alla stabilità degli edifici, di ogni altra normativa tecnica e delle distanze tra edifici stabilite dagli strumenti urbanistici generali e possono anche consistere, in tutto o in parte, nel mutamento di destinazione d'uso, con o senza opere edilizie, nel rispetto di quelle ammesse nella zona o nella sottozona in cui è situata l'unità immobiliare oggetto dell'intervento.
5. Gli interventi di cui al presente articolo riguardano le sole unità immobiliari per le quali il titolo abilitativo edilizio sia stato acquisito entro il 31 dicembre 2008.
6. Gli interventi di cui al presente articolo relativi alle unità immobiliari classificate di pregio dal PRG possono essere realizzati solo qualora non incidano sulla complessiva tipologia originaria del fabbricato e previo parere favorevole delle strutture regionali competenti in materia di beni culturali e di tutela del paesaggio.
7. Per gli interventi di cui al presente articolo, le altezze interne utili dei locali di abitazione possono essere ridotte fino a 15 centimetri rispetto alle altezze minime previste dall'articolo 95, comma 1, della legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 (Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d'Aosta).
Art. 3 - Interventi per la riqualificazione ambientale ed urbanistica degli edifici
1.In deroga agli strumenti urbanistici generali e ai regolamenti edilizi, sono consentiti, nel rispetto delle destinazioni d'uso previste dal PRG, a condizione che si utilizzino criteri e tecniche di edilizia sostenibile, fonti di energia alternative e rinnovabili o misure di risparmio delle risorse energetiche o idriche, interventi consistenti nell'integrale demolizione e ricostruzione di edifici realizzati anteriormente al 31 dicembre 1989, con aumento fino al 35 per cento del volume esistente.
Art. 4 - Interventi per la riqualificazione ambientale ed urbanistica del territorio
1.Nell'ambito dei programmi integrati, delle intese e delle concertazioni promossi dalla Regione o dai Comuni ai sensi dell'articolo 51 della l.r. 11/1998, nonché degli articoli 49 e 50 della stessa, gli interventi di cui all'articolo 3 sono consentiti con aumento fino al 45 per cento del volume esistente.
Art. 5 - Procedimento
1. Gli interventi di cui all'articolo 2, destinati ad abitazione permanente o principale, sono realizzati previa denuncia di inizio dell'attività ai sensi dell'articolo 59, comma 1, lettera b), della l.r. 11/1998.
2. Per gli interventi di cui alla presente legge la documentazione richiesta dal regolamento edilizio vigente è integrata:
a) dall'attestazione del titolo di legittimazione;
b) dalla planimetria di accatastamento dell'unità immobiliare;
c) dalla dichiarazione di sussistenza delle condizioni di cui all'articolo 2, commi 1 e 4, sottoscritta dal tecnico progettista abilitato.
3. Gli interventi di cui all'articolo 2, fatto salvo quanto previsto al comma 1, e quelli di cui agli articoli 3 e 4 sono realizzati previo rilascio di concessione edilizia ai sensi dell'articolo 59, comma 1, lettera a), della l.r. 11/1998 o di titolo abilitativo in materia di procedimento unico ai sensi dell'articolo 59, comma 1, lettera b bis), della medesima legge.
4. Gli interventi di cui agli articoli 2, 3 e 4 realizzati su unità immobiliari destinate ad attività commerciali devono essere conformi alle disposizioni regionali o comunali vigenti in materia di pianificazione e programmazione commerciale.
5. Gli interventi di cui agli articoli 2, 3 e 4 non sono cumulabili tra loro.
Art. 6 - Disposizioni per gli immobili vincolati
1. Gli interventi di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono consentiti, fatto comunque salvo il rispetto della relativa disciplina:
a) nelle aree gravate da vincolo di inedificabilità di cui al titolo V, capo I, della l.r. 11/1998;
b) nelle aree insistenti nei parchi nazionali o regionali o nelle aree naturali protette;
c) nelle altre aree soggette a vincoli, previo rilascio dei pareri, delle autorizzazioni o degli assensi, comunque denominati, da parte delle autorità preposte alla tutela dei predetti vincoli.
2. Gli interventi di cui agli articoli 2, 3 e 4 non sono consentiti:
a) sulle unità immobiliari anche parzialmente abusive, nonché su quelle che sorgono su aree demaniali o vincolate ad uso pubblico o dichiarate inedificabili per legge, sentenza o provvedimento amministrativo;
b) sulle unità immobiliari oggetto di notifica ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137);
c) sulle unità immobiliari classificate dagli strumenti urbanistici generali come monumento o documento, nonché, limitatamente agli interventi di cui all'articolo 3, sulle unità immobiliari classificate di pregio;
d) sulle unità immobiliari poste nelle zone territoriali di tipo A, in assenza della classificazione degli edifici di cui all'articolo 52 della l.r. 11/1998.
3. Relativamente agli immobili di cui all'articolo 12, comma 1, del d.lgs. 42/2004, la denuncia di inizio dell'attività o altro titolo abilitativo comunque denominato in materia di procedimento unico sono subordinati alla previa verifica dell'interesse culturale da parte della struttura regionale competente in materia di tutela di beni paesaggistici e architettonici. Il procedimento di verifica si conclude entro novanta giorni dal ricevimento della relativa richiesta, decorsi inutilmente i quali l'intervento deve intendersi consentito.
4. Nelle zone territoriali di tipo E di cui alla l.r. 11/1998, gli interventi di cui agli articoli 2, 3 e 4 possono riguardare le sole unità immobiliari ad uso residenziale. Gli ampliamenti previsti, in deroga a quanto indicato negli articoli 2, comma 2, 3 e 4, si applicano tenuto conto delle volumetrie esistenti. Nel caso di unità immobiliari adibite ad alloggio di conduzione a servizio di aziende agricole, l'ampliamento deve, in ogni caso, garantire il rispetto degli standard costruttivi e dei parametri per il dimensionamento dei fabbricati rurali e degli annessi definiti dalla Giunta regionale ai sensi dell'articolo 22, comma 2, lettera e), della l.r. 11/1998.
Art. 7 - Poteri dei Comuni
1. Per gli interventi su unità immobiliari non soggette a vincoli, i Comuni, entro trenta giorni dal ricevimento della denuncia di inizio dell'attività o altro titolo abilitativo comunque denominato in materia di procedimento unico, possono imporre modalità costruttive al fine del rispetto delle normative tecniche di settore.
2. La corresponsione del contributo di cui all'articolo 64 della l.r. 11/1998, per gli interventi realizzati ai sensi degli articoli 2, 3 e 4, è calcolato esclusivamente sulla quota di maggiore volumetria o di superficie realizzata, secondo le aliquote approvate e vigenti in ogni Comune.
3. Per gli interventi realizzati ai sensi degli articoli 3 e 4, il contributo di cui all'articolo 64 della l.r. 11/1998 è ridotto del 50 per cento per l'abitazione permanente o principale.
Art. 8 - Obblighi dei Comuni
1. I Comuni provvedono a verificare annualmente gli standard urbanistici, a seguito della realizzazione degli interventi di cui alla presente legge, anche apportando le eventuali variazioni allo strumento urbanistico generale al fine di garantire il rispetto degli standard urbanistici previsti dal PRG.
2. I Comuni stabiliscono modalità di controllo in merito alla corrispondenza del progetto e dell'opera in corso di realizzazione o ultimata a quanto dichiarato nella documentazione tecnica allegata alla richiesta di titolo abilitativo, relativamente alla sussistenza delle condizioni di cui all'articolo 2, commi 1 e 4, nell'osservanza dei seguenti criteri:
a) il controllo è effettuato in corso d'opera e comunque entro dodici mesi dalla comunicazione di fine dei lavori, ovvero, in assenza di tale comunicazione, entro dodici mesi dal termine di ultimazione dei lavori indicato nel titolo abilitativo;
b) il controllo, effettuato anche a campione, deve riguardare almeno il 20 per cento degli interventi edilizi eseguiti o in corso di realizzazione.
Art. 9 - Disposizioni per la riqualificazione del patrimonio edilizio degli enti locali
1. A decorrere dall'esercizio finanziario 2010, al bilancio pluriennale di previsione degli enti locali di cui all'articolo 3 della legge regionale 16 dicembre 1997, n. 40 (Norme in materia di contabilità e di controlli sugli atti degli enti locali. Modificazioni alle leggi regionali 20 novembre 1995, n. 48 (Interventi regionali in materia di finanza locale) e 23 agosto 1993, n. 73 (Disciplina dei controlli sugli atti degli enti locali)), è allegato il Piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari previsto dall'articolo 58, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.
2. L'inserimento degli immobili nel Piano di cui al comma 1 ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica. La deliberazione del Consiglio comunale di approvazione del Piano costituisce variante allo strumento urbanistico generale ed è soggetta alle forme di pubblicità previste per le varianti non sostanziali al PRG di cui all'articolo 16 della l.r. 11/1998.
Art. 10 - Disposizioni particolari
1.L'installazione di serbatoi di gas di petrolio liquefatto (GPL) di capacità complessiva non superiore a 13 mc. è soggetta a denuncia di inizio dell'attività, fatti salvi i pareri, le autorizzazioni e gli assensi, comunque denominati, previsti dalla normativa vigente in materia di vincoli archeologici, idrogeologici e ambiti inedificabili di cui al titolo V, capo I, della l.r. 11/1998.
Art. 11 - Rinvio
1. La Giunta regionale stabilisce, con propria deliberazione, ogni ulteriore adempimento o aspetto, anche procedimentale, necessario all'attuazione della presente legge. In particolare, la Giunta regionale, d'intesa con il Consiglio permanente degli enti locali e sentita la Commissione consiliare competente, definisce:
a) i criteri, i parametri e le condizioni che determinano il miglioramento della qualità degli edifici, l'efficienza energetica, la sostenibilità ambientale e l'utilizzo delle fonti di energia alternative e rinnovabili, relativamente agli interventi di cui agli articoli 3 e 4;
b) le misure di semplificazione per l'acquisizione dei titoli abilitativi consistenti, tra l'altro, nella definizione di procedure e modulistica standardizzate;
c) ulteriori riduzioni ed esenzioni del contributo di cui all'articolo 64 della l.r. 11/1998, nel caso degli interventi di cui agli articoli 3 e 4 che utilizzino in modo significativo fonti di energia rinnovabile o tecniche di edilizia sostenibile o comportino un miglioramento importante della sostenibilità ambientale dell'edificio;
d) le modalità applicative per l'individuazione del volume esistente di cui agli articoli 2, 3 e 4.
Art. 12 - Disposizione finale
1.A partire dal 1° gennaio 2010, la Regione, d'intesa con il Consiglio permanente degli enti locali (CPEL), avvia l'istituzione di una banca dati immobiliare informatizzata anche al fine di gestire l'elenco degli interventi effettuati ai sensi della presente legge.
Art. 13 - Disposizioni finanziarie
1. L'onere complessivo derivante dall'applicazione dell'articolo 12 è determinato in euro 350.000 per l'anno 2010 ed in euro 50.000 a decorrere dall'anno 2011.
2. L'onere di cui al comma 1 trova copertura nello stato di previsione della spesa del bilancio pluriennale della Regione per il triennio 2009/2011 nell'obiettivo programmatico 2.1.5. (Programmi di informatizzazione di interesse regionale).
3. Al finanziamento dell'onere di cui al comma 1 si provvede mediante l'utilizzo per pari importi degli stanziamenti iscritti nello stesso bilancio e nell'obiettivo programmatico 2.1.5., al capitolo 21880 (Progetti e sperimentazioni in ambito informatico e telematico).
4. Per l'applicazione della presente legge, la Giunta regionale è autorizzata ad apportare, con propria deliberazione, su proposta dell'Assessore regionale competente in materia di bilancio, le occorrenti variazione di bilancio.
CAPO II - MODIFICAZIONI ALLE LEGGI REGIONALI 6 APRILE 1998, N. 11, E 27 MAGGIO 1994, N. 18
Art. 14 - Modificazioni all'articolo 40 della l.r. 11/1998
1.Al comma 5 dell'articolo 40 della l.r. 11/1998, dopo le parole: "utenti della strada" sono aggiunte, in fine, le parole: ", nonché l'installazione in interrato di serbatoi di GPL con capacità non superiore a 13 mc., fatte salve le disposizioni statali vigenti in materia".
Art. 15 - Modificazioni all'articolo 90 bis della l.r. 11/1998
1. All'alinea del comma 2 dell'articolo 90 bis della l.r. 11/1998, dopo le parole: "(Disciplina della classificazione delle aziende alberghiere)," sono inserite le seguenti: "e gli esercizi di affittacamere esistenti, come definiti dall'articolo 14 della legge regionale 29 maggio 1996, n. 11 (Disciplina delle strutture ricettive extralberghiere),".
2. Alla lettera a) del comma 2 dell'articolo 90 bis della l.r. 11/1998, sono aggiunte, in fine, le parole: "alla struttura regionale competente in materia di turismo".
3. Dopo la lettera a) del comma 2 dell'articolo 90 bis della l.r. 11/1998, è inserita la seguente:
"a bis) agli esercizi di affittacamere che, pur avendo ottenuto l'autorizzazione comunale all'esercizio, non siano in attività o la cui attività sia temporaneamente cessata, purché non ne sia mutata la destinazione d'uso e purché sia presentato alla struttura regionale competente in materia di turismo un piano di ripresa dell'attività entro un anno dalla conclusione dei lavori;".
4. Alla lettera b) del comma 2 dell'articolo 90 bis della l.r. 11/1998, dopo le parole: "destinazione alberghiera" sono inserite le parole: "o di affittacamere".
5. Al comma 4 dell'articolo 90 bis della l.r. 11/1998, dopo le parole: "di cui alla l.r. 33/1984" sono inserite le parole; "e della disciplina delle strutture ricettive extralberghiere di cui alla l.r. 11/1996".
Art. 16 - Modificazioni all'articolo 90 ter della l.r. 11/1998
1. Al comma 1 dell'articolo 90 ter della l.r. 11/1998, dopo le parole: "della l.r. 33/1984," sono inserite le seguenti: "negli esercizi di affittacamere, come definiti dall'articolo 14 della l.r. 11/1996,".
2. Al comma 3 dell'articolo 90 ter della l.r. 11/1998, dopo le parole: "di cui alla l.r. 33/1984" sono inserite le seguenti: ", della disciplina delle strutture ricettive extralberghiere di cui alla l.r. 11/1996".
Art. 17 - Modificazioni all'articolo 95 della l.r. 11/1998
1. Dopo il comma 2 dell'articolo 95 della l.r. 11/1998, è inserito il seguente:
"2 bis. Nell'effettuazione di opere di restauro o di rinnovamento funzionale di edifici non aventi destinazione abitativa e oggetto di notifica ai sensi del d.lgs. 42/2004, o classificate come monumento o documento dagli strumenti urbanistici generali, è consentito mantenere l'altezza interna utile esistente solo nel caso in cui siano comunque garantiti i requisiti igienico-sanitari e gli edifici siano destinati ad un uso esclusivamente abitativo a carattere temporaneo.".
Art. 18 - Modificazioni all'articolo 4 della l.r. 18/1994
1. Dopo la lettera g bis) del comma 1 dell'articolo 4 della legge regionale 27 maggio 1994, n. 18 (Deleghe ai Comuni della Valle d'Aosta di funzioni amministrative in materia di tutela del paesaggio), è aggiunta la seguente:
"g ter) per gli interventi di installazione in interrato di serbatoi di GPL con capacità non superiore a 13 mc.".
CAPO III - DISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI
Art. 19 - Disposizioni transitorie
1. Entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale verifica l'entità degli interventi realizzati ai sensi degli articoli 2, 3 e 4.
2. L'esito di tale verifica è illustrata al Consiglio regionale al fine di una eventuale revisione della presente legge.
Art. 20 - Dichiarazione d'urgenza
1.La presente legge è dichiarata urgente ai sensi dell'articolo 31, comma terzo, dello Statuto speciale per la Valle d'Aosta ed entrerà in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione.
Art. 1 - Finalità e ambiti di applicazione
1. La presente legge, straordinaria e temporanea, costituisce attuazione dell’intesa, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), tra Stato, regioni ed enti locali, sottoscritta il 1° aprile 2009 e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, serie generale, n. 98 del 29 aprile 2009, finalizzata al rilancio dell’economia mediante il sostegno all’attività edilizia e al miglioramento della qualità architettonica, energetica e ambientale del patrimonio edilizio esistente, in coerenza con le norme di tutela del patrimonio ambientale, culturale e paesaggistico della regione nonché di difesa del suolo, prevenzione del rischio sismico e accessibilità degli edifici.
2. Per perseguire le finalità di cui al comma 1 la presente legge disciplina l’esecuzione di interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione, anche in deroga alla pianificazione urbanistica locale, secondo le modalità e nei limiti previsti dalle norme seguenti.
Art. 2 - Definizioni
1. Se non altrimenti previsto, le definizioni contenute nella presente legge sono da intendersi riproduttive delle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, emanato con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.
2. Ai fini della presente legge:
a) per edifici residenzialiuni-bifamiliari si intendono gli immobili comprendenti una o due unità immobiliari destinate alla residenza e gli edifici rurali a uso abitativo, comunque di volumetria complessiva non superiore a 1.000 metri cubi (m3);
b) per volumetria complessiva si intende la somma dei volumi vuoto per pieno collocati esclusivamente o prevalentemente fuori terra. Nel computo di detto volume sono compresi i vani ascensore, le scale, restandone esclusi i volumi tecnici e quelli condominiali o di uso pubblico (androni, porticati, ecc).
Art. 3 - Interventi straordinari di ampliamento
1. Possono essere ampliati, nel limite del 20 per cento della volumetria complessiva, e comunque per non oltre 200 m3, gli edifici residenziali e quelli di volumetria non superiore a 1.000 m3, alle condizioni e con le modalità seguenti:
a) sono computabili solo i volumi legittimamente realizzati. Le volumetrie per le quali sia stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), alla legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e al decreto - legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, sono computate ai fini della determinazione della volumetria complessiva esistente. Nel caso in cui detta sanatoria sia stata rilasciata per ampliamenti di volumetria preesistente, la volumetria sanata deve essere detratta nel computo dell’ampliamento. Non devono essere detratte dal computo dell’ampliamento le volumetrie oggetto di sanatoria edilizia per mera variazione di destinazione d’uso;
b) l’ampliamento deve essere realizzato in contiguità fisica rispetto al fabbricato esistente, nel rispetto delle altezze massime e delle distanze minime previste dagli strumenti urbanistici. In mancanza di specifica previsione in detti strumenti, si applicano altezze massime e distanze minime previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici, di concerto con il Ministro per l’interno, 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765);
c) l’ampliamento deve essere realizzato conformemente alle norme riportate all’articolo 4, comma 4, lettere a), b) e c), e commi 18, 19 e 20, estesi questi ultimi a tutti gli interventi di cui all’articolo 3, comma 2, lettera c), numero 1, del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 (Attuazione della direttiva 2002/91/CE sul rendimento energetico in edilizia), del regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2009, n. 59, in attuazione dell’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del d.lgs. 192/2005 e successive modificazioni. In ogni caso, l’unità abitativa esistente interessata dall’ampliamento deve essere munita di finestre con vetrature con intercapedini di aria o di gas.
Art. 4 - Interventi straordinari di demolizione e ricostruzione
1. Al fine di migliorare la qualità del patrimonio edilizio esistente, sono ammessi interventi di demolizione e ricostruzione di edifici destinati a residenza almeno in misura pari al 75 per cento della volumetria complessiva, con realizzazione di un aumento di volumetria sino al 35 per cento di quella legittimamente esistente alla data di entrata in vigore della presente legge.
2. Sono computabili i volumi legittimamente realizzati e le volumetrie per le quali sia stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria di cui alle leggi 47/1985, 724/1994 e 326/2003.
3. Gli interventi di ricostruzione devono essere realizzati nel rispetto delle altezze massime e delle distanze minime previste dagli strumenti urbanistici. In mancanza di specifica previsione in detti strumenti, si applicano altezze massime e distanze minime previste dal d.m. lavori pubblici 1444/1968.
4. L’incremento volumetrico previsto al comma 3 si applica a condizione che la ricostruzione venga realizzata secondo i criteri di edilizia sostenibile indicati dalla legge regionale 10 giugno 2008, n. 13 (Norme per l’abitare sostenibile). A tal fine, l’edificio ricostruito deve acquisire almeno il punteggio 2 nello strumento di valutazione previsto dalla l.r. 13/2008 e dotarsi della certificazione di cui all’articolo 9 della stessa legge prima del rilascio del certificato di agibilità.
5. Agli interventi di ricostruzione si applicano le norme previste dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 14 giugno 1989, n. 236 (Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell'eliminazione delle barriere architettoniche).
Art. 5 - Condizioni e modalità generali
1. Gli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 possono essere realizzati solo su immobili esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge.
2. Gli immobili interessati dagli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 devono risultare, alla data del 31 marzo 2009, regolarmente accatastati presso le agenzie del territorio, ai sensi del testo unico delle leggi sul nuovo catasto approvato con regio decreto 8 ottobre 1931 n. 1572; per gli edifici che devono essere accatastati al nuovo catasto edilizio urbano, ai sensi del regio decreto-legge 13 aprile 1939, n. 652 (Accertamento generale dei fabbricati urbani, rivalutazione del relativo reddito e formazione del nuovo catasto edilizio urbano), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 1939, n. 1249, devono risultare già presentate, alla data di entrata in vigore della presente legge, idonee dichiarazioni alle agenzie del territorio per l’accatastamento o per la variazione catastale. Un tecnico abilitato deve attestare la volumetria esistente, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, lettera b), con una perizia giurata corredata necessariamente di idonea e completa documentazione fotografica.
3. Tutti gli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività (DIA), ai sensi dell’articolo 22 del t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia emanato con d.p.r. 380/2001, come sostituito dall’articolo 1 del decreto legislativo 27 dicembre 2002, n. 301, o, in alternativa, mediante permesso di costruire. La formazione del titolo abilitativo per la realizzazione degli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 è subordinato:
a) alla corresponsione del contributo di costruzione di cui all’articolo 16 del t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia emanato con d.p.r. 380/2001, come modificato dall’articolo 1 del d.lgs. 301/2002 e dall’articolo 40, comma 9, della legge 1° agosto 2002, n. 166;
b) alla cessione delle aree a standard in misura corrispondente all’aumento volumetrico previsto. Il comune può prevedere che l’interessato, qualora sia impossibile reperire in tutto o in parte dette aree, in alternativa alla cessione (totale o parziale), provveda al pagamento di una somma commisurata al costo di acquisizione di altre aree, equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle che dovrebbero essere cedute. Gli introiti derivanti dalla monetizzazione degli standard devono essere vincolati all’acquisizione, da parte del comune, di aree destinate alle attrezzature e opere di urbanizzazione secondaria di interesse generale o destinate a servizi di quartiere, nonché alla realizzazione o riqualificazione di dette opere e servizi e all’abbattimento delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici;
c) al reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali nella misura minima di 1 metro quadrato (m2) ogni 10 m3 della volumetria realizzata, nel caso degli interventi di cui all’articolo 3 della volumetria realizzata con l’ampliamento e, nel caso degli interventi di cui all’articolo 4, della volumetria complessiva, volume preesistente e aumento volumetrico, realizzata con la ricostruzione. Il rapporto di pertinenza, garantito da un atto da trascriversi nei registri immobiliari, è impegnativo per sé e per i propri successori o aventi causa a qualsiasi titolo;
d) all’acquisizione di tutti gli assensi ordinariamente prescritti;
e) al rispetto delle normative tecniche per le costruzioni con particolare riferimento a quelle antisismiche.
4. Solo nel caso di interventi di cui all’articolo 3, qualora sia dimostrata l’impossibilità ad assolvere l’obbligo di cui al comma 3, lettera c), del presente articolo gli ampliamenti sono consentiti previo versamento al comune di una somma pari al costo base di costruzione per metro quadrato di spazio per parcheggi da reperire. Tale somma deve essere vincolata alla realizzazione di parcheggi da parte del comune.
5. Per il computo delle volumetrie degli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 si applicano gli indici e i parametri di cui all’articolo 11 della l.r. 13/2008.
6. Con la realizzazione degli interventi previsti dagli articoli 3 e 4 non è ammesso il cambio di destinazione d’uso.
Art. 6 - Limiti di applicazione
1. Non è ammessa la realizzazione degli interventi di cui agli articoli 3 e 4:
a) all’interno delle zone territoriali omogenee A) di cui all’articolo 2 del d.m. lavori pubblici 1444/1968 o a esse assimilabili, così come definite dagli strumenti urbanistici generali o dagliatti di governo del territorio comunali, salvo che questi strumenti o atti consentano interventi edilizi di tale natura;
b) nelle zone nelle quali lo strumento urbanistico generale consenta soltanto la realizzazione di interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro e risanamento conservativo o subordini gli interventi di ristrutturazione edilizia all’approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo;
c) sugli immobili definiti di valore storico, culturale e architettonico dagli atti di governo del territorio o daglistrumenti urbanistici generali;
d) sugli immobili inclusi nell’elenco di cui all’articolo 12 della legge regionale 10 giugno 2008, n. 14 (Misure a sostegno della qualità delle opere di architettura e di trasformazione del territorio);
e) sugli immobili di interesse storico, vincolati ai sensi della parte II del decreto legislativo 22gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137);
f) su immobili ubicati in area sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi degli articoli 136 e 142 del d.lgs. 42/2004, così come da ultimi modificati dall’articolo 2 del decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63;
g) negli ambiti territoriali estesi classificati “A” e “B” dal piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (PUTT/P), approvato con deliberazione della Giunta regionale del 15 dicembre 2000, n. 1748;
h) nei siti della Rete Natura 2000 (siti di importanza comunitaria – SIC - e zone di protezione speciale - ZPS -), ai sensi della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, nelle aree protette nazionali istituite ai sensi della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) e nelle aree protette regionali istituite ai sensi della legge regionale 24 luglio 1997, n. 19 (Norme per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette nella regione Puglia), salvo che le relative norme o misure di salvaguardia o i relativi strumenti di pianificazione consentano interventi edilizi di tale natura;
i) nelle oasi istituite ai sensi della legge regionale 13 agosto 1998, n. 27 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma, per la tutela e la programmazione delle risorse faunistico-ambientali e per la regolamentazione dell’attività venatoria);
j) nelle zone umide tutelate a livello internazionale dalla Convenzione relativa alle zone umide d’importanza internazionale, soprattutto come habitat degli uccelli acquatici, firmata a Ramsar il 2 febbraio 1971 e resa esecutiva dal decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 1976, n. 448;
k) negli ambiti dichiarati ad alta pericolosità idraulica e a elevata o molto elevata pericolosità geomorfologica (o ad essi assimilabili) dai piani stralcio di bacino di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) o dalle indagini geologiche allegate agli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica, salvo che per gli interventi di cui all’articolo 4 riguardanti edifici esistenti che siano oggetto di ordinanze sindacali tese alla tutela della pubblica e privata incolumità e che insistono in zone territoriali omogenee nelle quali gli strumenti di pianificazione vigenti consentano tali tipi di interventi.
2. I comuni, con deliberazione del consiglio comunale da adottare entro il termine di sessanta giorni, a pena di decadenza, dalla entrata in vigore della presente legge, possono disporre motivatamente:
a) l'esclusione di parti del territorio comunale dall'applicazione della presente legge in relazione a caratteristiche storico-culturali, morfologiche, paesaggistiche e alla funzionalità urbanistica;
b) la perimetrazione di ambiti territoriali nei quali gli interventi previsti dalla presente legge possono essere subordinati a specifiche limitazioni o prescrizioni, quali, a titolo meramente esemplificativo, particolari limiti di altezza, distanze tra costruzioni, arretramenti dal filo stradale, ampliamenti dei marciapiedi;
c) la definizione di parti del territorio comunale nelle quali per gli interventi di cui agli articoli 3 e 4 della presente legge possono prevedersi altezze massime e distanze minime diverse da quelle prescritte dagli strumenti urbanistici vigenti;
d) l’individuazione di ambiti territoriali estesi di tipo “B” del PUTT/P, approvato con del. giunta reg. 1748/2000, nonché immobili ricadenti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali), nei quali consentire, su immobili in contrasto con le qualità paesaggistiche dei luoghi, gli interventi di cui agli articoli 3 e 4 della presente legge, purché gli stessi siano realizzati, oltre che alle condizioni previste dalla presente legge, utilizzando sia per le parti strutturali sia per le finiture materiali e tipi architettonici legati alle caratteristiche storico-culturali e paesaggistiche dei luoghi, obbligatoriamente e puntualmente definiti da apposito regolamento approvato dal consiglio comunale entro il termine perentorio di centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge.
Art. 7 - Tempi e titoli abilitativi
1. Tutti gli interventi previsti dalla presente legge sono realizzabili solo se la DIA o l’istanza per il rilascio del permesso di costruire risultano presentate, complete in ogni loro elemento, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
2. Per gli interventi di cui all’articolo 3, il progetto esecutivo riguardante le strutture deve essere riferito all’intero edificio, valutando la struttura complessivamente risultante dall’esecuzione dell’intervento secondo le indicazioni della vigente normativa tecnica prevista per le costruzioni.
3. La conformità dell’intervento alle norme previste dalla presente legge, nonché l’utilizzo delle tecniche costruttive prescritte, sono certificati dal direttore dei lavori o altro professionista abilitato con la comunicazione di ultimazione dei lavori. La mancanza del rispetto di dette condizioni impedisce la certificazione dell’agibilità dell’ampliamento realizzato o dell’immobile ricostruito.
Art. 8 - Disposizioni finali
1. Nelle more dell'approvazione delle disposizioni attuative delle norme regionali in materia di certificazione energetica, la rispondenza dell’ampliamento di cui alla lettera c) del comma 1 dell’articolo 3 è dimostrata mediante la redazione dell'attestato di qualificazione energetica di cui al d.lgs. 192/2005 e successive modificazioni. La conformità delle opere realizzate rispetto al progetto e alle sue eventuali varianti e alla relazione tecnica di cui all'articolo 8 del d.lgs. 192/2005, come modificato dall’articolo 3 del decreto legislativo 29 dicembre 2006, n. 311, nonché l'attestato di qualificazione energetica dell'edificio risultante, devono essere asseverati dal direttore dei lavori e presentati al comune di competenza contestualmente alla comunicazione di ultimazione dei lavori; in mancanza di detti requisiti o della presentazione della comunicazione stessa non può essere certificata l'agibilità dell'intervento realizzato.
Art. 9 - Integrazione alla legge regionale 29 luglio 2008, n. 21 (Norme per la rigenerazione urbana)
1. Dopo l’articolo 7 della legge regionale 29 luglio 2008, n. 21 (Norme per la rigenerazione urbana), è aggiunto il seguente:
“Art. 7 bis - Interventi di riqualificazione edilizia attraverso la delocalizzazione delle volumetrie
1. I comuni possono individuare edifici, anche con destinazione non residenziale, legittimamente realizzati o per i quali sia stata rilasciata sanatoria edilizia, da rimuovere in quanto contrastanti, per dimensione, tipologia o localizzazione, con il contesto paesaggistico, urbanistico e architettonico circostante. A tal fine, approvano piani urbanistici esecutivi che prevedono la delocalizzazione delle relative volumetrie mediante interventi di demolizione e ricostruzione in area o aree diverse, individuate anche attraverso meccanismi perequativi.
2. Per incentivare gli interventi di cui al comma 1, il piano urbanistico esecutivo può prevedere, come misura premiale, il riconoscimento di una volumetria supplementare nel limite massimo del 35 per cento di quella preesistente purché sussistano le seguenti condizioni:
a) l’edificio da demolire deve essere collocato all’interno delle zone o degli ambiti territoriali elencati nel comma 5 e non deve interessare gli immobili elencati al comma 6;
b) l’interessato si deve impegnare, previa stipulazione di apposita convenzione con il comune, alla demolizione dell’edificio e al ripristino ambientale delle aree di sedime e di pertinenza dell’edificio demolito, con cessione ove il comune lo ritenga opportuno;
c) con la convenzione deve essere costituito sulle medesime aree un vincolo di inedificabilità assoluta che, a cura e spese dell’interessato, deve essere registrato e trascritto nei registri immobiliari;
d) la ricostruzione deve avvenire, successivamente alla demolizione e al ripristino ambientale di cui alla letterab),in area o aree, ubicate al di fuori delle zone o degli ambiti territoriali elencati nel comma 5, che devono essere puntualmente indicate nella convenzione stipulata tra il comune e l’interessato;
e) la ricostruzione deve avvenire in aree nelle quali lo strumento urbanistico generale preveda destinazioni d’uso omogenee, secondo la classificazione di cui all’articolo 2 del d.m. lavori pubblici 1444/1968, a quelle dell’edificio demolito;
f) la destinazione d’uso dell’immobile ricostruito deve essere omogenea a quella dell’edificio demolito;
g) la ricostruzione deve essere realizzata secondo i criteri di edilizia sostenibile indicati dalla legge regionale 10 giugno 2008, n. 13 (Norme per l’abitare sostenibile). A tal fine, l’edificio ricostruito deve acquisire almeno il punteggio 2 nello strumento di valutazione previsto dalla l.r. 13/2008 e dotarsi della certificazione di cui all’articolo 9 della stessa legge prima del rilascio del certificato di agibilità.
3. Ferme restando le condizioni di cui al comma 2, il limite massimo della misura premiale è elevato al 45 per cento della volumetria preesistente qualora l’intervento di demolizione o di ricostruzione sia contemplato in un programma integrato di rigenerazione urbana o, nell’ipotesi di interventi che interessino immobili con destinazione residenziale, qualora gli edifici ricostruiti siano destinati, per una quota minima pari al 20 per cento della loro volumetria, a edilizia residenziale sociale.
4. Qualora gli interventi di demolizione e ricostruzione siano promossi da comuni o istituti autonomi case popolari (IACP) e comprendano immobili destinati a edilizia residenziale pubblica di proprietà di detti enti, per usufruire della misura premiale prevista dal comma 3 è sufficiente che siano soddisfatte le condizioni di cui al comma 2, lettere e), f), g).
5. Le misure premiali di cui ai commi 2 e 3 possono essere cumulate agli incentivi riconosciuti in applicazione della l.r. 13/2008 e possono essere previste unicamente nelle ipotesi in cui l’edificio da demolire sia collocato:
a) in area sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi degli articoli 136 e 142 del d.lgs. 42/2004;
b) negli ambiti territoriali estesi classificati “A” e “B” dal piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (PUTT/P), approvato con deliberazione della Giunta regionale del 15 dicembre 2000, n. 1748;
c) nelle zone A delle aree protette nazionali istituite ai sensi della legge 6 dicembre 1991 n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) e delle aree protette regionali istituite ai sensi della legge regionale 24 luglio 1997 n. 19 (Norme per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette nella regione Puglia);
d) nelle oasi istituite ai sensi della legge regionale 13 agosto 1998, n. 27 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma, per la tutela e la programmazione delle risorse faunistico-ambientali e per la regolamentazione dell’attività venatoria);
e) nelle zone umide tutelate a livello internazionale dalla Convenzione relativa alle zone umide d’importanza internazionale, soprattutto come habitat degli uccelli acquatici, firmata a Ramsar il 2 febbraio 1971 e resa esecutiva dal decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 1976, n. 448;
f) negli ambiti dichiarati ad alta pericolosità idraulica e ad elevata o molto elevata pericolosità geomorfologica (o ad essi assimilabili) dai piani stralcio di bacino di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) o dalle indagini geologiche allegate agli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica.
6. La demolizione non può riguardare comunque immobili:
a) ubicati all’interno delle zone territoriali omogenee A) di cui all’articolo 2 del d.m. 1444/1968 o ad esse assimilabili, così come definite dagli strumenti urbanistici generali o dagli atti di governo del territorio comunali;
b) definiti di valore storico, culturale e architettonico dagli atti di governo del territorio o dagli strumenti urbanistici generali;
c) inclusi nell’elenco di cui all’articolo 12 della legge regionale 10 giugno 2008, n. 14 (Misure a sostegno della qualità delle opere di architettura e di trasformazione del territorio);
d) di interesse storico, vincolati ai sensi della parte II del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).
7. Il riconoscimento delle misure premiali di cui ai commi 2 e 3 non comporta l’approvazione di variante agli strumenti urbanistici generali vigenti. Per l’approvazione dei corrispondenti piani urbanistici esecutivi (PUE) si applica il procedimento disciplinato dall’articolo 16 della l.r. 20/2001.
8. Nei casi previsti dal comma 4, la realizzazione di interventi demolizione e ricostruzione di edifici in area o aree diverse da quella originaria è subordinata all’applicazione del procedimento di cui al comma 10 dell’articolo 16 della l.r. 20/2001; la ricostruzione di edifici nella stessa area oggetto di demolizione è subordinata al rilascio del permesso di costruire.
9. Qualora non siano soddisfatte tutte le condizioni di cui al comma 2, gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici in area o aree diverse da quella originaria, fatta eccezione per gli interventi di cui al comma 4, possono essere autorizzati dal comune, eventualmente con la previsione di misure premiali, solo previa approvazione di variante agli strumenti urbanistici generali per la quale si applica il procedimento disciplinato dall’articolo 6.”.
Art. 1 - Finalità
1. La presente legge è finalizzata al rilancio dell’economia, risponde alle esigenze abitative delle famiglie ed interviene sulla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, in coerenza con i principi e le finalità della legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), favorendo gli interventi edilizi diretti a migliorare la qualità architettonica, la sicurezza, la compatibilità ambientale, l’efficienza energetica degli edifici e la fruibilità degli spazi per le persone disabili. La presente legge ha carattere straordinario e consente la realizzazione degli interventi edilizi in essa previsti solo se sia presentata denuncia di inizio dell’attività entro il termine perentorio di cui all’articolo 7, comma 2.
Art. 2 - Definizioni e parametri
1. Ai fini della presente legge, sono stabilite le seguenti definizioni:
a) per edifici abitativi si intendono gli edifici con destinazione d’uso residenziale, nonché gli edifici rurali ad uso abitativo necessari alle esigenze dell’imprenditore agricolo, a quelle dei familiari coadiuvanti o degli addetti a tempo indeterminato impegnati nell’attività agricola;
b) per superficie utile lorda si intende la somma delle superfici delimitate dal perimetro esterno di ciascun piano il cui volume sia collocato prevalentemente o esclusivamente fuori terra. Nel computo di detta superficie sono comprese le scale, i vani ascensore, le logge e le porzioni di sottotetto delimitate da strutture orizzontali praticabili con altezza libera media superiore a due metri e quaranta centimetri, mentre sono esclusi i volumi tecnici, i balconi, i terrazzi, gli spazi scoperti interni al perimetro dell’edificio e i porticati condominiali o d’uso pubblico;
c) per centri abitati si intendono quelli all’interno del perimetro individuato:
1) dal regolamento urbanistico ai sensi dell’articolo 55, comma 2, lettera b) della l.r. 1/2005, qualora i comuni abbiano approvato o anche solo adottato detto atto di governo del territorio;
2) dagli strumenti urbanistici generali o dai regolamenti edilizi, qualora i comuni non abbiano approvato o anche solo adottato il regolamento urbanistico di cui all’articolo 55 della l.r. 1/2005;
3) in applicazione della definizione dell’articolo 3 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), in mancanza di perimetri negli strumenti urbanistici o nei regolamenti edilizi di cui al numero 2);
d) per distanze minime e altezze massime dei fabbricati si intendono quelle definite dagli atti di governo del territorio o dagli strumenti urbanistici. In mancanza di definizioni contenute in detti atti, si fa riferimento a quelle definite dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765).
Art. 3 - Interventi straordinari di ampliamento
1. Nel rispetto di quanto previsto nel presente articolo e nell’articolo 5, sono consentiti interventi edilizi di ampliamento di ciascuna unità immobiliare fino al massimo del 20 per cento della superficie utile lorda già esistente alla data del 31 marzo 2009 e legittimata da titoli abilitativi, comunque fino ad un massimo complessivo per l’intero edificio di settanta metri quadrati di superficie utile lorda; detti interventi possono essere realizzati solo su edifici abitativi aventi alla data del 31 marzo 2009 le seguenti caratteristiche:
a) tipologia monofamiliare o bifamiliare;
b) tipologia diversa da quella di cui alla lettera a) con superficie utile lorda non superiore a trecentocinquanta metri quadrati.
2. Con gli interventi di cui al comma 1, non può essere modificata la destinazione d’uso degli edifici interessati.
3. Gli interventi di cui al comma 1 possono essere realizzati su edifici abitativi per i quali gli strumenti della pianificazione territoriale, gli atti di governo del territorio o gli strumenti urbanistici generali dei comuni consentono la ristrutturazione edilizia con addizioni funzionali o incrementi volumetrici ulteriori rispetto a quelli ammessi per volumi tecnici o gli interventi di cui all’articolo 78, comma 1, lettere f), g) o h) della l.r. 1/2005; detti interventi sono realizzati nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati ed in presenza di tutte le seguenti condizioni:
a) gli edifici siano situati all’interno di centri abitati oppure, ove collocati fuori dai centri abitati, siano comunque dotati di approvvigionamento idropotabile e di idonei sistemi di smaltimento delle acque reflue, secondo quanto previsto dalla vigente normativa;
b) gli edifici siano collocati in aree esterne agli ambiti dichiarati a pericolosità idraulica molto elevata e a pericolosità geomorfologica elevata o molto elevata dai piani di bacino di cui alla legge 18 maggio 1989, n. 183 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo) o dalle indagini geologiche allegate agli strumenti della pianificazione territoriale, agli atti di governo del territorio o agli strumenti urbanistici generali dei comuni.
4. Fermo restando il rispetto della normativa vigente in materia di efficienza energetica, gli interventi di cui al comma 1 sono realizzati con l’utilizzo di tecniche costruttive di edilizia sostenibile che, anche attraverso l’impiego di impianti alimentati da fonti rinnova bili, garantiscano comunque, con riferimento alla climatizzazione invernale dell’ampliamento, un indice di prestazione energetica, definito dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192 (Attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia), inferiore almeno del 20 per cento rispetto al corrispondente valore limi te indicato nell’allegato C, tabella 1.3 del medesimo D.Lgs. 192/2005; in ogni caso, l’unità abitativa esistente interessata dall’ampliamento è dotata di finestre con vetrature con intercapedini di aria o di gas.
5. L’utilizzo delle tecniche costruttive di cui al comma 4 ed il rispetto degli indici di prestazione energetica di cui al medesimo comma 4, sono certificati dal direttore dei lavori o altro professionista abilitato con la comunicazione di ultimazione dei lavori di cui all’articolo 86, comma 1, della l.r. 1/2005; in mancanza di detti requisiti, non può essere certificata l’abitabilità o l’agibilità dell’ampliamento realizzato.
Art. 4 - Interventi straordinari di demolizione e ricostruzione
1. Nel rispetto di quanto previsto nel presente articolo e nell’articolo 5, sono consentiti interventi edilizi di completa demolizione e ricostruzione con ampliamento fino al massimo del 35 per cento della superficie utile lorda già esistente alla data del 31 marzo 2009 e legittimata da titoli abilitativi.
2. Salvo quanto disposto dal comma 3, gli interventi edilizi di cui al comma 1 sono ammessi su edifici esistenti ed aventi esclusivamente destinazione d’uso abitativa alla data del 31 marzo 2009.
3. Gli interventi di cui al comma 1 sono consentiti su edifici all’interno dei quali siano presenti porzioni aventi destinazioni d’uso diverse e compatibili con la destinazione d’uso abitativa nella misura comunque non superiore al 25 per cento della superficie utile lorda complessiva dell’edificio medesimo; in tali casi gli interventi di cui al comma 1 sono consentiti a condizione che la superficie utile lorda di dette porzioni non sia computata ai fini dell’ampliamento e non sia aumentata.
4. Con gli interventi di cui al comma 1 non può essere modificata la destinazione d’uso degli edifici interessati. Il numero delle unità immobiliari originariamente esistenti può essere aumentato, purché le unità immobiliari aggiuntive abbiano una superficie utile lorda non inferiore a cinquanta metri quadrati.
5. Gli interventi di cui al comma 1 sono consentiti su edifici abitativi per i quali gli strumenti della pianificazione territoriale, gli atti di governo del territorio o gli strumenti urbanistici generali dei comuni consentono gli interventi di sostituzione edilizia di cui all’articolo 78, comma 1, lettera h) della l.r. 1/2005, o gli interventi di cui al medesimo comma 1, lettera f); detti interventi sono realizzati nel rispetto delle distanze minime e delle altezze massime dei fabbricati ed in presenza delle seguenti due condizioni:
a) gli edifici abitativi siano situati all’interno dei centri abitati;
b) gli edifici siano collocati in aree esterne agli ambiti dichiarati a pericolosità idraulica molto elevata e a pericolosità geomorfologica elevata o molto elevata dai piani di bacino di cui alla l. 183/1989 o dalle indagini geologiche allegate agli strumenti della pianificazione territoriale, agli atti di governo del territorio o agli strumenti urbanistici generali dei comuni.
6. Qualora gli edifici abitativi siano situati all’interno di centri abitati e ricadano in ambiti dichiarati ad elevata pericolosità idraulica dai piani di bacino di cui alla l. 183/1989 o dalle indagini geologiche allegate agli strumenti della pianificazione territoriale, agli atti di governo del territorio o agli strumenti urbanistici generali dei comuni, il progetto allegato alla denuncia di inizio dell’attività di cui all’articolo 7 contiene le necessarie verifiche in ordine alla sicurezza delle persone e al non aumento della pericolosità idraulica nelle aree circostanti. Il progetto prevede, altresì, ove necessario, la contestuale realizzazione degli interventi di autosicurezza dal rischio di inondazione individuati dall’allegato A, paragrafo 3.2.2, lettera d) del regolamento emanato con decreto del Presidente della Giunta regionale 27 aprile 2007, n. 26/R (Regolamento di attuazione dell’articolo 62 della legge regionale 3 gennaio 2005 n. 1, “Norme per il governo del territorio” in materia di indagini geologiche).
7. Gli interventi di cui al comma 1 sono realizzati con l’utilizzo di tecniche costruttive di edilizia sostenibile che, anche attraverso l’impiego di impianti alimentati da fonti rinnovabili, garantiscano comunque prestazioni energetiche nel rispetto dei seguenti parametri:
a) con riferimento alla climatizzazione invernale dell’edificio, l’indice di prestazione energetica, definito dal D.Lgs. 192/2005, è inferiore almeno del 50 per cento rispetto al corrispondente valore limite indicato nell’allegato C, tabella 1.3 del medesimo D.Lgs. 192/2005;
b) con riferimento al raffrescamento estivo dell’involucro edilizio dell’edificio, la prestazione energetica, pari al rapporto tra fabbisogno annuo di energia termica per il raffrescamento dell’edificio, calcolato tenendo conto della temperatura di progetto estiva, secondo la norma UNI/TS 11300, e la superficie utile, è inferiore a trenta chilowattora per metro quadrato per anno.
8. L’utilizzo delle tecniche costruttive di cui al comma 7 ed il rispetto degli indici di prestazione energetica di cui al medesimo comma 7, sono certificati dal direttore dei lavori o altro professionista abilitato con la comunicazione di ultimazione dei lavori di cui all’articolo 86, comma 1, della l.r. 1/2005; in mancanza di detti requisiti, non può essere certificata l’abitabilità o agibilità dell’edificio realizzato.
9. Gli interventi di cui al comma 1 sono realizzati nel rispetto delle prescrizioni tecniche contenute negli articoli 8 e 9 del decreto ministeriale 14 giugno 1989, n. 236 (Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche) e del regolamento emanato con decreto del Presidente della Giunta regionale 9 febbraio 2007, n. 2/R (Regolamento di attuazione dell’articolo 37 della legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 “Norme per il governo del territorio” - Disposizioni per la tutela e valorizzazione degli insediamenti).
Art. 5 - Condizioni generali di ammissibilità degli interventi
1. Gli interventi edilizi di cui agli articoli 3 e 4 perseguono il fine del miglioramento della qualità architettonica in relazione ai caratteri urbanistici, storici, paesaggistici e ambientali del contesto territoriale in cui sono inseriti.
2. Gli interventi edilizi di cui agli articoli 3 e 4 non possono essere realizzati su edifici abitativi che, al momento della presentazione della denuncia di inizio attività di cui all’articolo 7, risultino:
a) eseguiti in assenza o in difformità dal titolo abilitativo;
b) collocati all’interno delle zone territoriali omogenee “A” di cui all’articolo 2 del D.M. 1444/1968 o ad esse assimilabili, così come definite dagli strumenti urbanistici generali o dagli atti di governo del territorio comunali;
c) definiti di valore storico, culturale ed architettonico dagli atti di governo del territorio o dagli strumenti urbanistici generali;
d) vincolati quali immobili di interesse storico ai sensi della parte seconda del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio);
e) collocati nelle aree di inedificabilità assoluta come definite dall’articolo 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico - edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie);
f) collocati nei territori dei parchi e delle riserve nazionali o regionali;
g) collocati all’interno di aree per le quali gli atti di governo del territorio o gli strumenti urbanistici generali prevedano l’adozione e approvazione di piani attuativi ai sensi dell’articolo 65 della l.r. 1/2005.
3. Le altezze utili degli interventi non possono essere superiori a tre metri, salvo il rispetto delle norme igienico-sanitarie. Per gli interventi di cui all’articolo 3, è consentito l’ampliamento con altezze superiori ai tre metri senza superare l’altezza dell’unità immobiliare interessata dall’ampliamento. Per gli interventi di cui all’articolo 4, è consentita la ricostruzione dei locali con altezze superiori a tre metri, ove già esistenti nell’edificio oggetto di demolizione.
4. Le superfici utili lorde per le quali sia stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria di cui alla l. 47/1985, alla legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e alla legge regionale 20 ottobre 2004, n. 53 (Norme in materia di sanatoria edilizia straordinaria), ovvero per le quali siano state applicate le sanzioni pecuniarie di cui al titolo VIII, capo I, della l.r. 1/2005:
a) sono computate ai fini della determinazione della superficie utile lorda già esistente di cui all’articolo 3, comma 1 ed all’articolo 4, comma 1;
b) devono essere sottratte dagli ampliamenti realizzabili ai sensi degli articoli 3 e 4.
5. Gli ampliamenti realizzabili in applicazione degli articoli 3 e 4 non si cumulano con gli ampliamenti consentiti dagli strumenti urbanistici generali o dagli atti di governo del territorio comunali sui medesimi edifici.
6. Alla data del 31 marzo 2009, le unità immobiliari interessate dagli interventi di cui all’articolo 3 o gli edifici interessati dagli interventi di cui all’articolo 4 devono risultare regolarmente accatastati presso le competenti agenzie del territorio ai sensi del regio decreto 8 ottobre 1931, n. 1572 (Testo unico delle leggi sul nuovo catasto) o ai sensi del regio decreto legge 13 aprile 1939, n. 652 (Accertamento generale dei fabbricati urbani, rivalutazione del relativo reddito e formazione del nuovo catasto edilizio urbano), convertito, con modificazioni, con legge 11 agosto 1939, n. 1249. Qualora non regolarmente accatastati, per dette unità immobiliari o per detti edifici, devono risultare già presentate alla data del 31 marzo 2009, idonee dichiarazioni alle agenzie del territorio per l’accatastamento o per la variazione catastale.
7. L’accatastamento o la dichiarazione di cui al comma 6 riguardante le unità immobiliari o gli edifici con destinazione d’uso residenziale deve riferirsi alla categoria abitazione del catasto dei fabbricati, ai sensi della l. 1249/1939.
8. L’accatastamento o la dichiarazione di cui al comma 6 riguardante gli edifici rurali ad uso abitativo necessari alle esigenze dell’imprenditore agricolo o alle esigenze dei suoi familiari coadiuvanti o dei suoi addetti a tempo indeterminato impegnati nell’attività agricola può riferirsi anche alla qualifica di fabbricato rurale del catasto dei terreni di cui al r.d. 1572/1931.
9. L’accatastamento o la dichiarazione per le porzioni di edificio di cui all’articolo 4, comma 3, aventi destinazioni d’uso diverse da quella abitativa, deve riferirsi alla categoria del catasto dei fabbricati corrispondente all’utilizzazione esistente di dette porzioni.
Art. 6 - Immodificabilità della destinazione d’uso e del numero degli alloggi
1. Non può essere modificata la destinazione d’uso degli edifici abitativi sui quali siano stati realizzati gli interventi di cui agli articoli 3 e 4 oppure il numero degli alloggi legittimato dalla denuncia di inizio attività di cui all’articolo 7, se non siano decorsi almeno cinque anni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori di cui all’articolo 86, comma 1 della l.r. 1/2005.
Art. 7 - Titoli abilitativi degli interventi edilizi straordinari
1. Gli interventi di cui agli articoli 3 e 4 sono realizzati mediante la denuncia di inizio attività di cui all’articolo 79 della l.r. 1/2005, nel rispetto delle disposizioni generali di cui all’articolo 82 e secondo il procedimento di cui all’articolo 84 della medesima l.r. 1/2005. Nella relazione asseverata di cui al medesimo articolo 84, comma 1, oltre a quanto ivi previsto, è espressamente attestata la conformità delle opere da realizzare alle disposizioni della presente legge.
2. La denuncia di inizio attività di cui al comma 1 può essere presentata non oltre il termine del 31 dicembre 2010.
Art. 8 - Sanzioni
1. Nel caso di violazione delle disposizioni di cui all’articolo 6, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 132 della l.r. 1/2005.
2. Nel caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 3, 4 e 5, si applicano le sanzioni amministrative di cui al titolo VIII, capo I della l.r. 1/2005, previste per gli interventi soggetti a permesso di costruire.
Art. 9 - Modifiche all’articolo 23 della l.r. 39/2005
1. Dopo il comma 12 dell’articolo 23 della legge regionale 24 febbraio 2005, n. 39 (Disposizioni in materia di energia), è aggiunto il seguente comma:
“12 bis. Nell’ambito del sistema informativo geografico regionale di cui all’articolo 28 della l.r. 1/2005, è istituito il sistema informativo regionale sull’efficienza e sulla certificazione energetica degli edifici e dei relativi impianti, gestito dalla struttura regionale competente.”.
2. Dopo il comma 12 bis dell’articolo 23 della l.r. 39/2005, è aggiunto il seguente comma:
“12 ter. Il sistema informativo di cui al comma 12 bis comprende l’archivio informatico delle certificazioni energetiche, nonché il catasto degli impianti di climatizzazione. Le modalità di organizzazione, di gestione, di implementazione del sistema informativo sono disciplinate dal regolamento di cui al comma 7, nel rispetto degli standard di cui alla legge regionale 26 gennaio 2004, n. 1 (Promozione dell’amministrazione elettronica e della società dell’informazione e della conoscenza nel sistema regionale. Disciplina della “Rete telematica regionale Toscana”).”.
TITOLO I - MODIFICHE ALLA LEGGE REGIONALE 3 LUGLIO 1998, N. 19
Artt. 1 – 9
(omissis)
TITOLO II - MODIFICHE ALLA LEGGE REGIONALE 24 MARZO 2000, N. 20
Artt. 10 - 50
(omissis)
TITOLO III - NORME PER LA QUALIFICAZIONE DEL PATRIMONIO EDILIZIO ABITATIVO
Art. 51 - Oggetto
1. Le disposizioni del presente Titolo prevedono misure straordinarie, operanti fino al 31 dicembre 2010, finalizzate al rilancio dell'attività economica mediante la promozione di interventi edilizi volti a migliorare la qualità architettonica, la sicurezza e l'efficienza energetica del patrimonio edilizio abitativo, anche in attuazione dell'"Intesa, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra Stato, Regioni e gli Enti locali, sull'atto contenente misure per il rilancio dell'economia attraverso l'attività edilizia", sancita il 1° aprile 2009.
Art. 52 - Definizioni
1. Ai fini del presente Titolo, sono stabilite le seguenti definizioni:
a) per edifici abitativi si intendono gli edifici adibiti ad uso residenziale, ubicati nei diversi ambiti del territorio comunale;
b) per edifici esistenti alla data del 31 marzo 2009 si intendono gli edifici di non recente realizzazione e quelli per i quali alla medesima data sia stata comunicata la fine dei lavori secondo la normativa vigente;
c) per edificio mono o bifamiliare si intende un edificio con i fronti perimetrali esterni di norma non contigui ad altri edifici, costituito rispettivamente da una o da due unità immobiliari ad uso residenziale, sia prima che dopo l'intervento di ampliamento di cui all'articolo 53;
d) per superficie utile lorda si intende la somma delle superfici lorde di tutti i piani fuori terra comprensiva dei muri perimetrali e di quelli interni, esclusi i balconi aggettanti, le terrazze scoperte, gli spazi scoperti interni agli edifici. Essa deve essere legittimata da titoli abilitativi edilizi, anche in sanatoria;
e) per edifici in aggregato edilizio si intendono gli edifici contigui, a contatto o interconnessi con edifici adiacenti, per i quali sono possibili interazioni nella risposta all'azione sismica, derivanti dalla contiguità strutturale con gli edifici adiacenti.
Art. 53 - Interventi di ampliamento
1. Nel rispetto di quanto previsto dal presente articolo e dagli articoli 55 e 56, è consentito l'ampliamento di edifici abitativi, esistenti alla data del 31 marzo 2009, monofamiliare e bifamiliari o di altra tipologia edilizia, aventi una superficie utile lorda comunque non superiore a 350 metri quadrati, qualora per gli stessi siano consentiti, dagli strumenti urbanistici vigenti ed adottati, interventi di ripristino edilizio e di ristrutturazione edilizia e urbanistica.
2. L'ampliamento, anche in sopraelevazione, è ammesso fino ad un massimo del 20 per cento della superficie utile lorda di ciascuna unità immobiliare residenziale degli edifici abitativi di cui al comma 1 e comunque fino ad un massimo di 70 metri quadrati di superficie utile lorda per l'intero edificio.
3. Gli interventi di ampliamento di cui al presente articolo sono realizzati con l'utilizzo di tecniche costruttive che garantiscano l'applicazione integrale dei requisiti di prestazione energetica degli edifici e degli impianti energetici, di cui alla Delibera dell'Assemblea legislativa regionale 4 marzo 2008, n. 156, limitatamente all'ampliamento dell'edificio originario, e degli impianti energetici per l'edificio originario.
4. La realizzazione dell'intervento di ampliamento di cui al presente articolo, sia in sopraelevazione dell'edificio originario sia attraverso la costruzione di manufatti edilizi, interrati o fuori terra, al di sotto o in adiacenza allo stesso, richiede la valutazione della sicurezza e, qualora necessario, l'adeguamento sismico dell'intera costruzione, nell'osservanza della vigente normativa tecnica per le costruzioni.
5. L'ampliamento è ammesso fino ad un massimo del 35 per cento della superficie utile lorda di ciascuna unità immobiliare residenziale, e comunque fino ad un massimo di 130 metri quadrati di superficie utile lorda dell'intero edificio, qualora ricorra uno dei seguenti casi:
a) si proceda all'applicazione integrale dei requisiti di prestazione energetica degli edifici e degli impianti energetici per l'intero edificio, comprensivo dell'ampliamento realizzato;
b) nei comuni classificati a media sismicità, si proceda alla valutazione della sicurezza e, ove necessario, all'adeguamento sismico dell'intera costruzione, nell'osservanza della vigente normativa tecnica per le costruzioni, con riguardo agli edifici realizzati prima dell'entrata in vigore della suddetta classificazione, senza l'applicazione delle norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche.
Art. 54 - Interventi di demolizione e ricostruzione
1. Nel rispetto di quanto previsto dal presente articolo e dagli articoli 55 e 56, gli edifici residenziali esistenti alla data del 31 marzo 2009, per i quali gli strumenti urbanistici vigenti e adottati consentono interventi di ristrutturazione, non escludendo espressamente la demolizione e ricostruzione possono essere demoliti e ricostruiti con ampliamento, anche in sopraelevazione, fino al 35 per cento della superficie utile lorda.
2. La quota massima dell'ampliamento ammissibile è del 50 per cento per la demolizione di edifici residenziali che il piano classifica incongrui o da delocalizzare o di edifici non assoggettati a interventi di restauro o risanamento conservativo che siano collocati nelle aree di cui all'articolo 55, comma 2, lettere b), c), d), e), f), g) e h), qualora la ricostruzione avvenga al di fuori delle medesime aree, in ambiti destinati dalla pianificazione urbanistica all'edificazione residenziale e il soggetto interessato si impegni, previa stipula di apposita convenzione, al ripristino ambientale delle aree di pertinenza dell'edificio originario e al trasferimento delle stesse nel patrimonio indisponibile del Comune, prima della conclusione dei lavori di ricostruzione. La convenzione può escludere l'acquisizione dell'area di pertinenza dell'edificio originario al patrimonio indisponibile del Comune, qualora il privato si impegni, dopo la demolizione e il ripristino ambientale, alla destinazione dell'area stessa secondo usi compatibili con le caratteristiche dell'area, in conformità alla legge e alla pianificazione vigente. L'area di pertinenza del fabbricato demolito e delocalizzato è gravata da un vincolo di inedificabilità.
3. Gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti anche su edifici all'interno dei quali siano presenti unità immobiliari aventi destinazioni d'uso diversa dall'abitativa, nella misura comunque non superiore al 30 per cento della superficie utile lorda complessiva dell'edificio medesimo. In tali casi gli interventi di cui ai commi 1 e 2 sono consentiti a condizione che la superficie utile lorda di dette unità immobiliari non sia computata ai fini dell'ampliamento e non sia aumentata.
4. Gli interventi di ampliamento di cui al presente articolo sono realizzati con l'utilizzo di tecniche costruttive che, nel garantire per l'intero edificio da ricostruire l'applicazione integrale dei requisiti di prestazione energetica degli edifici e degli impianti energetici, di cui alla delibera dell'Assemblea legislativa n. 156 del 2008, assicurino il raggiungimento di livelli minimi di prestazione energetica degli edifici incrementati di almeno il 25 per cento rispetto a quelli ivi previsti.
5. L'edificio da ricostruire è progettato in conformità alla normativa tecnica per le costruzioni vigente, secondo le indicazioni di cui all'articolo 56, commi 5 e 6.
Art. 55 - Limiti e condizioni comuni
1. Agli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione di cui agli articoli 53 e 54 si applicano le seguenti disposizioni comuni, circa i divieti, limiti e condizioni per la realizzazione dei medesimi interventi.
2. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 54, comma 2, gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione non sono consentiti per gli edifici situati nei seguenti ambiti:
a) nei centri storici, di cui all'articolo A-7 dell'Allegato alla legge regionale n. 20 del 2000, e negli insediamenti e infrastrutture storici del territorio rurale di cui all'articolo A-8 del medesimo Allegato, ovvero nelle zone "A" delimitate dai PRG dei Comuni non ancora dotati di PSC;
b) nelle zone di tutela naturalistica, nel sistema forestale e boschivo, negli invasi ed alvei di laghi, bacini e corsi d'acqua e nelle zone di tutela della costa e dell'arenile, come perimetrati nel piano territoriale paesistico regionale (PTPR) ovvero nei piani provinciali e comunali che abbiano provveduto a darne attuazione;
c) all'interno delle aree dei parchi e delle riserve naturali iscritte nell'elenco ufficiale delle aree protette di cui alla legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), ad esclusione dei territori ricompresi all'interno delle zone "D" dei parchi regionali istituiti ai sensi della legge regionale 17 febbraio 2005, n. 6 (Disciplina della formazione e della gestione del sistema regionale delle aree naturali protette e dei siti della rete natura 2000);
d) sul demanio statale, regionale, provinciale e comunale;
e) su ogni altra area sottoposta dagli strumenti di pianificazione territoriale ed urbanistica a vincolo di inedificabilità assoluta, in forza della legislazione vigente ovvero destinata ad opere e spazi pubblici ovvero destinata ad interventi di edilizia residenziale pubblica, di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167 (Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare);
f) nelle zone classificate a rischio idrogeologico molto elevato, perimetrate ai sensi del decreto legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania), convertito in legge, con modificazioni dall'articolo 1 della legge 3 agosto 1998, n. 267;
g) negli abitati da trasferire e da consolidare, ferma restando la possibilità di attuare gli interventi ammessi dalle relative perimetrazioni;
h) nelle aree di danno degli stabilimenti a rischio di incidente rilevante di cui all'articolo A-3-bis della legge regionale n. 20 del 2000, qualora gli edifici stessi risultino non compatibili con i criteri di sicurezza definiti dal decreto ministeriale 9 maggio 2001.
3. I Comuni, entro il termine perentorio di sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, possono escludere l'applicabilità delle norme di cui agli articoli 53 e 54, in relazione a specifici immobili o ambiti del proprio territorio, per ragioni di ordine urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale e culturale ovvero stabilire limiti differenziati in ordine alle possibilità di ampliamento accordate da detti articoli, in relazione alle caratteristiche proprie dei singoli ambiti e del diverso loro grado di saturazione edilizia.
4. I Comuni, entro il termine perentorio di sessanta giorni dal 31 dicembre 2010, verificano gli ampliamenti volumetrici richiesti ai sensi delle disposizioni di cui al presente Titolo allo scopo di integrare i dati del quadro conoscitivo della propria pianificazione urbanistica e valutano eventuali esigenze di integrazione delle dotazioni territoriali e dei servizi pubblici che risultino necessari.
5. Gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione non sono ammessi nelle unità immobiliari oggetto di interventi edilizi abusivi i cui procedimenti sanzionatori non siano stati conclusi entro il 31 marzo 2009, nonché nelle unità immobiliari, totalmente o parzialmente abusive soggette a ordine di demolizione emanato entro la stessa data. Le superfici utili lorde realizzate abusivamente per le quali sia stata applicata e versata alla data del 31 marzo 2009 la sanzione pecuniaria sono decurtate dall'ampliamento ammissibile.
6. La realizzazione degli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione è subordinata all'interno dei centri abitati all'esistenza delle infrastrutture per l'urbanizzazione degli insediamenti, rapportate al carico insediativo esistente, e al rispetto dei limiti inderogabili di cui al decreto interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, e all'esistenza o al reperimento di spazi per parcheggi pertinenziali, secondo la normativa vigente.
7. Ferma restando l'ammissibilità degli interventi secondo quanto previsto dal presente Titolo, trovano applicazione le specifiche disposizioni degli strumenti di pianificazione territoriale e urbanistica relative alle caratteristiche formali, tipologiche e costruttive degli interventi, in quanto compatibili.
8. Gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione sono realizzati nel rispetto del codice civile, per quanto concerne in particolare la disciplina del condominio negli edifici e la tutela dei diritti dei terzi, nonché delle disposizioni legislative e della normativa tecnica aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia, tra cui le norme in materia di:
a) requisiti igienico-sanitari dei locali di abitazione;
b) sicurezza degli impianti;
c) prevenzione degli incendi e sicurezza dei cantieri;
d) distanza minima dai confini e dagli edifici, altezza massima dei fabbricati e limiti inderogabili di densità edilizia;
e) eliminazione delle barriere architettoniche;
f) vincoli di inedificabilità e zone di rispetto.
9. Non è considerato nei computi per la determinazione dell'ampliamento ammissibile della superficie utile lorda il maggior spessore delle murature esterne necessario per garantire l'applicazione integrale dei requisiti di prestazione energetica richiesti dal presente Titolo, con riferimento alla sola parte eccedente i 30 centimetri e fino ad un massimo di ulteriori 25 centimetri.
10. Per garantire l'applicazione integrale dei requisiti di prestazione energetica richiesti dal presente Titolo è permesso, ai sensi dell'articolo 11, comma 2, del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115 (Attuazione della direttiva 2006/32/CE relativa all'efficienza degli usi finali dell'energia e i servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE), derogare a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici e alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nella misura massima di 20 centimetri per il maggiore spessore delle pareti verticali esterne, nonché alle altezze massime degli edifici nella misura massima di 25 centimetri, per il maggiore spessore degli elementi di copertura. La deroga può essere esercitata nella misura massima da entrambi gli edifici confinanti.
11. Per gli interventi di ampliamento e demolizioni e ricostruzioni previsti dal presente Titolo, non trovano applicazione i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati previsti dagli strumenti urbanistici generali ed attuativi, e dai regolamenti edilizi.
12. Gli ampliamenti realizzabili ai sensi degli articoli 53 e 54 non si cumulano con gli ampliamenti eventualmente consentiti dagli strumenti urbanistici comunali sui medesimi edifici.
13. Con gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione non può essere modificata la destinazione d'uso delle unità immobiliari facenti parte degli edifici interessati.
14. Ai fini del calcolo dell'ampliamento ammissibile, ai sensi degli articoli 53 e 54, non sono considerate le superfici necessarie per realizzare volumi tecnici per impianti tecnologici e per interventi di adeguamento alla normativa antisismica e di riqualificazione energetica degli edifici.
15. Il numero delle unità immobiliari originariamente esistenti può essere aumentato, per gli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione realizzati all'interno di centri abitati, purché le unità immobiliari aggiuntive abbiano una superficie utile lorda non inferiore a 50 metri quadrati e siano destinate per almeno dieci anni alla locazione a canone calmierato rispetto ai prezzi di mercato, attraverso la stipula, prima dell'inizio dei relativi lavori, di apposita convenzione ai sensi dell'articolo 31 della legge regionale n. 31 del 2002.
Art. 56 - Titoli abilitativi, procedimenti edilizi e sanzioni
1. Gli interventi di cui agli articoli 53 e 54 sono realizzati, anche in assenza di piano urbanistico attuativo eventualmente previsto, mediante denuncia di inizio attività, da presentarsi ai sensi dell'articolo 10 della legge regionale n. 31 del 2002 entro il termine perentorio del 31 dicembre 2010. Nella dichiarazione del progettista abilitato di cui al comma 1 del medesimo articolo 10 è espressamente asseverato il rispetto dei limiti e delle condizioni di ammissibilità stabiliti dal presente Titolo. Lo sportello unico per l'edilizia effettua il controllo delle opere nell'osservanza dell'articolo 11 della legge regionale n. 31 del 2002.
2. L'intervento di cui all'articolo 53 e quello di ricostruzione di cui all'articolo 54 sono soggetti al versamento del contributo di costruzione, riferito alle quote previste per la nuova costruzione, da calcolare rispettivamente sulla superficie ampliata e sulla superficie totale ricostruita. Trovano applicazione i casi di riduzione ed esonero dal contributo di costruzione previsti dall'articolo 30 della legge regionale n. 31 del 2002.
3. Alla conclusione dei lavori la verifica delle opere realizzate è attuata in conformità al Titolo III della medesima legge regionale n. 31 del 2002. La scheda tecnica descrittiva di cui all'articolo 20 della legge regionale n. 31 del 2002 è integrata dall'attestazione di qualificazione energetica, che certifica l'utilizzo delle tecniche costruttive e il rispetto degli indici di prestazione energetica di cui all'articolo 53, comma 3 e comma 5, lettera a), e all'articolo 54, comma 4. In mancanza di detta certificazione, il certificato di conformità edilizia e agibilità di cui all'articolo 21 della medesima legge regionale n. 31 del 2002 non può essere rilasciato.
4. È fatto salvo quanto disposto dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), per gli interventi edilizi che interessino immobili aventi valore culturale o paesaggistico ovvero immobili sottoposti a prescrizioni di tutela indiretta, di cui all'articolo 45 del medesimo decreto legislativo.
5. Agli interventi di cui agli articoli 53 e 54 si applica quanto previsto dal Titolo IV della legge regionale 30 ottobre 2008, n. 19 (Norme per la riduzione del rischio sismico), indipendentemente dalla data di presentazione della denuncia di inizio attività di cui al comma 1.
6. In ogni caso, il progetto esecutivo riguardante le strutture dovrà essere riferito all'intera costruzione e nel caso di interventi di ampliamento, dovrà riportare la valutazione dell'intera struttura post intervento, secondo le indicazioni della vigente normativa tecnica per le costruzioni. In presenza di edifici in aggregato edilizio il progetto dovrà tener conto delle possibili interazioni derivanti dalla contiguità strutturale con gli edifici adiacenti.
7. Ferme restando le sanzioni penali previste dall'articolo 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in caso di realizzazione degli interventi di ampliamento e di demolizione e ricostruzione in violazione di quanto disposto dal presente Titolo, trova applicazione quanto previsto dagli articoli 13, 14 e 15 della legge regionale n. 23 del 2004 e dal Titolo V della legge regionale n. 19 del 2008.
TITOLO IV - NORME FINALI E TRANSITORIE
Artt. 57 – 65
(omissis)
TITOLO I
PIANIFICAZIONE TERRITORIALE URBANISTICA
Capo I
PRINCIPI GENERALI
Art. 1.(Finalità della legge).
1. La presente legge:
a) costituisce riforma della disciplina di pianificazione territoriale ed urbanistica;
b) individua i soggetti e le competenze a ciascuno di essi assegnate in materia di pianificazione e programmazione degli interventi sul territorio;
c) definisce gli strumenti della pianificazione e programmazione, i loro contenuti e le relative procedure di formazione ed approvazione, nonché il sistema di relazione tra gli stessi ed il concorso dei soggetti alla loro formazione;
d) stabilisce il raccordo tra gli strumenti della pianificazione territoriale con quelli della programmazione economica e sociale.
Art. 2.(Soggetti e strumenti).
1. I soggetti competenti alla formazione degli atti e strumenti della pianificazione e programmazione degli interventi sul territorio sono:
a) la Regione,
b) la Provincia,
c) il Comune.
2. Gli strumenti generali della pianificazione e programmazione territoriale sono:
a) il Piano urbanistico territoriale (P.U.T.),
b) il Piano territoriale di coordinamento provinciale (P.T.C.P.),
c) il Piano regolatore generale comunale (P.R.G.).
Art. 3.(Raccordo tra gli strumenti della programmazione economica e quelli della pianificazione territoriale).(1)
1. Gli strumenti della programmazione economica della Regione, nonché i programmi pluriennali delle Province e dei Comuni, definiscono l'impiego delle risorse economiche in coerenza con gli obiettivi della valorizzazione e tutela delle risorse ambientali e territoriali individuati dagli strumenti di pianificazione territoriale.
Capo II
LA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE REGIONALE
Art. 4.(Finalità).
1. Il P.U.T. regola l'assetto e l'uso del territorio regionale, perseguendo i seguenti obiettivi:
a) tutela e valorizzazione delle peculiarità ambientali, culturali, economiche e sociali del territorio;
b) sviluppo equilibrato degli insediamenti relativi alle attività produttive, residenziali e socio-culturali, sia in termini quantitativi che qualitativi, secondo i criteri economici ed ecologici d'uso del suolo e delle risorse ambientali regionali;
c) controllo delle dinamiche di trasformazione delle strutture insediative, produttive e relazionali, con particolare riguardo ai loro effetti sull'ambiente naturale e socioculturale.
Art. 5. (Contenuti).
1. Il P.U.T. è lo strumento di pianificazione e programmazione dell'intero territorio regionale e costituisce il quadro di riferimento per la pianificazione territoriale provinciale, per la pianificazione urbanistica comunale e per i piani di settore regionali con valenza territoriale.
2. Il P.U.T.:
a) disciplina e configura l'assetto territoriale regionale tenuto conto della salvaguardia dell'ambiente naturale, delle strutture produttive e insediative, nonché delle reti infrastrutturali;
b) stabilisce gli indirizzi generali di tutela e valorizzazione del patrimonio di interesse regionale e fissa le modalità per il loro perseguimento;
c) coordina le scelte regionali con quelle di carattere sovraregionale.
3. Il P.U.T.:
a) individua le risorse presenti nel territorio regionale che per la loro rilevanza economico-sociale o ecologico-ambientale o storico-culturale costituiscono patrimonio di interesse regionale, anche ai fini di quanto previsto dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394;
b) indica i territori regionali ad elevata sensibilità ambientale, quali zone di interesse naturalistico, paesistico, archeologico e storico artistico, nonché le aree protette, anche ai fini di quanto previsto dalla legge 8 agosto 1985, n. 431;
c) definisce criteri per la tutela e l'uso delle parti del territorio esposte a rischio sismico, a pericolo geologico, idrogeologico, e comunque soggette a processi di degrado ambientale;
d) definisce i criteri per l'organizzazione territoriale della protezione civile;
e) detta criteri per rendere le scelte insediative congruenti con gli obiettivi regionali della mobilità persone e merci;
f) individua il sistema territoriale delle reti infrastrutturali di rilevanza regionale ed interregionale, indicando le relazioni con il sistema nazionale;
g) individua il sistema dei servizi e delle attrezzature di interesse regionale e interregionale;
h) fissa i criteri per la distribuzione territoriale dei grandi insediamenti produttivi, direzionali, commerciali e turistici;
i) indica le eventuali zone nelle quali, per il raggiungimento di particolari obiettivi di interesse regionale, il piano viene attuato mediante piani-programmi di area di cui all'articolo 11 (2);
l) individua i soggetti preposti e definisce procedure anche differenziate per il perseguimento di particolari obiettivi di piano di interesse regionale;
m) individua, anche in termini fondiari, eventuali ambiti del territorio regionale da sottoporre a specifica disciplina d'uso sulla base di particolari obiettivi di interesse regionale.
Art. 6. (Elementi).
1. Il P.U.T. è costituito da:
a) una relazione illustrativa che espliciti gli obiettivi perseguiti, sia generali che di settore; illustri le scelte operate; definisca il programma degli interventi previsti ai fini di un loro accordo con il Piano regionale di sviluppo;
b) una cartografia che rappresenti l'assetto territoriale previsto in numero di elaborati adeguato e in scala conveniente per assicurare l'efficacia ed il rispetto dei contenuti, di norma nel rapporto 1:100.000;
c) uno studio che illustri la compatibilità delle trasformazioni previste dal piano con il sistema delle risorse ambientali;
d) le norme di indirizzo per la gestione, l'attuazione del piano, nonché le eventuali prescrizioni immediatamente efficaci.
Art. 7.(Concorso delle Province e dei Comuni alla formazione del P.U.T.).
1. La Giunta regionale promuove il concorso dei vari livelli istituzionali per la predisposizione del P.U.T.. In particolare le Province ed i comuni concorrono alla determinazione dei contenuti del P.U.T. e partecipano al procedimento della sua formazione.
2. Per i fini di cui al comma 1 la Giunta regionale approva il documento preliminare di P.U.T., che contiene:
a) una analisi della situazione territoriale sociale ed economica della regione;
b) gli obiettivi da perseguire per il riordino, la salvaguardia e l'utilizzazione del territorio regionale;
c) i lineamenti del piano.
3. La giunta regionale invia il documento preliminare di P.U.T. alle province, ai comuni e alle comunità montane al fine dell'indizione di Conferenze partecipative (2a).
4. La giunta regionale, acquisiti i verbali delle conferenze partecipative, entro i successivi 60 giorni, promuove sul documento preliminare di P.U.T. e sui predetti verbali una Conferenza dei rappresentanti degli enti e delle amministrazioni dello Stato, di altri soggetti di competenza sovraregionale o comunque coinvolti nella realizzazione del piano, nonché delle organizzazioni sindacali ed economiche e delle diverse realtà sociali e culturali (2a).
5. La redazione definitiva del P.U.T. è fatta anche tenuto conto dei verbali delle Conferenze partecipative di cui al comma 3, e delle indicazioni che scaturiscono dalla Conferenza di cui al comma 4 (2a).
Art. 8. (Procedimento per l'approvazione del P.U.T. e sue modificazioni).
1. La giunta regionale trasmette la proposta di P.U.T. alle province, ai comuni e alle comunità montane al fine dell'indizione di Conferenze partecipative. Acquisiti i verbali delle Conferenze partecipative, la giunta regionale, anche sulla base degli stessi, adotta la proposta di P.U.T. e la pubblica per estratto nel Bollettino Ufficiale della Regione con l'indicazione delle sedi in cui chiunque può prendere visione degli elaborati. Nei 60 giorni successivi alla pubblicazione, tutti i soggetti pubblici e privati possono inviare motivate osservazioni alla giunta regionale (3).
2. Decorso il termine di cui al comma 1, la Giunta regionale, esaminate le osservazioni pervenute ed assunte le conseguenti determinazioni, trasmette gli atti al Consiglio regionale per l'approvazione, allegando i verbali delle conferenze partecipative (3a).
3. Il P.U.T. ha di norma durata decennale e rimane comunque in vigore fino alla approvazione del nuovo P.U.T..
4. La procedura prevista per le modificazioni del P.U.T. è quella prevista per la sua prima applicazione.
5. Le modifiche al P.U.T., conseguenti ad adeguamenti alla normativa statale e comunitaria sopravvenuta, nonché alle previsioni dei piani di settore regionali, di cui all'art. 11, sono apportate con le stesse procedure previste per la sua approvazione, ma con i termini ridotti della metà.
Art. 9. (Salvaguardia).
1. A decorrere dalla data di pubblicazione di cui al comma 1 dell'art. 8 e fino alla entrata in vigore del P.U.T. il sindaco è tenuto a sospendere con provvedimento motivato da comunicare al richiedente, ogni determinazione sulle domande di concessione edilizia in contrasto con le eventuali prescrizioni immediatamente efficaci nella proposta di piano adottato dalla Giunta regionale.
2. In ogni caso la sospensione di cui al comma 1 non può essere protratta oltre il termine di tre anni dalla data di pubblicazione.
Art. 10. (Efficacia).
I contenuti del P.U.T. sono vincolanti per la pianificazione provinciale e comunale e, nei casi stabiliti dalle norme tecniche di attuazione, per qualsiasi soggetto pubblico e privato.
Art. 11. (Attuazione del P.U.T.).(4)
1. L'attuazione degli obiettivi fissati dal P.U.T. anche ai fini di quanto stabilito dall'articolo 3, avviene per mezzo di piani-programma di area nei quali sono indicate le risorse necessarie per la loro realizzazione. La pronuncia di compatibilità ambientale, strategica, da parte della Giunta regionale, a seguito della relativa valutazione, costituisce, ove necessario, anche approvazione di variante dei piani provinciali e comunali.
2. Il piano-programma di area ha valore di piano particolareggiato ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150 ed è formato ed adottato dalla Giunta regionale, anche su proposta delle Province e dei Comuni.
3. Il piano-programma è depositato per trenta giorni consecutivi presso la Regione e presso i Comuni interessati, previo avviso da pubblicarsi nel Bollettino Ufficiale della Regione, nella stampa locale e su manifesti. Chiunque può prenderne visione e presentare alla Regione osservazioni ed opposizioni nel suddetto periodo di deposito.
4. Le osservazioni ed opposizioni restano depositate presso gli Uffici della Regione e presso i Comuni interessati per la durata di giorni quindici dalla scadenza del termine di cui al comma 3 e chiunque può prenderne visione e presentare nello stesso termine controdeduzioni.
5. Il piano-programma di area può essere trasmesso entro dieci giorni dalla scadenza di cui al comma 4 al Comitato consultivo regionale per il territorio, di cui alla legge regionale 26 luglio 1994, n. 20.
6. Il piano-programma di area è approvato con decreto del Presidente della Giunta regionale su conforme deliberazione della Giunta regionale. Con la stessa deliberazione la Giunta regionale decide sulle osservazioni, opposizioni e controdeduzioni presentate, apportando le eventuali modifiche.
Capo III
LA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE PROVINCIALE
Art. 12.(Piano territoriale di coordinamento).(4)
1. Il Piano territoriale di coordinamento provinciale (P.T.C.P.) è lo strumento della pianificazione territoriale ed ambientale della Provincia e costituisce il quadro di riferimento per la programmazione economica provinciale e per la pianificazione di settore.
2. Il P.T.C.P. ha valore di piano paesaggistico ai sensi della legge 8 agosto 1985, n. 431 negli ambiti a tal fine individuati.
3. Il P.T.C.P. costituisce strumento di indirizzo e di coordinamento per la pianificazione urbanistica comunale e disciplina l'assetto del territorio limitatamente alla tutela degli interessi sovracomunali. Esso costituisce altresì il riferimento per la verifica di compatibilità ambientale della pianificazione comunale»
Art. 13. (Contenuti).
1. Il P.T.C.P., in coerenza con i contenuti del P.U.T. (5):
a) indica le linee fondamentali dell'assetto del territorio provinciale, individuando le trasformazioni territoriali necessarie per lo sviluppo socioeconomico provinciale, definendone la compatibilità con le esigenze di tutela e valorizzazione delle risorse locali e costituisce, nel proprio ambito territoriale, specificazione ed attuazione delle previsioni contenute nel P.U.T.;
b) stabilisce concreti riferimenti, anche territoriali, per coordinare le scelte e gli indirizzi degli atti di programmazione e pianificazione degli enti locali;
c) Valuta gli effetti ambientali e socioeconomici che le previsioni di piano possono complessivamente determinare.
2. In particolare il P.T.C.P.:
a) sulla base delle caratteristiche geologiche, idrogeologiche e sismiche del territorio stabilisce le linee di intervento nelle aree oggetto di difesa del suolo e delle acque e per le attività estrattive (6); individua altresì le aree che richiedono ulteriori studi ed indagini a carattere particolare, ai fini della pianificazione comunale; provvede alla tutela ecologica del territorio anche mediante la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche ed alla prevenzione dall'inquinamento dell'aria, dell'acqua e del suolo;
b) individua gli ambiti del territorio agricolo e boschivo che presentano caratteristiche omogenee e detta criteri per le relative discipline d'uso; detta altresì criteri per la localizzazione degli allevamenti agro-zootecnici con particolare riferimento a quelli che comportano particolare impatto ambientale;
c) specifica in termini territoriali i contenuti del piano di bacino per la mobilità, di cui alla legge regionale 17 agosto 1979, n. 44;
d) fissa la localizzazione di massima delle strutture per i servizi di interesse provinciale ed in particolare per quelli socio-sanitari e per l'istruzione secondaria;
e) individua le parti del territorio ed i beni di rilevante interesse paesaggistico, ambientale, naturalistico e storico-culturale, comprese le categorie di cui all'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, da sottoporre a specifica normativa d'uso per la loro tutela e valorizzazione; indica le aree da destinare a parco o a riserva naturale con particolare riferimento a quelle individuate dal Sistema parchi ambiente regionale;
f) definisce le vocazioni prevalenti per ambiti del territorio provinciale con particolare riferimento a quelli nei quali sono necessari interventi di tutela, conservazione e ripristino ambientale, indicando le relative destinazioni di massima, i criteri e gli indirizzi, al fine di favorire l'uso integrato delle risorse territoriali;
g) dimensiona le aree per gli insediamenti produttivi e detta criteri per la loro riorganizzazione, qualificazione e localizzazione, tenuto conto delle economie localizzative, nonché della tutela dell'ambiente e della salute;
h) detta criteri per la localizzazione degli insediamenti produttivi di cui al D.P.R. 17 maggio 1988, n. 175 e della legge 21 gennaio 1994, n. 61, ai fini della tutela dell'ambiente e della salute;
i) articola territorialmente i criteri e gli indirizzi per la pianificazione urbanistica comunale definiti a livello regionale dal P.U.T. (7);
l) (8)
Art. 14. (Elementi).
1. Il P.T.C.P. è costituito da:
a) una relazione che, in conformità ai contenuti di cui all'art. 13, indichi in particolare:
1) gli obiettivi, i criteri e le priorità per l'attuazione degli interventi previsti dal piano;
2) la rispondenza e la congruità del P.T.C.P. con il P.U.T.;
b) una cartografia in scala non inferiore a 1:25.000, che rappresenti lo stato di fatto relativo a:
1) le caratteristiche geologiche dell'intero territorio, con specificazione delle parti di esso soggette a dissesto idrogeologico;
2) lo stato attuale dell'uso del suolo;
3) i caratteri fisici, morfologici, ambientali e culturali del territorio;
c) una cartografia in scala non inferiore a 1:25.000 dell'intero territorio provinciale, che descriva le linee di assetto territoriale previste dal piano con riferimento ai contenuti di cui all'art. 13;
d) una cartografia in scala non inferiore a 1:10.000 relativa alle aree soggette a particolare tutela ai fini della difesa del suolo, delle risorse ambientali e dei valori storici e paesaggistici di cui ai punti a), e), f), comma 2, dell'art. 13;
e) le norme di attuazione del piano, contenenti i criteri, gli indirizzi, le direttive per la predisposizione e per l'adeguamento dei piani di livello comunale, nonché la specificazione delle disposizioni immediatamente prevalenti in materia paesistica e ambientale sulla disciplina di livello comunale vigente e vincolanti anche nei confronti degli interventi settoriali e dei privati;
f) uno studio di compatibilità ambientale a scala territoriale;
g) l'individuazione degli interventi che per la loro rilevanza debbano essere sottoposti a valutazione di impatto ambientale;
h) gli allegati, tecnici e statistici, comprendenti le analisi e le rappresentazioni cartografiche soprattutto dei caratteri fisici, storici ed ambientali del territorio, dell'uso del suolo in generale e di quanto altro è necessario per definire lo stato di fatto.
Art. 15. (Concorso dei Comuni e delle Comunità montane alla formazione del P.T.C.P.).
1. La Provincia predispone il documento preliminare di P.T.C.P., tenendo conto degli strumenti di pianificazione comunale e degli atti comunali in materia di programmazione economica, territoriale e ambientale, nonché dei contenuti urbanistici dei piani pluriennali di sviluppo delle Comunità montane e nel rispetto del P.U.T.
2. Il documento preliminare di piano contiene:
a) una analisi della situazione territoriale e ambientale della provincia;
b) gli obiettivi da perseguire per la salvaguardia e l'utilizzazione del territorio provinciale e per specifici ambiti territoriali;
c) i lineamenti del piano.
3. La Provincia dà notizia alla Regione, ai Comuni e alle Comunità montane competenti per territorio dell'avvio del procedimento di formazione del P.T.C.P., fissando i modi attraverso i quali i Comuni e le Comunità montane partecipano i loro programmi e formulano proposte, convocando apposite conferenze partecipative (9).
4. La Provincia, anche sulla base delle proposte dei Comuni e delle Comunità montane, approva il documento preliminare di piano ed entro i successivi 10 giorni lo invia ai Comuni ed alle Comunità montane.
5. Entro 60 giorni successivi al ricevimento del documento preliminare i Comuni e le Comunità montane deliberano le eventuali osservazioni e le inviano alla Provincia.
Art. 15 bis.(Conferenza partecipativa).(10)
1. La Provincia al fine di adottare il P.T.C.P. convoca una Conferenza partecipativa sulle linee fondamentali del Piano, alla quale sono invitati:
a) le Amministrazioni dello Stato interessate al territorio provinciale;
b) la Regione, i Comuni e la Provincia confinante;
c) i soggetti titolari di pubblici servizi;
d) i soggetti portatori di interessi collettivi.
2. La Provincia dà adeguata pubblicità alla convocazione ed all'oggetto della Conferenza almeno quindici giorni prima della data fissata, stabilendo i tempi e modalità per la consultazione degli atti relativi.
3. La Conferenza si conclude entro e non oltre quindici giorni dalla sua convocazione ed entro e non oltre lo stesso termine i soggetti invitati possono presentare proposte scritte e memorie che la Provincia è tenuta a valutare in sede di adozione del P.T.C.P., ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento. Le proposte tardive non sono prese in considerazione.
4. La Provincia, con proprio atto, stabilisce ulteriori modalità e procedure di convocazione della Conferenza stessa.
Art. 16.(Adozione ed approvazione).
1. La Provincia, entro il termine perentorio di sei mesi dalla approvazione del P. U. T., adotta il P.T.C.P. e lo invia ai Comuni ed alle Comunità montane competenti per territorio (11).
2. Il piano è depositato presso la Segreteria della Giunta provinciale e presso i Comuni della provincia per 30 giorni consecutivi, decorrenti dalla data di affissione all'Albo provinciale. L'avvenuto deposito è reso noto mediante pubblicazione di apposito avviso nel F.A.L., nel B.U.R. e in almeno due quotidiani di interesse locale, oltre che a mezzo di manifesti murali.
3. Durante il periodo di deposito chiunque può prendere visione ed inviare osservazioni alla Provincia nei successivi 30 giorni.
4. Le osservazioni al piano sono depositate presso la segreteria della Provincia.
5. Entro 10 giorni successivi alla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, chiunque ne abbia interesse può prenderne visione ed estrarne copia e presentare una breve replica.
6. Con deliberazione del Consiglio provinciale vengono accolte o respinte le eventuali osservazioni.
7. La Provincia trasmette il piano e le relative osservazioni alla Regione. Il Presidente della Giunta regionale, entro i successivi novanta giorni previa istruttoria tecnica dei propri uffici e sentito il C.R.T di cui alla legge regionale 26 luglio 1994, n. 20, convoca una Conferenza istituzionale alla quale partecipano le Province. I tempi per l'espressione del parere del C.C.R.T. non concorrono alla formazione del termine suddetto di novanta giorni.
8. Il Presidente della Giunta regionale ed i Presidenti delle Province sono coadiuvati nei lavori della Conferenza istituzionale di cui al comma 7, dai propri uffici.
9. La Conferenza istituzionale verifica e valuta esplicitamente la conformità delle previsioni del P.T.C.P. con le scelte e previsioni del P.U.T.
10. Dei lavori della Conferenza istituzionale è redatto apposito verbale, a cura del competente ufficio regionale e trasmesso agli enti partecipanti, previa deliberazione della Giunta regionale. La deliberazione della Giunta regionale, adottata sulla base degli esiti della Conferenza istituzionale, detta anche le eventuali prescrizioni finalizzate ad assicurare quanto previsto al comma 9.
11. I lavori della Conferenza istituzionale si concludono entro quindici giorni dalla convocazione.
12. Entro quarantacinque giorni dal ricevimento della deliberazione della Giunta regionale, con allegato il verbale di cui al comma 10, la Provincia interessata approva il P.T.C.P. in conformità ad essa.
13. La formazione del P.T.C.P. è obbligatoria (12).
Art. 17.(Durata e varianti).
1. Il P.T.C.P. ha di norma durata decennale e rimane comunque in vigore fino alla approvazione del nuovo P.U.T. e del conseguente nuovo P.T.C.P.
2. La Provincia entro e non oltre 6 mesi dall'insediamento del Consiglio provinciale sottopone a verifica il P.T.C.P. sulla base del suo stato di attuazione ed alla eventuale revisione programmatica.
3. Possono essere apportate al piano varianti dirette a recepire le normative comunitarie statali e regionali di settore nel frattempo intervenute, ovvero richieste da ragioni di pubblico generale interesse.
4. Le varianti di mero adeguamento alle nuove previsioni contenute nel P.U.T. sono approvate dalla Provincia con le forme ed i termini di cui all'articolo 16 e sono trasmesse alla Giunta regionale. Esse si intendono definitivamente approvate se non interviene un provvedimento di annullamento motivato entro sessanta giorni dal loro invio (13).
5. (14).
Art. 18.(Efficacia ed adeguamento).
1. Il P.T.C.P. ha efficacia per l'intero territorio provinciale.
2. I Comuni adeguano i propri strumenti urbanistici al P.T.C.P. entro e non oltre 6 mesi dall'approvazione dello strumento provinciale (15).
3. Dalla data di pubblicazione del piano e finché i Comuni non abbiano provveduto all'adeguamento di cui al comma 2, il sindaco non può rilasciare concessioni o autorizzazioni edilizie che siano in contrasto con le prescrizioni immediatamente efficaci nel P.T.C.P.
Art. 19. (Attuazione del P.T.C.P.).(16)
1. Gli obiettivi individuati dal P.T.C.P. sono raggiunti di norma per mezzo di piani di settore i quali costituiscono attuazione del P.T.C.P. ed hanno valore di piano particolareggiato ai sensi della legge 17 agosto 1942, n. 1150.
2. I piani di cui al comma 1 sono adottati ed approvati dalla Provincia nelle forme e con le procedure previste per il Piano attuativo del P.R.G. comunale.
CAPO IV
STRUMENTI ATTUATIVI DELLA PIANIFICAZIONE TERRITORIALE E URBANISTICA
Artt. 20. - 24.(17)
Art. 25.(Organizzazione).
1. Per la definizione dell'organizzazione e delle dotazioni del S.I.T.O., nonché delle principali procedure regionali ad essi connesse, la Giunta regionale predispone entro tre mesi dalla pubblicazione della presente legge, un progetto di organizzazione comprensivo delle modifiche della pianta organica regionale ritenute necessarie e del regolamento interno del S.I.T.O. stesso, disponendo in ordine alla dotazione finanziaria.
TITOLO II
NORME TRANSITORIE E FINALI
Art. 26.(Efficacia dei Piani urbanistici comprensoriali).
[Articolo abrogato dall'art. 1 della L.R. 12 luglio 1996, n. 16.]
Art. 27.(P.R.G. - Rinvio).
1. Entro 6 mesi dall'entrata in vigore della presente legge la Giunta regionale predispone il disegno di legge per la disciplina della pianificazione comunale e per le attribuzioni alle Province delle competenze relative alla approvazione dei P.R.G.
Art. 28.(Abrogazioni di norme).
1. Sono abrogate le leggi regionali:
a) 3 giugno 1975, n. 40, ad eccezione degli artt. 33, 39 e 42;
b) 17 gennaio 1977, n. 6;
c) 28 marzo 1978, n. 12;
d) 2 maggio 1980, n. 37;
e) 14 gennaio 1985, n. 1.
2. Sono abrogati:
a) gli artt. 13 e 14 della legge regionale 4 marzo 1980, n. 14;
b) gli artt. 1, 2, 4, 5, 6, 10, il terzo comma dell'art. 7, nonché il primo e il secondo comma dell'art. 12 della legge regionale 8 giugno 1984, n. 29;
c) gli artt. 12, 19 e 28 delle N.T.A. della legge regionale 27 dicembre 1983, n. 52;
d) gli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 22 della legge regionale 18 agosto 1989, n. 26;
e) l'art. 8 della legge regionale 17 aprile 1991, n. 6.
[omissis]
DAL NOSTRO INVIATO CAGLIARI — Non più cemento sulle coste, Renato Soru è stato di parola: da ieri la Sardegna ha una legge che proibisce di costruire sui litorali e il limite è persino più dei due chilometri che due anni fa, fra polemiche e minacce di rivolte nei comuni a più alto sviluppo turistico, il governatore aveva imposto provvisoriamente. Ora quel limite è flessibile: va da un minimo di 300 metri, ma in pochissimi siti, a un massimo che in località di particolare pregio ambientale supera i 5 chilometri. Soru riassume: «Tutto ciò che è scampato all'assalto in corso da decenni rimarrà intatto. Le bellezze naturali sono un patrimonio che può essere messo a frutto solo se non viene stravolto. Ci eravamo impegnati a voltare pagina, lo abbiamo fatto».
A un prezzo carissimo, protestano l'opposizione di centrodestra che ha occupato l'aula del consiglio regionale con bavagli, transenne e cartelli di divieto di transito («Sarà la paralisi dell'edilizia, migliaia di disoccupati») e gli imprenditori più danneggiati. Fra i quali la famiglia Berlusconi, che dovrà rinunciare definitivamente a realizzare Costa Turchese, mega villaggio a sud di Olbia, ville e alberghi su 500 ettari e porto turistico per 2 mila imbarcazioni. A Costa Turchese e nella fascia intorno a Capo Ceraso, di fronte all'isola di Tavolara, non si potrà erigere un solo metro cubo: la salvaguardia è totale, anche per la vicinanza di una riserva marina protetta che va dal golfo di Olbia fino a San Teodoro.
La legge è tassativa: si potrà costruire esclusivamente nelle città, ma solo se dotate di un piano urbanistico, e compiere interventi di riqualificazione in insediamenti turistici esistenti, ma con l'assenso di Regione, Provincia e Comune. Un esempio: a Porto Cervo il finanziere californiano Tom Barrack potrà compiere ristrutturazioni (è previsto l'abbattimento del cantiere nautico: al suo posto hotel a 5 stelle e centri commerciali) ma la Costa Smeralda nel complesso rimarrà com'è; nei 2500 ettari fra Cala di Volpe e Portisco non si potrà tirar su neanche un muro. Stop a Sergio Zuncheddu, importante imprenditore immobiliare ed editore del quotidiano Unione Sarda, e agli insediamenti a Cala Giunco (costa sud). Niente cemento nell'incantevole golfo di Orosei (Cala Luna, Sisine, Mariolu, Goloritzè), nella baia di Porto Conte vicino ad Alghero. Nel Sulcis Iglesiente invece le miniere dimesse saranno trasformate in siti di interesse turistico con il recupero degli edifici esistenti, ma nelle decine di migliaia di ettari fronte mare non si potrà erigere nulla. Così pure all'Asinara: nell'ex isola- prigione, ora parco nazionale, via libera ad imprenditori internazionali che però dovranno trasformare gli edifici carcerari in residenze per turisti.
Alt anche alle ville «camuffate» da fattorie: nei terreni agricoli si potranno costruire solo alloggi per chi conduce l'azienda ed è prevista un'estensione minima di 3 ettari. «E' la fine del Far West», tira dritto Soru. «Ora ci sono regole certe, forse addirittura abbiamo fatto meno di ciò che la gente chiedeva. Abbiamo visto paesini sulle coste diventare città, senza lo straccio di un progetto né un piano regolatore. Si procedeva colpi di piano di risanamento urbano, ben 18 in un solo comune. Adesso non accadrà più».
Per il partito del cemento è una disfatta. La giunta regionale sarda ha approvato ieri il cosiddetto piano paesaggistico. Costruire sulle coste devastando paesaggio e ambiente non sarà più possibile. Le nuove regole impongono una tutela rigorosa. Vietato costruire entro una fascia che si estende mediamente (un po' meno in alcune zone, un po' più in altre) per due km dal mare. Tutti i comuni dovranno dotarsi di un piano urbanistico, che dovrà essere sottoposto a una verifica di coerenza con il piano affidata alla Regione. Nelle zone di insediamento turistico saranno consentite esclusivamente opere di riqualificazione urbanistica, ad esempio la trasformazione di villaggi turistici in alberghi oppure la ristrutturazione di strutture abbandonate o in rovina. E il piano tutela anche le campagne, dove si potrà costruire solo in terreni estesi per almeno tre ettari e solo se si dimostra che chi edifica esercita su quel pezzo di terra un'attività di imprenditore agricolo. E' insomma un'inversione di tendenza netta rispetto al passato. L'obiettivo del piano, firmato da Edoardo Salzano, urbanista da sempre impegnato sul fronte ambientale, è quello di dare uno stop a un modello basato sulle seconde case e sui villaggi turistici. Ora dove non c'è niente non si potrà più costruire, e dove già è stato costruito si potrà soltanto riqualificare, eliminare gli scempi. La filosofia di fondo del piano è conservare le zone ancora intatte, indirizzando lo sviluppo turistico verso i centri urbani, con progetti di riconversione urbanistica degli insediamenti già esistenti. Per il presidente della giunta sarda, Renato Soru, non è stato semplice ottenere il consenso della sua maggioranza all'approvazione del piano paesaggistico. Le resistenze maggiori sono arrivate da una parte dei Ds, quella più legata a settori imprenditoriali che dal vecchio modello di sviluppo turistico hanno ricavato per anni utili sostanziosi. Alla fine di un lungo braccio di ferro Soru è riuscito a far passare la sua linea. La battaglia, però, non è ancora terminata. Raggiunto l'accordo di maggioranza che ha consentito all'esecutivo presieduto da Soru di approvare il piano, ora si apre la fase di definizione dei piani urbanistici comunali. Molti sindaci di centrodestra hanno già annunciato che faranno ostruzionismo. Tra le reazioni, quella di Roberto Della Seta, presidente di Legambiente: «Quello sardo è uno dei piani paesaggistici più avanzati e innovativi, in grado di proporre tutela e valorizzazione». A sostegno del piano anche Antonello Licheri, capogruppo Prc in consiglio regionale: «E' una bellissima notizia per la Sardegna e un pessimo affare per palazzinari senza scrupoli». E quanto pesante sia la sconfitta per i palazzinari lo dimostra la reazione rabbiosa del centrodestra. Ieri mattina alcuni consiglieri regionali hanno bloccato l'ingresso all'aula, transennando le porte con nastri di plastica con su scritto: «Vergogna!».
Il Piano paesaggistico regionale non è “firmato da Edoardo Salzano”. Il piano è il piano dell’amministrazione regionale, è stato redatto dall’Ufficio regionale diretto dall’ing. Paola Cannas, alla sua redazione hanno concorso alcune decine di tecnici e amministrativi, nonché (con i suoi consigli e documenti, e l’impegno personale di alcuni suoi membri) il Comitato scientifico. Salzano è stato il coordinatore del Comitato, ed è orgoglioso di aver partecipato a questo titolo alla formazione del più positivo documento di pianificazione redatto in questi anni, così difficili per quanti credono che il territorio sia un bene comune e che, per governarlo nell’interesse delle generazioni attuali e di quelle future, sia necessario amministrarlo con parsimonia e avvedutezza.
Alla fine i falchi di Forza Italia hanno dovuto cedere e il consiglio regionale della Sardegna ha approvato l'articolo del decreto salva coste, il numero 3, che impedisce di costruire entro una fascia di due chilometri dal mare. Per bloccare la decisione della giunta presieduta da Renato Soru l'opposizione aveva presentato 3.800 emendamenti. Guidata da Mauro Pili, ex presidente della Regione, alter ego in Sardegna del presidente del Consiglio, il centrodestra puntava a bloccare i lavori del consiglio e a impedire l'approvazione della legge finanziaria regionale entro la fine dell'anno. Ma le cose sono andate storte. Pili, alla fine, è rimasto isolato all'interno della stessa minoranza. Il braccio di ferro è finito a favore del centrosinistra. Alleanza nazionale si è sfilata, lasciando Pili solo a sostenere la linea dello scontro istituzionale. Al partito di Fini si è accodato quasi tutto il resto dell'opposizione, che ha deciso di rinunciare all'ostruzionismo e di discutere la legge in consiglio a termini di regolamento. In sostanza, il centrodestra ha riconosciuto alla maggioranza il diritto di legiferare, senza per questo rinunciare a modificare il decreto in aula. Dopo l'intesa tra centrosinistra e centrodestra Pili ha reagito con dichiarazioni molto polemiche, accusando i partner della coalizione di centrodestra di fare «un'opposizione morbida e in pantofole». Puntuale la replica del capogruppo di Alleanza nazionale in consiglio, Mario Diana: «Ma quali pantofole. Alleanza nazionale farà un'opposizione dura, ma nei limiti della democrazia. L'accordo sul disegno di legge esiste, ma riguarda solo i tempi e non i contenuti». E poi, una puntualizzazione che è anche una «frecciata» al leader di Forza Italia: «Non siamo noi ad aver perso le ultime elezioni, ma Pili». Nel confronto con Soru, Pili ha perso con un distacco nettissimo a favore del leader del centrosinistra (un centrosinistra allargato, in Sardegna, ai movimenti e a Rifondazione Comunista). Il contrasto tra Pili e An riflette a livello locale le tensioni che a Roma agitano la Casa delle libertà. Dopo l'accordo con l'opposizione, la discussione del disegno di legge sulle coste è ripresa a ritmi normali. L'articolo cardine, il 3, è già passato. Ed è un vero e proprio mutamento di paradigma. Il divieto di costruire entro la fascia di due chilometri ferma tutti i progetti speculativi e tutti i piani immobiliari che molti comuni avevano fatto passare, nei cinque anni di governo del centrodestra, con il sostanziale appoggio della giunta regionale. Il saccheggio indiscriminato viene bloccato. Il disegno di legge fissa i criteri generali di una programmazione che mette al centro la tutela dell'ambiente.
Gli interessi che vengono colpiti sono enormi. Tra i progetti bloccati quello di Costa Turchese, a sud di Olbia, dove una società di Marina Berlusconi, figlia del presidente del Consiglio, vorrebbe realizzare un maga villaggio turistico. Ma viene bloccato anche il progetto di raddoppio della Costa Smeralda messo in cantiere da Tom Barrack, il miliardario texano che ha acquistato il paradiso sardo delle vacanze per vip da Karim Aga Khan. Così come vengono fermate colate di cemento già pronte a deturpare le coste di Bosa, di Alghero, del Sulcis e dell'Ogliastra. Interventi che, considerati tutti insieme, prefigurano una sorta di città lineare, fatta di seconde case, di villaggi turistici e di alberghi, che si estenderebbe su tutto il perimetro delle coste sarde. Interessi imprenditoriali, quelli toccati dal decreto, che si appoggiano soprattutto a Forza Italia. Anche per questo An ha deciso di mollare Pili e di lasciarlo solo a sostenere la linea dell'ostruzionismo a oltranza. Ora il fronte della protesta dura si è spostato dal consiglio regionale ai Comuni ed è guidato da sindaci di centrodestra. In prima fila il sindaco di Olbia, Settimio Nizzi, e quello di Arzachena, Pasquale Ragnedda. Il più intransigente è Nizzi, che sui progetti di cementificazione delle coste ha puntato tutta la sua campagna elettorale, sostenuta in prima persona dal Cavaliere.
Nei primi anni ‘90 la Regione decise di vincolare una fascia di 300 mt. dal mare raddoppiando la misura in vigore. Poi i piani paesistici, che accoglievano la norma, sono stati annullati (un primo gruppo già nel ‘98) e da allora la politica, eludendo i tentativi di riaprire il dibattito, ha scelto la strada dell’attesa; conveniente specie per chi non ha mai nascosto l’idea di fare saltare tutto il quadro delle regole.
Il vincolo temporaneo per una fascia di 2 km. dal mare posto dalla giunta regionale è un provvedimento annunciato. In campagna elettorale Soru ha continuamente affermato l’intenzione di ampliare il regime di tutela, giudicato insufficiente. Per salvare il salvabile è un’ accortezza indispensabile.
Ma è la contrarietà degli avversari di questa linea (e la equidistanza di altri) che ne spiegano la giustezza. Una cuccagna l’assenza di regole
che darebbe il tempo di assestare gli ultimi colpi: tante case in libertà, almeno quante se ne faranno comunque, per via di molte concessioni già rilasciate.
Ma le ragioni contro il decreto si ammantano di significati alti: «contrario ai metodi raffinati della pianificazione», «in dispregio all’autonomia dei
comuni», «contro lo sviluppo turistico» ecc. Ed è curioso che chi invoca la certezza del diritto oggi, non lo abbia fatto quando vi erano territori
con e territori senza piano paesistico.
Ma nessuno nega che la sottrazione, per legge regionale ed extra-piano, di parti dei litorali alla trasformazione (la deprecata fascia di rispetto
dei 300 mt.) abbia scongiurato un danno di considerevoli proporzioni.
Non è vero d’altra parte che il ricorso a queste misure sia operazione astratta. Per alcuni beni, a rischio di danni irreversibili, i vincoli si sono ampliati per corrispondere a crescenti riconoscimenti di valori.
Grandi parti delle città italiane sono sostanzialmente immodificabili, aldilà di dettagliate analisi urbanistiche (non solo i profili delle più note piazze e strade delle città storiche ma gli assetti di una miriade di paesaggi urbani minori sono vincolati). Appunto nelle città d’arte - care ai turisti più delle spiagge sarde - un metro cubo in più varrebbe una fortuna e tanti metri cubi sarebbero una disgrazia. La tesi secondo cui i vincoli aumentano la rendita delle preesistenze lascia il tempo che trova.
Verso i paesaggi naturali il processo di affezione avviene con più lentezza. Le misure di rispetto non sono che il riconoscimento a siti dove le sensazioni
di chi si guarda attorno sono più forti, che aumentano quanto più ci si avvicina alla riva del mare, come al nucleo di un bosco, alla cima di un
monte, a un nuraghe. Difficili da definire esattamente e variabili («tu chiamale se vuoi emozioni», semplificava Lucio Battisti).
E il grado elevato di intensità emotiva di questi ambiti, che si può alterare con poco, è confermato guarda caso dal valore di mercato - qui la rendita
immobiliare è molto alta - che si spiega con le ricorrenti richieste di possesso esclusivo.
È così irragionevole ipotizzare di allontanare l’edificazione in modo da lasciare intatti quei luoghi - e quelle emozioni - a vantaggio di molti? Chi può affermare che i turisti, per esempio quelli che hanno cominciato a disertare la Sardegna, non apprezzino questo riguardo verso il carattere
dei luoghi, anche oltre i 300 metri dal mare?
È cresciuta l’esigenza di tutela dei litorali sardi, oltre quella linea credo. La soglia di sopportazione verso le alterazioni dei siti più delicati è stata ampiamente superata, e i sardi - non solo quelli residenti nei comuni marini - e i forestieri guardano con indignazione ai danni, questi si pregiudizievoli
per il turismo. Fermarsi un anno a fronte di scelte che si trasferiranno nel tempo lunghissimo è opportuno: si scoprirà che non servono altre residenze sparse ma al più qualche buona (e vera) attrezzatura ricettiva meglio se localizzata all’interno dei preesistenti insediamenti.
Potrà riflettere quel sindaco che ha fretta di avere villaggi sulla costa con un centro storico mezzo vuoto, e convenire che una estensione del regime
di tutela, cioè piani paesistici più rigorosi di quelli annullati, potrà avvantaggiare il suo comune.
La Regione ha il compito di continuare nella strada intrapresa perchè tra l’altro ha molto più consenso di quanto si vuole fare apparire. Se ne dovrebbero
convincere gli alleati di Soru, quelli titubanti e che si collocano in quelle zone grigie, né di qua né di là, in attesa di vedere come andranno le cose.
“Abbiamo fatto parlare tutti quelli che si sono iscritti a parlare e alla fine della giornata ce ne andremo da qui avendo più ascoltato che parlato. Ci sono stati più di 25 interventi e io ringrazio tutti singolarmente, da ciascuno di questi interventi c’è qualcosa di prezioso da cogliere, importante, anche quando magari il gioco delle parti ha avuto un ruolo troppo importante e anche quando la polemica forse poteva essere stemperata.
I temi sul tappeto sono moltissimi, contagiati da tante cose, le considero tutte, cercherò di far tesoro di tutte, partendo da quella che sottolinea che forse non abbiamo rispettato troppo il cerimoniale con il presidente della Provincia, il sindaco del Comune, però francamente mi sembrano questioni ridicole. Abbiamo fatto in fretta questo incontro di lavoro perché dobbiamo lavorare in fretta per i motivi che voi ci avete sottolineato, senza troppi cerimoniali, incontrandoci da pari come voi avete detto perché c’è da fare. Rappresentiamo istituzioni diverse con responsabilità diverse che tutte assieme collaborano, secondo il principio di equanimità al Governo di questa Regione. Non abbiamo pensato di fare troppe cerimonie, abbiamo fatto le cose in fretta spendendo poco denaro pubblico ma cercando di essere più efficienti possibile.
Ringrazio comunque il sindaco del comune di Alghero per averci ospitato, non l’abbiamo voluta disturbare perché non cercavamo nulla di particolare, cercavamo una sala dove incontrarci e parlare un po’. Però le devo riferire i complimenti che sono già stati fatti per la sua città, perché sono venuto ieri sera e ho passato una bella serata passeggiando per i Bastioni, e mi devo complimentare per la piacevolezza di passare una serata in questa città. Capisco il successo di questa città, per la piacevolezza di far turismo qui e basta una serata ad Alghero per capire che differenza c’è tra visitare una lottizzazione costiera o un villaggio inventato o uno nuovo, o una specie di presepio di cartapesta, un paese vissuto dalla gente, un posto vero che attiri la gente, che l’attiri tutto l’anno e che non si monti e smonti come un presepio che dura solo 20 giorni di architetture di venti anni, un progetto che ci costa sempre un sacco di soldi e che ogni anno dobbiamo ricomprare. Questa è la differenza tra diversi tipi di turismo: fra un luogo di cartapesta e un luogo vero. Suggerisco a tutti una serata ad Alghero, a tutti quelli che hanno responsabilità per programmare il turismo nel loro territorio.
Ho detto che faccio tesoro di tutti gli interventi. Anche se volessi riassumere un pochino gli interventi ne viene fuori che ho sentito poche autocritiche oggi. Parliamoci francamente, ho sentito veramente poche autocritiche da parte degli amici, eppure tutti saranno immagino amministratori pro tempore come lo sono io e quindi non hanno magari responsabilità del passato. Sembrerebbe che tutto va bene, tutto va benissimo. L’ambiente della Sardegna è stato sempre salvaguardato dalle amministrazioni locali, quello che abbiamo realizzato è tutto bellissimo, come dicono, e ciò che stiamo facendo è tutto buonissimo. Il turismo anche quest’anno sta esplodendo e ci sta portando una montagna di lavoro, gli operatori turistici sono tutti contenti, va tutto bene, per cortesia lasciateci lavorare, non disturbateci.
Questo è un pochino il riassunto brutale degli interventi, però non credo sia così perché, se chiediamo a tanta gente che va in giro per la Sardegna, che va in giro per le coste della Sardegna, non tutto quello che è stato costruito è buono, anzi molto di quello che è stato costruito non è buono affatto, anzi ci induce anche a vergognarci un pochino per quello che è stato fatto. E non è neanche vero che il turismo sta andando bene in Sardegna, a parte rarissime situazioni, il turismo sta andando piuttosto male quest’anno, in Sardegna come in altri luoghi d’Italia, colpito dalla nuova competizione, da mercati nuovi che si offrono al mercato del turismo europeo e mondiale con professionalità nuove, prezzi più bassi, prezzi molto più bassi e a volte molto spesso servizi migliori. Il turismo non sta andando bene in Sardegna e allora forse vale la pena di continuare a parlare senza pregiudizi.
Un tema importante che è emerso: non siamo più il modello di uno Stato gerarchizzato, dove certamente si decide in piena autonomia facendo poi subire le decisioni centrali alle regioni alle province poi ai comuni. E d’altronde noi, come amministrazione regionale che combatte quello che sta accadendo in questi giorni in Parlamento, a livello centralistico statale, con il programma addirittura di modificare l’autonomia regionale di regioni che hanno carattere atipico, non possiamo pensare a decisioni centralistiche per territori, comuni, province che hanno caratteri di complementarietà e di pari valore con l’amministrazione regionale. Non ci può essere una Regione senza comuni ma non ci può essere una regione neanche senza amministrazione regionale. Tutti siamo stati votati a scrutinio segreto, come è stato ricordato stamattina, e a ciascuno di noi è stata data una responsabilità diversa, ai sindaci dei comuni costieri, agli altri trecento sindaci che oggi non sono rappresentati in questa sala e che io devo rappresentare e anche alla Regione che sicuramente ha un ruolo importante, diverso da quello dei sindaci.
Abbiamo il ruolo di programmare, abbiamo il ruolo di coordinare, fissare gli indirizzi, di guidare la politica, le diverse politiche della Regione, in questo caso la politica del turismo, le politiche urbanistiche, le politiche dello sviluppo; quindi dobbiamo lavorare assieme e stiamo cercando di imparare a farlo. Comunque esserci incontrati oggi credo sia stato importante per tutti ed è un segno di questa nostra volontà del cambiamento. C’è stato detto che forse lo potevamo fare prima, io continuo a pensare che è stato importante prima farlo e poi discutere e sentire la volontà di questa Giunta regionale, non solo di discutere ma di far le cose. E comunque abbiamo avviato questa discussione che inizia oggi, e andrà avanti e vedrà il vostro contributo attivo da qui ai mesi prossimi e ci porterà alla stesura di un Piano Territoriale Paesistico Regionale.
Programmazione dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, non credo che dobbiamo attenerci a delle formule ma sicuramente siamo tutti chiaramente consapevoli che abbiamo bisogno sia di assistenza tecnica sia di competenze esterne, ma abbiamo anche bisogno di riconoscere le competenze locali, delle amministrazioni locali, di chi conosce il territorio. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro e nessuna parte può fare a meno dell’altra parte; il singolo comune non può fare a meno dell’amministrazione e l’amministrazione regionale non può fare affatto a meno dei singoli comuni. Dobbiamo imparare a lavorare assieme, a rispettarci, e a rispettare la responsabilità diversa che ciascuno di noi ha; è stato detto: “Lei dovrebbe essere il sindaco di tutti i sindaci”, non lo so, non lo so cosa devo essere. Io devo, dovrei, rappresentare tutti i sindaci, devo rappresentare tutti i cittadini sardi, devo sapere di rappresentare gli interessi di tutti i cittadini sardi, di tutti, non solamente dei cittadini dei comuni costieri, ma anche gli interessi dei cittadini di Sanluri, tanto per fare un esempio, che non hanno il mare nel loro comune però hanno conosciuto Torre dei Corsari nel comune di Arbus, hanno conosciuto Marceddì nel comune di Terralba, hanno conosciuto San Giovanni di Silis nel comune di Cabras, e sono portatori d’interesse in quei posti, direi quanto i cittadini di queste sono portatori di interessi altrettanto importanti e altrettanto meritevoli di tutela verso quei luoghi.
E rappresento, vorrei rappresentare, in questa Giunta, gli interessi di tutti i cittadini sardi; non solo, vorrei rappresentare gli interessi di tutti i cittadini sardi, di oggi e quelli che non conosciamo ancora. Sono assolutamente conscio che dobbiamo rappresentare gli interessi di chi non è ancora nato e non nascerà prima di 20, 30 anni. Sono altrettanto importanti quegli interessi, non ci siamo solamente noi, il mondo non finirà e abbiamo il dovere di controllare e di far trovare ai nostri nipoti almeno qualcosa di quello che abbiamo conosciuto noi, e se è possibile dobbiamo fargli conoscere meglio tutto quello che di buono abbiamo conosciuto noi e qualcosa di migliorato e niente di compromesso e di cancellato per sempre: questi sono gli interessi di cui io sono portatore, io e la Giunta.
“C’era urgenza di provvedere?” mi è stato chiesto dal sindaco di Sassari. Accidenti se c’era urgenza, c’era molta urgenza per dei provvedimenti, per dei vincoli caduti, che il passato Consiglio regionale non era riuscito a riproporre, per cui questa nuova amministrazione regionale si è trovata in una situazione di caos normativo sulla fascia costiera che, come è stato ricordato, rappresenta una parte importante dei presupposti di sviluppo turistico e quindi di sviluppo di tutta la Regione sarda. C’era assolutamente l’urgenza di prendere dei provvedimenti. I 2000 metri fanno parte della storia dei precedenti PTP: la programmazione costiera è andata ad esaminare e a studiare la fascia dei 2 chilometri. C’era urgenza e abbiamo prudentemente, e con rispetto anche per quello che hanno fatto gli altri, limitato l’oggetto della nostra attenzione a difendere 2 chilometri di costa che erano stati oggetto dell’attenzione di chi ci ha preceduto. C’era assolutamente urgenza di farlo e l’abbiamo fatto.
Io vorrei cercare di chiarire, scusatemi, però ho ascoltato parecchio e poi corro il rischio di farvi perdere qualche minuto, comunque vi ringrazio di richiamare la vostra attenzione per qualche minuto in più, però è stata preziosa per voi questa mattinata ma è preziosa anche per me per farmi sentire direttamente da voi su questo argomento.
E vorrei provare ad inquadrare questa cosa in un insieme un pochino più generale che appunto è la responsabilità che io ho. E’ chiaro che quando si parla di norme generali poi colpiscono il singolo comune che aveva il suo problema particolare, un altro ne aveva ancora un altro, un altro comune non ha costruito nulla per cui è inutile che venga penalizzato come quello che ha costruito tantissimo, un altro ha nei suoi 200 metri caso unico rarissimo un importante presenza di industria zootecnica, ci sono cento particolari che avremo modo di analizzare e vi chiediamo di aiutarci a comprendere ed eventualmente a correggere. Ma quando c’è fretta è chiaro che nelle pagine si tagliano delle cose che non si vorrebbe tagliare, ma è comunque prezioso, importante, prendere delle note generali.
Comunque, quale è in realtà l’inquadramento generale che la Giunta deve fare, diversamente dai sindaci, che devono pensare all’interesse del loro singolo territorio? Innanzitutto parliamo di sviluppo economico per questa regione, di possibili modelli di sviluppo economico, di possibilità di sviluppo economico.
E’stato ricordato che l’altro giorno c’era il centenario dei fatti di Buggerru, una Sardegna all’epoca certamente più povera di oggi con un reddito pro-capite che era pari al 40% del reddito pro-capite della media nazionale. Oggi il reddito in Sardegna è sicuramente più alto. La Sardegna è più ricca di 100 anni fa, ma il reddito pro capite dei sardi è ancora pari a meno il 65% della media nazionale, dal 40% siamo passati al 65%: questo è il risultato.
Per altre cose la crescita è stata molto più importante, ad esempio per l’istruzione: il 75% delle coppie che si sposavano all’epoca firmavano con una croce i documenti del loro matrimonio; oggi direi che non c’è più nessuno che, delle nostre giovani coppie, firma con una croce. All’epoca, le donne non votavano per nulla, è stato ricordato, c’erano forse circa 15 mila frati che erano iscritti nelle liste elettorali, c’erano trecento studenti all’Università, c’erano 50 ragazzi all’anno laureati, 30 avvocati e 20 medici. La Sardegna ha fatto passi avanti da giganti, però la Sardegna non ha fatto altrettanti passi da gigante nel recupero dello sviluppo economico, dal 40% è passata al 65%. Credo che magari ci saremmo aspettati un risultato migliore e questo ritardo di sviluppo deve essere ancora la priorità del Governo della Regione, insieme alle altre cose. Un ritardo di sviluppo che si sposa con un altro dato importantissimo: la Sardegna ha probabilmente il tasso di disoccupazione più grave di tutta l’Italia. Abbiamo detto che siamo vicini al 20% e in certe regioni, in certe aree della Sardegna, e soprattutto per i giovani e per le donne, questo tasso supera il 35%, in alcune occasioni si avvicina anche al 50%; un reddito più basso del 35%, tassi di disoccupazione cha vanno dal 18, 20, 35%.
Come dare lavoro, come superare questo ritardo di sviluppo? Dando lavoro alla gente. Che modello di sviluppo per i sardi? Sono stati tentati altri modelli in precedenza, quello delle monoculture, quello del mettere tutti i soldi in unica scommessa. Questa Regione non può puntare su una nuova monocultura. C’è un dibattito anche a livello nazionale in cui si pensa che l’Italia, che vede cadere le industrie piano piano, che vede processi di deindustrializzazione, di fuga dagli investimenti industriali verso altri paesi, debba puntare in maniera massiccia verso il turismo, anche a livello nazionale. Noi in Sardegna non possiamo immaginare una nuova monocultura, quella del turismo, vogliamo un’economia ordinata, fatta di un pezzo importante dell’agricoltura, dell’industria, che già al 13% è ai livelli più bassi di tutta Italia. Vogliamo l’agricoltura, vogliamo l’industria, vogliamo anche quello che resta della grande industria, vogliamo l’artigianato, vogliamo i servizi, vogliamo i servizi anche di tecnologia, vogliamo il turismo, all’interno di un processo ordinario, non puntando unicamente adesso su una nuova unica scommessa.
Puntiamo sul turismo e allora, innanzitutto, cos’è il turismo? Prima di parlare di metri cubi, di stanze, metri quadri, stiamo parlando di posti di lavoro, di sviluppo economico, di sviluppo economico nel turismo che deve avere un ruolo importantissimo in Sardegna. E quindi cos’è il turismo? E allora direi che innanzitutto non possiamo far finta tra di noi di pensare che il turismo sia vendere la terra, perché a volte c’è la pressione della gente, ci sono delle necessità, c’è bisogno di uno stipendio oggi, questo mese, c’è bisogno di arrivare al mese prossimo o all’anno prossimo, qualche volta c’è anche il bisogno di guadagnare tanto e subito, fregandosene degli altri e del futuro. Però il turismo non è vendere la terra, non possiamo come Regione pensare di risolvere i problemi come fanno tante volte le cattive famiglie, dove piuttosto che utilizzare questi strumenti che hanno, questa eredità che hanno ricevuto, vendono qualcosa oggi, qualcosa domani, pensando che questo qualcosa da vendere rimanga per sempre; poi alla fine si accorgono che le cose da vendere sono finite, pure il valore di quelle che stavano vendendo man mano è scemato; nel frattempo i figli non sono andati a scuola o ci sono andati poco, nel frattempo quelle cose che avevano avuto in eredità erano diventati strumenti di lavoro veri. E si ritrovano spesso senza futuro e senza possibilità. Allora turismo non è vendere la terra. Il turismo non è vendere le coste, non è nemmeno venderle qualche volta anche a decine di ettari, se rendono qualcosa anche pochissimo, se rendono tanto di più a chi le valorizza, se rendono tanto di più a chi le lottizza e poi le rivende al dettaglio. Il turismo non è quello. Quello non è turismo, quello è altro. Il turismo non è neanche vendere la terra al dettaglio o vendere la terra quando, dopo le lottizzazioni, si iniziano a costruire le casette tutte uguali di questi villaggi che rimangono aperti un mese, un mese e mezzo e raramente rimangono aperti due mesi.
E’ stato ricordato ampiamente in questi giorni che io ho frequentato Villasimius, che vado a Villasimius. Lì ci sono dei posti anche bellissimi, delle calette, delle cale, dei luoghi importanti dove la cala è sparita completamente, il luogo non esiste più e esistono molte decine di case che quest’anno erano per la stragrande maggioranza vuote. E allora quelle lì evidentemente non erano investimento del turismo, sono state terra venduta, venduta con delle casettine sopra. Quello non è turismo. Il turismo non è quindi vendere la terra, terra che poi non ci sarà più a disposizione nostra e delle prossime generazioni, per tentare lo sviluppo economico possibile che ci faccia superare questo ritardo di sviluppo. Il turismo non è nemmeno attività di edilizia e in queste settimane, quando si è detto “Questo decreto uccide il turismo, questo decreto blocca il turismo, questo decreto rovina il turismo”, quasi che avessimo cancellato qualche volo aereo, bloccato la gente fuori, quasi che avessimo bloccato l’accesso alle spiagge, quasi che avessimo chiuso gli alberghi, avessimo chiuso i tour operator, non abbiamo fatto nulla per uccidere il turismo, abbiamo fatto qualcosa che ha limitato l’attività edile. Non credo che questo significhi uccidere il turismo.
Il turismo quindi non è attività edilizia, è uso attento del territorio per l’offerta dei servizi, il turismo non è cose, il turismo sono servizi, il turismo non è la casa o l’albergo, il turismo sono i servizi che possono essere fatti, sono servizi immateriali soprattutto, questo è il turismo e noi ancora ci siamo occupati di turismo nei nostri provvedimenti; è l’uso attento del territorio, è stato giustamente correttamente ricordato, l’uso attento del territorio che vuol dire la costa, la spiaggia, il terreno circostante, ma vuol dire anche il paesaggio, la storia, la cultura, i suoi abitanti, tutto quello che c’è attorno, i mestieri che si sanno fare e altre attività economiche; il turismo è l’uso attento del territorio, che vuol dire di tutta la Sardegna, di tutto quello che su questo territorio esiste, paesaggio, chiese, storia, nuraghi, cultura, conoscenze. Questo è il turismo, non attività edilizia; questo per capire qual è l’oggetto del nostro dibattito e noi dobbiamo a questo mirare, a capire cos’è l’attuale offerta di servizi e che tipo di servizi turistici sostenibili possiamo offrire, non oggi e domani e basta ma nel lungo periodo.
Cos’è il turismo e cos’è il progetto della politica regionale. Voi sindaci avete una responsabilità che è quella del vostro territorio, programmate per quello, cercate di rispondere alle esigenze, cercate di dare risposta a quelli che vengono alla vostra porta ogni mattina. Noi abbiamo come oggetto la politica regionale, la responsabilità che abbiamo di programmazione della politica regionale, all’interno della quale altre politiche regionali devono essere portate avanti. Ma l’oggetto è quello della politica regionale, la politica di sviluppo regionale, la politica turistica regionale riguarda un milione e seicento mila sardi e non solamente quelli delle zone costiere, e non può essere considerato un grazioso regalo per le zone costiere dare un posto di lavoro a quelli delle zone interne e non c’è molto da vantarsi del fatto che a volte le zone costiere danno lavoro a quelli delle zone interne, non ne abbiamo alcun merito.
Il nostro interesse, la nostra responsabilità è quella di tutelare gli interessi complessivi di lungo periodo di tutta la Regione, di lungo periodo e dell’intera Regione, delle zone costiere e delle zone interne e anche degli altri trecento sindaci che oggi non sono rappresentati e di tutta l’economia regionale, perché appunto l’ambiente riguarda tutta l’economia regionale, riguarda l’agricoltura, l’artigianato, la piccola-media industria, tutto quello che deve essere utile al turismo e che deve essere aiutato dall’operazione turistica. E allora vedete che dobbiamo darci innanzitutto, ancora prima di parlare di altri metri cubi, di altri metri quadri, di distanze, di cose, ancora prima di parlare di PTP, dobbiamo capire qual è la nostra strategia sul turismo. Noi siamo alla Regione da pochi mesi ma io la strategia del turismo della Regione sarda non l’ho trovata nei cassetti dell’assessorato al Turismo, se qualcuno sa dove posso andarla a trovare me lo dica e magari se ci va bene la riprendiamo assieme. Non esiste, non è esistita, è stato anche detto, l’hanno fatta gli imprenditori locali e i sindaci, gli imprenditori privati e i sindaci, ma non può essere così, altrimenti vuol dire che la Regione non sta facendo il suo lavoro. Il turismo deve essere programmato dalla Regione, assieme dobbiamo fare questa programmazione, ma ci dobbiamo dare una strategia del turismo, altrimenti siamo delle cicale che stanno sciupando e distruggendo e pregiudicando il futuro di lungo periodo di sviluppo vero e di turismo di questa Regione. E allora per darsi una strategia occorre innanzitutto capire qual è la nostra attuale offerta, la dimensione dell’offerta. E’ stato detto che nella provincia di Oristano ci sono oltre 1500 posti letto. Un buon dato di partenza per capire l’oferta ricettiva, ma quanti sono i posti letto esistenti in Sardegna oggi? Chi lo sa dire con precisione e quanti sono questi posti letto che ci saranno in Sardegna tra 3 mesi, chi lo sa dire con precisione? E tra 12 mesi, e tra 24 mesi? Sulla base delle concessioni edilizie già date, non sulla base di quelle che abbiamo sospeso, di quelle che avrebbero dovuto essere, ma solo sulla base di quello che è stato già concesso, già in fase di costruzione, quanti posti letto abbiamo in Sardegna? Se qualcuno lo sa me lo dica, quanti a breve, quanti sono in costruzione? Voglio dire che mancano i dati sulla dimensione dell’offerta e non credo che possiamo continuare a costruire se non sappiamo i dati dell’offerta. Non sappiamo quello che è in fase di realizzazione, non sappiamo quanto è in fase di realizzazione, non sappiamo quanto è in programma, non sappiamo quanto è la dimensione dell’offerta. Alla fine dobbiamo costruire case o vendere servizi turistici? Se dobbiamo costruire case, va tutto bene fintanto che si vende, credo che ci sia anche un po’ di difficoltà. Ma se dobbiamo offrire servizi, forse la quantità e la qualità della nostra offerta la dobbiamo capire bene, soprattutto alla fine di una stagione come questa dove gli alberghi hanno segnato, credo, dei risultati molto più modesti rispetto al passato; soprattutto alla fine di una stagione come questa dove chi era abituato ad affittare la propria casa, magari in nero, forse ha visto deluse le proprie aspettative, molto di più del passato.
Qual è l’offerta, qual è la domanda, che tipo di turismo vuole la gente, siamo sicuri che lo sappiamo? A quale tipo di domanda di turismo ci vogliamo rivolgere, a quello di massa, a quello delle discoteche, a quello di Rimini, tutti buoni per carità, ma l’importante è che sappiamo che cosa dobbiamo fare, a che tipo di turismo ci vogliamo rivolgere. Qual è la domanda e l’offerta, che tipo di modifiche sta avendo questa domanda, 30 anni fa avevamo timore dei villaggi turistici, forse anche 20-15 anni fa, adesso iniziano ad andare un pochino meno di allora. Gli stessi operatori dei villaggi turistici adesso dicono “Ah, se invece di un villaggio da 1500 posti, ne avessi 5 posti da trecento posti”. La Regione fa bene a capire questa domanda.
Qual è l’offerta, qual è la domanda, come sta evolvendosi questa domanda in giro per l’Europa, cosa possiamo fare per catturare questa domanda, a che tipo di domanda vogliamo puntare e quali sono i vantaggi competitivi di questa regione. Che cosa offriamo? Qual è il vantaggio che pensiamo di avere rispetto agli altri per cui anche in futuro la gente verrà da noi? Perché la gente sta iniziando ad andare in Croazia, o perché va alle Maldive, o perché vanno di più sul Mar Rosso, perché vanno in Tunisia, come ci poniamo in competizione verso questi paesi, qual è il nostro vantaggio competitivo? Il vantaggio non è sicuramente una stagione diciamo di caldo, non è nemmeno la facilità di trasporto che abbiamo no, come vantaggio competitivo, non abbiamo la Germania dietro di noi che incombe a poche ore di macchina in autostrada sempre pronta e a costo basso, non è il trasporto che ci aiuta per la nostra capacità di competere. E credo che non sia nemmeno il basso costo del lavoro che ci aiuti come possibilità di competere. E in un mercato che sta diventando sempre più globale e completo, dove arrivano Croazia, Tunisia, Egitto, iniziano ad arrivare anche i paesi dell’Africa tra poco, paesi dove il costo del lavoro è il 10% del nostro, dove ci sono 5 camerieri attenti per ogni turista che costano pochissimo, diversamente da un cameriere distratto, come capita da noi qualche volta, non è quello il vantaggio competitivo; e allora perché dovrebbero continuare a venire da noi, perché il costo del lavoro alto porta ad un’offerta dei servizi che non è particolarmente vantaggiosa. Non sentiamo molti turisti che vanno via dicendo la Sardegna costa poco e anche noi quando andiamo fuori all’estero, o andiamo da altre parti, ce ne torniamo a casa pensando che la Sardegna costi poco o stupendoci per quanto costa tanto dalle altre parti rispetto a noi. Noi stessi sappiamo, diciamocelo tra di noi, che la Sardegna costa cara, che i ristoranti in Sardegna costano spesso tantissimo, che gli alberghi costano tanto per la qualità dei servizi che danno. E allora quale è il vantaggio competitivo della Sardegna? Se non sono i trasporti, se non è la massa di persone che vive a fianco a noi, a distanza di automobile, se non è la qualità dei servizi, se non è il costo del lavoro, quale è il vantaggio competitivo che abbiamo? L’unico vantaggio competitivo che abbiamo è l’ambiente, l’unico vantaggio competitivo che abbiamo oggi e che possiamo sostenere nel futuro è l’ambiente, un ambiente ancora sufficientemente integro, ancora bellissimo, ancora straordinariamente intatto in molte regioni, un ambiente fantastico, in mezzo all’Europa, in un contesto di sicurezza non vicinissimo a problemi di grande emergenza, diciamo di sicurezza internazionale, con una coscienza ambientale magari ormai superiore a quella dei paesi che si affacciano ex-novo al turismo. L’ambiente, la qualità dell’ambiente, l’importanza che possiamo dare all’ambiente in mezzo all’Europa, in un contesto di sicurezza sociale. Un’altra cosa abbiamo, come dice uno che, questa estate, dopo essere stato un amante pazzesco della Sardegna, un milanese che amava la Sardegna più di me, ma questo anno non è venuto in Sardegna, è andato da un’altra parte a farsi le vacanze, ha preso la sua barca ed è andato nel Nord Africa. Ha visitato un paese che tradizionalmente era chiuso, ha incontrato dieci vacche in quindici giorni, ha trovato chilometri di coste libere, l’acqua meno trasparente fortunatamente, molto vento, disagi; fortunatamente dietro alla costa non c’era niente, certo non c’era una cultura, non c’era una storia, non c’era una tradizione di ospitalità, non c’erano tutte quelle altre cose che compongono il contesto ambientale della Sardegna e che la rendono preziosa: nuraghi, chiese romaniche, muretti a secco, centri storici, antichi mestieri, tradizioni, musica, cultura, letteratura. Questo rende prezioso il nostro ambiente: questi sono i vantaggi competitivi dai quali possiamo partire per programmare il turismo in Sardegna.
La qualità ambientale è un concetto di ambiente sufficientemente espresso; la qualità ambientale quindi deve essere il nostro pensiero ricorrente, importantissimo, tutto quello che possiamo fare per proteggere l’ambiente è importante, perché è quello l’unico vantaggio competitivo che abbiamo e che possiamo mantenere nel futuro. Dobbiamo partire dal presupposto che l’ambiente ha un costo e una priorità altissima, che una volta consumato non è che avremo ripensamenti, non esiste più, quello che c’era non ci sarà più, e quando si sbaglia nei territori è per sempre e allora non una volta ci dobbiamo pensare ma 2, 3, 4. Gli sbagli che facciamo oggi non sono per 3 mesi o per 3 anni, sono per sempre. E allora la massima attenzione al valore ambientale, al concetto di ambiente sufficientemente esteso, perché questo è l’unico vantaggio competitivo che avremo,abbiamo qui in Sardegna, non ne vedo altri, se qualcuno ne vede altri ce lo faccia sapere e condivideremo questa impostazione e magari riusciremo a fare qualcosa.
Poi vi faccio anch’io una domanda: chi devono essere i protagonisti del turismo in Sardegna? Per ora è stato detto che sono stati gli imprenditori privati e sono stati i sindaci, abbiamo detto che un ruolo importante ce l’ha la Regione e la programmazione, ma vorrei sapere chi sono questi imprenditori privati. Scusate io sarò all’antica, ho un’educazione assolutamente occidentale, capisco il valore dei mercati ma capisco anche che i mercati vanno regolamentati, capisco anche che i mercati non vanno lasciati da soli e capisco anche che ci sono mercati diversi e occorre sapere chi devono essere i protagonisti.
L’altro giorno, lo ripeto ancora, eravamo a Buggerru per ricordare i tempi della miniera. Abbiamo ricordato incidenti gravi, fatti, una tragedia importantissima la quale poi ha contribuito in maniera importantissima a far nascere la coscienza sociale e politica dei sardi. Ha permesso di essere individui, singoli che si ribellavano singolarmente ma hanno posto la loro ribellione all’interno di un discorso generale; erano operai, minatori, che lavoravano per una miniera francese con un direttore turco che il 3 di settembre gli ricordava che l’estate era finita a Buggeru e che quindi bisognava tornare all’orario invernale e la pausa per il pranzo s’interrompeva all’una del pomeriggio. Qualcuno - lo voglio ripetere perché mi sembra un’immagine bellissima - ha detto che la società a capo dell’estrazione del minerale aveva un sistema colonialistico e della Sardegna non gliene importava niente, tantomeno dello sviluppo anche sociale della Sardegna. Aveva un totale disinteresse, anzi viveva della quasi schiavitù delle persone che occupava: gli dava uno stipendio piccolo e li costringeva a spendere i loro soldi dentro la cantina della miniera per cui pagavano il martello, pagavano il tugurio in cui dormivano, pagavano l’unico market dove consumavano e così vivevano. Erano nel colonialismo dell’estrazione mineraria. Qualcuno con una felice frase ha detto che poi siamo passati all’estrazione del pecorino romano. La Sardegna è stata usata come miniera per estrarre il pecorino romano come decenni fa. Ancora una volta, il lavoro dei pastori, il valore del latte, il valore di quello che producevano, è valorizzato pochissimo: tutto viene “estratto” e portato fuori.
Oggi ci sono dei villaggi turistici in Sardegna, io ne conosco molti, in uno sono anche andato a prendere un mio amico che era lì e l’ho poi portato a casa per passare un pomeriggio assieme. Era lì da dieci giorni e naturalmente non sapeva neanche dov’era; abitava in un villaggio turistico dove naturalmente si sente quasi come un diritto imprescindibile che il demanio regionale dia la spiaggia a 4 euro all’anno dove mettere gli ombrelloni e le sdraio. Non accontentandosi di questo, c’è il proprietario del villaggio che è riuscito anche a ritagliarsi uno spazio pari a qualche decina di metri, recintato con le canne, dove anziché metterci le sdraio, ci mette la sua sdraio, quelle dei suoi amici, …sempre a 4 euro all’anno del demanio regionale.
Una fetta importante, una spiaggia importante in un luogo del territorio della Sardegna: in quel villaggio i sardi naturalmente sono impiegati, qualcuno a fare il giardiniere, altri a sistemare le camere. Tutto è chiuso, non c’è un signore che esce e che va almeno a comprare due cose nel paese che è a quattro chilometri di distanza. Ora ditemi se questo non è estrazione di turismo della Sardegna, questo è, in maniera molto più civile e moderna, un’altra forma di estrazione di valore dalla Sardegna. Ci può essere anche un po’ di questo, ma non può essere questo in prevalenza, non ci può essere estrazione di turismo dalla Sardegna e allora, se non può essere estrazione di turismo dalla Sardegna, vuol dire che la politica deve cercare per quanto possibile di privilegiare il turismo che renda attiva l’impresa sarda, che la renda attiva, per quanto possibile. Forse abbiamo un problema politico, ovvero capire che anche il turismo non deve essere solo estrazione di turismo dalla Sardegna, ma deve essere luogo di creazione di turismo in Sardegna da parte dei sardi che ci devono abitare; e allora ci sono modelli diversi da quelli di svendere il proprio territorio ad un prezzo che comunque, per quanto ci sembri caro, sarà sempre poco visto tra dieci anni o visto tra 20 anni, sarà sempre nulla in prospettiva, quando si tratta della terra. Perché su un automobile si può guadagnare poco o tanto, su un mobile poco o tanto, su un vestito poco o tanto, quando si tratta della terra di una Regione in prospettiva sarà sempre poco e ce ne accorgeremo. Chiunque, tutti noi ci rendiamo conto che è stato troppo poco il prezzo a cui è stato venduto in precedenza. Allora gli imprenditori sardi devono essere protagonisti e per essere protagonisti non possono essere lasciati soli. Il sistema deve essere in qualche maniera regolamentato, o meglio l’Amministrazione non può sempre lasciare le porte aperte, agevolare l’occupazione chi viene ad estrarre turismo in Sardegna che non produce quanto potrebbe produrre. Un turismo prodotto in Sardegna e non estratto dalla Sardegna.
Tutti noi abbiamo figli, io adesso ne ho uno di dodici anni neanche. Se deve giocare a pallone, io voglio che giochi con persone della sua classe, voglio che partecipi al campionato dei ragazzi e al massimo si confronti con quelli di tredici, quattordici quindici anni, non lo metto a giocare a pallone con quelli di venti anni, perché quelli vincono di sicuro, non lo metto a giocare al pallone con gli adulti perché quelli vincono di sicuro. E allora nel pallone non c’è la libera competizione: i piccoli con i piccoli, i medi con i medi, i grandi con i grandi; se lasciamo la libera competizione i campi da calcio saranno occupati solamente dai grandi, i piccoli non giocheranno mai a pallone perché i grandi sono più forti di loro, sono più veloci, hanno spalle più larghe, sono anche più potenti e non lasciano spazio ai piccoli. I campi di calcio noi non li regolamentiamo per i nostri figli, forse dobbiamo stare attenti anche a regolamentare la possibilità di fare impresa per quelle aziende che sono più piccole e hanno meno capitale, meno esperienza. Non c’è bisogno di fare tutto subito oggi, perché altrimenti casca il mondo.
Allora il turismo non è vendere la terra, il turismo non è costruire quello che abbiamo costruito fino adesso, perché abbiamo già venduto molta terra e abbiamo già costruito tanto che resta vuoto. E allora dobbiamo innanzitutto risistemare quello che rimane vuoto, riqualificarlo, migliorarlo, modificarlo anche in maniera sostanziale in virtù delle mutate esigenze dei turisti di oggi; aiutare i comuni che non hanno la fortuna di avere i bastioni di Alghero, ma che comunque sono comuni costieri da valorizzare e aiutare a diventare luoghi belli, luoghi piacevoli. Intervenire dove c’è un turismo che vuole ritrovarsi in contesti normali e, se c’è la possibilità, può venire a novembre, a dicembre, a febbraio, quando i paesi rimangono comunque aperti e i villaggi sono chiusi e le lottizzazioni sono chiuse e solamente qualche volta hanno la seconda casa chiusa. Dobbiamo riqualificare l’esistente per quello che è possibile, dobbiamo invertire questa idea totalmente diversa dal modello di turismo, per cui il turismo balneare debba essere necessariamente e solamente quello, senza che venga offerto altro, tutto ciò che c’è intorno. Siamo sicuri che abbiamo fatto una riflessione attenta? Siamo sicuri che sia solamente questo? Siamo sicuri che, come ancora succede oggi, dobbiamo fare i parcheggi asfaltando a fianco a un palazzo con il cornicione alto 20-30 centimetri, accanto alle spiagge incantate che ancora abbiamo. Probabilmente non è questo.
E allora riqualificazione, spremerci le meningi, usare le intelligenze, le risorse, l’entusiasmo e ritrasformare questi paesi e questa marea di seconde case o di case vuote nei paesi. A Villanova Monteleone ci sono delle case che costano 30,80,40 milioni di lire, si comprano le case per 20 mila euro non c’è dubbio, dobbiamo solamente aspettare, le compreranno tutte come hanno comprato la Toscana. Le spiagge a Villanova Monteleone c’è il vantaggio che è vicino all’aeroporto di Alghero, se le compreranno tutte.
C’è un modello, c’è una domanda turistica in giro per il mondo che chiedi di trovare una natura incontaminata. Riqualifichiamo, investiamo nei paesi, costruiamo anche tanto, ma per riqualificare e per rendere bello ciò che c’è, valutiamo caso per caso, incontriamoci, innanzitutto sapendo che cos’è il turismo, che non è vendere i territori, ma avere ben chiaro che strategia abbiamo per il turismo e che cosa vogliamo per il nostro futuro. E poi parliamo di metri cubi e di metri quadri, quello è tutto dopo, con questo provvedimento si arriva innanzitutto a fare in modo che non ci siano comuni di serie A e comuni di serie B, comuni più forti dove le tubature sono poche e comuni invece magari più attenti alle norme, che hanno approvato il PUC da tempo, dove le tubature sono la metà di quelle di altri comuni. Ecco questo non può esistere, davvero in Sardegna solo le tubature; serve ai comuni e agli imprenditori avere certezza di diritto, per avere certezza di diritto bisogna fare delle leggi, per fare delle leggi bisogna analizzare, per analizzare bisogna avere voce ferma, per analizzare bisogna avere un quadro fermo, non si può analizzare, programmare quindi normare quando tutto è in movimento. Noi chiediamo al Consiglio regionale che ci approvi questo disegno di legge, se sarà il caso potranno essere precisate meglio delle cose, e ci impegniamo entro 12 mesi a portare a casa il Piano Territoriale Paesistico Regionale, che non sia solamente metri cubi e metri quadri, ma che sostenga un modello di turismo, che sappia che l’ambiente è in realtà l’obiettivo più importante della Sardegna nei prossimi decenni e che ogni ferita all’ambiente ha un costo comparato enorme, ha un costo enorme per la possibilità di sviluppo turistico e sappiamo anche che l’ambiente ha mantenuto un’accezione più alta di quella che magari ogni tanto si ripresenta. Non è solamente mettere a posto la spiaggia, ma è tutto quanto, e sappiamo che la Sardegna è una, è fatta di 1 milione e 600 mila persone, di paesi che vivono all’interno, che fanno magari mestieri e che ancora oggi portano avanti quelle tradizioni per cui noi poi ci battiamo, ci impegniamo anche nei paesi delle zone costiere e sarà un dono prezioso la possibilità di lavoro per questi paesi. Noi chiediamo al Consiglio regionale che ci approvi questo disegno di legge, nella consapevolezza che questo è un aspetto fondamentale dei prossimi 5 anni dell’amministrazione regionale. E’ uno dei temi fondamentali della mia campagna elettorale, della maggioranza che mi ha sostenuto. Verremmo valutati in un momento veramente di importanza fondamentale per la Sardegna, quando è ora di ripensare il turismo e l’utilizzo del suo territorio. Ci incontreremo per farlo insieme.
Grazie
Sull'argomento vedi anche l'Eddytoriale 53 e i link in calce
CHI può dissentire, in buona fede e in tutta onestà, da una norma che serva effettivamente a difendere il territorio e il paesaggio di un paradiso come la Sardegna? E chi può contestare, dunque, la decisione della nuova giunta regionale guidata da Renato Soru di fermare l´avanzata del cemento selvaggio, per impedire lo scempio urbanistico nella "perla del Mediterraneo"?
Con la delibera che sospende per tre mesi qualsiasi attività di costruzione in una fascia di due chilometri dal mare, in attesa di un Piano paesistico da adottare entro un anno, la Regione ha emanato un provvedimento d´emergenza contro l´anarchia edilizia, contro il vuoto legislativo e il conseguente caos che ormai minacciavano di compromettere irreversibilmente i tratti più incontaminati delle coste sarde.
Ma come mai si era arrivati a questa situazione estrema e perché? Nell’ottobre del 2003 molti avevano accolto con entusiasmo la sentenza con cui il Tribunale amministrativo, su ricorso delle principali associazioni ecologiste, respinse ben tredici piani paesistici approvati dalla precedente amministrazione di centrodestra. Se il Tar li ha bocciati, vuol dire evidentemente che non erano legittimi, che non rispettavano la legge urbanistica regionale, che non tutelavano adeguatamente l´assetto del territorio. Eppure, come riconoscono gli ambientalisti più consapevoli, quella fu in realtà una vittoria di Pirro: vale a dire un boomerang che, facendo tabula rasa dei vincoli previsti, ha dato via libera alla lottizzazione più sfrenata.
Una volta di più, insomma, l´esperienza insegna che non sempre l´estremismo (in questo caso, verde) paga. E la lezione può essere utile anche ora, per la stessa giunta di centrosinistra e per i suoi sostenitori, in preparazione del Piano paesistico regionale che dovrà riempire appunto il vuoto legislativo e definire una nuova fascia protetta, oltre i trecento metri dal mare stabiliti dalla vecchia legge Galasso. In questa prospettiva, per un´isola frastagliata come la Sardegna, due chilometri possono anche essere troppi o troppo pochi. Dipende, tratto per tratto, dalla configurazione della costa. Sarà opportuno perciò verificare in concreto, comune per comune, le caratteristiche particolari di questo o quel territorio per decidere di conseguenza. Sul piano del metodo, un confronto aperto e democratico con le amministrazioni locali comunque s´impone.
Altrimenti, magari al di là delle migliori intenzioni, c´è il rischio di favorire gli interessi forti, quelli di chi già possiede abitazioni, residence, ville o alberghi sulle coste sarde. O peggio ancora, di alimentare involontariamente una bolla speculativa, come quella finanziaria ai tempi d´oro di Internet. Né si può ridurre tutto all´effetto annuncio, a una campagna mediatica fine a se stessa, all´insegna della demagogia, dell´isolazionismo o del protezionismo autarchico.
Per crescere e prosperare, alla Sardegna serve un modello di sviluppo economico-sociale, moderno, compatibile con la difesa dell´ambiente e con la valorizzazione di tutte le sue risorse, a cominciare proprio da un turismo sostenibile. Ha ragione il governatore Soru a dire che questo non si può identificare con l´attività edilizia. Ma è pur vero che non deve ispirarsi a un paradigma "cavernicolo", fatto esclusivamente di campeggi, tende, roulotte e caravan. La "perla del Mediterraneo" ha bisogno di essere protetta dai nuovi barbari, non di essere blindata e diventare un´isola "off limits".
Postilla
Ha ragione Valentini quando dice che “due chilometri possono anche essere troppi o troppo pochi”, non solo per la Sardegna. Proprio a questo serve un piano paesistico. Un vincolo temporaneo di salvaguardia non può che essere una sciabolata, cui dovrà seguire (come correttamente la delibera regionale prevede)il cesello di un vero e proprio piano paesaggistico, che, adeguandosi alle caratteristiche proprie delle diverse porzioni di costa, potrà stabilire la tutela rigorosa e la non trasformabilità su fasce che potranno essere inferiori, e anche superiori, ai 2000 metri del vincolo di salvaguardia. È su questo piano che dovrà esercitarsi il confronto, con el amministrazioni locali ma con i cittadini e con le espressioni associative degli interessi diffusi. Solo che il vincolo dovrebbe durare fino all'adozione del piano. (es)
L’urbanistica non è solo volumetria, e la ricchezza di un paese non si misura dal numero di metri cubi realizzati sul suo territorio. Ci ha provato in mille modi avantieri sera l’architetto incaricato Sandro Roggio a fare capire e accettare questo concetto durante l’illustrazione del documento di indirizzo del nuovo Puc di Orosei.
Una impresa ardua quando davanti hai una folta platea composta da piccoli e medi imprenditori edili giunti nella sala consiliare solo per sapere quando, e soprattutto quanto e dove, potranno riprendere a costruire. Compito oltremodo difficile perchè ad imporre leggi e regole non sono più le amministrazioni comunali ma la comunità europea, lo Stato e la Regione con le normative sulla tutela dei patrimoni paesaggisti ed ambientali, con il codice Urbani e con il nuovo Piano Paesaggistico Regionale.
Uno sforzo improbo poi quando un consiglio comunale vive di continue e trasversali fibrillazioni che si manifestano astiose e conflittuali ad ogni intervento e ad ogni votazione. Così alla fine di una seduta fiume durata circa quattro ore il sindaco Gino Derosas, con il conforto unanime (ma non convinto) di tutta l’assemblea, ha deciso di non portare in votazione la relazione di indirizzo. Se ne riparlerà a gennaio, dopo le feste, e dopo che le molte perplessità e le osservazioni esposte dalla minoranza e da alcuni cittadini verranno, per quanto possibile, inserite nel documento di indirizzo urbanistico.
Questo hanno promesso sia il sindaco che lo stesso Roggio che alla fine comunque non ha nascosto un pizzico di delusione «per non essermi, forse, fatto capire abbastanza». Ma lui di”colpe” ne ha ben poche: la sua relazione non conteneva, e non poteva essere altrimenti, né numeri né volumi perchè quel documento voleva e doveva solo tracciare le linee guida lungo le quali andrà poi disegnato il futuro socio-economico ed edilizio del centro costiero baroniese. Un progetto che tradotto in soldoni per Orosei vuol dire la fine di un ciclo edificatorio che negli ultimi venti anni ha distribuito prosperità e ricchezza ma che ormai è da considerarsi esaurito. Niente più case in agro, niente più”cattedrali turistiche nel deserto” e le nuove zone di espansione edilizia dovranno essere misurate e calibrate sulle reali necessità abitative e su certificate prospettive di incremento demografico.
Da qui la necessità di trovare nuove fonti di ricchezza e nuovi sbocchi all’edilizia. «Che ci sono e non sono pochi, - ha detto Sandro Roggio nella sua appassionata arringa finale - bisogna avere però nuove visoni e capire che l’unico vero patrimonio rinnovabile di Orosei sono i suoi meravigliosi e variegati paesaggi». Ovvero pianura, montagna, fiume, campagna, aree umide di inestimabile valore naturalistico, spiagge e scogliere splendide e un centro storico ricco di significativi monumenti. «Un simile contesto se utilizzato con saggezza non può che produrre ricchezza in continuità - ha rimarcato Sandro Roggio - Ma occorre mantenerli integri, e salvaguardarli da mire speculative che non apportano ricchezza alla comunità ma al contrario la impoveriscono».
Non un piano punitivo dunque, ma un progetto che mira a riequilibrare il patrimonio edile esistente e a crearne del nuovo di qualità. «Questo è un piano che non vuole male all’edilizia - ha sottolineato l’architetto - e non è vero neanche che nelle campagne non si potrà più far niente: certo, l’era del vano attrezzi che diventa villetta è finita, ma ad esserne avvantaggiati saranno quei progetti di valorizzazione rurale che passano per agriturismi e/o aziende agroalimentari all’avanguardia. Per portare a casa un buon risultato è necessaria la collaborazione di tutte le componenti politiche sociali ed economiche del paese. Non c’è bisogno di giocare con carte truccate, basta usare quelle che Orosei ha in mano e che, ripeto, non sono ne poche ne scarse».
Il sistema del verde nel “Progetto generale di Piano Intercomunale” del 1967
Con l’approvazione da parte del Ministero, nel 1959, della nuova perimetrazione proposta dal Comune di Milano per la redazione del Piano Intercomunale (35 comuni che diverranno 92 nel 1967) e superate, mediante una formula di coinvolgimento paritetico, le resistenze iniziali delle amministrazioni comunali interessate dal piano, che temevano una forte diminuzione della propria sovranità territoriale, nel novembre del 1961 si riunisce per la prima volta l’Assemblea dei Sindaci che decide di affidare l’elaborazione del piano ad un organismo tecnico appositamente costituito: il Centro Studi per il Piano Intercomunale Milanese.
Dopo una prima fase nella quale l’attenzione sembra rivolgersi prevalentemente all’analisi ed alla interpretazione delle dinamiche insediative (che porterà alla definizione di “schemi di piano” di notevole forza suggestiva: lo schema “a turbina” del 1963 e quello “lineare” del 1965), l’Assemblea dei Sindaci approva nel 1967 il “Progetto generale di Piano e linee di attuazione prioritaria”, affrontando con un taglio più decisamente operativo i problemi di assetto territoriale dell’area.
Già in questo documento, che sconterà nella sua applicazione concreta i limiti della formula volontaristica di adesione alle scelte di piano che caratterizzerà tutta l’attività del PIM, comincia a delinearsi come elemento qualificante delle scelte di politica insediativa ed infrastrutturale proposte per contrastare i processi in atto di dispersione delle edificazioni e di consumo e compromissione delle aree agricole, un disegno di ampio respiro per il sistema del verde: esso si articola in un livello “di interesse metropolitano” (i cui elementi “portanti” sono costituiti da una serie di “parchi attrezzati”: il Parco Nord, il Parco delle Groane e il Parco di Monza) e in un livello “di interesse locale” (basato prevalentemente sul rispetto degli “standard”, introdotti dalla legge “ponte” dell’aprile del 1967 e precisati dal Decreto Ministeriale dell’aprile dell’anno successivo) al quale viene affidata, oltre alla funzione di salvaguardia territoriale, quella di “supporto per la diffusione dei servizi e dei valori urbani”.
Meno avvertita appare, in questa fase, la questione delle aree agricole del sud Milano che, benché interessate da una crescente edificazione lungo i principali tracciati della viabilità, non vedono ancora intaccata la complessiva compattezza dell’insediamento agricolo e, contrariamente alle aree del nord, sembrano offrire, all’interno dello stesso ambito PIM, buone possibilità di collegamento e connessione in un disegno di scala territoriale. […]
Una cintura verde per l’area metropolitana milanese: gli anni ’70 e ‘80
All’inizio degli anni ’80, mentre prosegue un confronto serrato tra le forze politiche e le associazioni ambientaliste per la definitiva approvazione del piano generale delle aree protette regionali, l’approvazione del Piano Territoriale di Coordinamento del Parco del Ticino, con la LR n° 33 del 22 marzo 1980, e la pubblicazione dello Schema di Piano Territoriale di Coordinamento Comprensoriale elaborato dal PIM ed approvato dal Consiglio Direttivo il 13 marzo 1980, sembrano aprire una nuova stagione nella pianificazione di “area vasta”, all’interno della quale la “politica del verde” comincia ad assumere una più matura articolazione.
Lo Schema di Piano Comprensoriale, in particolare, contiene la prima proposta organica per la realizzazione di una cintura verde di scala metropolitana.
Nei documenti di piano viene infatti posta con chiarezza, affrontando il tema del verde comprensoriale, l’esigenza di salvaguardare un corretto equilibrio tra aree urbanizzate ed aree verdi (superando la pura logica degli standard urbanistici e considerando invece il rapporto tra il complesso delle aree verdi – agricole e non – ed il complesso delle aree urbanizzate) e, in particolare, di tutelare quelle aree che, per la loro compattezza e continuità, potevano costituire i collegamenti tra il verde metropolitano ed il sistema del verde regionale, ponendo così le premesse per una inversione di tendenza rispetto al progressivo e preoccupante degrado della qualità ambientale delle aree extraurbane.
Si sottolineava inoltre come, rispetto a questi obiettivi, la situazione complessiva fosse ormai prossima al “livello di guardia”, ma risultasse comunque ancora possibile operare per il loro conseguimento sulla base di una volontà politica che individuasse come punto fermo la salvaguardia rigorosa delle aree essenziali al sistema del verde comprensoriale.
Coerentemente con queste premesse, il piano indicava la soglia del 50% come limite quantitativo da non valicare nell’urbanizzazione del territorio comprensoriale e definiva planimetricamente le aree da salvaguardare come “cintura verde metropolitana”, individuando al suo interno le aree agricole produttive, le aree a verde agricolo-ecologico e le aree a parco e verde attrezzato comprensoriale; una particolare attenzione era dedicata al settore sud della cintura metropolitana per il quale veniva riconfermata la proposta, ormai da tempo presente nel dibattito culturale, di un “parco diffuso” integrato alle aree agricole, il Parco Sud.
All’interno del complesso delle aree di cintura individuate, il piano proponeva di “ controllare ogni mutamento significativo dell’uso del suolo e del paesaggio, impedendo a tempo lungo ogni trasformazione difforme da quella a “verde” con la sola eccezione di opere pubbliche per le quali una particolare istruttoria abbia verificato l’impossibilità di collocazione alternativa, abbia esplicitato – in termini di ‘costi-benefici’ – il danno arrecato al sistema del verde comprensoriale dall’opera in rapporto ai benefici connessi alla sua attuazione ed infine abbia verificato che ogni sforzo sia stato compiuto in termini di qualità del progetto per il migliore inserimento dell’opera sotto il profilo ambientale e paesistico”.
Pubblicato nel 1982, quando era ormai stato decretato lo scioglimento degli organismi comprensoriali, il piano costituirà in ogni caso un riferimento importante per la definizione delle politiche territoriali nell’area milanese.
Con la promulgazione della legge-quadro n° 86 (“ Piano generale delle aree regionali protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale”), approvata nel novembre 1983, la Regione Lombardia porta a compimento il processo avviato nel decennio precedente: viene individuato un sistema costituito da 23 parchi e vengono istituiti tre nuovi parchi (Adda Nord, Adda Sud e Valle del Lambro), che si aggiungono a quelli istituiti nel corso degli anni ’70 (Ticino, Groane, Nord Milano, Colli di Bergamo e Monte Barro).
La legge inoltre, istituendo le “Commissioni Provinciali per l’ambiente naturale”, affida alle Province nuovi compiti connessi alla individuazione dei particolari valori del territorio e delle misure per la loro tutela.
In questo contesto, ed in assenza di un organismo istituzionale di livello sovracomunale in grado di definire le scelte generali di pianificazione del territorio e di verificare la coerenza delle politiche condotte alla scala locale, la Provincia di Milano, chiamata a completare il quadro territoriale delle aree protette anche adottando misure di controllo ed indirizzo della pianificazione comunale, si fa promotrice di studi, ricerche e momenti di dibattito e confronto che, partendo dal disegno definito nel Piano Comprensoriale, intendono approfondirne le indicazioni e individuare le possibili politiche di intervento.
La ricerca promossa nel 1984 su “Il sistema delle aree verdi nel territorio provinciale”, si proponeva, in particolare, (attraverso una valutazione delle risorse, delle opportunità di valorizzazione e degli strumenti di tutela già attivati per le aree non urbane, la verifica della sensibilità delle comunità locali e l’esame della “politica del verde” in alcune grandi aree metropolitane quali Londra, Parigi e Rotterdam) di individuare uno schema di riferimento generale e di fornire indicazioni per l’iniziativa della Provincia, finalizzata a consolidare la tutela delle “aree di cintura” ed a promuovere e coordinare le iniziative comunali per la loro valorizzazione e fruizione pubblica.
I temi che emergono e i principali settori sui quali si propone, anche alla luce delle esperienze condotte nelle altre aree metropolitane europee, di concentrare l’attenzione e l’iniziativa provinciale sono soprattutto, oltre alla tutela ed alla qualificazione delle attività agricole esistenti, quello dello sviluppo delle attività forestali e, in particolare, quello della costruzione di un sistema di attrezzature che consentano e favoriscano una effettiva fruizione sociale del verde e degli spazi aperti.
L’impegno della Provincia e la forte mobilitazione delle associazioni e dei cittadini su questi temi porteranno all’approvazione della LR 41/85, istitutiva dei “parchi di cintura metropolitana”, e all’inclusione all’interno di questa categoria, su proposta dell’amministrazione provinciale, del Parco Sud Milano.
Con la definitiva istituzione del Parco Sud, che avverrà tuttavia solo nel 1990, l’obiettivo della salvaguardia di tutti i grandi ambiti territoriali individuati nel disegno della “cintura verde metropolitana” proposta dal Piano Comprensoriale del 1980 verrà finalmente raggiunto e inizierà una nuova fase, quella della sua “costruzione” in un rapporto di effettiva collaborazione tra i molteplici soggetti interessati.
“ Il diritto alla città non è soltanto un diritto all’accesso di quanto già esiste, ma il diritto di cambiarlo. Noi dobbiamo essere certi di poter vivere con le nostre creazioni. Ma il diritto di ri - fare sé stessi attraverso la creazione di tipi qualitativamente differenti di socialità urbana è uno dei più preziosi diritti umani” (Harvey, 2003).
E' sempre più difficile trovare piani urbanistici che si propongano di dare espressione e collaborare a costruire il diritto alla città per tutti i gruppi sociali che ne sono sistematicamente esclusi. Gli obiettivi sembrano essere altrove.
In questo saggio propongo i primi elementi per costruire un piano urbanistico situato “in basso a sinistra” (come dicono gli zapatisti). Si tratta di una traccia e di proposte che sono l'inizio di un percorso da proseguire in modo autogestito e collettivo, un percorso in parte già iniziato da tutti i gruppi e i movimenti urbani che si oppongono alle trasformazioni urbane appiattite su una valorizzazione economica del territorio, a vantaggio di pochi e destinata a pochi.
La città da cui prendo le mosse è Firenze, città affascinante e difficile.
URBANISTICA: VALORE DI SCAMBIO O VALORE D'USO?
“… l’urbanistica degli imprenditori. Essi pensano e realizzano, senza nasconderlo, per il mercato, in vista di un profitto. La novità, il fatto più recente, è che essi non vendono più alloggi o immobili, ma urbanistica. Con o senza ideologia, l’urbanistica diventa valore di scambio” (Lefebvre, 1968)
Nel territorio del Comune di Firenze è in corso un processo di trasformazione, forse, senza precedenti. Dismissioni e riutilizzazioni, de-territorializzazione e ri-territorializzazione si succedono con celerità sempre maggiore. La sommatoria di interventi che saturano lo spazio rimasto libero insieme a quelli di grosse dimensioni, come quello dell’area di Castello o delle aree ferroviarie, ci restituiscono una situazione di grande cambiamento. Guardando dalle colline o arrivando da fuori quello che vediamo sono gru, tante gru Ma quale direzione sta prendendo questa grande trasformazione? Sta risolvendo la questione abitativa, nascosta per tanti anni dall’affermazione “siamo tutti proprietari”, per poi scoprire che sono 5.000 i nuclei abitativi che chiedono una casa di edilizia a prezzi sociali nel Comune di Firenze? E che tanti altri, come i 2.000 residenti nelle case occupate “abusivamente”, mostrano il loro bisogno in un altro modo e altri ancora, come gli studenti o più in generale i giovani, avrebbero di certo diritto ad ottenere una casa in affitto accessibile che consenta una autonomia dalla famiglia di origine.
Le aree urbane non edificate, comprese quelle destinate a servizi pubblici, la promessa non mantenuta, sono trasformate in aree edificabili[1]. E quello che si costruisce è presto detto: case in vendita, alberghi, centri commerciali, uffici e centri direzionali e in generale tutto quello che serve al turismo e che sfrutta la presenza dei nostri beni comuni: un eccezionale patrimonio storico, culturale e artistico. Il turismo è un settore che sta al primo posto in questa appropriazione privata di beni comuni ed è una delle ragioni dei prezzi così elevati di affitti e vendita dello spazio. Un ruolo i cui effetti sono aggravati dalle politiche promosse da tutti i livelli dell’amministrazione pubblica che, con la onnipresente ed onnivora motivazione dello sviluppo economico, si muovono per eliminare il poco redditizio “turismo dei poveri”, e per promuovere solo quello di lusso, senza verificare quale effetto abbiano i gusti dei ricchi sui beni culturali e ambientali da proteggere e senza considerare l’effetto sui prezzi di queste presenze. E dimenticando che la fruizione culturale dei beni comuni va garantita a tutti, è un diritto universale. Il rischio che Firenze si trasformi in una città di lusso, con negozi di lusso e residence di lusso è reale.
La trasformazione degli spazi a servizio pubblico (standard) in aree edificabili, è anche un indicatore del cambiamento di politica: dall’impegno nella predisposizione di elementi di “stato sociale”, seppur minimo in Italia rispetto ad altri paesi europei, alla creazione di nuovi mercati in quelli che erano servizi pubblici: acqua, istruzione, sanità, trasporti. Una classica politica neo-liberista.
Ma per capire cosa fare, vanno interpretati i meccanismi che determinano queste trasformazioni: sono meccanismi macro, la globalizzazione non meglio definita, oppure incontrovertibili meccanismi quasi naturali di “mercato”, contro cui non c’è molto da fare, e che ruolo ha l’amministrazione pubblica e lo stato, sono un osservatore privo di funzione o un attore attivo?
Come mai quel ruolo di promotore di valori d’uso e di risposta ai bisogni sociali, che nel dopoguerra qualche amministrazione pubblica ha assunto, oggi invece lo ricoprono privati cittadini riuniti in comitati oppure movimenti urbani di vario genere?
Il ruolo dello stato e della pubblica amministrazione di garantire servizi sociali ed attutire squilibri territoriali e problemi sociali derivanti dallo sviluppo, noto come “compromesso keynesiano”, ha progressivamente lasciato il posto ad altre politiche. Ora come allora si tratta di politiche molto attive: costruire le condizioni per profitti in cui la componente di rendita è sempre più elevata.
Molta della pianificazione urbanistica a cui ci hanno abituati le giunte di Firenze, si riduce alla registrazione da parte dell’amministrazione pubblica, delle proposte delle imprese immobiliari e di costruzione private: Baldassini - Tognozzi - Pontello, Consorzio Etruria, Spagnoli, Fratini, Margheri, Fondiaria, Astaldi, Giudici Costruzioni per citarne alcune[2]. Ma sarebbe erroneo pensare che manchi un disegno complessivo.
La prima impressione guardando ai vari piani in essere nel Comune di Firenze (innumerevoli varianti al PRG del 1998, Piano strutturale adottato e riadottato, piano strategico) è che ci si trovi di fronte ad un laissez faire unito ad un sostegno attivo ed aperto all’accumulazione da espropriazione, quel tipo di accumulazione del capitale che si ottiene espropriando beni comuni, in questo caso addirittura la città.
Il laissez faire non si muove mai al di fuori di regole, certo quelle di oggi sono molto sbilanciate a favore del diritto di edificare da parte del proprietario delle aree e del promotore immobiliare. Quando si parla di deregolamentazione urbanistica non bisogna dimenticare che bastano il regime dei suoli, cioè le norme che regolano e soprattutto garantiscono il diritto di proprietà, a determinare chi avrà la meglio.
Il regime dei suoli è garantito dalle istituzioni: sulla definizione e sulle prerogative dei diritti della proprietà fondiaria, in Italia pesano e hanno pesato il potere del “blocco edilizio”, la lunga durata dell’accezione di proprietà privata dei suoli assoluta ereditata dal diritto romano, le interpretazioni contro la “riforma urbanistica” di numerose sentenze Corte Costituzionale, l’ambivalenza interpretativa della nostra Costituzione che mentre garantisce il diritto di proprietà ne sancisce la limitazione sulla base dell’interesse generale, le leggi sul governo del territorio, il codice civile.
Stato e mercato sono cresciuti insieme, la forma della regolazione (regolazione = insieme delle leggi e delle norme finalizzate a perpetuare il sistema economico e sociale esistente) cambia, ma non la sua onnipresenza e necessità. La rendita urbana lungi dall’essere un beneficio connaturato al bene, necessario e meccanico, è una costruzione sociale, che è resa possibile in primo luogo attraverso la stipula da parte del governo di accordi riguardanti i diritti ed i privilegi fra i partecipanti al mercato, basti pensare ad esempio alla ratifica di atti, affitti, contratti di vendita e quindi alla garanzia legale ed istituzionale della loro osservanza. Senza la regolazione statale del mercato, non si verificherebbero scambi.
I rapporti di potere fra le classi sono cruciali nel determinare l’entità della rendita (ciò che il proprietario fondiario ottiene per il solo fatto di possedere il terreno) ed il tipo di limitazioni e tassazioni cui è sottoposta.
Non esiste quindi "un effetto univoco e predeterminato del mercato immobiliare sull’organizzazione della città, perché esso dipende in sostanza dal 'potere' che a tale mercato si concede, sapendo che una città che non sia espressione di una intenzionalità pubblica e collettiva finisce con l’essere preda di interessi parziali e particolari depotenziandone qualità fisica, sociale e culturale” (Indovina, 1995).
La terra è un bene che non viene prodotto come le altre merci, ma esiste in natura. I luoghi hanno un contenuto naturale e un contenuto di valore prodotto dal lavoro e dai conflitti sociali nel corso del tempo.
Il sostegno attivo al mercato è fatto di finanziamenti pubblici, sostegno in caso di aumenti dei costi e assunzione del rischio di impresa da parte dello stato, come è avvenuto per l’Alta Velocità o da parte dell’amministrazione come avviene per il project financing.
Le privatizzazioni di beni pubblici, edifici e terreni di stato, regioni, province, comuni, enti, comportano un ampliamento di quanto si muove secondo la logica di mercato. Tra l’altro si tratta di aree che come quelle delle ferrovie erano state assegnate a costo zero o poco più per la realizzazione di infrastrutture pubbliche e ora vengono riversate sul mercato delle aree a prezzi accresciuti dalle destinazioni edificabili.
Ma esiste un disegno, una visione del futuro a cui tendere da parte delle nostra “classe dirigente”?
Nel libro pubblicato nel 1992, La città occasionale, Francesco Indovina sottolinea:
“ A Firenze gli interventi Fiat e Fondiaria (ndr Novoli e Castello), pur ridimensionati (soprattutto quello della Fondiaria), costituiscono il nucleo forte di un ridisegno della città. La rilocalizzazione di funzioni pubbliche (dal tribunale a parti di università) riqualifica (forse), congestiona e valorizza (sicuramente) pezzi di periferia, mentre per il centro della città non resterà che un destino di definitiva specializzazione turistica. La variante, in sostanza si indirizza verso quelle aree e quei progetti che hanno tenuto in scacco la dinamica della città e fornisce un quadro di compromesso tra proprietari e amministratori, o, per meglio dire, tra grandi progetti e l’avversione che essi hanno sollecitato” (Indovina, 1992, pag.28).
Nelle sue considerazioni sul Piano strutturale di Firenze (Coordinamento Comitati Cittadini Area fiorentina, 2008, pag.9) Giorgio Pizziolo parla di
“disegno nascosto”: “l’asse portante di questo disegno è costituito dalla Fortezza da Basso, come baricentro di tutte le iniziative di marketing della speculazione finanziaria del ‘capitale Firenze’, arricchita dalla Stazione di SMN, tendenzialmente appetibile per il capitale immobiliare in vista della realizzazione del Sottoattraversamento e della nuova stazione TAV, oltre a tutte le aree di pregio circostanti. Questo che è il nocciolo duro di tutto lo ‘sviluppo’, prosegue da un lato sull’asse Macelli, Novoli, Castello e dall’altro sul pacchetto del Centro storico, ridotto ad appendice di pregio e ornamentale del baricentro stesso”.
Il più temibile disegno è quello che pone lo sviluppo economico al primo posto, prima della risposta al bisogno di una casa, prima del rispetto della natura e dell’ambiente, prima della nostra felicità. L’aggettivo “sostenibile” è solo fumo negli occhi, il fulcro di tutto è la salvaguardia di rendite e profitti. I posti di lavoro sono una giustificazione che non affronta il tema di cosa, per chi e quanto produrre e quali servizi collettivi predisporre.
IL DIRITTO ALLA CITTÀ
Gli obiettivi del nostro piano urbanistico: rompere la logica della valorizzazione immobiliare
Nella trasformazione urbana uno dei conflitti più importanti e decisivi è quello tra i valori d’uso del suolo ed i valori di scambio, in altre parole fra chi considera la città un luogo della vita quotidiana, all’interno del quale rispondere ai propri bisogni e desideri, e chi invece la interpreta come una proprietà privata da cui trarre una rendita e un settore di investimento di capitali da cui trarre profitto. I processi di urbanizzazione guidati dalle logiche di valorizzazione immobiliare, sono responsabili della produzione di gran parte dei problemi urbani che ci troviamo ad affrontare: la segregazione funzionale, la perenne questione abitativa, la progressiva scomparsa dello spazio pubblico, la mancanza di luoghi non mercificati per la socializzazione, l’elaborazione culturale e l’espressione artistica. Il mercato produce solo per chi può pagare, gli altri sono esclusi e con loro tutte le attività difficilmente mercificabili. Se la rendita urbana è il fine della trasformazione urbana, non verranno mai costruite case a canoni accessibili o luoghi di socializzazione esterni alla logica di mercato o spazi pubblici per l’incontro e lo scambio sociale. A meno che non sia un periodo di crisi del mercato e allora sono un buon affare anche le case popolari, meglio se ad affitto “calmierato”, pagate dallo stato attraverso finanziamenti o scambi ineguali. La questione abitativa ha un peso cruciale sulla produzione di rendita: il permanere di un bisogno assoluto ed irrinunciabile come quello abitativo determina la possibilità da parte dei proprietari di prelevare da ognuno tutto quanto può dare, non un centesimo di meno (una sorta di odioso ricatto). Il mercato funziona meglio, dal punto di vista dell’offerta, quando c’è scarsità cioè quando vasta parte della domanda resta senza risposta. Questo vantaggio è probabilmente il motivo per cui i fondi Gescal (contributi prelevati fino al 1999 dai redditi da lavoro dipendente per creare offerta di edilizia economica e popolare) non sono stati utilizzati tutti e sono stati spesi per varie altre emergenze.
La pianificazione urbanistica è nata per razionalizzare l’uso dello spazio, prioritariamente dal punto di vista del mercato. Tuttavia i conflitti e le istanze sociali l’hanno influenzata e modificata, basti pensare al periodo della tentata “riforma urbanistica”. Non è nata per costruire la città come luogo collettivo di cui oggi abbiamo bisogno, ma può essere utilizzata per contribuire a realizzarla.
Il piano regolatore ha il potere di influenzare i prezzi del mercato fondiario ed immobiliare attraverso l’attribuzione di diritti edificatori, l’individuazione delle destinazioni, la realizzazione di opere pubbliche, infrastrutture e urbanizzazioni primarie e secondarie, e di modificare le regole in base alle quali il mercato agisce. Tuttavia, parallelamente, mercato e regime dei suoli appaiono come le condizioni all’interno delle quali il piano è costruito e si trova ad agire. Se il piano incide sul regime dei suoli ed il mercato immobiliare (fondiario ed edilizio), è ovviamente vero anche il contrario.
Cosa possiamo fare? L’unica strada è rompere la logica della valorizzazione immobiliare rispondendo a quei bisogni, tantissimi, che non trovano risposta nella città di oggi… ricordando che elementi del futuro sono già negli usi, nelle contraddizioni e nei conflitti di oggi…
Invece di promuovere una (ghettizzante) soluzione per ogni segmento della domanda sociale, se ne deve trovare una capace di liberare spazio per i (differenti) valori d’uso per i (diversi) abitanti.
I problemi e le proposte
I problemi macro da affrontare:
1. la questione dell’accesso alla casa (è legata anche al pendolarismo e alla segregazione spaziale e funzionale);
2. l’inquinamento dell’aria (per il superamento dei limite di legge, gli amministratori dei comuni dell'area metropolitana e della regione sono stati rinviati a giudizio);
3. il traffico e la congestione (i pendolari verso il comune di Firenze sono pari al numero di residenti);
4. rinnovato bisogno di servizi socio culturali e di spazio pubblico e collettivo, di luoghi connettivi e di relazione.
Obiettivi conseguenti, volti a risolvere i problemi suddetti:
a.. ridurre la rendita (e i prezzi di affitto) per liberare spazio ai valori d’uso;
b. rendere più equa possibile la ripartizione della qualità urbana e territoriale in termini di attività, servizi, attrezzature, accessibilità con particolare attenzione ai mezzi pubblici, piste ciclabili e percorsi pedonali;
c. aumento delle aree a bosco, prato, parco, conservazione di tutti gli alberi e le aree verdi presenti nel comune, anche attraverso il riuso di aree dimesse (costruzione di nuove relazioni con la “natura non umana”);
d. sviluppo del trasporto pubblico in sostituzione, efficace ed efficiente, del trasporto privato. Deve quindi essere equamente ripartito sul territorio e non privilegiare pochi assi (come invece fa la tranvia di Firenze). La predisposizione di infrastrutture di trasporto pubblico deve avvenire adattandosi al contesto. E’ necessario garantire percorsi ciclabili e percorsi pedonali (protetti e piacevoli, non accanto ai flussi di auto).
Invariante strutturale: la permanenza di abitanti nel centro storico e in tutte le aree di pregio senza discriminazioni in base al reddito; la popolazione con redditi bassi, redditi intermittenti, senza reddito, con reddito da lavoro dipendente deve poter risiedere nelle aree di pregio della città: centro e colline. Questo è un obiettivo strategico.
Garantire la fruizione pubblica e collettiva dello spazio urbano. Non ridurre lo spazio urbano a luogo della vendita ma ricondurlo a luogo della cultura e dello scambio sociale.
Metodo:
- utilizzo delle conoscenze e delle proposte elaborate da tutti quei gruppi che (a differenza di Confindustria, Confcommercio, Associazione Nazionale Costruttori Edili e loro rappresentanti politici) non sono mossi da interessi di parte ed economici ma da una reale volontà di migliorare la situazione per la collettività. Antesignani del valore d’uso e non di quello di scambio, della razionalità sociale in luogo di quella economica (comitati dei cittadini, movimenti, non associazioni e agenzie che lucrano sui problemi sociali per ottenere il proprio reddito). Sostegno anche delle pratiche che mettono in atto.
- lasciare spazi aperti alle funzioni non predeterminate, spazio alla libertà, alle possibilità e all’autogestione, evitando solo usi impropri: la privatizzazione sia attraverso l’uso commerciale che attraverso l’esclusione di particolari soggetti (deboli? o non prepotenti?).
ridurre la rendita urbana: non abbassando la qualità ma aumentando gli usi e le funzioni sociali.
Più si realizzano edifici con destinazioni che producono rendita, più i prezzi aumentano. Più si nutre il mostro, più il mostro è forte. Basta vedere come si produce la rendita, per sapere come si riduce: non abbassando la qualità ma aumentando gli usi e le funzioni sociali.
La qualità produce rendita solo se il territorio cui si riferisce entra in una logica speculativa. Basti pensare alle aree a parco pubblico o a servizio pubblico dove non è consentita l’edificazione privata o attività finalizzate al profitto: sono “fuori mercato”.
I prezzi spropositati degli immobili e quindi la rendita fondiaria, si combatte realizzando e promuovendo:
1. usi sociali: valore d’uso e non di scambio, razionalità sociale e non di mercato;
2. qualità diffusa (sia in termine ambientali che di servizi ed infrastrutture) anche usando integrazione fra usi del suolo e trasporti;
3. proprietà collettiva e pubblica usata per fini sociali;
4. legge sugli affitti che calcoli i prezzi in base ai caratteri degli alloggi (ai costi di costruzione) e non in base alla localizzazione (affitto come spese di manutenzione o percentuale del reddito, forme di equo canone).
Liberare la trasformazione urbana dalla logica della rendita serve per rendere accessibile la casa ma anche per accrescere quanto è disponibile fuori dal mercato, infatti abitare la città non può significare solo la “funzione abitare” propria dell’alloggio privato, né i servizi possono ridursi a quello che rimane dello stato sociale e a quelli offerti dal mercato. Si tratta di accrescere la disponibilità di quanto esiste oltre e malgrado il mercato, di luoghi e servizi pubblici autogestiti: la città in comune, da costruire insieme.
Per questo la progettazione e la realizzazione collettiva e pubblica riveste un ruolo cruciale. Il piano urbanistico non deve e non può dire tutto, ma può contribuire a liberare spazio.
E’ necessaria una vera pianificazione e progettazione comune, una chiamata di tutti (non proprio tutti, non Confindustria, non ANCE, non le classi dirigenti, quelli hanno inciso e hanno anche troppa voce) per decidere insieme. Non è la partecipazione di facciata, che o avviene su fatti irrilevanti o è solo consultiva, perché poi decide chi è stato eletto, in base ad una visione un po’ riduttiva della democrazia.
Iniziative da prendere subito:
- uso temporaneo di strutture che si sa che saranno vuote per anni e loro assegnazione per usi abitativi o centri di attività socio-culturali autogestiti;
- utilizzo di cinema in dismissione, per scopi culturali (cinema, teatro, musica, feste, autoformazione, lezioni, formazione permanente) , in modo tale da conservare una funziona urbana che caratterizza la città (impedendo i cambi di destinazione).
1. Politiche e norme che hanno effetti diretti sugli usi del suolo e sulle funzioni:
- smettere di finanziare la casa in proprietà e le imprese costruttrici attraverso gli aiuti per pagare prezzi abnormi di vendita e di affitto di mercato e la concessione di volumetrie eccessive e funzioni utili solo per i promotori ma non per la città; bloccare ogni ipotesi di costruzione di case in affitto più o meno calmierato da parte di privati che in cambio ottengono lauti finanziamenti, affitti di poco inferiori a quelli di mercato e altre volumetrie per case in vendita sul mercato (lo scambio ineguale);.
- aumento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria a carico di tutti gli interventi di trasformazione urbana: i parametri sono decisi dalla Regione e possono essere modulati in relazione alla situazione delle diverse aree urbane. I Comuni devono evitare di non farli pagare o di permettere che le imprese gonfino i costi sostenuti per realizzare direttamente le opere;
- gli aumenti di valore immobiliare conseguenti a scelte dell’amministrazione devono essere totalmente prelevati per finanziare servizi e infrastrutture e la loro gestione collettiva: la rendita prodotta da tutti è di tutti e non dei proprietari fondiari (studiare specifiche tasse sui luoghi di lusso esistenti);
- predisporre una regolamentazione degli affitti e farla rispettare (affitto come spese di manutenzione o percentuale del reddito); regolare gli affitti (tutti) e imporre che non superino un tetto dipendente dalla qualità dell’alloggio (che dipende dal costo di produzione dell’alloggio) e non dalla localizzazione il cui prezzo dipende da una qualità prodotta (e pagata) collettivamente e non dal costruttore;
- sanzionare gli affitti al nero fino al sequestro e/o esproprio del bene; tassazione degli alloggi sfitti tale da renderli molto onerosi; le 15.000 case ufficialmente sfitte a Firenze, se effettivamente vuote vanno assegnate in affitto, se sono affittate illegalmente vanno requisite e affittate;
- modificare le regole di accesso all’edilizia a canone sociale, elevando il livello massimo di reddito consentito e ammettendo a pieno titolo anche i singoli, i giovani, gli anziani, le coppie senza figli e altri tipi di convivenza anche in gruppo (quindi non dando priorità solo al numero di figli);
- esproprio di beni immobili in caso di inerzia dei proprietari nel recuperare condizioni di degrado edilizio o urbano (vedi L:457/78) e loro utilizzo pubblico (recupero e affitto).
2. gli usi del suolo consentiti devono garantire la diffusione su tutto il territorio, in modo equo, di qualità ambientale e di sevizi e delle attività culturali.
Funzioni da evitare:
- bloccare qualsiasi variazione di destinazione e nuova previsione che preveda alberghi, abitazioni di lusso o comunque in vendita, centri commerciali, cinema multiplex;
- impedire la variazione di destinazione d’uso dei cinema esistenti (frequente la sostituzione con edifici con abitazioni in vendita o supermercati);
- bloccare cambi di destinazioni di beni pubblici, finalizzati alla vendita sul mercato;
- impedire la realizzazione delle infrastrutture inquinanti e comunque evitare la concentrazione in luoghi già troppo oberati (segregazione funzionale);
- strutture condonate una volta terminato l’uso in essere devono essere abbattute (il degrado viene spesso utilizzato come motivazione per abbatterle e ricostruire la volumetria con altra destinazione).
Funzioni da promuovere: abitazioni accessibili, servizi e spazio pubblico:
- bloccare la vendita di alloggi e locali di proprietà del Comune e della Regione (e di enti pubblici) e loro assegnazione in affitto (canone sociale: prezzi che coprano la sola manutenzione, oppure come percentuale del reddito);
- realizzazione di case in affitto a canoni sociali e che rimangano di proprietà pubblica in quantità sufficiente a risolvere la domanda (sfruttando le aree di proprietà pubblica e destinando a questo uso le aree di privati);
- l’abitare è una attività non riducibile all’alloggio privato e necessita di luoghi intermedi fra pubblico e privato: quelli prevedibili e quelli imprevedibili (organizzazione collettiva degli spazi residenziali);
- negli interventi di recupero e, solo per fare un esempio, nel centro storico, garantire con opportune norme non negoziabili, la permanenza dei residenti a basso reddito (per le eventuali imprese private che propongono i progetti deve essere chiaro: o prendere o lasciare);
- predisposizione e cura dei percorsi pedonali e ciclabili (effettivamente accessibili);
- verifica dell’esistenza reale degli standard: il DM 1444/1968 prevede 18 mq., (ma quasi tutte le regioni prevedono un minimo fra i 25 e i 30 mq.) per abitante per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, con esclusione degli spazi destinati alle sedi viarie. Una volta accertato il rispetto della norma, le quantità vanno maggiorate rispetto ai minimi in modo tale da rispondere anche alla domanda di altri servizi e spazi pubblici come condizione per assentire gli interventi;
- spazi per la creatività collettiva e la socialità collettiva: le nuove cattedrali laiche della cultura, della comunicazione, dello spettacolo, totalmente pubbliche. Imparare, insegnare, comunicare, discutere, decidere, progettare, assistere a spettacoli e guardare mostre, incontrare gli altri, leggere in luoghi collettivi. Lasciare spazi aperti alle possibilità e all’autogestione;
- le scuole per tutti: le scuole possono essere pluri-funzionali, ed essere utilizzate anche per l’istruzione permanente, e le palestre, e le sale riunioni potrebbero essere utilizzate anche di sera (sta succedendo in questi giorni grazie alla lotta di studenti, genitori ed insegnati nelle scuole di ogni ordine e grado);
- centri sociali e case delle donne come spazi pubblici gestiti dai fruitori;
- case per anziani con lavoratori contrattualizzati: abitazioni con spazi comuni e servizio sanitario, per fornire un’alternativa all’assistenza nelle case con badanti assunti privatamente: servizio condiviso per gli anziani e quindi accessibile anche a chi non può pagare un badante; per i lavoratori orari di lavoro definiti e con tutti i diritti fondamentali da statuto dei lavoratori. Luoghi di cura e di incontro per gli anziani nel mezzo degli insediamenti urbani per favorire l’incontro con gli altri di tutte le età: mai più soli.
Usi del suolo, alcune idee: area di Castello: parco; Fortezza: una volta svuotata dell’uso commerciale, luogo per cultura, arte, spettacoli, scambio culturale ed artistico; aree verdi urbane rimangono verdi e se sono degradate vanno recuperate; aree dimesse utilizzate per rispondere ai bisogni sociali (casa, servizi, spazio collettivo e pubblico). Fare tesoro delle proposte dei comitati dei cittadini.
Lo scenario a cui tendere è una economia al cui centro si trovino la cura delle persone, della natura “non umana”, i beni culturali, la formazione e la ricerca, i trasporti pubblici e la difesa del suolo. C’è bisogno di lavoro finalizzato al miglioramento della qualità della vita.
Il lavoro riproduttivo, di cura delle persone, deve diventare centrale, ma deve essere retribuito in modo diretto o indiretto: reddito di esistenza per tutti, in modo tale da liberare tempo per il lavoro sociale e di cura, ma anche culturale ed artistico senza sottostare alle logiche elitarie e segreganti del mercato capitalistico.
Non solo produzione ma anche riproduzione, non tanto produzione di oggetti ma produzione di relazioni e di cultura, e perché no, di felicità.
3. Riscoprire forme di proprietà della terra pubbliche e collettive, bisogna promuovere forme pubbliche e collettive di proprietà della terra e di gestione della cosa pubblica (la città in comune)….
lo spazio alla creatività sociale
La città è il luogo dove ricostruire le relazioni sociali e le relazioni ambientali che sono state spezzate: che tipo di persone vogliamo essere?
La politica della fiducia (di poter costruire relazioni sociali più giuste) contrapposta alla politica della paura.
Alcuni elementi: i luoghi non hanno un’unica identità; i luoghi non sono fermi nel tempo ma sono dei processi spazio temporali; i luoghi non sono conclusi (chiusi) con un interno ed un esterno.
Praticare il diritto di produrre lo spazio promuovendo la creatività di tutti…
Bibliografia
Coordinamento Comitati Cittadini Area fiorentina, (2008), Attenti al piano strutturale!!!, Quaderno n.5, gennaio.
Harvey, D., (2003), “The right to the city”, International Journal of Urban and Regional Research, Volume 27 Issue 4, pages 930-941.
Indovina, F., (1992), La città occasionale, Milano, Franco Angeli.
Indovina, F., (1995), ”Economia urbana e residenza. Implicazione del negozio fondiario nell’ordinamento urbano”, in Cartas Urbanas, n.4 marzo.
Henri Lefebvre, (1968), Le droit à la ville.
Maggio, M., (2005), “Movimenti urbani e partecipazione”, Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.82.
Maggio, M., (2005), “Movimenti urbani a Firenze: una mappa sociale dello spazio conteso”, Archivio di Studi Urbani e Regionali, n.83, pagg.131-140.
Maggio, M., (2006), “La questione abitativa a Firenze. Case in affitto: a che prezzo? Soggetti deboli e soggetti forti: per quanto ancora?”, http://eddyburg.it/article/articleview/6661/0/204/
Maggio, M., (2008), “Il programma “20.000 case in affitto” come modello? Un rischio da sventare e ben altre politiche urbane da promuovere”, http://eddyburg.it/article/articleview/8058/1/150.
Vedi anche: http://eddyburg.it/article/author/view/1466
[1]Vedi come esempio il caso narrato in Maggio, Marvi, (2006), “La questione abitativa a Firenze. Case in affitto: a che prezzo? Soggetti deboli e soggetti forti: per quanto ancora?”, http://eddyburg.it/article/articleview/6661/0/204/. Vedi anche http://eddyburg.it/article/articleview/8058/1/150.
[2] Questa tendenza era già stata messa in evidenza nel testo: Indovina, F., (1992), La città occasionale, Milano, Franco Angeli.
CONSIDERANT QUE :
1 La qualité de l'organisation physique, sociale et économique des pays, des régions et des zones rurales et urbaines concerne au premier chef le public et les autorités responsables à l'intérieur de la Communauté et de chaque Etat membre.
2 Ces autorités reconnaissent le rôle crucial de l'aménagement spatial, tant du point de vue national que régional et local, pour réaliser et maintenir une organisation physique, sociale et économique du territoire et un environnement de bonne qualité.
3 Remplir ce rôle dépend de la présence et de la disponibilité à tous les niveaux, aussi bien dans le secteur public que privé, d'urbanistes professionnels compétents et responsables.
4 Il est donc d'intérêt public que ceux qui font appel aux services d'un urbaniste puissent reconnaître et être certain de sa compétence et de sa probité professionelle, dans des conditions reconnues à travers toute la Communauté.
5 Il n'y à pas d'obstacles légaux à la libre circulation des urbanistes et à leur droit de s'établir dans un des Etats membres de la Communauté, mais il y a des différences substantielles entre ces Etats quant à la définition, l'object, le rôle, le champ d'activité, la structure et l'exercice de la profession d'urbaniste, et également quant à la formation, la compétence et les règles de conduite des urbanistes.
LES INSTITUTS NATIONAUX ET LES ASSOCIATIONS SOUSSIGNÉS D'URBANISTES DES ETATS MEMBRES croient nécessaire et urgent de s'unir pour rechercher une harmonisation de toutes les matières en relation avec la profession d'urbaniste à travers la Communauté. Ils se sont en particulier mis d'accord pour collaborer à l'établissement de critères de compétence et de morale professionnelle, qui seront observés par leurs membres et reconnus par les autres. En conséquence ils RECONNAISSENT et DECLARENT :
Qu'il formuleront une définition de l'urbaniste professionel par référence au champ et à la nature des ses activités; à sa compétence, en fonction de sa formation et de son expérience; à son éthique professionnelle en fonction du code de déontologie auquel il est soumis; et à son appartenance à son Institut national ou à son Association.
Que les éléments de cette définition seront formulés dans des annexes au présent Accord et Déclaration, spécifiant :
la nature et le champ d'activités de l'urbaniste professionnel :
les critères de formation et d'expérience professionnelles ;
les règles de morale professionnelle
3 Que cette définition constituera le critère minimal de reconnaissance de l'urbaniste professionnel à travers la Communauté et qui pourra être garanti par un symbole distinctif.
4 Que ceux qui répondent à cette définition seront reconnus mutuellement en tant qu'urbaniste professionnel par les Instituts nationaux et Associations à travers toute la Communauté; que les Instituts nationaux et les Associations seront libres de déterminer des critères plus exigeants pour leurs propres membres et que le critère minimal sera relevé de temps en temps par un accord conclu entre les Instituts et les Associations.
5 Que les Instituts et les Associations soussignés tendront vers l'harmonisation de leurs exigences en ce qui concerne la formation, l'expérience et la morale professionnelle en vue de parvenir en temps utile à la reconnaissance mutuelle des conditions et des qualfications requises pour l'affiliation.
6 Que les Instituts et les Associations soussignés travailleront à l'harmonisation des cycles de formation et des niveaux d'enseignement offerts par les institutions academiques dans les Etats membres respectifs, ainsi qu'a l'établissement d'une commission européenne pour la formation en urbanisme.
7 Que les Instituts et les Associations soussignés coopéreront à l'échange d'informations et à encourager les relations entre leurs membres et avec d'autres organisations concernées par la profession.
8 Que les Instituts et les Associations soussignés collaboreront pour dégager les grands problèmes de l'urbanisme et de l'environnement à incidence européenne et à formuler des recommandations opérationelles.
9 Que les Instituts et les Associations soussignés établiront un Comité de Liaison, forum où se poursuivrera le travail en vue de la réalisation des buts définis par la présente déclaration, qui servira de référence entre la profession et les Institutions de la Communauté, et aidera la promotion et la reconnaissance de la profession d'urbaniste dans chaque pays membre et dans la Communauté.
10 Que les Instituts et les Associations soussignés souhaiteront l'adhésion au présent Accord et Déclaration de tout Institut national ou Association, leur coopération et leur aide pour atteindre les buts énoncés dans le présent Accord, ainsi que leur appartenance au Comité de Liaison.
ANNEXE A: NATURE ET ETENDUE DES ACTIVITIES DE L'URBANISTE PROFESSIONNEL
1. L'Urbanisme est un processus qui regroupe plusieurs pratiques telles que: aménagement du territoire, aménagement régional, planification physique et spatiale, aménagement urbain et rural, environnement, sous leurs aspects socioéconomiques et dans leurs implications.
2. Domaines et nature d l'Urbanisme
L'Urbanisme couvre tous les aspects de l'aménagement, de la mise en valeur des territoires et de l'usage des sols. Il intervient aux différents niveaux interdependants - rural et urbain, métropolitain et régional, national et international. Il rassemble toutes les formes d'activitiés relatives aux phénomènes de développement. Pour ce faire, il oriente, il met en valeur, il contrôle et simule la perpétuelle évolution des milieux dans le respect de l'interêt général.
Ménageant l'avenir, I'Urbanisme contribue au développement harmonieux des Communautés humaines, en simulant les transformations physiques et sociales des milieux, en proposant l'utilisation optimale des ressources, et en prévenant les conflits d'intérêt ou en les atténuant. C'est à la fois une discipline de conception et de gestion, qui s'applique aussi bien à la préservation qu'à la transformation des structures et du patrimoine des régions urbaines et rurales.
L'Urbanisme contribue toujours à mettre en évidence les libertés de choix et les marges de flexibilité.
Projetant pour aujourd'hui et pour demain les différentes conditions d'organisation sociale, physique et économique des territoires dans un environnement de qualité pour les habitants, l'Urbanisme n'est pas forcément déterministe. Il s'inscrit dans l'argumentaire et les mécanismes de décision des institutions publiques et du secteur privé.
A cause de son influence directe sur la vie quotidienne des hommes, I'Urbanisme à évidemment de fortes résonances politiques, et la participation du public en est un élément indispensable.
3 Les qualités réquises pour les Urbanistes
L'Urbanisme demande une approche multidisciplinaire pour intégrer les aspects physiques, sociaux, culturels, économiques, écologiques et politiques du territoire. Les méthodes de l'Urbaniste comprennent l'analyse et la synthèse, la création et la composition, la gestion et l'administration du territoire.
L'Urbaniste se caractérise par son aptitude à travailler en équipe d'Urbanistes avec d'autres professionnels et avec les répresentants des différents groupes intéressés à l'evolution du cadre de vie.
4 Les missions de l'Urbaniste
Chercheur ou praticien, I'Urbaniste propose des politiques d'aménagement et des programmes d'action; il est concepteur de projets et permet leur mise en oeuvre; il participe à la formation des Urbanistes.
Par une synthèse complète, équilibrée et imaginative, les actions professionnelles des urbanistes concourent à:
° identifier les besoins présents et futurs de la collectivité ou de la Communauté et mettre en évidence les opportunités, les enjeux, les contraintes et les implications pour l'action;
° proposer, sous forme de politiques et de plans d'aménagement, les actions nécessaires pour déclencher, organiser et mettre en oeuvre le changement, en s'appuyant sur les données de la recherche;
° assurer la médiation nécessaire à la mise en oeuvre de ces actions;
° contrôler, conduire et modifier, ces plans et ces politiques au fur et à mesure de l'évolution des besoins et des ressources, et selon les directives générales qu'ils reçoivent;
° gérer et évaluer les effets et les implications dès changements des leur apparition.
NATURE ET CHAMP D'APPLICATION DES ACTIVITES DES URBANISTES PROFESSIONNELS
(Annexe A à la Charte Fondatrice)
L'urbaniste est
·Un chercheur
·Un professionnel
·Une source de proposition de politiques et de programmes d'action
·Un concepteur de projets, et
·Un réalisateur
Par les domaines de l'aménagement, l'urbaniste peut contribuer aux activités suivantes :
[omissis, vedi il file .pdf allegato]
Note
La gamme des activités couverte par la profession varie selon le pays membre de l'UE. Dans chaque pays membre, les urbanistes peuvent choisir individuellement de se spécialiser dans différents types d'activités.
ANNEXE B: FORMATION DE L'URBANISTE
1. L'Annexe B constitue le cadre de formation minimum de l'Urbaniste européen. La formation de l'Urbaniste à pour but de lui faire acquérir et de maintenir les compétences nécessaires à l'exercice de la profession définie dans l'Annexe à (Nature et étendue des activités de l'Urbaniste) et l'Annexe C (Devoirs professionnelle de l'Urbaniste). La mise en application et les modalités transitoires sont à définir par les institutions concernées.
2 Le Statut et les Compétences de l'Urbaniste requièrent une formation visant à développer la capacité d'identifier des situations, d'énoncer des diagnostics, et de formuler des solutions grâce à l'assimilation de connaissances interdépendantes d'ordre physique, spatial, technique, social, culturel, économique et politique, par la compréhension du processus global de l'aménagement du territoire et des disciplines et professions connexes dans leurs contributions à celui-ci, et par l'initiation à l'analyse, à la synthèse, à la prospective, à la programmation, à la création, à la conception et à la gestion.
3 Le Contenu de la Formation doit
a) s'étendre aux différentes échelles spatiales et aux différents termes dans le temps,
b) concerner les différents contextes et milieux de vie (rural, urbain, économiquement développé ou non),
c) évaluer et intégrer les nouvelles pratiques et techniques professionnelles,
d) se composer d'une formation académique et d'un stage de pratique professionnelle,
e) comprendre l'étude du champ de l'Urbanisme et des contributions faites à l'Urbanisme par les disciplines et professions connexes,
f) englober un tronc commun minimum de formation qui définit le niveau et la qualité minimum de cette formation, et qui sera adapter progressivement par le Conseil.
4 La Structure d'Organisation de la Formation
a) La formation est de niveau universitaire.
b) La formation est organisée dans le cadre :-
* d'un cycle d'études undergraduate (ler et 2e cycle) et comprend un minimum de 6 ans de formation, soit 4 ans de formation académique à temps plein ou équivalent et 2 ans d'expérience professionnelle inclus dans la formation, ou respectivement 5 ans et 1 an; ou
* d'un cycle d'études postgraduate (3e cycle) et comprend un minimum de 4 ans de formation, soit 2 ans de formation académique à temps plein ou équivalent et 2 ans d'expérience inclus dans la formation
c) Les contributions des disciplines connexes à l'Urbanisme sont intégrees à la formation des Urbanistes pendant toute la durée des études au sein des programmes de cours, des professeurs, et dans le cas des études postgraudate, des étudiants.
d) Les professionnels sont intégrés dans l'enseignement pour réaliser un équilibre entre théoriciens et praticiens au sein du corps professoral.
e) Les établissements d'enseignement ont, en outre, pour tâche de développer la recherche académique dans le domaine de l'Urbanisme et de l'aménagement du territoire.
5 La Spécialisation de l'Urbaniste dans un domaine particulier de l'Urbanisme se réalise
soit antérieurement à ses études en Urbanisme (postgraduate)
soit postérieuerment à ses études en Urbanisme (undergraduate)
soit de maniére complémentaire durant ses études en Urbanisme.
6 Les Formations de Nature Complémentaire dans le domaine de l'Urbanisme sont organisées pour
° la formation continue de l'Urbaniste
° Ia formation des techniciens chargés d'assister l'Urbaniste
° la sensibilisation des professions connexes à l'Urbanisme.
SUPPLEMENT A L'ANNEXE B DE LA CHARTE EUROPEENNE DES URBANISTES
TRONC COMMUN DES PROGRAMMES DE FORMATION DES URBANISTES
Le CEU précise le tronc commun minimum de formation requis pour préparer à l'exercice de la profession d'urbaniste.
Ce tronc commun fait partie intégrante de l'Annexe B à la Charte Européenne des Urbanistes: il est un élément fondamental de la profession d'urbaniste en Europe.
Il est exprimé volontairement dans un langage, et dans un ordre destinés à en permettre l'interprétation pédagogique différenciée par les différents Instituts et établissements de formation des urbanistes en Europe, selon leurs orientations spécifiques.
1. DE LA COMPREHENSION DU MILIEU
La perception et la compréhension du milieu: physique, naturel, humain, social, économique, technologique, bâti. La connaissance et la compréhension des traditions et des mécanismes qui régissent le développement, la vie sociale, la production et l'usage de l'espace, les mécanismes d'évolution des milieux naturels, et de la qualité de l'environnement. Les principes du développement durable. La compréhension des besoins de la personne.
2. DE LA THEORIE ET DE LA METHODOLOGIE
Histoire et philosophie; Théorie; Logique d'acteurs; Notions d'espace; Notions de temps. Politiques urbaines, aménagement du territoire, et urbanisme: marges de manoeuvre, analyses, synthèses, propositions. Méthodologies: analyse, synthèse, proposition/création/conception, médiation, mise en oeuvre, gestion, évaluation.
Choix et conception d'outils appropriés pour agir sur les mécanismes et sur les stratégies d'acteurs. Evaluation des contributions interdisciplinaires et méthodes d'évaluation continue des politiques publiques. Apprentissage de la recherche, et introduction à la prise en compte du temps et des rythmes dans l'évolution des établissements humains.
3. DU CADRE INSTITUTIONNEL
Législation et Administration de l'urbanisme: signification et cadre juridique des pratiques locales, et les règles de l'économie locale; compréhension et analyse pédagogique des différences entre pays. Connaissance et compréhension de l'imbrication des différents niveaux: national, régional, local, et de leurs spécificités propres. Connaissances générales sur les sources statistiques, sur les données financières principales, et sur les indicateurs exploitables (humains, physiques, économiques).
4. DES TECHNIQUES ET DES PRATIQUES PROFESSIONNELLES:
* Montrer la spécificité des méthodes: Identification des besoins; Prospective et anticipation des besoins - stratégies. Formulation du projet et simulations/évaluation des résultats; Capacité de travailler en équipes interdisciplinaires; Relations avec la population; Médiation des conflits; Fondements du Droit appliqué; Gestion et coordination des processus d'aménagement. Production de plans. Aménagement des sites.
* Apprendre les notions d'esthétique et acquérir les bases du travail de conception: Art Urbain; Plans d'urbanisme. Plans d'aménagement.
* Techniques d'expression: Mode, contenu, et transmission des concepts aux autres acteurs professionnels, à la population, aux centres de décision. Moyens d'expression (oraux, graphiques, écrits, informatiques).
5. DES MATIERES PROFESSIONNELLES
Mise en évidence des connaissances, des attitudes et des savoir faire spécifiques aux urbanistes; Responsabilité de l'urbaniste; Ethique/Responsabilité/Hiérarchie; Statuts d'exercice; Déontologie; Evolution des critères de reconnaissance professionnelle; Organisation professionnelle.
[Texte arrêté par l'Assemblée Générale du C.E.U. le 17 novembre 1995 à Athènes]
ANNEXE C: DEVOIRS PROFESSIONNELS
1 Les Urbanistes professionnels doivent se comporter de manière à garantir la bonne réputation de la profession en général et de leur Institut ou Association en particulier. Ils doivent respecter et défendre l'éthique et les règles professionnelles en vigeur dans les divers Instituts et Associations de chacun des Etats membres dans lesquels ils remplissent leur mission.
2 Chaque Institut ou Association rédige le détail de ses propres règles de conduite professionnelles et ce, dans le cadre des principes énoncés ci-dessous que tous les Urbanistes professionnels, appartenant à un Institut ou une Association des Etats membres de la Communauté Européene signataire de l'Accord, doivent respecter.
a) Compétence Prendre les moyens nécessaires et raisonnables pour entretenir leur compétence professionnelle en tout moment, et ce en prenant connaissance des orientations émises par leur Institut ou leur Association. Les Urbanistes doivent s'assurer qu'ils sont bien informés des besoins de la societé dans sa globalité et dans la diversité des disciplines.
b) Responsabilité Intervenir toujours dans l'intérêt de son donneur d'ordres (mandant, employeur ou client), tout en considérant que l'intérêt public doit rester prédominant.
Rendre compte et mettre en évidence tout renseignement utile connu, ainsi que les enjeux et les risques prévisibles dans l'action envisagée.
c) Intégrité Honorer la confiance de son donneur d'ordres (mandant, employeur ou client). Ne pas faire mauvais usage des renseignements dont les Urbanistes professionnels disposent de manière privilégiée.
Eviter les confusions d'intérêt, et particulièrement la situation d'être juge et partie, en s'assurant que toutes les propositions qu'il formule soient conformes à la bonne foi et aux savoir-faire professionnels.
d) Confraternité Chercher à éviter et à éliminer toutes formes de discrimination. Ne compter que sur la valeur professionnelle pour obtenir de nouvelles missions; ne pas chercher à évincer un confrère; informer systématiquement dès les prèmieres démarches tout confrère qui serait intervenu précédemment sur le même sujet avec le même type de mission. Travailler en équipe et collaborer avec d'autres Urbanistes autant que de besoin. Lorsqu'il est employeur, permettre à ses collaborateurs de parfaire leurs connaissances, d'épanouir leurs capacités et d'accroître leur expérience et leur savoir-faire, en permettant l'identification de leur contribution.
e) Rapports avec les autres professions Reconnaître la spécificité des professions connexes, rechercher leur collaboration et recourir à leurs spécialités selon la nature de la mission.
f) Remunération N'accepter pour rémunération de son travail que des honoraires, des appointements ou un salaire, selon les barèmes appliqués, éventuellement publiés par leur Association ou leur Institut Professionnel, à l'exclusion de toute autre remise ou commission; les Urbanistes exerçant à titre honoraire peuvent renoncer à être rémunérés.
g) Publicité Lorsqu'elle est authorisée, la publicité doit être honnête, mesurée, courtoise envers les concurrents, et être basée sur des reférences effectives sans autres intérêts commerciaux.
3 Chaque Association ou Institut Professionnel est responsable de l'observation par ses membres des règles énoncées ci-dessus.
La nascita del «Grand Paris» sotto il segno di una sfida politica
Nicolas Sarkozy sventola il Grand Paris come il «progetto faro» della sua presidenza e fa chiaramente intendere che questa sarà la sua carta alle elezioni per il secondo mandato nel 2012. Come ogni presidente francese che si rispetti, anche Sarkozy intende legare il proprio nome a un progetto di urbanistica che lasci il segno. In realtà il progetto, giunto alla fase dell'architettura e del confronto con il pubblico, si agita nell'aria già da anni e in effetti non è una proposta originale di Sarkozy. Il primo ad aver colto la necessità di legare l'avvenire di Parigi alla creazione di una metropoli solidale con il suo territorio è stato Bertrand Delanoë, socialista, che fin dalla sua elezione a sindaco nel 2001 ha avviato un «paziente e metodico lavoro d'ascolto e di collaborazione» con gli eletti della regione Ile de France e il loro presidente Jean Paul Huchon, anch'egli socialista, per negoziare una piattaforma di governance condivisa.
L'occasione è stata fornita da una doppia scadenza. Nel 2004 viene avviato lo Schema direttore della regione Ile de France (Sdrif), il documento urbanistico che fissa le linee guida dello sviluppo della regione parigina. Nello stesso anno il comune di Parigi lavora all'ultima fase del suo Piano Locale Urbanistico. Incardinati sui principi dello sviluppo sostenibile, i due programmi condividono i temi della qualità ambientale, della solidarietà fiscale e della riduzione delle ineguaglianze sociali individuando nella riforma della rete della mobilità pubblica e nel risanamento delle periferie gli obiettivi chiave dello sviluppo metropolitano. Per dare un segno concreto della buona volontà politica, nel 2006 Delanoë crea con gli eletti della regione dell'Ile de France, la Conferenza Metropolitana, gettando così le basi della metropoli parisienne.
L'arrivo di Sarkozy alla presidenza della Repubblica nel marzo 2007 modifica alcuni orientamenti del programma socialista. In occasione dell'inaugurazione di un nuovo terminal dell'aeroporto di Roissy il 26 giugno dello stesso anno, Sarkozy annuncia la revisione dello Sdrif per definire una «strategia efficace» per la ripresa economica di Parigi e della sua regione. Il programma ruota intorno al rafforzamento degli aeroporti e di alcuni poli strategici, in primo luogo il quartiere della Défense, alla costruzione di piattaforme tecnologiche in sette territori della Grande corona parigina, all'edificazione di settantamila alloggi nelle periferie e alla realizzazione di una linea della metropolitana di terza generazione (senza il conducente), la Rocade Blanc, per agevolare i collegamenti periferia-periferia.
Pur essendo tutte le parti in causa, a sinistra come a destra, concordi sulla necessità di una ristrutturazione dell'agglomerato parigino, sul tavolo ci sono due modelli: quello governativo di Sarkozy che mira ad accorpare i dipartimenti della Piccola e Grande corona e a rinforzare il ruolo della capitale e quello socialista di Delanoë che spinge per realizzare una confederazione metropolitana, solidale e sostenibile, vicina alle esigenze della popolazione.
Il Grand Paris è dunque anche una questione politica che ora, con l'approvazione della Rocade Blanc e l'inaugurazione dei progetti alla Cité de l'Architecture, pone gli avversari di fronte. Mentre Sarkozy si pronuncia a favore di una collettività metropolitana sollevando le critiche degli eletti dell'Ile de France che temono l'accentramento dello Stato, Delanoë lancia l'istituzione di Paris Métropole, un organismo di governance volto a definire un metodo finanziario di fondi di solidarietà fiscale. La sfida a chi realizzerà il Grand Paris è appena cominciata. Arbitri saranno i cittadini dell'Ile de France che vogliono essere parte in causa di un progetto che decide dello sviluppo del loro territorio.
Scommesse PARIGINE
A Parigi si respira aria di cambiamenti. Il progetto Le Grand Pari(s) de l'agglomération parisienne, la futura città metropolitana del bacino della Senna all'orizzonte del 2030, procede rapido. Il 14 marzo le dieci équipe di architetti e urbanisti chiamati a consultazione dall'Eliseo (i francesi Nouvel/Cantal-Dupart/Duthilleul, de Portzamparc, Grumbach, Castro/Denissof/Casi, Lyon e il gruppo Descartes e gli stranieri Rogers, Stirk, Harbour & Partners, Secchi e Viganò, MvRDV, studio AUC di Klouche, studio LIN di Finn Geipel) hanno consegnato la sintesi dei loro lavori, tre giorni dopo c'è stata una conferenza pubblica al Palais de Chaillot dove sono intervenuti studiosi del calibro di Saskia Sassen e Mike Davis e il 29 aprile è stata aperta alla Cité de l'Architecture et du Patrimoine la mostra delle diverse proposte, che saranno visibili al pubblico per sei mesi, fino al 22 novembre.
Nel frattempo si sono moltiplicate le iniziative culturali per coinvolgere la cittadinanza. Al Pavillon de l'Arsenal, la attiva e frequentatissima casa dell'architettura di Parigi, è in corso da gennaio un dibattito intitolato Echanges Métropolitaines su mobilità, residenza, lavoro, attrezzature culturali, tempo libero al quale è possibile partecipare attraverso il social network appositamente creato (e di cui forse si sentiranno echi in un incontro, Quale futuro per Roma e Parigi? che si tiene stasera alla Casa dell'architettura di Roma, con la partecipazione, tra gli altri, di Massimiliano Fuksas, Renato Nicolini, Michel Cantal-Dupart, Jacqueline Risset).
Da parte sua Pierre Mansat, braccio destro del carismatico sindaco socialista di Parigi Bertrand Delanoë, è responsabile di un blog espressamente dedicato all'avvenire dell'agglomerato parigino (www.pierremansat.com). Dopo anni di incubazione e di lavoro politico, il progetto Grand Paris comincia insomma a prendere forma.
Binari paralleli
Cosa sia il Grand Paris non è semplice da spiegare. A prima vista parrebbe un nuovo piano regolatore, ma pur trattandosi di un progetto di grande scala che mette mano alla struttura urbana di Parigi e del suo hinterland, il Grand Paris non è un piano regolatore. Meglio dire che il Grand Paris è un programma di sviluppo sostenibile e una prefigurazione che intende trasformare l'agglomerato della regione parigina in una metropoli policentrica di oltre dieci milioni di abitanti, solidale e ad alta qualità ambientale.
La sfida è alta e come fa intendere la «s» di quel Pari(s) messa tra parentesi, si tratta di una scommessa (pari in francese significa scommessa). La posta in gioco è l'avvenire di Parigi nello scacchiere internazionale dei prossimi anni, in una prospettiva di ridimensionamento delle condizioni dello sviluppo poste dal protocollo di Kyoto. Si tratta di raccogliere la competizione globale cominciando a lavorare dal contesto locale. Il primo ostacolo da superare è infatti, la riforma dei limiti amministrativi tra i dipartimenti che costituiscono la cosiddetta Piccola e Grande corona di Parigi, tutta la vasta area urbana che circonda la capitale.
La Parigi racchiusa dall'anello del Périphérique, il viale costruito sulle ceneri delle mura di Thiers, è una città relativamente piccola (un centinaio di chilometri quadrati) che non è più cresciuta dal 1870, mentre la regione dell'Ile de France è un territorio di dodicimila chilometri quadrati e oltre trecento comuni, densamente abitato e sede di importanti attività industriali e produttive che rappresenta un terzo dell'economia dell'intera Francia. Per anni lo sviluppo del territorio è andato avanti su binari paralleli, culturale e turistico da una parte, manifatturiero dall'altra, con la conseguenza che esistono due città, la borghese e ricca Parigi e l'operaia e multietinica banlieue. Queste due città sono necessarie l'una all'altra e il destino dell'agglomerato parigino è, ormai a detta di molti, l'eliminazione delle frontiere e la nascita di una confederazione urbana di dimensioni regionali. Ma per gettare le basi di una Paris Métropole il primo nodo da sciogliere è la diffidenza degli abitanti della regione dell'Ile de France, che vedono Parigi come la piovra che si interessa ai territori limitrofi solo per costruire i suoi cimiteri, le sue discariche e le sue fabbriche.
La realizzazione di Paris Métropole è dunque subordinata al superamento dei problemi sociali e politici che dividono la capitale e la sua regione, senza per questo trascurare l'urgenza della riduzione delle emissioni dei gas serra posta dal protocollo di Kyoto. I dati divulgati dalle organizzazioni internazionali sui processi demografici e i livelli del consumo energetico nelle aree urbane hanno rivelato che il riequilibrio ambientale è legato a doppio filo alla questione dello sviluppo: le città crescono a dismisura, sono diventate delle megalopoli, consumano territorio e molta energia (quasi tre quarti dell'energia mondiale).
Tra natura e artificio
Di fronte a un processo che sembra inarrestabile, la domanda ricorrente è «che fare?». La consultazione voluta dall'Eliseo - si badi bene, non un concorso di idee - nasce dall'intenzione di aprire un laboratorio di lavoro coinvolgendo gli architetti in una riflessione multidisciplinare per imprimere al progetto dell'agglomerato parigino il segno della proposta esemplare. La scommessa infatti non è tanto quella di dare una rinfrescata a Parigi, ma di lavorare a una «terza città» capace di mettere insieme le istanze del riequilibrio ambientale con quelle del rilancio economico e della solidarietà sociale per «fare della capitale una "città-mondo" aperta, dinamica, attraente, creatrice di ricchezze e di lavoro».
Tutti i lavori presentati concordano sul fatto che la futura metropoli parigina debba avere una dimensione territoriale. L'atelier Grumbach si è addirittura spinto fino a prefigurare una città sola da Parigi a Le Havre dove sono le foci della Senna, Christian de Portzamparc si richiama alla figura del rizoma di Deleuze e Guattari per proporre una città orizzontale e multipolare centrata su luoghi di addensamento urbano, il gruppo inglese di Rogers, Stirk Harbour insiste sul binomio concentrazione edilizia-mixité funzionale per risparmiare suolo e intensificare la mobilità «verde».
La cultura del mezzo pubblico
La futura Paris Métropole fa dunque leva sulla geografia del bacino della Senna per creare il palinsesto di una città-natura che, come ha detto Roland Castro, uno dei dieci progettisti, molto noto per la sua urbanistica militante, ponga al centro dei suoi obiettivi il diritto del cittadino all'urbano: «abitare in un edificio dignitoso, in un quartiere che sviluppi il senso di appartenenza alla comunità, in una città dove tutti i luoghi siano attraenti, in una metropoli che dia a ciascuno l'idea di poter essere qui e altrove».
Lo slogan è costruire una solidarietà tra l'urbano e il rurale perché senza questa alleanza non c'è circolarità economica e equilibrio tra le differenti attività umane. Ma come fare per tenere insieme una metropoli di dimensioni territoriali, che deve essere aperta e accessibile a tutti i suoi cittadini, ovunque essi abitano? Come fare per rompere le gerarchie e favorire le relazioni «orizzontali», smettendola finalmente con le differenze tra la città bella e buona del centro e la città-non città delle periferie? La soluzione condivisa è intervenire su due parametri, densità edilizia e mobilità pubblica perché una città ecocompatibile è anche una città paritaria che deve dare case e servizi a tutti e i cui luoghi devono essere facilmente e velocemente raggiungibili.
La sostenibilità non è soltanto questione di un giusto dosaggio tra natura e artificio, ma è anche questione di tempo e di distanze. Dunque per avere una città-natura che possa funzionare in modo fluido, il primo passo è rivedere il modello spaziale della città moderna e della griglia di Le Corbusier, vale a dire l'idea di una città basata esclusivamente sull'uso dell'automobile. Su questo fronte Parigi parte avvantaggiata, non tanto perché esiste una rete metropolitana ampiamente sviluppata, la quale, si sa, dovrà essere rivista in maniera radicale, ma perché nel dna dei parigini (come in quello dei francesi) è fortemente radicata la cultura del mezzo pubblico. Il vero parigino è colui che si sposta a piedi e con la metropolitana e oggi, dopo il varo di Velib (il sistema Velo+Liberté del bike-sharing) anche con la bicicletta.
Spazi definiti dalla velocità
Consapevoli di questa mentalità, gli architetti si sono sentiti autorizzati a rivoltare Parigi come un calzino e a immaginare di sostituire la struttura urbana radiocentrica con una «armatura» integrata di strade, linee ferroviarie e metropolitane aeree e a raso, corridoi ecologici, piste ciclabili e anche vie d'acqua (peculiarità del paesaggio della Senna oggi sottoutilizzato) secondo assialità e direzioni del tutto inedite rispetto a quelle tracciate dai grandi boulevards del barone Haussmann.
Ogni architetto ha tessuto il telaio urbano alla sua maniera con scenari che non sono mai gli stessi. Se l'atelier di Jean Nouvel sogna di fare di Parigi un grande giardino irrigato da cui crescono, come alberi artificiali, delle ecocittà verticali, lo studio di Bernardo Secchi e Paola Viganò coltiva l'idea di una città porosa, permeabile e isotropa fondata su una struttura ecologica di zone umide e tre tipi di spazi definiti dalle velocità: alta (automobili), media (trasporto pubblico), bassa (percorsi pedonali e ciclabili).
Da parte sua, il gruppo Descartes di Yves Lyon propone di densificare le aree verdi e di piantare una foresta per la produzione dell'energia e la regolamentazione del clima, mentre Roland Castro immagina di trasformare i grigi quartieri delle villes nouvelles in colorate oasi lungo il fiume, e gli olandesi MvRDV lanciano una provocazione riducendo Parigi a una città piccola e compatta per liberare i suoli e creare dei parchi eolici e solari.
Le proposte sono ancora allo studio, ma in ogni caso la variabile in gioco è quella della durata in un regime di vincoli fluttuanti e costantemente mutevoli. Ecco allora che il progetto del Grand Paris si prefigura come un'occasione concreta per elaborare una «terza città» capace di andare oltre il determinismo del Moderno e l'utopia di una città perfetta. È interessante riprendere le parole di Jean Nouvel che in un'intervista ha detto: «Il progetto Grand Paris è già lì. I dieci milioni di parisiens sono lì, il territorio è lì. Si tratta dunque di trovare la giusta forma per organizzare quello che già esiste e costruire le condizioni per far vivere meglio la gente». Questa dichiarazione che parte dall'ovvietà di ciò che c'è, suona una rivoluzione culturale nel paese di Cartesio e di Le Corbusier (svizzero ma francese d'adozione) dove il pensiero razionalista moderno si è espresso in termini di tabula rasa e di costruzione del nuovo a partire dalle cancellazioni. Il progetto Grand Paris-Paris Métropole rovescia i termini della questione e parte dal riconoscimento dell'esistente.
Per ora siamo solo ai primi passi e le incognite sono tante, ma la vicenda del Grand Paris merita attenzione, perché rappresenta forse l'occasione per realizzare un urbanesimo sensibile che adotti come strategie di progetto, il recupero e il riciclo per trasformare e investire di nuovi significati ciò che è a disposizione. Si sa che i francesi non mancano di coraggio e ogni volta che hanno voluto, hanno saputo rimettere in gioco le loro certezze. Sarà il Grand Paris il piano Haussmann del XXI secolo?
Nota: sul medesimo argomento si vedano in eddyburg anche le raccolte di articoli precedenti; di seguito in allegato un documento originale con le idee del sindaco di Parigi Delanoe sulle riforme territoriali (f.b.)
La pianificazione di area vasta, provinciale o comunque per un territorio composto da più circoscrizioni comunali, ha una storia e una tradizione piuttosto lunghe anche in Italia. Storia e tradizione che risalgono a ben prima di quelle che, di solito, si ritengono esperienze pioniere nell’epoca della programmazione economica e del centrosinistra (quello originario degli anni ‘60, con l’ingresso del Partito Socialista nella cosiddetta “stanza dei bottoni”).
Forse è possibile fissare addirittura in modo esatto non solo la data, ma persino l’ora della nascita ufficiale del problema piano territoriale. È una bella mattina di primavera del 1924, e in un piazzale in mezzo alla campagna, all’estrema periferia occidentale di Milano oltre Musocco, si affollano automobili di lusso, signore eleganti, alti personaggi ufficiali. Aspettano qualcosa. A un certo punto, il brusio si calma, dal gruppo delle autorità emerge Vittorio Emanuele di Savoia in persona, e taglia un nastro. Congratulazioni, qualche applauso, e poi la macchina col Re, seguita dal corteo dei notabili, imbocca l’opera appena inaugurata: la Milano-Laghi, prima autostrada del mondo.
Un osservatore a distanza dell’evento, il riformista Alessandro Schiavi già molto attivo nella diffusione in Italia del movimento per le case economiche, popolari e le città giardino, coglie subito un aspetto che né il Re, né il suo seguito, né gli ingegneri che hanno concepito l’innovativa arteria avevano previsto. Quella nuova strada veloce, in un modo inimmaginabile prima con la ferrovia e i tram, potrebbe rapidamente trasformare molti comuni in qualcosa di simile a un quartiere di Milano, i cui abitanti (almeno quei fortunati che si possono permettere l’automobile) potranno abitare nel verde, magari vicino a un lago, e arrivare comunque in tempo al loro lavoro nel centro della città. Ma verranno coinvolti anche tutti gli altri, che l’automobile non la possiedono: il traffico locale, la necessità di nuove strade, l’aumento dei prezzi immobiliari, la trasformazione di superfici agricole ad altri usi. Insomma, in modo nuovo, una immensa area con l’autostrada inizia a smettere di essere solo campagna, magari con qualche villaggio, e a trasformarsi in un suburbio. Che fare?
Occorre ripensare il piano regolatore, capisce subito Schiavi, e capisce anche immediatamente che i percorsi possono essere due: il primo, quello di una autorità superiore (lo Stato, la Provincia, un’altra autorità costituita ad hoc?); il secondo, con un processo forse più immediato, è quello dell’associazione “dal basso” fra i comuni, così come avviene per l’erogazione di certi servizi, e come stanno ad esempio iniziando in questi stessi anni ’20 a sperimentare, a scopi urbanistici, alcuni enti locali della Gran Bretagna.
| Pubblicità autostradale (1930) |
Perché quello della nuova dimensione territoriale vasta, ovviamente, non è un problema che riguarda solo la macchina col Re sfrecciante sulla nuova autostrada verso i laghi. Nell’America del primo automobilismo di massa, le campagne cominciano ad essere invase non solo dalle orde dei primi pendolari, dei furgoncini che portano la verdura al mercato di città, ma anche da un’altra cosa per molti versi più pericolosa. Se ne accorge l’ecologista ed esperto di pianificazione regionale Benton MacKaye: è il ciglio della strada che sta cambiando, e si trasforma in road slum. La traduzione di questo termine potrebbe essere più o meno “baraccopoli stradale”, quella delle pompe di benzina, chioschi improvvisati o permanenti, piazzole per la sosta su cui si affacciano edifici anche tradizionali che cambiano destinazione, vecchie osterie per il cambio dei cavalli che diventano il nucleo di una specie di brutto villaggio, ad offrire servizi e possibilità di sosta ai nuovi viandanti su quattro ruote. MacKaye è quasi profetico nella sua preoccupazione, e nel chiedere, come Alessandro Schiavi in Italia, che qualcuno inizi a pianificare quel territorio: la baraccopoli stradale del primo ‘900 altro non è che l’antenata delle future strip, ovvero le fasce commerciali che sino ai nostri giorni rappresenteranno, non governate, uno dei più importanti elementi di degrado e spreco di suolo, oltre a creare e alimentare congestione lungo i corridoio stradali su cui si allineano, e a svuotare in parte le città della loro vita e occasioni di incontro.
Tornando in Italia, va detto che l’intuizione lucidissima di Schiavi non è del tutto isolata: il tema dell’estensione del piano regolatore a territori più ampi di un solo Comune è oggetto di discussioni scientifiche e di dibattito politico-amministrativo. Per esempio nel solo 1926 ci sono ben tre eventi di notevole importanza da questo punto di vista. Il primo a Torino, dove nel quadro di un grande evento periodico dedicato all’edilizia si tiene un convegno espressamente dedicato alle esperienze internazionali di pianificazione metropolitana e regionale, visto che non solo nella già citata Gran Bretagna, ma anche nella regione della Ruhr in Germania, o in quella attorno a New York, che abbraccia ben tre Stati diversi, si stanno sviluppando importanti esperimenti (uno pubblico, l’altro privato e volontario, di coordinamento territoriale a scala vasta). La città di Milano, nel bando per il suo concorso di piano regolatore, precisa come per la prima volta i partecipanti non dovranno limitarsi a studiare il centro monumentale e i quartieri di espansione, ma estendere lo studio a tutta la regione interessata dai movimenti pendolari per lavoro, e comunque che gravita sul capoluogo lombardo. Infine, i piani regolatori “sovra comunali” diventano addirittura in qualche modo legge in Italia nel 1926, quando con l’istituzione delle Agenzie di turismo e soggiorno si prevede che nel caso in cui la tutela di paesaggi o la promozione delle strutture e attività turistiche interessino bacini omogenei ma appartenenti a circoscrizioni diverse, lo strumento urbanistico possa scavalcare i confini.
È proprio quest’ultimo aspetto, apparentemente di secondo piano (almeno per le dimensioni territoriali e gli obiettivi specifici) ad essere il più importante per gli sviluppi futuri, che si legano soprattutto alla naturalità di campagne e paesaggi tradizionali, anziché alle concentrazioni metropolitane di popolazioni e infrastrutture. La politica antiurbana ufficialmente adottata dal regime fascista, favorisce nel nostro paese lo sviluppo di un dibattito sulla pianificazione territoriale vasta legato soprattutto ai processi di “bonifica integrale”, che vedono tra l’altro affiancarsi in modo per certi versi molto moderno e anticipatore le figure dell’architetto/urbanista, dell’agronomo, dell’economista, dell’ingegnere e del geografo. Ancora una volta non si tratta di fenomeno isolato al caso italiano, se - come ha osservato ad esempio la studiosa americana Diane Ghirardo - è possibile sovrapporre quasi perfettamente le esperienze dell’Agro Pontino e quelle di stampo riformista e (accusa terribile negli Usa) quasi socialista promosse nel corso del New Deal di Roosevelt per il sostegno economico all’agricoltura e alla produzione energetica nella valle del Tennessee. In Italia così come in America, la stampa, la comunicazione pubblica e anche gli studi successivi ricordano soprattutto le “città nuove”: Littoria (poi Latina), Pontinia, Sabaudia, oppure oltreoceano le Greenbelt Towns pensate da Rexford Tugwell al centro di grandi territori agricoli. Ma è appunto il grande territorio agricolo ad essere il vero protagonista della pianificazione: sia perché ad esso sono dedicate le grandi opere di bonifica, riorganizzazione fondiaria, infrastrutturazione e modernizzazione dei servizi (dalle reti dei canali, all’elettrificazione, ai sistemi sanitari, scolastici, di formazione e aggiornamento professionale); sia perché l’aver collocato la progettazione urbana non “sopra”, ma “dentro” la propria regione agricola, affronta consapevolmente o meno per la prima volta il tema moderno del consumo di suolo, della continuità della trama territoriale delle aziende, dell’opportunità o meno di attribuire potenzialità edificatorie a una zona piuttosto che ad un’altra proprio in funzione di tali equilibri.
Non è sicuramente un caso, se proprio nel quadro di questi grandi processi di pianificazione territoriale a scala vasta degli anni ’30 viene pronunciata per la prima volta la parola sprawl, con esatto riferimento ad una espansione edilizia casuale e disordinata, che anziché produrre insediamenti che avvicinano l’uomo alla natura (come sostenuto nello stesso periodo ad esempio da Frank Lloyd Wright col suo progetto di Broadacre City) finiscono per promuovere un ibrido, che frammenta la rete produttiva delle campagne e pochissimo offre in termini di qualità residenziale, pur ad elevatissimo costi economici e sociali. È del 1937, questa prima comparsa del termine sprawl in urbanistica, e a pronunciarlo è il direttore del settore pianificazione della Tennessee Valley Authority, Earle Draper, nel corso di una conferenza ufficiale ad Atlanta. Letteralmente, in riferimento ai primi processi di diffusione delle case consentiti dall’uso dell’auto privata, Draper osservava come “Perhaps diffusion is too kind of word. ... In bursting its bounds, the city actually sprawled and made the countryside ugly ..., uneconomic [in terms] of services and doubtful social value”[1].
Anche in Italia, una sensibilità simile sembra articolare le due tendenze principali della pianificazione territoriale vasta, o almeno del dibattito teorico, visto che non esiste ancora alcuna legge che (salvo quella minore citata del 1926) preveda piani sovracomunali, e solo nelle tavole dei concorsi si intravedono schemi “regionali” o metropolitani. Ad esempio per l’area circostante Milano si delineano esattamente i due aspetti concorrenti: il suburbio a bassa densità a vocazione residenziale/industriale per il territorio di pianura asciutta settentrionale, la piana irrigua fertile meridionale sino al Po. In entrambi i casi lo slogan utilizzato è naturalmente quello della “bonifica integrale”, ma nei territori storicamente industrializzati della Brianza o del Sempione, secondo un interessante schema proposto dal presidente della Società per la Città Giardino, Cesare Penati, il territorio agricolo in quanto tale appare già troppo compromesso, e la vocazione produttiva storicamente orientata in senso manifatturiero. Uno sviluppo equilibrato per queste zone potrà al massimo mirare alla tutela delle fasce di interposizione a spazi aperti fra i nuclei abitati e industriali, da utilizzare ad esempio per orti o altri usi che possano integrare economicamente le principali attività meccaniche, tessili ecc. Ovvero seguire un modello simile a quello sostenuto internazionalmente dal movimento per la Città Giardino di Ebenezer Howard in Gran Bretagna, ma anche con una prospettiva egualitaria all’inizio del ‘900 dal geografo anarchico russo Petr Kropotkin.
Più vicina al modello pontino - e noto - della bonifica integrale all’italiana, la proposta di modernizzazione rurale per la bassa lodigiana presentata (più o meno contemporaneamente alla prima definizione di sprawl americana, vorrei osservare) dalla Provincia di Milano al primo congresso nazionale dell’INU di Roma. È il 1937, e anche sulla scorta delle esperienze sulle città nuove del’Agro Pontino l’Istituto Nazionale di Urbanistica dedica una intera sezione del proprio debutto ufficiale alla cosiddetta “urbanistica rurale”. Per conto dell’amministrazione provinciale milanese, Mario Belloni propone un importante elemento innovativo, ovvero il ruolo centrale dell’ente di governo nella gestione del piano territoriale: come altrimenti dare continuità e coerenza all’insieme complesso delle azioni necessarie, che si devono sviluppare non solo su una vasta regione, ma anche su un arco di tempo a volte molto esteso? Ad esempio,
“Non può essere passata sotto silenzio l’opera svolta dalla Provincia a pro della Bonifica della Bassa Lodigiana. È crediamo nota a molti, la difficile situazione idraulica in cui versava la zona rivierasca del Po a sud di Lodi, in cui tutto il sistema idraulico era imperniato sui due collettori centrali, il Mortizza ed il Gandrola. A causa della inefficiente funzione del secondo non atto allo scarico delle acque basse che ristagnavano quindi in depressioni paludose, e della difettosa sistemazione delle arginature di ambedue i corsi, ogni piena del Po provocava danni ingenti in tutto il Territorio della “Bassa”.
Questo stato di cose aveva reso necessario ed urgente l’attuazione di tutto quel complesso di provvidenze che passa sotto il nome di “Bonifica della Bassa Lodigiana”. Per poter giungere alla realizzazione del grandioso programma fissato nel progetto del Genio Civile di Milano e dell’importo previsto di L. 20.500.000 l’Amministrazione Provinciale si era assunto l’onere del finanziamento contro il rimborso del 75% dell’anticipo da parte dello Stato. Con la promulgazione della Legge sulla Finanza locale tale onere è passato interamente a carico dello Stato e quindi l’azione della Provincia a partire dall’entrata in vigore della Legge sarà limitata all’anticipo delle somme necessarie.
Ciò però non può diminuire il valore morale dell’intervento dell’Amministrazione senza del quale l’opera tanto auspicata non avrebbe trovato pronta attuazione.
Il risanamento agricolo di tutto il territorio della Bassa per un comprensorio di circa 14.000 Ettari, non poteva naturalmente andare disgiunto da un complesso di provvedimenti che miravano a sopprimere tutti i focolai malarici della zona ed a migliorare la situazione dei fabbricati rurali.
Per rendere possibile l’attuazione di questo programma si ottenne l’emanazione di una Legge che estese ai Consorzi di irrigazione alcune facoltà di bonificamento agrario come la costruzione di case coloniche, strade poderali, pozzi di abbeveramento, tutto ciò con l’evidente vantaggio di poter coordinare le iniziative dei singoli e coi benefici portati dalle Leggi sulle riscossioni coattive dei contributi consorziali” [2].
Un ruolo centrale, quello della Provincia nella pianificazione territoriale, destinato a riemergere poi nel corso dei decenni, sino ad affermarsi (molto, molto più tardi) nell’ordinamento attuale. Si affermerà invece quasi subito, con la legge urbanistica generale approvata nel 1942, il concetto di coordinamento dei piani comunali. Con obiettivi impliciti che avrebbero dovuto ricalcare almeno in parte quelli di contenimento della diffusione urbana così come li abbiamo riassunti sino a questo momento, ma che alcune scelte di sviluppo nazionale e locale dell’immediato dopoguerra metteranno a lungo in secondo piano. Sino a tempi molto recenti, quando da una lato una maggiore consapevolezza nell’uso di risorse limitate, dall’altro la crisi energetica e climatico-ambientale faranno riemergere questi, temi: forse solo intuiti, ma certamente discussi e sviluppati in modo interessante ed attuale già alle origini dell’urbanistica.
Note: di seguito, solo le due note relative alle citazioni testuali; per la maggior parte degli altri riferimenti, rinvio ai links esterni (f.b.)
[1] “Forse diffusione è una parola troppo gentile … Sfondando i propri confini in realtà le zone urbane si sdraiano scompostamente sino a rendere le campagne brutte, scarsamente economiche nell’erogazione dei servizi, e di dubbia utilità sociale”. L'affermazione di Earle Draper è riportata in varie versioni da alcuni siti web. Qui l’ho ripresa dalla “Guida allo Sprawl” http://www.plannersweb.com
[2] Mario Belloni, Il contributo della amministrazione provinciale di Milano al miglioramento delle comunicazioni ed al risanamento dei comuni rurali, in Istituto Nazionale di Urbanistica, Atti del I° Congresso Nazionale di Urbanistica, Roma 1937-XV, Volume I, Parte II: Urbanistica Rurale.
1. Anche se ben radicata nella tradizione di governo del territorio di molti paesi europei, la pianificazione di area vasta è stata attuata con discontinuità: a fasi di fortuna si sono susseguite fasi di ridimensionamento più o meno drastico, in stretta relazione con le alterne vicende del ciclo politico.
Oggi è tornata ad imporsi per due principali motivi: lo sviluppo e l’affinamento della riflessione sulla sostenibilità di lungo periodo dei sistemi territoriali; una messa a fuoco più consapevole in merito ai fattori localizzativi per l’attrazione di attività economiche in epoca di globalizzazione che ha evidenziato l’intreccio virtuoso che può instaurarsi fra competizione, cura e solidarietà territoriale.
In generale, la pianificazione di area vasta si articola in due principali ambiti, cui corrispondono tipologie differenziate di strumenti di governo e gestione:
- l’ambito territoriale esteso (corrispondente alla regione metropolitana o al sistema urbano policentrico integrato) cui è preposta la pianificazione di inquadramento, generalmente affidata ad un ente di governo di livello intermedio. Essa ha il compito di definire i grandi indirizzi per lo sviluppo insediativo e di promuoverne la attuazione attraverso la concertazione con gli enti di livello inferiore e superiore, esercitando compiti di verifica di conformità/compatibilità delle scelte della pianificazione sottordinata e, in alcuni paesi europei, competenze regolamentari/prescrittive[1];
- l’ambito dei “territori della prossimità” in cui la realizzazione di scelte insediative “ottimali”, attente alla tutela delle risorse territoriali e alla equa ridistribuzione dei vantaggi tra le differenti collettività insediate non può che fondarsi sulla cooperazione a rete e su base volontaria fra comuni.
Rispetto alla tradizione e alla recente evoluzione europea, il principale elemento strutturale di debolezza che si può ravvisare nel contesto italiano risiede nella assenza di una consolidata tradizione di pianificazione di livello intermedio, mentre, come è noto, in molti paesi europei già dalla metà degli anni ’60 dello scorso secolo si attribuì statuto giuridico e tecnico alla pianificazione di inquadramento (piani di struttura, documenti direttori), e nella debole propensione da parte dei comuni alla cooperazione in materia di pianificazione urbanistica.
2. In tutta Europa si è manifestato un vero e proprio eclisse della pianificazione di area vasta negli anni ’80 dello scorso secolo quando, in epoca di “rilancio competitivo” delle città, sia pure con le specificità e le coniugazioni nazionali, prevalsero la deregolamentazione urbanistica, la pianificazione per progetti, il city enterprising e il marketing urbano. Nella ridistribuzione delle competenze decisionali ed amministrative si tese a rafforzare in maniera pressoché esclusiva la pianificazione di scala comunale e a marginalizzare la pianificazione di livello intermedio.
3. Lo scenario è mutato radicalmente con l'adesione, non solo retorica, di molti paesi avanzati al paradigma dello sviluppo urbano sostenibile. E' infatti dalla raggiunta consapevolezza della necessità di salvaguardare lo stock di risorse naturali ancora disponibili nelle aree di intensa urbanizzazione per tutelarne le possibilità di rigenerazione, di garantire maggiore equità distributiva, di salvaguardare l'efficienza allocativa di lungo periodo che sono state approvate in anni recenti importanti e innovative direttive nazionali e riforme dei sistemi di pianificazione. E si tratta di riforme che hanno rilanciato, sia pur rivisitandone contenuti e modalità attuative, la pianificazione di inquadramento territoriale.
4. Dagli anni ’90 in poi, si consolidano metafore (la “città compatta”) e progetti di territorio che rivisitano e riattualizzano i modelli di organizzazione metropolitana policentrica; parole d’ordine condivise: intensificazione urbanizzativa in corrispondenza dei nodi ad alta accessibilità di trasporto pubblico; compattamento giudizioso delle nuove urbanizzazioni; salvaguardia/progettazione di un diversificato mix funzionale locale; rinnovata attenzione per la realizzazione nel tessuto urbano denso di un’offerta abitativa dedicata ai gruppi sociali più deboli; integrazione land-use/trasporti e potenziamento del trasporto pubblico e soffice; accurata progettazione delle aree di frangia periurbana; tutela perenne di spazi aperti e territori agricoli.
5. Molte sono le ragioni che spiegano il deciso ritorno di attenzione per la pianificazione di area vasta.
In primo luogo, l’intervento su scala vasta è necessario in presenza di un impatto sovralocale di decisioni locali, ed in presenza di spill-over o di esternalità negative e positive. Le esternalità, sono in genere effetti senza contropartita che nascono per esempio quando un comune “scarica” su altri dei costi, senza condividerne l’onere (esternalità negative: ad esempio, un aumento della mobilità nei comuni vicini per raggiungere un centro commerciale localizzato nel primo comune); oppure quando questo comune crea dei vantaggi anche per i comuni vicini, ad esempio predisponendo parchi e aree di ricreazione sul suo confine, senza riceverne alcun beneficio (esternalità positive).
Una seconda ragione che giustifica l’intervento su scala vasta si ha quando esistono “esternalità di rete” (una categoria simile alla precedente, che opera attraverso reti, fisiche o di cooperazione), e cioè in presenza di reti territoriali la cui logica e la cui giustificazione appaiono sistemiche. In questo caso, possono emergere elementi di antidemocraticità, nel momento in cui ad esempio l’interesse locale di oppone ad un’opera o una rete che viene proposta in funzione di un vantaggio collettivo sovralocale.
Ma altre ragioni si possono elencare sulla necessità di un’ottica non soltanto municipale ma anche di area vasta per la pianificazione spaziale. Ad esempio, per garantire:
- la qualità degli spazi pubblici e degli spazi aperti, altrimenti a rischio di essere sacrificati alle esigenze dello “sviluppo”;
- una responsabilità pubblica affidata una nuova governance multilivello, nella quale l’ente intermedio (la Provincia, nel nostro caso) dovrebbe svolgere un ruolo di snodo chiave;
- una gestione sostenibile dello sviluppo urbano, dal punto di vista ambientale, sociale ed economico, invertendo quindi una tendenza verso estese pratiche deregolative;
- e ancora, il governo della forma urbana, attraverso il contenimento dei consumi di suolo, la densificazione e la compattezza dell’edificato, la lotta allo sprawl e alla utilizzazione del suolo per uno sviluppo non necessario.
6. L’obiettivo del controllo del consumo di suolo ha dato grande impulso al rilancio della pianificazione sovracomunale.
Recentemente, la European Environment Agency ha pubblicato un rapporto sul consumo di suolo in Europa dal titolo molto evocativo, “Lo sprawl urbano: la sfida ignorata” (Report n. 10/2006), in cui si segnala con preoccupazione che, se le attuali tendenze continueranno, nei prossimi cent’anni si verificherà un raddoppio del suolo urbanizzato, con un impatto drammatico sui consumi di energia e di risorse territoriali e, di conseguenza, sulle emissioni di gas serra ed i cambiamenti climatici.
Significativo è, per le nostre riflessioni, il fatto che nel Rapporto si sottolinei ripetutamente la stretta correlazione che si è instaurata negli ultimi decenni fra deregolamentazione urbanistica e dispersione insediativa:“Where unplanned, decentralised development dominates, sprawl will occur in a mechanistic way”; “Despite the complexity of urban systems, a piecemeal approach to urban management prevails in many cities” (EEA, 2006: 7, 39). Una volta di più si auspicano modelli compatti e policentrici di sviluppo urbano, già più volte invocati nei documenti di politiche di sviluppo territoriale dell’UE e, in particolare, nello Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo.
Ma si afferma altresì che compattamento e policentrismo potranno essere effettivamente ed efficacemente realizzati soltanto attraverso piani elaborati alla scala pertinente (sopracomunale) e con indirizzi forti e condivisi: “Where growth around the periphery of the city is coordinated by strong urban policy, more compact forms of urban development can be secured”; “Scientists, planners and policy-makers are becoming increasingly aware that adequate decisions on urban development cannot be made solely at the local level” (EEA, 2006: 17; 45).
7. Al di là del titolo pessimistico ed esortativo del rapporto dell’EEA, molti paesi europei, a fronte degli inquietanti e ripetuti annunci di collasso ambientale planetario prossimo futuro, si stanno muovendo con molta più lungimiranza dell’Italia.
Il rilancio della pianificazione in generale e, soprattutto, della pianificazione di area vasta, appare infatti oggi strettamente collegato al problema del controllo del consumo di suolo, e si sostanzia attraverso direttive ambiziose e cogenti di “urban containment”; un rinnovato impegno per il rilancio di un’offerta abitativa di edilizia sociale e di alloggi a prezzi calmierati che consenta ai gruppi a basso e medio livello di reddito di rimanere in città anziché disperdersi nella villettopoli suburbana; una perentoria salvaguardia attiva degli spazi aperti e naturali periurbani.
8. A puro titolo di esempio, molti paesi europei si stanno impegnando in questa direzione attraverso:
A. le Direttive nazionali
Alcuni paesi europei hanno emanato direttive in cui si stabiliscono precisi obiettivi quantitativi e precisi traguardi temporali per arginare il consumo di suolo: obiettivi da realizzare attraverso efficaci piani di area vasta (e non soltanto comunali) e attraverso nuove regole non contrattabili applicate alla scala territoriale pertinente.
In Germania nel 1998, quando Angela Merkel era ministro dell’Ambiente, è stata emanata la direttiva nazionale per arginare il consumo di suolo che deve ridursi dai 120 ha/giorno dell’epoca a 30 ha/giorno entro il 2020. Nel Regno Unito, dopo la presentazione nel 1999 del rapporto “Towards an Urban Renaissance” affidato dal governo a una Urban Task Force presieduta da Richard Rogers, si è fissato l’obiettivo di realizzare entro il 2008 almeno il 60% della nuova offerta abitativa in aree già urbanizzate, via riuso di aree dismesse o completamento. Il governo olandese, nel Quinto Rapporto nazionale sulla Pianificazione Fisica del 2004, ha stabilito di concentrare l’urbanizzazione in 6 “national urban networks” (le principali regioni urbane del paese delle quali si intende valorizzare la struttura policentrica rafforzando le relazioni di complementarità fra centri) e in particolare nelle “concentration areas”: nei tessuti cioè densamente urbanizzati, nelle aree immediatamente contigue ed in alcuni nuovi cluster;
B. le riforme delle leggi urbanistiche.
Nelle riforme urbanistiche recenti di molti paesi europei stiamo assistendo ad una deciso ritorno alle regole: si tratta naturalmente di regole ri-attualizzate, perchè ancorate ad alcuni principi chiaramente enunciati che rinviano alle problematiche e alle sfide emergenti di oggi (sostenibilità/solidarietà/competitività). Le regole sono dedicate a garantire un uso prudente del territorio per realizzare un principio di efficienza nell’uso delle risorse, e un rapporto più equilibrato fra beni pubblici e beni privati al fine di realizzare un principio di solidarietà e di coesione sociale.
Qui mi limiterò a fare un breve cenno esemplificativo alle regole per il controllo della dispersione urbana contenute in due leggi urbanistiche recentemente approvate nel contesto sudeuropeo: si tratta della nuova legge urbanistica francese (“Loi Solidarité et Rénouvellement Urbains- RSU, n. 2000-1208 del 13 dicembre 2000) e della nuova legge urbanistica catalana (“Ley de urbanismo para el fomento de la vivienda asequible, e la sostenibilidad territoriale y de la autonomìa local 1/2005 del 26 luglio).
I principi della SRU sono chiaramente enunciati nel testo di legge: essi rinviano, così come è compito preminente di ogni legge urbanistica, all’interesse generale e al governo del territorio in quanto bene comune, ma sottolineano con chiarezza che al centro della nuova legge sono i problemi determinati dalla dispersione insediativa contemporanea: “combattere la ghettizzazione e la dispersione insediativa, riqualificare le città dense, promuovere politiche e piani integrati per favorire la mixité abitativa, lottare contro l’esclusione, garantire una offerta equilibrata di servizi pubblici”.
Analoghi principi presiedono alla legge catalana che si ripromette di “contenere la crescente dispersione dell’urbanizzazione, contrastare la specializzazione spaziale e la segregazione sociale prodotta dal mercato immobiliare che mettono in pericolo la razionale utilizzazione delle risorse territoriali ed il benessere collettivo”.
Gli obiettivi che ne discendono sono nel primo caso: “politiche urbane più coerenti e alla scala pertinente (per realizzare rapporti costruttivi fra comuni e agglomerazione), città più solidali, trasporti al servizio dello sviluppo sostenibile, partecipazione continua dei cittadini”; e nel secondo: “promuovere un modello di urbanizzazione che si caratterizzi per compattezza insediativa, diversificazione funzionale, integrazione sociale; dotare i poteri pubblici degli strumenti necessari per regolare l’attività urbanistica in difesa dell’interesse generale”.
Principi ed obiettivi si traducono in strumenti urbanistici riformati ma anche in nuove regole: di sostenibilità e di solidarietà.
Nel caso francese, troviamo due principali elementi prescrittivi che si applicano a strumenti urbanistici ampiamente riformati. Il primo, volto a garantire una gestione prudente nel lungo periodo delle risorse territoriali, è rappresentato dal principio di “constructibilité limitée” o di “extension limitée de l’urbanisation” che stabilisce che, in assenza di SCOT approvato[2], per tutti i comuni che si situano a non più di 15 km dalla periferia di una agglomerazione di 50.000 abitanti, non sarà consentito urbanizzare nuovi territori o realizzare grandi superfici commerciali. E ancora, gli SCOT potranno subordinare le nuove urbanizzazioni al livello di dotazione di trasporti pubblici e allo sfruttamento preventivo dei suoli disponibili in aree già urbanizzate (una regola di tipo sequanziale che rafforza il carattere prescrittivo del piano sovracomunale (SCOT) e che ha molte assonanze con analoghe disposizioni olandesi, tedesche e britanniche).
Il secondo, di solidarietà, si applica al nuovo piano urbanistico comunale (PLU: Plan Local d’Urbanisme): all’art. 55 la legge prescrive che i comuni con più di 3.500 abitanti facenti parte di una agglomerazione di più di 50.000 abitanti sono tenuti a garantire una offerta abitativa costituita, per almeno il 20% del totale, di edilizia sociale. I comuni che non raggiungono questa quota, se non predispongono un programma coerente e fattivo per colmare il deficit, saranno oggetto di una penalizzazione finanziaria per ogni alloggio mancante.
Anche nella legge catalana troviamo enunciate sia una regola forte per il cauto consumo di risorse territoriali e la tutela ambientale, che regole di solidarietà sociale.
La legge statuisce la inedificabilità dei terreni con pendenza superiore al 20%. Inoltre, introduce i Piani Direttori per la programmazione di politiche sovracomunali relative all’uso del suolo e alla offerta abitativa, per la elaborazione dei quali si promuove la cooperazione intercomunale. Allo scopo di garantire la coerenza fra Piani Direttori e Piani Urbanistici Comunali, questi ultimi dovranno includere una Memoria Social relativa ai programmi di edilizia economico-popolare destinati ai gruppi più disagiati; inoltre, nelle “Zone” (gli ambiti urbani affidati alla trasformazione da parte degli operatori privati) si amplia l’obbligo di realizzazione di edilizia sociale con cessione obbligatoria al comune: 20% del totale della superficie abitativa realizzabile, 30% nei comuni con più di 10.000 abitanti. La realizzazione di questa offerta abitativa da parte del privato sarà condizionata da un calendario stabilito dal piano, e il mancato rispetto dei tempi potrà determinare l’esproprio dei terreni;
C. il rafforzamento dell’associazionismo volontario intercomunale
Un altro importante ambito di innovazione nelle politiche di pianificazione di livello intermedio è rappresentato dalla intercomunalità volontaria promossa da amministrazioni comunali consapevoli dei vantaggi che si possono ottenere travalicando gli angusti confini amministrativi locali.
Il rilancio recente dell’intercomunalità è dunque il risultato di una acquisita consapevolezza dei rischi associati a politiche urbanistiche comunali autoreferenziali, sganciate da quadri di coerenza sopralocali: questi rischi sono ormai stati ampiamente evidenziati nel dibattito urbanistico e nelle migliori leggi nazionali e/o pratiche locali sperimentate in ambito internazionale; ma sono altresì ben evidenti ormai anche nel nostro paese, e non soltanto nei contesti dove riforme urbanistiche regionali recenti hanno drasticamente delegittimato la pianificazione di livello intermedio.
Ma promuovere l’intercomunalità non è comunque un progetto semplice e richiede innovazioni sia dall’alto che dal basso: la prima condizione per la sua efficacia consiste infatti nel rafforzare, attraverso leggi e direttive, nazionali o regionali, i compiti di inquadramento strategico attribuiti alle autorità competenti per la pianificazione di area vasta (nel nostro caso le Province), destinando loro le risorse finanziarie adeguate per incentivare l’associazionismo fra comuni attraverso la perequazione territoriale; la seconda, poiché l’intercomunalità si realizza su territori che non sono riconducibili alle partizioni amministrative esistenti, richiede lungimiranza da parte delle amministrazioni comunali e una grande attitudine al cambiamento nelle relazioni intergovernative, poiché i comuni devono accettare di delegare alcune competenze che sono loro attribuite a un ente volontariamente costituito di ambito sopracomunale.
Eccellenti risultati in questa direzione sono stati ottenuti della associazioni intercomunali tedesche (Kommunalverbände) e francesi (Communautés).
In Francia, un paese che vanta una tradizione legislativa più che secolare in materia di promozione della cooperazione volontaria fra comuni, nel 1999 è stata approvata una legge (si tratta della legge “Simplification et renforcement de la coopération intercommunale”, n. 596/1999) che persegue accordi duraturi su territori che corrispondono ai reali contesti spaziali in cui si manifestano le problematiche e le sfide contemporanee per le aree urbane: spetta infatti alle associazioni volontarie intercomunali contenere la dispersione insediativa, migliorare l’efficienza economica arginando la competizione atomistica fra comuni per l’attrazione di nuove attività, attenuare la doppia velocità territoriale e sociale. Alle Communautés volontarie, allequali la legge impone per la prima volta la continuità territoriale, sono trasferite dai comuni le competenze di aménagement spaziale e quelle in materia di sviluppo economico. Esse dispongono inoltre di rilevanti risorse fiscali proprie attraverso la perequazione territoriale (Taxe Professionnelle Unique).
Complessivamente le associazioni intercomunali sono oggi in Francia 2.573 (32.913 comuni; 53.334.933 abitanti: 85% della popolazione totale). Si tratta di grande successo cha ha fatto parlare di “una rivoluzione silenziosa”; in realtà, più che di una rivoluzione, si è trattato di un processo virtuoso che si è nutrito di innovazioni dall’alto e dal basso: ha infatti ricevuto un impulso sostanziale da un lato dalla istituzione di un fondo statale di compensazione ((Dotation Globale de Fonctionnement/DGF) che viene erogato a tutte le amministrazioni comunali che aderiscono ad associazioni volontarie che optino per la TPU; dall’altro dalla acquisita consapevolezza da parte dei Comuni dei vantaggi della cooperazione: messa in coerenza delle scelte insediative e condivisione dei rischi in epoca di crescente competizione globale e di volatilità delle imprese.
9. Rispetto alle innovazioni alla prova in altri paesi europei, in Italia a che punto siamo?
Teoricamente, dovremmo godere di un vantaggio competitivo nell’affrontare le sfide complesse cui deve rispondere la pianificazione di area vasta poiché disponiamo di un ente di governo specificamente vocato a presiedere alla pianificazione di inquadramento territoriale: la Provincia.
Ma in realtà i risultati sono ad oggi modestissimi, perché nel nostro paese tre sono, a mio avviso, i principali “nemici” di un coerente, equilibrato e lungimirante governo del territorio:
A. coloro che negano ruolo e necessità stessa delle Province, adducendo motivi di risparmio pubblico (che a ben vedere non ci sarebbe, perché i dipendenti pubblici non possono essere licenziati). Si tratta di una posizione quanto meno superficiale, che emerge con sempre maggiore frequenza nel dibattito politico e che incontra sostenitori non solo fra i livelli istituzionali che sarebbero favoriti da questa prospettiva, quello comunale e quello regionale, ma anche fra esponenti del milieu tecnico-culturale.
Al contrario, la provincia si configura come l’ente appropriato per la pianificazione di area vasta (per “le politiche integrate di sviluppo territoriale”, nell’espressione dell’Unione Europea). La dimensione comunale è infatti inadatta a gestire fenomeni che hanno natura e impatti trans-territoriali; quella regionale è adatta alla legislazione territoriale (all’interno di un forte quadro nazionale), ma non alla gestione;
B. la deregulation urbanistica, o “liberalismo attivo” nella versione colta dei fautori dell’approccio deregolativo. Si afferma al proposito che la pianificazione è strumento vecchio, derivante da una ideologia non liberale che vede il “governo” dettare le regole del “bene” comune. Essa sarebbe per questo nociva, in quanto soffoca il libero gioco del mercato – il solo custode del bene comune- poiché indirettamente costruisce un ordine sulla base delle preferenze individuali e delle conoscenze disperse fra un grande numero di soggetti.
La tesi pecca di una fondamentale sottovalutazione proprio sul terreno della teoria economica. Si può infatti facilmente dimostrare, sulla scorta degli scritti dei grandi economisti liberali-liberisti, che il libero mercato, insostituibile allorché si tratta di decisioni sulla quantità/ qualità/ prezzo di beni, fallisce come allocatore di risorse in presenza di:
- irreversibilità (il terreno urbanizzato è irrimediabilmente sottratto alla naturalità),
- esternalità (i vantaggi e gli svantaggi arrecati agli altri soggetti dalle decisioni individuali non generano né costi né ricavi aggiuntivi, e per questo non vengono presi in considerazione in un quadro di decisioni decentrate private),
- beni pubblici (essi non vengono per definizione forniti dal mercato),
- presenza di pochi operatori o di operatori operanti in collusione implicita o esplicita (come è spesso il caso nel mercato immobiliare);
C. la crisi della finanza pubblica, locale in particolare. Infatti, i sindaci fanno quadrare i loro bilanci con gli oneri di urbanizzazione e i contributi di costruzione (ci pagano anche gli stipendi, poiché le ultime leggi finanziarie lo consentono!). Come nel caso dei paesi arretrati, in presenza di una crisi fiscale dello stato delle dimensioni di quella attuale, si è obbligati a vendere il patrimonio di risorse locali (il suolo in questo caso) per generare reddito. Di qui l’attrazione fatale delle amministrazioni locali per lo sviluppo insediativo, al di là delle esigenze della domanda degli utenti potenziali.
Da questo stato di necessità, discendono due processi perversi che occorrerebbe al più presto contrastare:
- ci si avvia alla negoziazione col privato in condizioni di debolezza: ogni comune e ogni sindaco da solo, anziché in accordo coi comuni che ne condividono le problematiche e in conformità con i quadri di coerenza definiti dalla pianificazione di livello intermedio; e in presenza di forte asimmetria informativa rispetto al privato per quanto concerne condizioni di costo e di ricavo sul mercato immobiliare, anche per l’assenza di precise professionalità all’interno dei comuni;
- si capovolge il percorso logico virtuoso che procede dalla costruzione di una visione territoriale di area vasta legittimata da direttive di inquadramento e “regole”, alla elaborazione dei piani urbanistici comunali e a una conseguente concessione di diritti a costruire coerenti con la visione iniziale, in favore di un percorso vizioso: dalla identificazione del budget necessario per equilibrare il bilancio alla matematica definizione dei mq da urbanizzare e al conseguente accordo negoziale col privato, con conseguente casualità e disordine territoriale.
[1] Nel caso italiano, il riferimento è la pianificazione territoriale di inquadramento in capo alle Province anche se, come è noto, molte leggi urbanistiche regionali di seconda generazione hanno di fatto ridimensionato drasticamente le competenze attribuite alle Province dalla legge 142/1990. 12 paesi dell’Unione Europea dispongono di un sistema di pianificazione a due livelli. Ad esempio, Germania è ai Kreise che sono attribuite le competenze di pianificazione territoriale e, per delega statale, la concessione dei permessi di costruire. Nei Paesi Bassi spetta alle Province la elaborazione dei Piani di struttura (Streekplan) cui devono conformarsi le scelte dei Comuni in materia di pianificazione degli usi del suolo: ciò avviene all’interno di un sistema di forte controllo di conformità/compatibilità da parte del governo centrale che, attraverso i Rapporti Nazionali sulla Pianificazione Fisica, delinea i grandi indirizzi di politica urbana e territoriale secondo un modello esplicitamente gerarchico, anche se temperato da una consolidata tradizione di concertazione intergovernativa. In Inghilterra, il paese europeo piùcentralizzato in materia di politiche di pianificazione, dal 1994 sono state istituite 9 strutture decentrate (Government Offices of the Regions) dedicate a garantire approcci di politica territoriale coerenti con gli indirizzistrategici del governo centrale. Esse potrebbero cedere il campo nel futuro prossimo a istituzioni metropolitane costituitesi “dal basso” (13 City Regions) cui il Parlamento potrebbe attribuire competenze in materia fiscale, di pianificazione di inquadramento territoriale (Regional Spatial Strategy), disviluppo economico e rigenerazione urbana, trasporti e politica della casa : competenze del tutto simili a quelle attribuite nel 2000 al ricostituito governo della Grande Londra.
[2]Gli Schémas de la Cohérence Territoriale (SCOT) sono i nuovi piani di inquadramento di area vasta: ricevono competenze più ampie rispetto agli Schémas Directeurs (SDAU), sono elaborati dalle associazioni intercomunali volontarie e sono preposti ad integrare la pianificazione urbanistica comunale e i piani di settore. In particolare, con gli indirizzi dello SCOT devono essere compatibili (e ad esso subordinati): i PLH (Programme Local de l’Habitat), i PDU (Plan de Déplacement Urbain), i PLU (Plan Local d’Urbanisme), le Cartes Communales (i piani semplificati dei piccoli comuni), gli SDEC (Schéma Directeur de l’Equipement Commerciale), le ZAD (Zones d’Aménagement Différée), le ZAC (Zones d’Aménagement Concerté: i progetti in deroga realizzati attraverso società di economia mista), la perimetrazione delle riserve fondiarie superiori a 5 ha., le grandi opere pubbliche finanziate dallo Stato. Inoltre, gli SCOT definiscono in maniera insindacabile gli spazi naturali e urbanizzati sottoposti a tutela.
Il piano annunciato da Berlusconi, che permette al popolo – sempre più in libertà - di ampliare del 20 o del 30% le proprie ville (sic) o di trasferire altrove quello che non può essere fatto nel posto, con annessi e connessi riguardanti le attività produttive e il terziario, lascia esterrefatti e indignati gli italiani che amano ancora questo paese.
É difficile immaginare qualcosa di più perverso rispetto al consumo del territorio, di più distruttivo del paesaggio, di più velenoso dal punto di vista politico, di più immorale sotto l’aspetto etico.
Il primo punto: autorizzare incrementi di superficie o di volume di un quarto (mediamente) rispetto all’esistente significa un analogo incremento del consumo di suolo; ma anche se, in modo ottimistico, dicessimo della metà, del 10%, si tratterebbe di concentrare in soli due anni ciò che in linea di tendenza (già assai negativa) avviene in un decennio: Tra il 1990 e il 2005, l’Italia si è giocata il 17% del territorio ancora libero, con punte superiori nelle regioni del nord e addirittura catastrofiche in Liguria (il 45% del territorio bruciato in quindici anni). Tutto ciò significa solamente che il provvedimento fa strame della tanto sbandierata sostenibilità del territorio: in parole semplici, per soddisfare gli appetiti attuali daremo a figli e nipoti un paese ridotto a brandelli e saccheggiato.
Naturalmente il grande assente dalle considerazioni del presidente del consiglio e dei suoi seguaci è il paesaggio. Nel corso dei decenni del secolo scorso vi è stato un grande sforzo per classificare e tutelare il patrimonio edilizio rurale, permettendo solo trasformazioni compatibili con il suo valore storico. Di colpo questo lavoro faticoso, in molti casi importante anche dal punto di vista della conoscenza, viene spazzato. Vi immaginate una casa colonica ‘leopoldina’ in Toscana o una casa a corte padana, deformate da escrescenze aggiunte per sfruttare le chances generosamente offerte dal governo? Solo gli immobili tutelati come beni culturali ne risulterebbero esclusi (forse), un’infima minoranza; tutto il resto ridotto a carne di porco. E questo è il secondo punto.
Ma, si dice, saranno le Regioni e soprattutto i Comuni a decidere se e come applicare il provvedimento Qui, come in ogni impresa berlusconiana, sta il veleno politico. Quale potrebbe essere la sorte di un sindaco virtuoso (magari di sinistra) che impedisse ciò che il suo vicino (magari di destra) permette liberamente? Potrebbe resistere all’assalto delle truppe edilizie scatenate contro quelli che ‘non vogliono lo sviluppo e i posti lavoro’? Ne segue un ruolo fondamentale delle Regioni nell’intercettare a monte gli effetti perversi del provvedimento. Guai se queste assumessero l’atteggiamento pilatesco di rimandare la palla ai Comuni; guai se Comuni, che sono in prima linea, fossero lasciati soli a decidere,
L’immoralità. La forza del provvedimento è la sua illegalità. La decisione su quanto e dove costruire spetta agli enti locali, che da questo punto di vista sono già abbastanza generosi e già propensi a promuovere anche una domanda che non esiste. Per creare una domanda aggiuntiva, si deve quindi rendere legale l’illegale per un certo periodo di tempo, per due anni - ci si immagina prorogabili É come dire che per due anni il furto è legalizzato: affrettatevi aspiranti ladri, perché l’occasione potrebbe non ripetersi! Un’oscenità etica che è perfettamente in linea con la sensibilità morale di chi ci governa.
Due considerazioni conclusive. Il Veneto ha addirittura anticipato il provvedimento, la Lombardia e la Sardegna lo sta accogliendo con entusiasmo, la Toscana, per ora, appare nettamente contraria, dando prova di coerenza con i propri obiettivi politici. Riuscirà a resistere al presumibile assalto di cooperative e costruttori e al ricatto dei licenziamenti (un bluff, ma sempre efficace)? Se sì, saremo lieti di darne atto.
Infine: è possibile che fra senatori e parlamentari delle forze politiche al governo non vi sia nessuno, assolutamente nessuno, che si accorga della mostruosità del provvedimento? Del fatto che è inefficace come misura congiunturale a sostegno dell’economia e distruttivo del nostro patrimonio e della nostra identità? Del fatto che pregiudicherà in futuro quelle attività economiche, il turismo in primis, che offrono come beni primari territorio e paesaggio? Che manderà a ramengo la ricchezza e l’avvenire dei loro stessi figli? Forse sono domande ingenue rispetto al cinismo di chi ci governa. Ma tuttavia vogliamo continuare ad illuderci che ancora qualcuno fra senatori e deputati delle forze politiche al governo ami il suo, il nostro, paese.
È molto molto peggio di quanto si prevedeva. È il delirio di uno speculatore trasformato in legge.
In primo luogo, ha assolutamente ragione Dario Franceschini a contestarne la legittimità costituzionale. Basta saper leggere, non c’è bisogno di luminari del diritto. L’art. 117 della Costituzione, al terzo comma, elenca il governo del territorio (che comprende in sé l’urbanistica e l’edilizia) fra le materie di legislazione concorrente, e letteralmente prescrive: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Invece, lo schema di decreto legge in discussione, con il paravento che si tratta di norme per “agevolare la ripresa delle attività imprenditoriali”, detta norme destinate a entrare immediatamente in vigore su tutto il territorio nazionale, “sino all’emanazione di leggi regionali in materia di governo del territorio”. È così ribaltata la logica costituzionale, nel senso che le Regioni potranno con legge contraddire il decreto governativo (quando molti disastri saranno già commessi), non avendo, evidentemente, tale decreto la portata dei citati “principi fondamentali” dell’art. 117. D’altra parte, come si farebbe a spacciare per rispondente a principi fondamentali un testo che ammassa disordinatamente e approssimativamente prescrizioni minutamente volte a favorire purchessia l’attività edilizia?
Se non fosse tragica, la situazione sarebbe ridicola ove si rifletta che in questi giorni, come sanno i lettori di eddyburg, sono in discussione alla Camera proprio le proposte relative alle leggi di principio in materia di governo del territorio (fra le quali la famigerata proposta Lupi). Principi evidentemente spazzati via dall’iniziativa del governo. Insomma, lo stato di diritto va a farsi benedire e la democrazia italiana procede speditamente verso l’ignoto.
Nel merito, il decreto conferma e peggiora le misure anticipate nei giorni scorsi: 20 per cento di incremento del volume o della superficie delle unità immobiliari (fino a un massimo di 300 metri cubi per unità immobiliare: vi immaginate che succederà nei centri storici?) e sono tragicamente liberalizzati i mutamenti di destinazione d’uso; incremento del 35 per cento nel caso di demolizione e ricostruzione (stavolta senza limiti massimi). Non ci sono divieti, se non in casi del tutto eccezionali e sono praticamente azzerate le possibilità di opporsi.
Mi pare particolarmente efferata la volontà di cancellare la disciplina urbanistica. Si citano infatti una pluralità di norme da rispettare (quelle relative alla stabilità, al codice civile, quelle igienico sanitarie, quelle tecnico-estetiche, anche il regolamento edilizio per quanto riguardai documenti da presentare), mentre la disciplina urbanistica è nominata solo per consentirne la deroga e per prevedere che, entro il 31 dicembre 2011, i comuni devono “apportare le variazioni allo strumento urbanistico generale, al fine di assicurare l’adeguamento degli standard urbanistici, a seguito della realizzazione degli interventi di cui al presente decreto”. Si conferma il rito ambrosiano: non è l’urbanistica a comandare l’edilizia, ma il contrario, gli strumenti urbanistici devono adeguarsi alla “realizzazione degli interventi”. L’urbanistica diventa un a posteriori.
Le prime vittime (prime in ordine cronologico, la vittima ultima è il futuro dell’Italia) di questo scellerato decreto saranno le strutture dell’amministrazione dei Beni culturali: umiliate, avvilite, prese in giro, ed eddyburg tratterà con particolare attenzione questo aspetto. Qui mi limito a riportare una delle norme più funeste, il comma 5 dell’art. 5: “Per gli immobili siti nei centri storici non soggetti a vincoli[1], la denuncia di inizio di attività è presentata altresì alla competente Soprintendenza, che può imporre, entro trenta giorni, ulteriori modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto del contesto storico architettonico ambientale”. Se non ho capito male, le Soprintendenze non possono dire no, possono solo intervenire sui materiali e la cosmesi. Si ritorna alla più arbitraria e famigerata discrezionalità estetica, con tanti saluti al piano paesaggistico (piano? Vade retro satana), al codice dei beni culturali e del paesaggio, a quarant’anni di proficuo dibattito sulla tutela dei centri storici.
Chi ci può salvare? Molti centri storici e paesaggi italiani sono tutelati dall’Unesco. Credo che sia urgente e indispensabile una presa di posizione internazionale in difesa del nostro paese.
[1] Com’è noto, quasi tutti i nostri centri storici sono sprovvisti di vincolo.
A un architetto impegnato
Stolto Paolo Cordini
sinistro intelligente
che consideri i pubblici giardini
olandesi svizzeri svedesi
danesi tedeschi inglesi
oppio capitalistico
per la povera gente,
da bravo architetto italiano
tu passi impassibile in mezzo al Tuscolano,
ami viale Marconi e il Prenestino,
Primavalle e il borghetto Latino,
ti piacciono coree, bidonville e borgate,
le palazzine e le palazzate.
È bene che i ragazzi
siano murati vivi negli intensivi
senza prati né campi sportivi:
solo scoliosi e paramorfismi
spingono ai giusti, salutari estremismi,
solo la fisica deformazione
è garanzia di rivoluzione.
Da dialettico scaltro
tu dici sempre che il discorso è un altro:
è infatti invece di Pietralata
in fondo al cuore ti sta l’Olgiata.
(Roma, 1966)
Aver collocato all’inizio dell’intervento l’unica sua poesia che io conosco – come in altra circostanza ha già fatto Francesco Erbani – mi pare più efficace di una lunga esposizione, per intendere, sommariamente, ma subito, la sua complessa personalità e anche le ragioni di chi gli si contrapponeva.La poesia, evocando “i pubblici giardini / olandesi svizzeri svedesi / danesi tedeschi inglesi”, smentisce in primo luogo il diffuso convincimento che Cederna fosse un passatista, un lodatore del tempo passato, un reazionario. Era invece un accanito sostenitore della modernità, dell’urbanistica, dell’architettura, dell’arte moderna. In contrasto con illustri critici dell’architettura, sostenne con entusiasmo la piramide di Ieoh Ming Pei che illumina l’ingresso del Louvre. Fece il possibile perchè le città italiane seguissero l'esempio di Stoccolma, di Amsterdam, di Parigi, di Londra, di Vienna, di Zurigo, della Ruhr. Fece conoscere la meraviglia dei parchi nazionali americani, svizzeri, francesi. Non fu ascoltato. Così abbiamo avuto il Tuscolano, viale Marconi e il Prenestino, Primavalle, il borghetto Latino e Pietralata. Poi l’abusivismo. Fenomeni tutti sconosciuti nell'Europa ammirata da Cederna.
La poesia smentisce anche la leggenda che fosse comunista, estremista di sinistra. Comunista era il destinatario dei versi, lo “stolto Paolo Cordini”, che Cederna nettamente contesta, anche se nei suoi confronti non sfodera il disprezzo furioso che regolarmente riservava agli “energumeni del cemento armato” e alla mala genia dei funzionari affetti da “cupidigia di servilismo” [Ernesto Rossi].
La poesia, infine, con i riferimenti alle malformazioni infantili e giovanili determinate dalla mancanza di aree e di attrezzature per il gioco e lo sport, appare precisamente adeguata al tema “Gli spazi della comunità” che dà nome a quest’edizione del nostro festival.
***
Che mestiere faceva Tonino Cederna? Era stato archeologo (aveva anche fatto una campagna di scavi a Carsoli in Abruzzo, il resoconto è pubblicato in Brandelli d’Italia), comiciò a scrivere come critico d'arte su “Lo spettatore italiano”, rivista diretta da Elena Croce, e nel 1949 iniziò la collaborazione con Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio. Dopo la chiusura del prestigioso settimanale, scrisse sul Corriere della Sera, poi su la Repubblica e collaborò con l’Espresso e altri periodici. Accanto all’attività di giornalista, non trascurò mai d’impegnarsi nelle associazione culturali, fu anche due volte consigliere comunale a Roma, e quindi deputato indipendente nelle liste del Pci, presidente del parco dell’Appia Antica. Da deputato della X legislatura collaborò attivamente all’approvazione delle due fondamentali leggi per la difesa del suolo (183/1989) e per la protezione della natura (394/1991).
È negli anni di collaborazione con Il Mondo che matura il carattere della sua scrittura – al tempo stesso semplice e colta, che sa farsi tagliente, con un vocabolario sorprendente, ma sempre appropriato – e si definisce il perimetro dei suoi interessi, che in fondo coincidono con l’urbanistica moderna (moderna è la qualificazione che Cederna non dimentica mai di attribuire all’urbanistica che ama). Un’urbanistica dagli orizzonti vastissimi: tutto lo spazio comunque vissuto dall’uomo, la sua storia, le sue regole.
In un testo scritto all’inizio degli anni Settanta per Italia nostra di Milano definisce l’urbanistica “quella disciplina moderna per eccellenza la quale, unendo cultura, tecnica e impegno politico, ha per fine di assicurare condizioni umane di vita associata, di indirizzare nell’interesse pubblico gli sviluppi edilizi, di controllare a vantaggio di tutti le trasformazioni sempre più rapide cui è sottoposto l’ambiente dell’uomo”. Obiettivi ignorati dall’Italia che, nei trent’anni del dopoguerra, ha saputo solo “ampliare alla cieca le città esistenti”.
“I quartieri “nuovi” non sono che mucchi di case accatastate le une sulle altre, indiscriminatamente allineate sul filo stradale, immensi e degradati dormitori, periferia squalificata per cittadini di seconda classe, luogo di segregazione, frustrazione e umiliazione: con densità inverosimili che raggiungono e superano, a Roma o a Napoli, i mille abitanti per ettaro. Un universo concentrazionario fatto solo di asfalto e di cemento, dove il verde è quello dei lotti non ancora edificati o delle aiole spartitraffico, e i bambini giocano fra l’immondizia e le ruote delle automobili e gli anziani sono segregati sui balconi e nelle intercapedini: dove l’unica parvenza di natura sono i vasi di fiori alle finestre, come chi mettendo barchette di carta nella vasca da bagno si illudesse di essere al mare".
Scriveva con assoluta indipendenza di giudizio, fermo nei suoi principi, fedele alla concretezza dei fatti. Ineguagliata è l’esattezza geometrica delle descrizioni. Maria Pia Guermandi ha scritto che “parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustrante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo, non poteva essere descritto o definito”.
È noto il rigore estremo che poneva nel selezionare la documentazione dalla quale attingeva, e la puntigliosità con la quale riferiva i dati e le quantità relativi alle situazioni di cui dava conto. Non cedeva mai all’approssimazione, era anzi sempre disponibile e pronto a impadronirsi, non senza fatica, delle più complesse e specializzate questione tecniche, le norme, i parametri, le misure. E se ciò comportava l’esposizione di aridi elenchi, non se ne preoccupava, e sfidava imperterrito la pazienza del lettore. Perciò si è detto che Cederna era posseduto da una sorta di etica dei numeri, che sostiene la sua intransigenza e la sua indignazione. Ecco un esempio da un articolo su “Il Mondo” dell’aprile 1964, dove si confrontano le politiche urbanistiche di Roma e di Amsterdam:
“Considerando il verde esistente (parchi e giardini), Amsterdam ha una dotazione più che quadrupla di quella di Roma, che ha una popolazione più che doppia di quella di Amsterdam: e una media per abitante più che decupla. Senza naturalmente nemmeno paragonare la qualità e la distribuzione (a Roma terra bruciata, aiuole spartitraffico, zone verdi invase dal traffico, quattro quinti della popolazione senza un filo d’erba, eccetera), osserviamo che in trent’anni Roma passa da una media di mq 2,7 nel 1930 a mq 1,8 nel 1961 a mq 1,5 oggi, mentre Amsterdam passa da una media di mq 2,2 nel 1930 a mq 15,9. Tenendo conto dell’aumento della popolazione, si osserva che, ad Amsterdam, ad un aumento di 133.000 abitanti ha corrisposto un aumento di verde di 1.240 ettari, pari a una media di mq 93 per ogni nuovo abitante: mentre a Roma a un incremento di oltre un milione di abitanti ha corrisposto un incremento di meno di un centinaio di ettari, pari a una media di mq 0,8 per ogni nuovo abitante!”
Era insomma un giornalista anomalo, che considerava un vizio di fondo del giornalismo italiano il “culto maniacale e nevrotico della notizia”. Si riferiva alla notizia di eventi calamitosi o comunque clamorosi senza i quali non scatta l’interesse dei giornali: “Notizia, maledetta notizia”, ripeteva angosciato.
“Conseguenza di questo modo di pensare, per quanto riguarda la questione ambientale, urbanistica, ecologica, sarebbe che dovremmo augurarci un’alluvione al mese, una fuga di diossina ogni semestre, un affondamento di petroliera nel Mediterraneo ogni estate, un furto di Piero della Francesca alla settimana: queste sì, vivaddio, sono belle e buone notizie, anche da prima e terza pagina, per le quali mobilitare le grandi e perfino le grandissime firme”.
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Tonino Cederna scrisse durante tutta la vita, per mezzo secolo, migliaia di articoli, innumerevoli saggi, documenti, libri. Ma ho già detto che la sua attività non si esaurì nella scrittura, e fu sempre molto attivo nelle associazioni culturali, a partire da Italia nostra, fondata a Roma nel 1955 da Umberto Zanotti Bianco – che ne fu il primo presidente – e da Giorgio Bassani, Elena Croce, Desideria Pasolini dall’Onda, e altri. Nel documento istitutivo dell’associazione si legge che:
“essi comparenti, come tutti coloro a cui stanno a cuore le bellezze artistiche e naturali del nostro paese, non possono non essere estremamente preoccupati di fronte al processo di distruzione sempre più grave e sempre più intenso al quale è stato sottoposto negli ultimi anni il nostro patrimonio nazionale, ed hanno perciò deciso di costituire una fondazione nazionale con il proposito di suscitare un più vivo interesse per i problemi inerenti alla conservazione del paesaggio, dei monumenti e del carattere ambientale delle città specialmente in rapporto all’urbanistica moderna”.
Come ricorda Desideria Pasolini, Cederna non volle figurare fra i fondatori di Italia nostra, anche se ne è sempre stato il più autorevole esponente, e il riferimento all’“urbanistica moderna” nell’attoistitutivo è quasi la sua firma.
Molti dei suoi impegni più ardui furono perciò condotti, se così può dirsi, su due binari, quello del giornalista e quello del militante ambientalista. La salvezza dell’Appia Antica è sicuramente la più famosa e la più importante delle battaglie condotte in tal modo. Il suo primo articolo sulla regina viarum (Il Mondo, dell’8 settembre 1953) è quello, celeberrimo, titolato I gangster dell’Appia, al quale hanno fatto seguito almeno altri cento articoli, sullo stesso settimanale, sul Corriere della Sera,la Repubblica, L’Espresso e altri giornali. La sua azione ininterrotta e implacabile, l’impegno di Italia nostra e di altri benemeriti portarono a un primo fondamentale successo con l’approvazione del piano regolatore di Roma del 1965 che obliterò le paurose lottizzazioni per quasi cinque milioni di metri cubi ai lati della strada. Nel decreto, a firma del ministro Giacomo Mancini, si legge che “riguardando la tutela del comprensorio dell’Appia Antica interessi preminenti dello Stato [… ] l’Appia Antica è interamente destinata a parco pubblico da Porta San Sebastiano ai confini del Comune”.
Un risultato clamoroso. Scongiurato il rischio che l’avessero vinta i “nemici del genere umano”, Cederna si impegnò, sempre insieme a Italia nostra, perché alla tutela facessero seguito altri provvedimenti per conoscere, studiare, restaurare quell’intatto cuneo di verde, di storia, di natura che dai Colli Albani penetra fino al Campidoglio e per consentirne il pubblico godimento. La vicenda dell’Appia Antica si è trascinata nei decenni successivi fra alterne vicende: pessimo controllo del territorio da parte del Comune di Roma, che ha consentito l’insediamento di circa un milione di metri cubi abusivi; ripetuti interventi legislativi della Regione per la formazione di un primo e poi di un secondo ente parco regionale (di cui Cederna è stato anche presidente).
Nonostante le lentezze intollerabili, i compromessi, gli abusi, le astuzie, il gran parco dell’Appia Antica è però ormai una realtà indiscutibile, e in tante parti meravigliosa, una realtà che nessuno osa più mettere in discussione.
Tutto ciò lo si deve ad Antonio Cederna.
Va smentita in proposito un’altra insopportabile leggenda costruita ai suoi danni: che fosse un intellettuale astratto, incline all’interdizione, fatalmente destinato alla sconfitta, uno che sapeva dire solo no. Non è stato vero per l’Appia Antica e non è vero per un altro suo impegno, la tutela dei centri storici. Il punto di partenza è il convegno di Gubbio del 1960, un convegno d’importanza straordinaria, aperto da una relazione di Antonio Cederna e Mario Manieri Elia radicalmente innovativa rispetto alle teorie allora prevalenti, che consentivano di manomettere, di “diradare” e anche di sventrare i centri storici (fatte salve le emergenze monumentali). Il convegno approvò la famosa “Carta di Gubbio” che sostiene l’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici (“L’intero centro storico è un monumento”).
Anche in questo caso, fu Giacomo Mancini, che frequentava e stimava Tonino Cederna, a far propria la Carta di Gubbio e a tradurla in norma. La cosiddetta legge-ponte, quella approvata dopo la frana di Agrigento del 1966, subordina infatti ogni intervento di sostanziale trasformazione dei centri storici all’approvazione di un apposito piano particolareggiato. Una soluzione all’apparenza precaria e semplicistica che però, con il passare degli anni, si è dimostrata di eccezionale efficacia. Tant’è che il nostro è l’unico paese d’Europa che ha in larga misura salvato i propri centri storici, ed è questo l’unico merito che la cultura urbanistica italiana contemporanea può vantare nel mondo. Certamente, nessuno può sostenere che la tutela del patrimonio immobiliare d’interesse storico sia perfettamente garantita, ma certamente non sono più all’ordine del giorno gli episodi di gravissima alterazione, se non di vera e propria distruzione, che avvenivano frequentemente nei primi lustri del dopoguerra.
Qui a Ferrara non si può non ricordare il contributo di Cederna alla concretizazione dell’idea che, per primo, Paolo Ravenna, definì dell’addizione verde (quasi il completamento dell’“addizione erculea” del 1492), il grande parco urbano delle mura a nord della città (più di mille ettari), fino al Po, intitolato a Giorgio Bassani. Poi, forse meno conosciuto, un altro merito riguarda la localizzazionedell’auditorium nell’area dello stadio Flaminio, proposta da Cederna e accolta dal consiglio comunale di Roma, in tal modo scongiurando il vistoso errore che si stava commettendo di intervenire nel piccolo e inadatto borghetto Flaminio. E infine Tormarancia, uno splendido brandello di campagna romana, a ridosso dell’Appia Antica, salvato da una colata di cemento grazie ai suoi articoli e al lavoro delle associazioni.
È fuori discussione che, se ci furono vittorie, molto più numerose, e dolorosissime, furono le sconfitte, a partire dalla realizzazione dell’hotel Hilton: una violenza di 100 mila mc sul crinale di Monte Mario. Da allora Cederna adottò l’hilton come unità di misura della speculazione fondiaria: una lottizzazione di 2 hilton, uno scempio di 3 hilton e mezzo …
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Una buona parte degli articoli di Cederna è stata raccolta dall’autore in quattro libri, che qui rapidamente ricordo:
I vandali in casa, Laterza, 1956. Raccoglie gli articoli scritti per “Il Mondo” dal 1951 al 1956. Fondamentale è l’introduzione, con riflessioni sorprendenti per l’epoca (che anticipano la Carta di Gubbio) sulla continuità, nei centri storici, fra monumenti principali e architettura minore. Altrettanto straordinaria è l’analisi sulla rottura delle tecniche costruttive verificatasi nell’Ottocento a opera dell’architettura moderna che ha reso irrecuperabile il rapporto con un passato nel quale (“dai faraoni al barone Haussmann”) molte cose erano rimaste costanti e immutate. Ad alcuni degli articoli sono accluse note o bibliografia (quella sull’Appia Antica, in calce all’articolo Lo stadio nelle catacombe, impegna 11 pagine). Nel 2006, cinquant’anni dopo la prima, ha visto la luce una nuova edizione de I vandali, che contiene i due terzi degli articoli originali, curata di Francesco Erbani, cui si devono anche la prefazione e la postfazione.
Mirabilia Urbis, Einaudi, 1965. Un’ampia raccolta di articoli del Mondo (dal 1957 al 1965) dedicata alla sua città d’adozione. In appendice è riportata la fondamentale relazione illustrata da Cederna e da Mario Manieri Elia al convegno di Gubbio del 1960 che ha dato origine alla moderna politica di tutela dei centri storici.
La distruzione della natura in Italia, Einaudi, 1975. Tratta della natura in tutti i suoi aspetti, dai parchi nazionali ai giardini, dalle montagne ai laghi, dalle paludi allo stambecco. Sorprende una pagina in cui Cederna, accusato spesso e volentieri di esuberante pessimismo, si mostra invece ingenuamente ottimista, illudendosi che le cose in Italia potessero migliorare con l’entrata in funzione delle regioni a statuto ordinario.
Brandelli d’Italia, Newton Compton, 1991. Ancora un’antologia di saggi e di articoli, da Il Mondo e dal Corriere della Sera. Ogni articolo è seguito da un corsivo che aggiorna il pensiero dell’autore sulle cose scritte molti anni prima. Il corsivo in calce all’introduzione a I vandali in casa è il seguente: “A parte qualche intemperanza espressiva mi pare nella sostanza tuttora attuale. A p. 48 la banda degli architetti viene definita un «branco di scimmie»: oggi, per rispetto degli animali, userei un’altra espressione”.
Merita di essere rilevato il fatto che in nessuno dei libri di Cederna sono ripresi articoli che trattano di esperienze straniere. I suoi famosi servizi da Amsterdam, Parigi, Londra, Stoccolma, dagli Stati Uniti, dalla Svizzera, dalla Grecia non sono mai stati ripubblicati, e i suoi lunghi articoli su “Casabella” (il verde pubblico di Amsterdam) e su “Urbanistica” (il verde pubblico di Stoccolma) sono irreperibili, almeno fino a quando quella straordinaria istituzione che è l’Archivio Cederna (ne parlo in conclusione) non avrà provveduto a renderli accessibili on line.
Cederna ha scritto un altro libro:
Mussolini urbanista, Laterza, 1975, l’unico a carattere monografico. È un’accurata ricerca storica sullo sventramento di Roma negli anni del fascismo. Molto ben documentato e illustrato. Anche di questo libro esiste una nuova edizione, del 2006, pubblicata da La corte del Fontego, con prefazione di Adriano La Regina e postfazione di Mauro Baioni. In una stagione, come l’attuale, di accomodante revisionismo, è una ventata d’aria fresca la lettura delle edificanti biografie di sette protagonisti dell’urbanistica di quegli anni: Armando Brasini, Gustavo Giovannoni, Antonio Muñoz, Ugo Ojetti, Marcello Piacentini, Corrado Ricci, Virgilio Testa. Qualche riga:
- Brasini Armando: “è il campione del titanismo di cartapesta, del pompierismo ipermonumentale e della carnevalata neoromanesca”;
- Giovannoni Gustavo: “Il culmine dell’accecamento lo raggiunge col progetto del gruppo «La Burbera», firmato insieme ai peggiori arnesi dell’architettura e dell’urbanistica romana. È un piano che annienta tutto il centro barocco di Roma […]. All’insania urbanistica egli unisce quella architettonica: la piazza assiro-babilonese disegnata all’incrocio del «cardo» e del «decumano» dalle parti di piazza S. Silvestro ne è un esempio obbrobrioso”;
- Muñoz Antonio: “il regista del più vasto teatro di demolizioni della storia moderna, è l’autentico «mastro ruinante» di Roma, in nome del traffico, della romanità imperiale, della boria fascista e di altre volgarità. Pianta molti cipressi. Le fotografie lo mostrano sempre un passo indietro a Mussolini, che egli sobilla e persuade come uno Jago maligno: solo un trombone come Ugo Ojetti gli può rimproverare, per l’isolamento dell’Augusteo, un eccessivo rispetto archeologico”;
- Piacentini Marcello: “maestro insuperabile del doppio gioco e della riserva mentale: nei suoi innumerevoli scritti sostiene tutto e il contrario di tutto, e parte sempre dalla necessità di conservare «questa nostra cara e vecchia Roma» per proporne, nel capoverso seguente, la distruzione”.
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Nel programma del nostro festival, a proposito del ritratto di Antonio Cederna, si legge che fu definito urbanista ad honorem. Secondo me è stato di più: in materia di urbanistica i suoi contributi non sono stati solo d’informazione, di metodo, di critica – o di biasimo, come sostengono i suoi denigratori. Fu anche uno straordinario inventore di spazi. Il suo impegno ha riguardato soprattutto Roma. E a questa sua attitudine mi pare necessario dedicare la conclusione del mio intervento.
L’idea che aveva della capitale del terzo millennio, Cederna l’ha descritta più volte, ma il testo nel quale è disegnata compiutamente è la sua Proposta di legge per Roma capitale, dell'aprile 1989, quand’era deputato indipendente del Pci. Soprattutto la relazione alla proposta di legge è una vera e propria lezione di urbanistica (moderna). La nuova forma dell’area centrale di Roma voleva realizzarla attraverso due fondamentali operazioni:
- il trasferimento dei ministeri nelle aree del Sistema direzionale orientale (Sdo);
- la realizzazione del parco storico-archeologico dell’area centrale, dei Fori e dell’Appia Antica.
La proposta di legge illustra in dettaglio le cose da fare. I ministeri da trasferire nello Sdo non devono in alcun modo essere sostituiti da funzioni che comportino un analogo carico urbanistico.
“L’obiettivo di formare vuoti urbani attrezzati, parchi verdi e archeologici, ampie zone pedonali, eccetera, richiede la demolizione di alcuni degli edifici ex ministeriali, operazione essenziale, tra l’altro, per la più corretta valorizzazione di alcune aree di interesse archeologico oltre che opportuna per motivi di qualità urbanistica dell'intervento (basti pensare allo sgraziato salto di quota che separa la via Cernaia dal piano degli scavi delle terme di Diocleziano, frutto della sommaria sistemazione della zona dopo l’edificazione del ministero delle Finanze)”.
Nel cuore dell’area archeologica centrale, la valorizzazione delle antichità romane non può essere garantita solo dall’opera di restauro, manutenzione e consolidamento: è necessario intervenire sul piano urbanistico. Il parco Fori Imperiali-Foro Romano arricchirà Roma e i romani di “un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo”. Ma soprattutto, “coll’eliminazione dello stradone che negli anni Trenta ha spianato un intero quartiere e con la creazione del parco centrale si sancisce l'incompatibilità del traffico con il centro storico e con la salute dei monumenti”.
Allora, all’inizio degli anni Trenta, Benito Mussolini, per consentire che da piazza Venezia si vedesse il Colosseo, aveva fatto radere al suolo gli antichi quartieri, le chiese e i monumenti costruiti sopra i Fori e spianare un’intera collina, la Velia, uno dei colli di Roma. Migliaia di sventurati cittadini furono deportati in miserabili borgate, dando inizio all’ininterrotta tragedia della periferia romana. La nuova via dei Fori Imperiali doveva formare un grandioso palcoscenico per la sfilata delle truppe, ristabilendo la continuità fra l’impero romano e quello fascista.
Dell’eliminazione della via dei Fori – riprendendo un’idea già proposta da Leonardo Benevolo qualche anno prima – si era cominciato a parlare nel 1978, quando il soprintendente archeologico Adriano La Regina aveva denunciato le drammatiche condizioni dei monumenti romani corrosi dall’inquinamento. Il sindaco Giulio Carlo Argan coniò lo slogan: “O i monumenti o le automobili”. Luigi Petroselli, che sostituì Argan nel settembre 1979, sostenne subito l’iniziativa con entusiasmo e disponibilità culturale sorprendenti. Intuì che era un’occasione straordinaria per la “riforma” della città. “Io credo che non giovi ad alcuno […] volare basso su Via dei Fori Imperiali, anche perché si rischia di restare inquinati”, disse concludendo il 29 marzo 1981 la seconda conferenza urbanistica comunale.
Il progetto Fori messo a punto allora prevedeva il ripristino del tessuto archeologico sottostante la via dei Fori, attraverso la sutura della lacerazione prodotta nel cuore della città dallo sventramento degli anni Trenta. L’idea della storia collocata al centro della città futura – un futuro dal cuore antico – raccolse, come ho già detto, vasti e qualificati consensi. A esclusione del Tempo, tutti i quotidiani della capitale furono a favore del progetto. Un appello preparato da Cederna e dall’archeologo Filippo Coarelli fu sottoscritto da 240 studiosi italiani e stranieri. Vi si legge che, con la chiusura al traffico e con il recupero del grande complesso archeologico, si otterrebbe “un parco archeologico senza pari al mondo, comprendente i Fori Imperiali, il Foro Romano, e il Colosseo, e quindi uno straordinario spazio per la ricreazione e la cultura, tale da permettere un rapporto vitale e non retorico con il nostro passato”. Favorevoli furono soprattutto i cittadini di Roma, che parteciparono in massa a quelle straordinarie occasioni determinate dalla chiusura domenicale della via dei Fori e alle visite guidate ai monumenti archeologici.
All’impegno e alla rapidità delle decisioni di Petroselli si devono l’eliminazione della via del Foro Romano, che da un secolo divideva il Campidoglio dal Foro Repubblicano, e l’unione del Colosseo – sottratto all’indecorosa funzione di spartitraffico – all’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. Si realizzò così la continuità dell’area archeologica, liberamente percorribile, dal Colosseo al Campidoglio. E’ forse il momento più alto per l’urbanistica romana contemporanea.
Ma durò poco. Il 7 ottobre 1981 morì improvvisamente Luigi Petroselli. Cederna scrisse su Rinascita dello “scandalo” di Petroselli: lo scandalo di un sindaco comunista che aveva capito l’importanza della storia nella costruzione del futuro di Roma; che non voleva lasciare a nostalgici e reazionari il tema della romanità.
Con la morte di Petroselli cominciò a morire anche il progetto Fori. Gli oppositori si scatenarono. Dopo tre lustri di abbandono, furono ripresi gli scavi ai lati della via dei Fori ed è stata ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali. Ma la chiusura definitiva della strada è stata continuamente rinviata e le automobili di via dei Fori finiscono ancora tutte nel marasma di piazza Venezia.
Cederna restò sempre più isolato e amareggiato. Le pagine culturali de la Repubblica furono in prevalenza occupate da chi si opponeva al progetto. Si sentì “preso per i fondelli” e inutilmente protestò con il direttore Eugenio Scalfari. Nella postfazione a I vandali in casa, Francesco Erbani osserva che
“il grande parco che avrebbe immesso verde e archeologia fin nel cuore di Roma, strutturando la città su ritmi diversi da quelli dettati dalla rendita immobiliare e dalle macchine, viene lasciato cadere, prima sistemandolo nell’orizzonte lontano delle utopie, alle quali si presumeva di poter giungere colla cadenza burocratica delle commissioni e delle subcommissioni consiliari, poi facendolo completamente sparire dall’orizzonte della città. […] svanito è l’impianto strategico, ciò che quel progetto prefigurava come parte della prospettiva di una città che facendo perno sul proprio patrimonio archeologico concepisce un’altra fisionomia di sé, prospetta altri rapporti fra centro e periferia, dichiara esaurita l’espansione “a macchia d’olio” nei territori dell’agro romano e si concentra sul miglior uso delle parti già edificate, sul trasferimento dal centro delle funzioni direzionali, amministrative e aziendali, verso aree periferiche con il doppio intento di liberare il primo e di riqualificare le seconde, interrompendo drasticamente quel processo, affidato tutto al mercato degli immobili, che concentra residenza fuori e uffici dentro, con i drammatici problemi di traffico e di inquinamento che questa conformazione porta con sé”.
Il Requiem al progetto Fori è stato definitivamente recitato nel 2001 con l’apposizione del vincolo monumentale proprio sulla via dei Fori e dintorni, fino alle terme di Caracalla, congelando la situazione attuale. La relazione storico-artistica che giustifica quel vincolo rappresenta un radicale cambiamento rispetto all’impianto originario del progetto, com’era stato concepito da La Regina, Cederna, Petroselli. La sistemazione patrocinata da Benito Mussolini non è più contestata, diventa anzi “un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel bene e nel male, raggiunto”.
Il contrasto con il pensiero di Cederna è assoluto. In Mussolini urbanista si legge che
“i Fori imperiali sulla sinistra di chi va verso il Colosseo sono stati sprofondati in catini, come in seguito a un errore di calcolo o a uno sconquasso sismico; mentre i monumenti sulla destra presentano tutti al passeggero il di dietro, per di più gravemente mutilato e rappezzato. Una cosa davvero straordinaria che non ha uguali nella storia urbanistica universale, e che le guide turistiche trascurano di segnalare”.
Secondo Cederna, il progetto Fori non era solo un’operazione di archeologia urbana, ma il punto di partenza per un radicale rinnovamento dell’assetto di Roma. Il recupero dei Fori era un dettaglio del grande parco urbano che avrebbe dovuto estendersi, lungo l’Appia Antica, dal Campidoglio ai Castelli Romani, formando la struttura principale dell’area metropolitana, l’unica pausa in una periferia senza fine. Tutto ciò è ignorato nelle motivazioni del vincolo che contesta la valenza generale del progetto Fori, vilipeso come “un insieme di singoli interventi puntuali, svincolati da ogni problematica urbanistica”.
Leonardo Benevolo è stato fra i pochi che non non ha ceduto alla sirena del revisionismo, e così commenta sul Corriere della Sera il decreto di vincolo:
“E’ diventato illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano, che renderebbe percepibile ai cittadini di oggi uno dei più grandiosi paesaggi architettonici del passato. […] si è preferito Antonio Muñoz (lo sprovveduto autore di quelle sistemazioni) ad Apollodoro di Damasco, l’architetto dell’imperatore Traiano”.
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Un destino clemente ha impedito a Cederna di vedere la fine miserabile toccata negli ultimi mesi all’area archeologica centrale di Roma e agli scavi di Ostia, insensatamente affidati alle cure della protezione civile, con Guido Bertolaso commissario all’archeologia. L’intero mondo delle soprintendenze e quanti hanno a cuore la nostra storia e la dignità nazionale hanno protestato con determinazione. Salvatore Settis, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, si è dimesso. Ma il governo va speditamente avanti lungo la linea dello smantellamento dei poteri istituzionalmente titolari della tutela, come aveva profeticamente previsto Cederna, scrivendo nel 1993: “Liberarsi quanto più possibile dal patrimonio artistico, culturale che la storia, si direbbe, ha avuto il torto di lasciarci in eredità: questo sembra il pensiero dominante dello Stato italiano”.
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Ho velocemente illustrato le opere e i giorni di Antonio Cederna. Mi resta da dire di una mirabile iniziativa, cui ho già fatto cenno, che è stata attivata nel novembre dell’anno scorso per merito soprattutto dell’archeologa Rita Paris: l’Archivio Cederna, sull’Appia Antica, in prossimità del mausoleo di Cecilia Metella, in una proprietà acquistata dalla soprintendenza archeologica di Roma, dopo aver riportato alla luce un impianto termale della metà del II secolo d. C. Nell’edificio principale sono stati raccolti la biblioteca, i documenti, le foto, e gli appunti di Antonio Cederna che la famiglia ha donato allo Stato italiano e che costituiscono il primo nucleo del Centro di documentazione della via Appia che si sta costituendo insieme al comune di Roma, alla Pontificia commissione di arte sacra, all’ente parco. In collaborazione con l’Istituto beni culturali della regione Emilia Romagna si sta provvedendo all’informatizzazione dell’archivio, a mano a mano consultabile anche on line nel sito dell’Archivio.
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Per chi intanto voglia conoscere un po’ meglio la figura di Antonio Cederna segnalo:
Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna, un libro a cura di Maria Pia Guermandi e Valeria Cicala, Bononia University Press, 2007. È stato voluto dall’IBC – Istituto Beni Culturali – della Regione Emilia Romagna. Raccoglie saggi scritti per l’occasione da compagni di viaggio, studiosi e testimoni. In appendice 14 articoli di Cederna scelti dagli autori del libro.
Pubblichiamo due analisi dell’ultima (per ora) stesura della proposta del governo Berlusconi in materia di casa e dintorni. La prima è una nota di Antonello Sotgia, preparata in occasione di un incontro del tavolo per il diritto alla città convocato a Roma per il 20 settembre, e concerne in particolare gli aspetti edilizi e urbanistici. La seconda è una lettera inviata da Vittorio Emiliani a Vasco Errani, rappresentante delle regioni nel confronto con il governo, e si riferisce soprattutto allo svuotamento di alcune norme della tutela del paesaggio. In calce potete scaricare il testo dell’ultima stesura del decreto, diramato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Resta comunque in piedi la bozza di legge che il Parlamento dovrebbe approvare per delegare il Governo a cancellare l'interesse pubblico dalla legislazione urbanistica, per gli aspetti che non possono essere “risolti” con un decreto.
Antonello Sotgia
Queste le maggiori novità
All’articolo 1
Non è più richiesto “titolo abilitativo alcuno” anche (cfr punto b) per gli interventi di manutenzione straordinaria ( per esempio spostamento di tramezzi che non riguardano parti strutturali dell’edificio) e (cfr punto g) sono ammessi, senza alcun titolo abilitativo, i cambiamenti di destinazione d’uso senza aumento di carico urbanistico. Non sarà più un tecnico a presentare la documentazione ma testuale (cfr comma 2) “ prima dell’inizio degli interventi, compresi i cambi di destinazione d’uso , al proprietario sarà sufficiente inviare una e-mail all’amministrazione comunale.
All’articolo 2
Vengono indicate le misure in materia antisismica. Viene detto che ogni premiabilità di cubatura ( il famoso + 20 % e + 30% ) sarà assentita solo quando il progettista abbia documentato il rispetto della normativa antisismica (cfr comma 1). Finalmente, ma solo dopo la tragedia dell’Abruzzo, l’entrata in vigore della nuova normativa- sospesa e rimandata con l’ultima finanziaria- viene ora riportata al 30 giugno p.v.
Eccoci dunque arrivati finalmente alla liberalizzazione. Ognuno sarà autorizzato a sentirsi “ padrone a casa propria” . “ Saltando ” la presentazione del progetto verrà meno quella specifica forma di relazione con la collettività che l’elaborato progettuale rappresenta sia quale testimonianza delle intenzioni del “ singolo” , sia quale rapporto con l’amministrazione che, attraverso l’approvazione del progetto, diviene ( dovrebbe divenire) garante della liceità della trasformazione richiesta nei riguardi del governo del territorio e dell’ interesse pubblico.
Infatti:
Senza “ titolo abilitativo alcuno”sembra scomparire la necessità di dimostrare ( come ora) che l’impresa esecutrice è in regola con i contributi (DURC), che la stessa dunque non impiega personale al nero e rispetta le condizioni di sicurezza del lavoro .
Non presentando nessuna documentazione tranne l’informativa telematica come sapremo che, per esempio, il nostro vicino, pur non toccando travi e pilastri, non ha inciso in modo distruttivo sugli elementi strutturali dell'edificio per esempio sovraccaricando i solai?
Con il “ fai da te, senza alcuna figura tecnica responsabile, chi verificherà che le opere vengano eseguite nel rispetto delle norme di sicurezza del lavoro? Solo posando male le palanche su cavalletti, cadendo da soli 2mt, la caduta può risultare mortale .
Non richiedendo traccia di ogni mutamento ( non potrà esistere un archivio di progetti fatti a parole) le amministrazioni come potranno avere conoscenza diretta dello stato reale di ogni edificio così da poter, conoscendolo perfettamente, studiare le misure più idonee per poterlo mettere in sicurezza anche dal punto di vista sismico?
Come conoscere, controllare e accompagnare, soprattutto nelle aree urbane, gli effetti che la sommatoria di trasformazioni delle destinazioni d’uso potrebbero determinare nella dotazione dei servizi di una singola zona in termini sociali?
Perché lasciare al caso la realizzazione di opere minori (cfr punto i] art. 2) come se i vuoti tra l’edificato fossero terra di nessuno e non quell’elemento di raccordo straordinario che ha costituito, da sempre, il legarsi dell’edificato al suolo?
All’articolo 3
Il piano urbanistico potrà essere attuato anche ( grazie n.d.r!) con strumenti perequativi,compensativi e incentivanti secondo criteri che possono essere definiti con legge regionale.
Al punto 3 si definisce inoltre come compensazione “. ..l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà immobiliari sulle quali, o a seguito di accordi tra il comune e l’avente diritto, sono realizzati interventi pubblici o comunque ad iniziativa del comune.”
Ecco pronta la nuova riforma urbanistica! Un unico articolo capace di riassumere e attualizzare l’intera proposta di legge Lupi!
Per quello che riguarda gli incentivi ci dovranno pensare le Regioni (il Veneto sta marciando verso un +40%) Per il resto: avanti con le compensazioni che, attenzione, vengono qui introdotte per la prima volta come legge nazionale E’ questa un ‘indicazione precisa per la redazione degli strumenti urbanistici che, oltre i consueti studi preliminari di conoscenza della struttura ambientale e fisica dei luoghi, dovranno necessariamente ora avere una specifica carta dei luoghi dove poter spuntare favorevoli accordi per realizzare, oltre interventi a forte caratterizzazione ambientale ( un parco per esempio), un qualsiasi intervento di iniziativa comunale a qualsiasi scala e per qualsiasi funzione .
Si potrà ancora parlare di interesse pubblico alla guida delle trasformazioni?
All’articolo 4
La legge 241 del 1990 all’articolo 14 comma 2 così recita :
“ La conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa richiesta. La conferenza può essere altresì indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate.
Ora, con l’articolo 4, le parole "è sempre indetta" vengono sostituite da “ può essere sempre indetta” e si inserisce un nuovo comma in cui si dice che, in caso della necessità di ottenere l’ autorizzazione paesaggistica il soprintendente si esprime in via definitiva in sede di conferenza ove convocata;
Si aggiunge, poi, un comunque al comma 14.ter dove il comunque si riferisce ad un’approvazione che così potrà avvenire cancellando la possibilità di richiedere da parte della soprintendenza un supplemento d’inchiesta di 30 giorni.
Non a caso questi articoli richiamano, nel loro sottotitolo, la parola semplificazione. Forse eccessiva trattandosi in questo caso di opere sottoposte a VIA. Un combinato disposto tra, possibilità ora di convocare una conferenza fin’oggi obbligatoria e la negazione di poter procedere con un supplemento d’istruttoria.
Insomma l’amministrazione procedente ( quella che promuove l’intervento) se vuole potrà indire la conferenza, alla soprintendenza, sempre che la conferenza venga convocata,non resterà il doversi esprimere subito o ….tacere per sempre
All’articolo 5
Riguardano l’armonizzazione di quanto fin qui semplificato con gli articoli precedenti, (ovvero l’edilizia libera) con la pianificazione paesaggistica. Abbattimento delle sanzioni comprese.
All’articolo 6
Nel 2006 il decreto legislativo 152 aveva introdotto, quale recepimento comunitario, per i piani urbanistici la valutazione ambientale strategica (VAS). Ora, con quest’articolo, quando il singolo strumento attuativo non preveda conflittualità con lo strumento generale sovraordinato, non è più richiesta questa verifica né quella di assoggettabilità. In caso di varianti con lo strumento sovraordinato, la VAS e la verifica di assoggettabilità dovranno essere svolte limitatamente agli aspetti di quanto non oggetto di valutazione sui piani sovraordinati.
Con questa disposizione decade la possibilità di relazione e aggiornamento reciproco tra parti dl territorio e tra interventi tra loro dimensionalmente e funzionalmente diversi. Con questo si perde la possibilità di verificare il rapporto reciproco traglielementi che,seppur definiti alla grande scala, concorrono alla ridefinizione dei luoghi innestando nuove forme di narrazione e di possibilità dell’abitare dei territori. Un’analisi essenziale condannata, così, a risultare inattiva e bloccata da valutazioni preesistenti e immutabili. Sarà impossibile verificare significati e pesi di ogni trasformazione. Correggere errori, valutare il da farsi.
All’articolo 7
Viene istituito un fondo per l’accesso al credito per l’acquisto della prima casa per giovani coppie o nuclei familiari monogenitoriale con figli minori, e disciplinati i criteri di accesso (cfr decreto legge n.112 del 25 giugno 2008).
Come vedete non è esagerato parlare di golpe. E’ stato fatto scientificamente. Prima si è assicurata la rendita a chi potrà ampliare (uni/bifamiliari) e/o ricostruire. Poi, per esempio nel Lazio, si è assicurata quella dei proprietari ( singoli e costruttori) delle terrazze ”laziali” e romane in particolare. Ora tutti, proprio tutti tra i proprietari di case nel nostro paese (circa l’80%) finalmente padroni a casa propria potranno fare quello che vogliono senza chiedere nulla a nessuno ( speriamo che stiano un po’ attenti). E le amministrazioni ( che è bene ricordarlo perderanno anche gli introiti derivanti dalla presentazione delle DIA che comunque sono un’attività edilizia) dovranno ”mettere in vendita “ il loro territorio offrendo compensazioni e sperare così di spuntare accordi favorevoli per realizzare anche il servizio più elementare.
Non è una legge per l’abitare. E’ una legge per rafforzare la rendita delle case ( e dei proprietari) di chi la casa (le case) le ha. Agli altri rimangono solo i corpi. Per giunta condannati a vagare in un panorama assai simile a quelli dei romanzi di Ballard.
Vittorio Emiliani
Lettera a Vasco Errani
Caro Errani, ti scrivo come presidente della delegazione regionale nella Conferenza Stato-Regioni in relazione al decreto sul Piano Casa. Come Regioni avete sin qui giustamente difeso le vostre prerogative rispetto all'invasione di campo berlusconiana e centralista in competenze ormai da tempo regionali. Valuto lo stesso molto pericolosa la "filosofia" di fondo del presidente del Consiglio il quale era e rimane un immobiliarista il quale ha due stelle fisse: la casa in proprietà e Milano2 quale modello di "New town" (in realtà, come sappiamo, è soltanto uno dei tanti quartieri satellite). Mentre Paesi avanzati e civili quali Germania e Francia hanno ancora nell'affitto diffuso uno dei loro punti di forza sul piano sociale e comunitario. Da noi, a forza di costruire, gli alloggi vuoti o invenduti sono tanti: 30.000 nella sola Milano.
Ma nel decreto che verrà discusso con la vostra delegazione fra qualche giorno ci sono alcuni punti gravi o gravissimi. Uno in particolare. Quello che riguarda il ruolo delle Soprintendenze statali in relazione al paesaggio e alle stesse aree vincolate a vari fini (paesaggistico, archeologico, architettonico, ecc.). I rapporti fra Regioni e Soprintendenze non sono probabilmente dei migliori, anche perché talune Regioni (la Toscana in primo luogo) ambiscono da anni ad una delega regionale completa per la tutela. Tuttavia difendere l'ultima versione del Codice per il Paesaggio (quella Rutelli/Settis, per intenderci) dovrebbe essere per le Regioni, almeno per quelle di centrosinistra, un caposaldo. Significherebbe difendere il proprio diritto/dovere a co-pianificare insieme, Stato e Regioni, paesaggio e territorio. Senza ulteriori rinvii.
In questo quadro si inserisce anche il carattere vincolante o meno del parere "a monte" delle Soprintendenze sui progetti e lottizzazioni edilizie. Nel Codice Rutelli è vincolante. Berlusconi invece lo trasforma in consultivo e prevede, come sai, che, qualora esso sia negativo, le varie Amministrazioni possono ugualmente procedere motivando per iscritto il loro comportamento. V'è di più: la richiesta alle Soprintendenze di fornire il loro parere a tempi brevi equivale - per la complessità oggettiva di tali pareri e per le note carenze di personale degli organismi di tutela - ad una forma di silenzio/assenso, disastrosa in un Paese che già è così vocato alla illegalità edilizia, al travolgimento delle migliori norme in materia.
A nome di altre associazioni e dei tecnici del settore mi permetto di chiedere a te e agli altri presidenti una riflessione su questi punti-chiave. L'articolo 9 della Costituzione dice che "la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione", la Repubblica, cioè, in armonia, Stato-Regioni-Enti locali. Ma poiché lo Stato, cioè il Ministero dei Beni Culturali, è praticamente in ginocchio, senza alcuna capacità, né volontà, di difesa tecnico-scientificarispetto alle pretese del presidente del Consiglio e alla sua "filosofia" immobiliaristica, chiedo a te, a voi di reclamare un incontro tecnico-scientifico direttamente con i tecnici del Ministero, coi Soprintendenti, con la stessa Assotecnici dei Beni Culturali, al fine di acquisire, al più alto livello, pareri e dati di esperienza diretta che possano orientare giustamente il vostro delicato lavoro.
Poi potete anche rivendicare tutta la tutela, sposare la tesi toscana, regionalizzare la salvaguardia, ma se non difendete, qui e subito, le prerogative degli organismi di tutela, vi troverete a subire, ancora una volta, il centralismo più duro e impositivo, avallando la fine, la morte dei paesaggi italiani, di quanto rimane della nostra bellezza, cioè del capitale più grande che i nostri avi ci hanno trasmesso e che noi stiamo dissipando.
Col testo del decreto che conosciamo si potrà, di fatto, costruire ovunque, anche nelle zone vincolate, anche ai margini o dentro le aree archeologiche e naturalistiche. Un autentico disastro. Nazionale e regionale.
Al punto in cui siamo l'articolo 9 della Costituzione - il cui valore è stato così ben sottolineato dal presidente Napolitano - rischia di venire svuotato dal centro col vostro assenso. Mentre quel termine "la Repubblica" (voluto alla Costituente da Emilio Lussu, sardista e socialista) vi offre di avere oggi, a fonte di uno Stato latitante, un ruolo storico. Vi chiediamo il coraggio di pretenderlo e di esercitarlo, prima che sia troppo tardi.
RELAZIONE
Il presente disegno di legge si inserisce nell’ambito della disciplina del governo del territorio di cui al terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione.
Esso è finalizzato a consentire un adeguato rilancio dell’attività edilizia, nel rispetto dell’ambiente e del tessuto urbanistico esistente, e una sostituzione rapida del patrimonio edilizio fatiscente, obsoleto e non rispondente alla nuova situazione tecnologica ed energetica, con contestuale massima protezione dei beni storici, culturali e paesaggistici.
Il territorio regionale, infatti, è caratterizzato da una accentuata diffusione di abitazioni che risultano essere non idonee a garantire quelle caratteristiche strutturali e di sicurezza che oggi le normative richiedono; a ciò si aggiunge la recente crisi del sistema economico-finanziario che ha posto in luce la difficoltà di perseguire l’investimento-casa.
Sussiste quindi una reale necessità di promuovere una serie di misure per il sostegno del settore edilizio attraverso interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa nonché a preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente e favorire l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile.
Il disegno di legge in oggetto persegue tali finalità attraverso i seguenti strumenti:
- possibilità di ampliamento degli edifici residenziali o assimilati nei limiti del 20 per cento del volume esistente; ampliamento nei limiti del 20 per cento della superficie coperta esistente di tutti gli altri edifici;
- possibilità per gli edifici realizzati anteriormente al 1989, che non siano adeguati rispetto gli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza e che non siano sottoposti a vincolo di conservazione, di chiederne l’abbattimento e la successiva ricostruzione con un aumento della cubatura, se residenziali, ovvero della superficie coperta, se destinati ad uso diverso, fino al 30 per cento oppure fino al 35 per cento ove si utilizzino tecniche di bioedilizia e di energie rinnovabili;
- rigoroso rispetto dei vincoli ambientali e paesaggistici e divieto assoluto di qualsiasi ampliamento per gli immobili abusivi;
- agevolazioni fiscali da parte dei Comuni per la realizzazione delle opere sopraindicate;
- interventi a favore delle installazioni di impianti fotovoltaici.
TESTO DELL’ARTICOLATO
Art. 1 - Finalità
1. La Regione Veneto promuove misure per il sostegno del settore edilizio attraverso interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa, per preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente nonché per favorire l’utilizzo della fonti di energia rinnovabile.
2. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano anche agli edifici soggetti a specifiche forme di tutela a condizione che gli interventi possano essere autorizzati ai sensi della normativa statale, regionale o dagli strumenti urbanistici e territoriali.
Art. 2 – Interventi edilizi
1. Per le finalità di cui all'articolo 1, in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali provinciali e regionali, è consentito l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20 per cento del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 per cento della superficie coperta se adibiti ad uso diverso.
2. L’ampliamento di cui al comma 1 deve essere realizzato in contiguità rispetto al fabbricato esistente; ove ciò risulti materialmente o giuridicamente impossibile potrà essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato, di carattere accessorio e pertinenziale.
3. In caso di edifici composti da più unità immobiliari l'ampliamento potrà essere realizzato anche separatamente per ciascuna di esse, compatibilmente con le leggi che disciplinano il condominio negli edifici, fermo restando il limite complessivo stabilito al comma 1.
4. Gli interventi di cui al presente articolo sono alternativi e non cumulabili con quelli previsti dalla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.
Art. 3 - Interventi per favorire il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente
1. La Regione promuove la sostituzione e il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente mediante la demolizione e ricostruzione degli edifici realizzati anteriormente al 1989 che necessitano di essere adeguati agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza.
2. Per incentivare gli interventi di cui al comma 1, in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali provinciali e regionali, sono consentiti interventi di demolizione e integrale ricostruzione, anche su area diversa, purché a ciò destinata dagli strumenti urbanistici e territoriali, che prevedano aumenti fino al 30 per cento del volume esistente per gli edifici residenziali e fino al 30 per cento della superficie coperta per quelli adibiti ad uso diverso.
3. La percentuale di cui al comma 2 può essere elevata fino al 35 per cento in caso di utilizzo delle tecniche costruttive della bioedilizia o che prevedano l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile.
4. Nel caso di ricostruzione dell’edificio su area diversa ai sensi del comma 2, l'area originariamente occupata dal fabbricato demolito dovrà essere gravata da un vincolo di inedificabilità.
5. Gli interventi di cui al presente articolo sono alternativi e non cumulabili con quelli previsti dalla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.
Art. 4 - Interventi per favorire l’installazione di impianti fotovoltaici
1. Non concorrono a formare cubatura le pensiline e le tettoie realizzate su abitazioni esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge finalizzate all’installazione di impianti fotovoltaici, così come definiti dalla normativa statale, di tipo integrato o parzialmente integrato, con potenza non superiore a 6 kWp.
2. Le pensiline e le tettoie di cui al comma 1 sono realizzabili anche in zona agricola e sono sottoposte a DIA.
3. La Giunta regionale, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, stabilisce le caratteristiche tipologiche e dimensionali delle pensiline e tettoie di cui al comma 1.
Art. 5 - Oneri
1. Per gli interventi di cui all’articolo 2, il contributo di costruzione, ove dovuto, è commisurato al solo ampliamento ridotto del 20 per cento. La riduzione è pari al 60 per cento nell’ipotesi di edificio o unità immobiliari destinati a prima abitazione del proprietario o dell’avente titolo.
2. Il contributo di costruzione dovuto per gli interventi di cui all'articolo 3 è determinato in ragione dell'80 per cento per la parte eseguita in ampliamento e del 20 per cento per la parte ricostruita ed è comunque ulteriormente ridotto del 50 per cento in caso di edificio od unità destinati a prima abitazione del proprietario o dell’avente titolo.
3. I comuni possono stabilire ulteriori riduzioni del contributo di costruzione od incentivi di carattere economico in caso di utilizzo delle tecniche costruttive della bioedilizia o che prevedano il ricorso alle energie rinnovabili.
Art. 6 – Elenchi
1. I comuni, a fini conoscitivi, provvedono ad istituire ed aggiornare l'elenco degli ampliamenti autorizzati ai sensi degli articoli 2 e 3.
Art. 7 – Ambito di applicazione
1. Fermo restando quanto previsto all’articolo 4, gli interventi di cui alla presente legge sono subordinati al titolo edilizio previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.
2. L'istanza intesa ad ottenere il titolo abilitativo per gli interventi di cui all’articolo 2 non può riguardare fabbricati ultimati dopo il 31 dicembre 2008.
3. Le istanze relative agli interventi di cui agli articoli 2 e 3 devono essere presentate entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
4. I comuni, entro il termine perentorio di sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, possono escludere l'applicabilità delle norme di cui agli articoli 2 e 3 in relazione a specifici immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale, come pure stabilire limiti differenziati in ordine alle possibilità di ampliamento accordate da detti articoli, in relazione alle caratteristiche proprie delle singole zone e del diverso loro grado di saturazione edilizia.
5. Gli interventi di cui alla presente legge sono subordinati all'esistenza delle opere di urbanizzazione primaria ovvero al loro adeguamento in ragione del maggiore carico urbanistico connesso al previsto aumento di volume o di superficie degli edifici esistenti.
6. Non può essere riconosciuto alcun aumento di volume o di superficie ai fabbricati, anche parzialmente, abusivi soggetti all'obbligo della demolizione, così come agli edifici che sorgono su aree demaniali o vincolate ad uso pubblico o dichiarate inedificabili per legge, sentenza o provvedimento amministrativo.
7. La presente legge non può essere applicata agli edifici aventi destinazione commerciale al fine di derogare alle disposizioni regionali in materia di programmazione, insediamento ed apertura di grandi strutture di vendita, centri commerciali e parchi commerciali.
8. È fatto salvo quanto stabilito dal decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 per gli immobili aventi valore culturale o paesaggistico.
Art. 8 – Dichiarazione d’urgenza
1. La presente legge è dichiarata urgente ai sensi dell'articolo 44 dello Statuto ed entra in vigore il giorno successivo alla data della sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto.
la Repubblica, 13 marzo 2009
Verde e treni ecco la Parigi nell’anno 2030
di Giampiero Martinotti,
Un Central Park alle porte della capitale, una megalopoli estesa fino all’estuario della Senna, una regione con venti nuove città o un tessuto urbano ripensato per far posto a grattacieli e terrazze: c’è un po’ di tutto nei progetti presentati ieri da dieci équipe di architetti e urbanisti per ridisegnare Parigi e la sua regione. Un progetto lanciato da Nicolas Sarkozy per avviare una riflessione su come riorganizzare una piccola capitale (2 milioni di abitanti) attorniata da una enorme e affastellata banlieue (9 milioni di persone). Un rebus in cui si concentrano problemi politici, amministrativi, urbanistici, sociali ed ecologici, tant’è vero che le dieci équipe hanno mobilitato, oltre agli specialisti del territorio, anche sociologi e geografi. Ieri i dieci hanno presentato le loro prime conclusioni (2-300 pagine a testa) di fronte al Consiglio economico e sociale, oggi saranno all’Eliseo.
A cosa potrà assomigliare la regione parigina fra venti o trent’anni? E’ questo l’interrogativo posto da Sarkozy quando ha lanciato l’idea di un «Grand Paris». Architetti e urbanisti hanno risposto in modo diverso. Qualcuno, come Roland Castro, ha preferito gli slanci lirici, immaginando una metropoli «dei poeti, dei flaneurs e del viaggio». Altri, come Christian de Portzamlparc, sono andati sul concreto, pensando soprattutto ai trasporti e a un avveniristico treno sopraelevato da costruire sopra il raccordo anulare. Altri ancora, come gli italiani Bernardo Secchi e Paola Viganò, puntano su una città «porosa», che dà spazio all’acqua e moltiplica «gli scambi biologici». Richard Rogers, partner di Renzo Piano nella costruzione del Beaubourg, pensa invece a una metropoli «policentrica», mentre Yves Lion caldeggia la creazione di «venti città durevoli», ciascuna con non più di 500 mila abitanti.
Nella riflessioni dei dieci si miscelano annotazioni astruse e idee precise su come riorganizzare l’amministrazione. Per quanto possa sembrare strano, il problema amministrativo è uno dei più delicati: negli anni �60, Parigi è stata staccata dalla banlieue, il dipartimento della Senna è stato spaccato in quattro è oggi la capitale è al contempo un comune e un dipartimento. E il boulevard périphérique che la circonda, costruito sul tracciato delle vecchie fortificazioni militari, la separa fisicamente dalla periferia: «Non conosco nessun altra grande città con il cuore così staccato dalle membra», dice Rogers.
Questa prima parte del progetto Grand Paris ha così permesso di raccogliere le idee, senza rivalità, visto che non c’è nessun concorso. Ma adesso si tratta di passare a un altro stadio, di fissare un calendario, stabilire chi debba guidare il progetto e coordinare. Su questo fronte c’è confusione: sull’idea del "Grand Paris" lavora anche un sottosegretario (che opera in gran segreto e non si è coordinato con le dieci équipes), mentre il sindaco della capitale, Bertrand Delanoe, ha da tempo lanciato una struttura per riflettere su "Paris Métropole". Il primo problema da risolvere sarà proprio questo: mettere in disparte le rivalità per concretizzare alcune delle idee esposte ieri dagli specialisti.
Le Monde, 11 marzo 2009
Dix façons de voir Paris en grand
di Frédéric Edelmann,
Jene connais aucune autre grande ville où le coeur est à ce point détaché de ses membres" : ainsi s'exprime, en un raccourci meurtrier, leBritannique RichardRogers, un des dix architectes appelés à répondre à la "Consultation internationale pour l'avenir du Paris métropolitain". Cet architecte, qui fut l'un des concepteurs duCentre Pompidou, est un habitué de la grande échelle. Il a été le conseiller très écouté deKen Livingstone, maire travailliste du Grand Londresde 2000 à 2008 ; c'est également à lui qu'a été confié le soin d'imaginer l'avenir de Moscou. Avec les neuf autres équipes, il doit présenter sa copie jeudi 12 mars au Conseil économique et social, devant le comité de pilotage (l'Etat, Paris, la région) et le conseil scientifique qui encadrent ce travail d'une ampleur sans précédent, fondé sur la concertation plus que sur la concurrence. La consultation porte sur deux thèmes majeurs : la métropole parisienne, après le protocole de Kyoto sur l'environnement, et le développement du futur "Grand Paris".
Le 13 mars,Nicolas Sarkozyrecevra les équipes. Le 17, un débat est organisé à la Cité de l'architecture et du patrimoine, qui prépare une exposition pour avril. Le public pourra soumettre à la question chacun des dix experts, parmi lesquels des Français commeJean Nouvel,Christian de Portzamparc,Roland CastroouYves Lion. Les dix équipes (six françaises et quatre étrangères, toutes de renommée internationale) ont été choisies selon des critères opaques. Mais elles ont toutes su réunir un nombre inhabituel de compétences, architectes, urbanistes, géographes, sociologues ou ingénieurs.
De deux à trois cents pages, c'est le poids de chacun des dix rapports que Le Monde a pu consulter. Des centaines d'heures de travail payées 200 000 euros par équipe, auxquels se sont ajoutés 40 000 euros versés par laMairie de Paris... Finalement, beaucoup de ces analyses se recoupent. Au moins par leur rejet des solutions simplistes, des pensées globales qui ont conduit en leur temps à la naissance ex nihilo de Chandigarh (Le Corbusier) en Inde ou Brasilia (Costa et Niemeyer)...
Fini les théories sur la ville idéale, bonjour la ville-territoire, sans limites . "L'utopie n'est plus de ce monde", résume avec philosophie un membre du comité scientifique, qui, à l'unisson des cinq architectes du comité coprésidé parPaul Chemetovavec le géographeMichel Lussault, ajoute : "Jamais une réflexion aussi complexe n'a été conduite sur la ville à une telle échelle."Même son de cloche chezDominique Perrault, auteur de la Bibliothèque nationale de France à Paris, ou Patrick Berger, lauréat du concours du Forum des Halles, deux observateurs que tout oppose habituellement.
Chaque équipe avait une totale liberté d'invention, aux réalités de la capitale près : on ne déplace pas facilement une tour ou une ligne TGV. De son rapport,Richard Rogerstire dix principes, dont beaucoup se retrouvent dans les autres projets. Y figurent la gouvernance de la région, la nécessité de la densité pour ne pas laisser la ville s'étendre sans fin, un rééquilibrage renforcé par des transports qui ne soient plus centralisés sur Paris. A quoi s'ajoutent des exigences de qualité architecturale, paysagère, écologique dont l'énoncé ainsi simplifié ne doit pas masquer l'extrême complexité.
Parmi les équipes internationales, on trouve aussi le groupe LIN de l'Allemand FinnGeipel, adossé aux universités de Cambridge et de Berlin. Partant d'analyses proches de Rogers, il insiste sur l' "intensité" des pôles à développer pour compenser le poids de Paris, tout en imaginant une métropole "légère". Une sorte de mousse urbaine favorable à la protection d'un paysage à haute teneur en charme et en valeur nutritive (fruits et légumes)...
L'équipe hollandaise deWiny Maas(MVRDV) a joué sur la densité et le choix paradoxal d'un "Paris plus petit". Provocante à souhait pour la mentalité française, elle suggère des méthodes radicales et pétulantes, qui font jaillir l'organisation de la ville de la réflexion des ordinateurs.
Le Groupe 09, desItaliens Bernardo Secchi etPaola Vigano(avec les universités de Harvard, Paris-XII, Milan et Venise), dessine une ville "poreuse". Cette "éponge", balisée par des repères forts, fait la part belle aux réseaux aquatiques, renforçe les transports en commun, tout en les croisant avec des microsystèmes pour limiter les déplacements inutiles.
Les six équipes françaises ont eu des attitudes contrastées. Deux d'entre elles ont devancé les demandes des médias en rendant publiques des images assez simplistes de leurs démarches. L'équipe Castro-Denisoff a fini par caricaturer sa pensée : elle propose un ticket de transport à tarif unique pour parcourir l'ensemble d'un territoire plein de vieux rêves démocratiques et de monuments, dont l'addition relève de l'Exposition universelle plus que de la métropole. A l'inverse,Antoine Grumbach, lui aussi prématurément publié, s'est placé à l'échelle d'un territoire, qui, suivant la Seine, va de Paris (pourquoi pas Troyes ?) au Havre. Une belle et poétique aventure, difficile (déjà vécue en Chine par Pékin et le port de Tianjin), qui a l'ambition de se fonder sur les vertus économiques et écologiques du fleuve.
L'équipe la plus jeune est l'AUC, conduite parDjamel Klouche, aidée par l'école d'architecture de Versailles, l'université de Sendai (Japon), des paysagistes (Pascal Cribier), des graphistes... et un peintre et poète (Nicolas Rozier). Dans un jargon étrange, ils prennent la métropole pour ce qu'elle est, avec ses pavillons et ses grands ensembles, mais s'inspirent de Tokyo pour imaginer de multiples réseaux et laisser la ville vivre ses pulsions invisibles.
Nouvel, Lion, Portzamparc... Les trois grands caciques de l'architecture française ne déçoivent pas et proposent des solutions d'une étonnante sophistication.
Jean Nouvel a constitué une équipe impressionnante d'artistes et de penseurs. On y trouve l'architectePatrick Bouchain, le paysagisteMichel Desvignes, l'artisteDaniel Buren, l'Agence des gares AREP... Une vraie moisson d'intellectuels pour aboutir à un rapport titré Naissances et renaissances de mille et un bonheurs parisiens. Paysage par paysage, bâtiment par bâtiment, ils proposent une variété sans fin de méthodes, subtiles ou radicales, pour arriver à des mutations généralisées dans toute la métropole.
Aussi vaillant, le travail de l'équipe Portzamparc reprend des thèmes chers à l'architecte de la Cité de la musique pour penser Paris comme le coeur d'un rhizome, ces plantes comme le bambou ou l'ortie, chères au philosopheGilles Deleuze, dont les racines envahissent le territoire, surgissant où bon leur semble (dans des pôles que l'architecte appelle "fenêtres"), sans crier gare. Les gares, justement, et les aéroports sont des éléments-clés dans cette réflexion où les événements architecturaux comme les tours jouent un rôle décomplexé, simultanément à la refondation de l'ordinaire urbain.
Yves Lion, dissimulé derrière le groupe Descartes (équipe aussi foisonnante que celle de Nouvel, en plus austère), propose une analyse terre à terre et visuelle du territoire parisien. Travail de géographe-photographe qui le conduit à jouer l'amélioration de la vie dans chaque domaine : habitat, transport, liaisons manquantes, lieux de travail, de plaisir, de rencontre. Il se fait un peu chinois quand il propose la création de vingt villes de 500 000 habitants contrebalançant l'attractivité de Paris. Il est d'accord avec Rogers pour réduire les temps de déplacement à une demi-heure par jour, et avec le protocole de Kyoto pour réduire de 2 degrés la température attendue d'ici à 2100.
Des chiffres simples pour faire comprendre un projet aux ramifications innombrables.
Il Corriere della Sera, 13 marzo 2009
La Grande Parigi di Sarkò:nuovi quartieri e tram veloci
di Massimo Nava
PARIGI - Voglio fare come Cesare Augusto a Roma», disse Napoleone III, confidando al barone Haussmann il compito di rifare la capitale dell'impero. Un secolo e mezzo dopo, anche il presidente Nicolas Sarkozy fissa l'ambizione di ridisegnare Parigi. Con altri obiettivi e metodi meno dirigistici. Dieci architetti di fama mondiale, sei francesi, quattro stranieri (fra i quali l'italiano Bernardo Secchi), sono stati chiamati a elaborare la metropoli del futuro, la Grande Parigi, territorio molto più esteso della Ville Lumière cara ai turisti (che conta meno di due milioni di abitanti), un'area di oltre dieci milioni, il 30 per cento della ricchezza nazionale, la regione economicamente più forte d'Europa.
Nuovi quartieri, centri di sviluppo, vocazioni scientifiche e culturali, nuova mobilità, risanamento delle periferie, risanamento ambientale: ecco le linee del progetto complessivo, all'orizzonte del 2012/2020, sulle quali le équipes hanno avuto praticamente carta bianca, dando fondo alla fantasia. La presentazione dei lavori, giovedì a Parigi, offre soluzioni talmente avveniristiche che ci si chiede quante delle proposte vedranno effettivamente la luce, anche in considerazione delle risorse disponibili. C'è la versione parigina del quartiere Harlem-Central Park a New York che l'architetto Roland Castro pensa di trasferire in una delle banlieue più tristi e violente, la Courneuve, sulla strada dell'aeroporto. C'è un'ideale città ecologica, la valle della Senna, con un asse di sviluppo che va da Parigi a Le Havre, suggerita da Antoine Grumbach nella convinzione che le grandi città, nell'era della mondializzazione, debbano avere una vocazione portuale.
Il progetto italiano di Bernardo Secchi punta sull'ecologia e su un sistema di trasporti ad alta velocità che modifichi radicalmente la mobilità dell'area metropolitana. È una visione che si ritrova anche in altri progetti (c'è ad esempio l'idea di un treno sopraelevato sull'anello della tangenziale o l'idea di costruire una ventina di cittadine ecologiche), essendo i problemi di trasporto e di vivibilità delle periferie quelli che affliggono parigini e francesi della regione. Ottantamila residenti all'anno e un quarto di coloro che raggiungono la pensione scelgono di trasferirsi fuori dall'Ile de-France, andando a popolare regioni più vivibili come la Bretagna. Molto discussa la proposta di Jean Nouvel, autore di alcuni dei progetti più innovativi degli ultimi anni (la Fondation Cartier, il museo del quai Branly, il museo del mondo arabo) che vede la città in altezza: avveniristiche torri, padiglioni e grattacieli, con giardini e serre realizzati agli ultimi piani. Alcuni progetti singoli (la tour Horizons, 90 metri a Boulogne, la nuova filarmonica a la Villette) sono in fase di approvazione.
Il piano della Parigi futuribile sarà sottoposto al confronto con i cittadini e le realtà locali. Sul progetto, s'inseriscono due «architetture» istituzionali, il cui cammino è più accidentato di quello degli urbanistici. Il presidente Sarkozy ha affidato all'ex premier Eduard Balladur il compito di ridisegnare i dipartimenti francesi (l'equivalente delle nostre province) con la tentazione di accorparli o abolirne una parte. In questo quadro, matura la «Grande Parigi» istituzionale, che dovrebbe riunire i dipartimenti della Haute-de-Senne. Una comunità urbana che trova un'opposizione di metodo in molti sindaci della sinistra e nel sindaco di Parigi, il socialista Bertrand Delanoe, il quale ritiene che una sommatoria di comuni con un governo centralizzato non risolverebbe i problemi di governabilità e allontanerebbe i cittadini dalle istanze locali.
La seconda «architettura», con obbiettivi più economici, è affidata a Christian Blanc, ex presidente di Air France. Nominato segretario di Stato allo sviluppo della regione-capitale, Blanc lavora alla creazione di poli di ricerca e industriali, quali la «silicon valley» nell'Essone e alla riorganizzazione di assi di trasporto, con l'obbiettivo di nuove linee di metropolitana al costo impossibile di 80 milioni di euro a chilometro. Intanto, si fanno i conti con la situazione sociale della capitale che, nonostante invasione di turisti e potere economico, vede il suo fascino intaccato da gravi problemi di vivibilità.
Parigi «intra muros» moltiplica aree pedonali, piste ciclabili, parchi e musei. Nella cintura esterna, i francesi si misurano con inquinamento atmosferico, colossali ingorghi nelle periferie, sovraffollamento delle linee di trasporto pubblico, espulsione dei ceti più deboli dai quartieri centrali e cronico disagio della banlieue. «Non conosco città al mondo il cui corpo sia così disconnesso dalle sue membra», ha detto Richard Roges, l'architetto di Brasilia (*), fra gli urbanisti chiamati a sognare la Grande Parigi. In fondo, la volle così Napoleone III e da allora, nella capitale, vivono pochi abitanti e moltissimi pendolari.
(*) mi permetterei di notare che Rogers "architetto di Brasilia" è una mostruosa sciocchezza, dovuta sicuramente a una ancor più mostruosa fretta nel chiudere l'articolo (f.b.)
The Daily Telegraph, 12 marzo 2009
Grand Paris: Architects reveal plans to transform French capital
di Henry Samuel
Nicolas Sarkozy, the French president, asked the architects, including Britain's Richard Rogers, to project 20 years into the future and dream up the world's most sustainable post-Kyoto metropolis.
Among the more outlandish plans is Antoine Grumbach's proposal to extend the city all the way to the Channel port of Le Havre via Rouen along the Seine, maximising the green possibilities of the river. The idea was already mooted by Napoleon Bonaparte, who said: "Paris-Rouen-Le Havre: one single city with the Seine as its main road."
Christophe de Portzamparc, the prize-winning French architect, has proposed building four economic "buds" in an "archipelago" around the capital and transferring a huge European train station to Aubervilliers, north of Paris, modelled on London's St Pancras.
Roland Castro, the prominent 1968 Leftist who suggested moving the Elysée Palace to the tough northeastern suburbs, has proposed injecting "beauty" into a "Grand Paris of poets", which would include new cultural landmarks in a capital shaped like a huge eight-petal flower and with a New York-style Central Park on the grim housing project of La Courneuve.
The Italian architects Bernardo Secchi and Paola Vigano have proposed enlarging the city and laying it out as a "porous sponge", where waterways are given pride of place.
Yves Liot would like to create 20 "sustainable towns" of 500,000 within the Paris area. He would also double the number of forests and bring fields to Paris' outskirts so the urban dwellers could cultivate their own fruit and vegetables.
Many thought that Mr Sarkozy would follow his predecessors' lead and bequeath one or two magnificent monuments, such as François Mitterrand's Louvre pyramid, Georges Pompidou's Centre or Jacques Chirac's Quai Branly museum.
However, the president has set his sights much higher, asking the architects to re-imagine the entire city and its surroundings with concrete proposals but "the absolute freedom to dream".
One crucial aim is to end the isolation of central Paris, with its two million inhabitants, which is currently cut off from the six million living in suburbs just outside its ring road, known as "le périphérique".
As Rogers, the London-based co-designer of the Pompidou centre, observed: "I know no other big city where the heart is so detached from its arms and legs".
His team, working with the London School of Economics and French sociologists, has proposed uniting cut-off communities, notably by covering up railway lines that dissect the city and placing huge green spaces and networks above them. One such green line would stretch all the way from central Paris to the run-down southeastern outskirts, mirroring the line from the Louvre to La Defense to the west of the city. Paris would be stuffed with renewable technologies and re-thought to reduce city dweller's travelling time to no more than 30 minutes per day.
His project aims to end the "monoculture" of Paris' suburbs by overhauling high-immigrant enclaves like Clichy-sous-Bois, where urban riots erupted in 2005. Office and living space would be mixed with rich and poor and high-speed train lines extended.
Mr Rogers and the other architects were given just 35 minutes on Thursday to explain their strategies for Grand Paris 2030 to a panel of experts.
Before these grand plans can progress, the capital will have to resolve complex political wrangling over its administrative boundaries and the effects on different players' power bases. Bertrand Delanoë, Paris' Socialist mayor, among others, is watching closely.
The architects will present their projects to the public and take part in a debate next week, and an exhibition of their plans opens on April 29.
Nota: questa pur suggestiva rassegna di idee e intenzioni fa comunque riferimento al più ampio dibattito (contrastato e acceso) sulla gouvernance dell’area, come racconta un articolo da Le Monde tradotto su Mall ; di seguito si possono scaricare due brevi schede descrittive del piano per la "città porosa" di Secchi-Viganò; altre schede e informazioni sul sito dedicato del Ministero della Cultura francese ; il commento di Jonathan Glancey sul Guardian ripreso da Mall; per concludere una piccola curiosità: nel corso delle verifiche online per l'editing di questa rassegna, mi sono anche imbattuto per puro caso in un articolo dagli Annales de géographie del 1940 che ricostruisce fino a quella data Les projets d'aménagement de la région parisienne (f.b.)